Il primo argento

di Alessandra Pavani

I due pianoforti erano uno di fronte all’altro, identici come se uno specchio li dividesse. E di specchi ce ne erano perfino troppi, l’intera sala ne era piena, a moltiplicare all’infinito quel profluvio di velluti e di merletti che nell’attesa si deliziava del proprio lustro. Era l’ineffabile ora del tardo pomeriggio autunnale in cui le ombre, allungandosi, si fanno più dolci lungo i viali alberati che conducono alle ville, e chi riposa sui divani sente sfumare sotto le dita una realtà che diviene sempre più languida. La poetessa aveva appena finito di declamare, e nell’aria aleggiavano ancora gli ultimi applausi quando, con uno sbadiglio nascosto dietro il ventaglio, una voce indiscreta incrinò il crepuscolo miagolando: “Ma che cosa  aspettiamo?” . ”Milady”, protestò sir John Radcliffe con un ghigno indignato. “Aspettiamo l’esibizione dei gemelli Silver!”

Abbassando furtivamente lo sguardo, Judith Shackleton si accorse che la giovane seduta dietro di lei le stava porgendo un biglietto, e con circospezione lo aprì.
Non trovi opprimenti tutti questi specchi?, diceva. Più tardi ne ho una da raccontarti che ti
potrà interessare.
La ragazza sorrise involontariamente, e dopo aver fatto scivolare un corto lapis fuori dalla
manica orlata di pizzo rispose in bella calligrafia:
Immagino che sarà un’altra delle tue sciocchezze. In realtà credo di averne abbastanza, e non vedo l’ora di tornarmene a casa. Spero che questi Silver se la sbrighino in fretta.
Proprio mentre il suo braccio sottile, piegato all’indietro, si insinuava tra le sedie per restituire il biglietto all’amica, fecero il loro ingresso nel salone i due musicisti. Improvvisamente si spense ogni mormorìo. A chi li vedeva per la prima volta si contrassero le viscere. Perché i due erano notoriamente gemelli, ma era l’uno tanto bello quanto l’altro era mostruoso. Judith riuscì a stento a trattenere una risata, e si sentì cattiva. Diventava sempre cattiva quando subodorava un pericolo; e quell’essere osceno, che sembrava il riflesso deturpato del fratello, aveva in qualche strano modo scosso qualcosa.
I due pianisti si sedettero ognuno al proprio strumento; nel perfetto silenzio che incorniciava la bizzarra scena, essi si fissarono per un istante negli occhi. Poi cominciarono, e ci fu uno squarcio: improvvisi piovvero allora nel salone dèmoni di fuoco e di armonia.
Come davanti a una luce accecante, molte palpebre si abbassarono: la mente umana ha i suoi limiti, e quando il prodigio si erge nella sua interezza bisogna ritrarsi per non finirne schiacciati; e in quel tardo pomeriggio davvero non era possibile che vista ed udito di una persona appena sensibile sopportassero entrambi contemporaneamente il manifestarsi del divino. O del diabolico.
Sembrava che con i gemelli Silver, così diversi l’uno dall’altro, la Natura avesse voluto mostrare i due volti opposti della sua potenza, prodigando però ad entrambi il dono del genio. E di quel dono gli invitati alla villa dei Radcliffe erano ora sbalorditi testimoni, incantati spettatori, di quel dono che i due fratelli, come un’arrogante divinità a quattro mani, ostentavano con una compiutezza che era quasi intollerabile.
Non vi furono applausi alla fine dell’esecuzione: Colin e Thomas Silver avevano compiuto il
miracolo, e non v’era nulla da dire. Mentre i due giovani musicisti si alzavano, sul volto del fratello più bello si dischiuse un sorriso di intima soddisfazione, quasi di trionfo, cui il gemello rispose con occhi torvi. Passato il primo momento di panico generale, sir John Radcliffe andò a congratularsi con loro, e fu allora che Judith ricevette ancora una volta un biglietto dell’amica.
Non hai notato come si voltino continuamente verso di noi?
No, mentì lei in risposta, e, del resto, non me ne importa proprio nulla.
Mentre tornava a guardare la coppia di artisti, ora in piedi davanti al cerimonioso sir John
Radcliffe, Judith si accorse che il gemello deforme stava fissando il fratello con un’espressione di autentico odio. C’era qualcosa in quegli occhi pieni di rabbia e in quell’atteggiamento di minaccia che la investì con l’intensità di un senso di colpa, e senza riuscire a spiegarsene la ragione si sentì scontenta di sé; ora più che mai desiderava andarsene. Il mostruoso Thomas Silver, a differenza del fratello, riceveva le lodi di sir John Radcliffe senza gioia né gratitudine, e ad un certo punto diede un calcio allo sgabello e uscì dalla sala imprecando sottovoce.
“Santo cielo!”, esclamò scandalizzata la solita vocetta miagolante. “Quello suona come Mozart ma parla come il mio stalliere!”
“Il genio, Milady, il genio!”, lo scusò sir John Radcliffe senza scomporsi.
Judith era allibita, e un poco disgustata. Mentre i primi ospiti cominciavano ad alzarsi e a
disperdersi in quel salone che sembrava non avere fine, lei cercò di eclissarsi sgusciando tra le sue voluminose zie, ma l’amica Sybil riuscì ad agguantarla proprio a pochi passi dai due pianoforti.
“Ebbene, quanta fretta! Non vuoi sentire quello che ho da dirti?”
La giovane Shackleton sospirò, guardandosi stancamente attorno; per un istante i suoi occhi incontrarono quelli del bellissimo Colin Silver.
“Se la notte di Ognissanti”, attaccò Sybil agguerrita, “accenderai due candele davanti ad uno specchio, mangiando una mela, ad un certo punto vedrai riflesso il volto del tuo futuro sposo dietro di te, oltre la tua spalla, come se ti spiasse. Non è spaventosamente interessante?”
“Perdonami, Sybil cara, le mie zie mi stanno aspettando.”
Colin Silver le aveva sorriso. Attorno a lui si era assiepata una piccola folla di ammiratori,
vittime ognuno del suo fascino. Bisognava stare attenti. Nessuno aveva più in mente la sua
mostruosa controparte; così ci si dimentica della metà oscura della luna quando ne fissiamo l’argenteo chiarore. Judith aveva improvvisamente paura.
“Ad ogni modo”, udì che Sybil le stava dicendo, “mancano pochi giorni ad Ognissanti. Forse
varrebbe la pena tentare, nevvero?”

*      *      *

Un violento desiderio di ridere. E un dolce desiderio di morire. Perché ridendo si poneva uno spazio immenso tra sé e la realtà, si allentava ogni legame. Non si soffriva. Non si aveva più paura.
“Sybil è proprio una sciocca!”
Più difficile era passar sopra all’inequivocabile sorriso di Colin Silver. A furia di pensarci si correva il rischio di innamorarsene fino a perdere la ragione, e Judith, che a differenza di Sybil aveva letto Shaftesbury e Voltaire, non voleva lasciarsi abbagliare. Di ritorno dal villaggio, dove era andata ad acquistare dei nastri per ornare i suoi cappelli, cercava inutilmente di relegare nell’oblìo le chiacchiere udite nel negozio. Di gemelli che non si assomigliavano se ne erano visti a centinaia, nel corso della storia, ed esisteva una spiegazione scientifica. Ma l’apparizione dei Silver aveva sollevato un vero vespaio, e giovinette superstiziose dall’immaginazione sovreccitata si erano date ad emettere oracoli. Sproloqui e vaneggiamenti dotati di una certa forza suggestiva, da cui il fascino dei due musicisti risultava indubbiamente accresciuto, soprattutto quello di Thomas Silver, la cui
deformità arrivava ad assumere una levatura tragica e sublime. Ma per Judith erano passati i tempi in cui la sua mente si inebriava dei racconti della bambinaia, traboccanti di spiriti che erravano senza pace nelle brughiere del Nord, di elfi maligni, di tesori nascosti, di maledizioni. Vero è che i fantasmi erano recentemente tornati di moda, ma a lei poco importava delle mode. Un adulterio, questo poteva anche ammetterlo, che i Silver fossero frutto di un adulterio. Nonostante la giovane età, Judith non era un’ingenua.
“Per l’amor del Cielo, Judith, non rabbrividisci, dunque? Quale alto prezzo da pagare, per la colpa materna!”
Judith aveva scrollato le spalle, per nulla intimidita, e le voci si erano fatte più maligne. Ebbene sì, dicevano i creduli, perché il marito tradito aveva maledetto la creatura che la moglie infedele portava in grembo; e se la condanna non aveva toccato che uno solo dei due Silver era perché l’uomo, ignorando che in quel ventre aborrito germinassero due gemelli, aveva impetrato il castigo divino solamente sul primogenito.
“Judith cara, è evidentemente l’ignoranza a farti sogghignare così ironicamente. Si capisce che ancora non conosci a quali estremi possa arrivare l’ira di un marito ingannato.”
V’era poi stato un lungo silenzio, carico di tensione, fino a che una donnetta dall’aria saccente aveva sussurrato con ridicolo sussiego:
“State lontane da Thomas Silver, ragazze mie. Suo padre, che poi non era il suo vero padre, non poteva sopportare che quel bastardo, a differenza di lui, potesse un giorno essere reso felice da una donna, e così invocò su di lui un ulteriore anatema: se pure una ragazza avesse avuto la misericordia di provare amore per lui e di sposarlo, ebbene costei sarebbe morta in giovane età, lasciando il giovane nella disperazione più completa.”
A questo punto, Judith aveva lasciato il negozio, stomacata da tutte quelle assurdità.
“Non guardatemi con quell’aria compassionevole, mia cara Judith”, le aveva detto una
giovinetta sulla porta. “Le cose devono essere andate proprio così. E, se non mi credete, chiedete pure alla cameriera di Lady Agatha; è stata lei a spargere la voce.”
Una cameriera! E lei avrebbe dovuto domandare delucidazioni ad una cameriera su un tale
argomento! Attraversando il viale che la conduceva alla propria casa, Judith represse a fatica un gesto di stizza. Già immaginava di vedere le sue zie, affacciate alla finestra, frementi nell’attesa. E quando giunse a casa ed esse vollero sapere da lei cosa si dicesse in paese la sua pazienza giunse al limite. Se avesse potuto, avrebbe mandato tutti quanti al diavolo; il quale, tra l’altro, nemmeno esisteva.
Non esisteva. Esisteva. Non esisteva.
Judith si sedette davanti al caminetto con i suoi nastri appena acquistati e un paio di cappellini sguarniti. Si mise lentamente al lavoro, ma di malavoglia. E pian piano, senza che lei se ne accorgesse, i suoi occhi cominciarono ad andare fuori fuoco. Come i suoi pensieri. La metà oscura della luna. Nessuno l’aveva mai vista, ma, se anche fosse stato possibile, non sarebbe forse apparsa del tutto identica all’altra metà? E poi, a che cosa serviva saperlo? Per quel che le importava, avrebbe anche potuto non esistere. Anzi, per lei non esisteva. Eppure esisteva.
Comunque, Sybil era proprio una sciocca. Ridicola. E lo sapeva, lei, che Judith odiava gli
specchi. Non aveva mai attraversato la sua mente frivola il pensiero che potesse esistere una ragione per tanta avversione? O era invece il pressante desiderio di conoscere tale ragione che la spingeva a provocarla? Sybil era tanto curiosa quanto insensibile. Con le forbici strette tra le dita che tremavano, Judith tagliava i suoi nastri a caso, malamente. La verità era che aveva paura. E di fronte a certe paure Voltaire e Shaftesbury non erano altro che lame smussate. Colin Silver… Anche Colin Silver la turbava. Ma era il fratello Thomas ad avvelenare la sua coscienza; il solo ricordo di quegli occhi colmi d’odio le dava un senso di gelo mortale. Inutile ripetere a se stessa che i gemelli Silver sarebbero stati ospiti dei Radcliffe per due settimane soltanto, e che poi probabilmente non avrebbe mai più avuto l’occasione di rivederli. Intanto c’era ancora il concerto a casa degli Hamilton previsto per il mercoledì seguente, a cui le sue zie l’avrebbero trascinata senza tollerare obiezioni di
sorta; e poi permaneva incontrovertibile il fatto che si trattava di due gemelli, e questo faceva riemergere in lei ricordi molesti di un passato che avrebbe preferito interrare.
Nel piccolo salottino che si andava oscurando, il silenzio si faceva sempre più opprimente. Per non esserne sopraffatta Judith tentò di canticchiare alcune frasi. Non le fu facile, all’inizio; era come in un brutto sogno, quando si cerca di parlare e non ci si riesce. Dimenticava perfino le parole della romanza. Poi, però, la sua voce prese corpo e poco a poco diventò più sicura. La piccola crisi era passata, e fu quasi con spavalderia che cantò:

“Che più men cale
Di foschi richiami?
Purché tu m’ami
Null’ho da temer.”

Poi si rilassò sulla poltrona e sorrise; improvvisamente si sentiva molto meglio.

*       *       *

“Sorella cara, vi vedo distratta stasera.”
La più anziana delle due venerande signorine Shackleton non rispose subito; con le labbra
gravemente serrate, finse di concentrarsi sulle carte da gioco che aveva in mano, fece poi la sua mossa, e infine, con un sospiro, domandò:
“La nostra Judith si è già ritirata in camera, nevvero?”
“Sì, e insolitamente presto, direi.”
“Povera figliola, dubito che riuscirà a dormire. Quando, la scorsa notte, mi sono alzata per
versarmi da bere, l’ho sentita che camminava nervosamente avanti e indietro per la sua stanza; mi stupirei davvero se stanotte non accadesse la stessa cosa.”
“Credete forse che l’incontro con i gemelli Silver…?”
“E come potrebbe essere altrimenti? Pensateci.”
La sorella più giovane si strinse nelle spalle.
“La disgrazia cui alludete è successa tanto tempo fa, Judith era solo una bambina piccola…”
“Non così piccola da non comprenderla e da non conservarne un doloroso ricordo.”
“Non inquietatevi così, sorella. A pranzo mi è sembrata serena.”
“Non era serena oggi pomeriggio, quando è rientrata dal suo giro di acquisti. Ed io l’ho
interrogata apposta, per esortarla a confidarsi.”
“Datevi pace. Se ha qualche segreto da confidare, non sarà certo a noi che lo rivelerà.”
“Forse non avremmo mai dovuto accompagnarla a quel concerto.”
“Adesso state veramente esagerando. Judith è una ragazza sana e allegra.”
Così dicendo, la più giovane signorina Shackleton si alzò, e ripose il tavolo da gioco.
“Non datevi pena”, aggiunse poi. “Non v’è davvero nulla che la tormenti.”
*       *       *
Quella fu una strana serata per Judith. In seguito si convinse che doveva aver avuto un po’ di febbre, perché nessuna altra causa sembrava poter giustificare quel senso di ottenebramento e di confuso malessere; era però curioso che tutto fosse cominciato solo dopo il suo arrivo al palazzo degli Hamilton, e più precisamente durante l’esibizione dei gemelli Silver.
Il concerto era stato prodigioso, naturalmente, e nella sua perfezione aveva rasentato una
tracotanza quasi empia; ma a Judith, immobilizzata sul sofà da un angoscioso intorpidimento, era sembrato che le note le si scaraventassero addosso con rancore, e che i due fratelli stessero suonando la loro rabbia per lei, la loro reciproca gelosia. Non era poi così difficile credere a certe fantasiose dicerie, non quando i sensi erano incatenati, la mente sopraffatta, la gola serrata da tanta terribile bellezza. Dalle dita dei Silver prendeva vita qualcosa che abbagliava gli angeli e atterriva i dèmoni, e che i comuni mortali percepivano solo parzialmente, protetti dalla loro natura imperfetta.
Soltanto un’anima trasfigurata, l’anima di un innamorato, poteva coglierne in pieno la portata tremenda, e forse quella sera Judith era davvero innamorata. Di entrambi i Silver. Perché se quella sera Colin era bellissimo, Thomas, nella sua deformità, era sublime. I Silver. Le Shackleton. E gli specchi: gli specchi deformanti e gli specchi infranti. Judith avrebbe preferito dimenticare, ma nemmeno la luna può liberarsi della sua metà oscura.
Ci fu un gran parlare più tardi, durante la cena, a proposito di gemelli: gemelli così
rassomiglianti da non riuscire a distinguerli, gemelli di sesso diverso, gemelli che non sembravano nemmeno tali, e altri casi ancora. Judith si sentiva tuttora indisposta, e aveva sempre più caldo; pur  tenendo gli occhi fissi sul piatto, aveva la certezza che le sue zie la stessero sorvegliando, e sospettava che anche Sybil Hamilton, dall’altra parte del tavolo, non attendesse che di vederla crollare, come se conoscesse il suo segreto. Ognuno aveva qualcosa da raccontare, ognuno esprimeva la propria opinione, e intanto Judith stava sempre peggio. Accanto a lei, una delle zie le mormorava continuamente:
“Perché non mangi? Prendi un po’ di montone, bevi un sorso di vino; sei così pallida!”
Quando alzò lo sguardo, vide che Sybil le sorrideva con malizia, occhieggiando in direzione dei due musicisti, impassibili ascoltatori di quel subisso di aneddoti; si accorse allora che entrambi la stavano fissando, all’insaputa forse l’uno dell’altro, e che i loro occhi erano accesi di desiderio.
Judith impallidì di piacere, ma nello stesso istante le accadde qualcosa di molto strano: ebbe l’impressione che un senso di panico la spingesse ad alzarsi, mentre le luci delle candele si offuscavano, e poi improvvisamente si ritrovò seduta sul sofà da dove aveva assistito al concerto.
Davanti a lei, avvolte da una bruma rossastra, vide le sue zie che la fissavano in silenzio; e quando provò a muoversi sentì che questo le costava uno sforzo immane, come se la sua testa e le sue membra fossero piene di sangue stagnante. Lentamente e con grande difficoltà si lasciò scivolare giù dal sofà, e strisciando verso le sue zie le implorò, articolando a fatica le parole:
“Svegliatemi.”
E allora qualcuno, in effetti, la svegliò: mentre le nebbie si diradavano, Judith si rese conto di essere sdraiata su quello stesso sofà, circondata da visi preoccupati e con Sybil Hamilton che le faceva odorare i sali.
“Che cosa è successo? Che cosa ho fatto?”
“Nulla, nulla, tesoro”, rispose la più anziana delle sue zie. “Non alzarti, ancora.”
“Hai avuto un piccolo mancamento”, le spiegò Sybil. “Come ti senti adesso?”
Judith si tirò su a sedere, imbarazzata da quella miriade di occhi intorno al divano che la
scrutavano in silenzio. La madre di Sybil si fece avanti.
“Sono mortificata, signorina Shackleton, il caldo era veramente eccessivo. Ecco, bevete questo cordiale, vi farà bene.”
A un suo sguardo, la piccola folla di curiosi si disperse, e Judith accettò con piacere il bicchiere che le veniva porto. In quegli attimi di incoscienza il nodo di angoscia si era sciolto; solo il torpore rimaneva, insieme alla sensazione di aver dimenticato qualcosa. Facendole aria con il ventaglio, una delle sue zie osservò:
“Hai gli occhi lucidi, tesoro. Ho proprio paura che tu abbia la febbre.”
“A tavola non ha mangiato nulla”, disse l’altra.
Sybil le sentì il polso e annuì in modo grave.
“In tal caso”, intervenne la signora Hamilton, “non permetterò che questa povera ragazza
abbandoni la mia casa. Non è certo in condizioni di viaggiare. No, no, mie care signorine
Shackleton, non voglio sentire proteste; io insisto perché vostra nipote rimanga mia ospite fino a quando non si sarà rimessa.”
Judith non rispose; non voleva pensare. E non voleva nemmeno guardarsi intorno, perché con la coda dell’occhio li vedeva già: erano là entrambi, immobili accanto alla porta. Qualcosa cominciò a batterle delicatamente sulla nuca. Dal salone accanto arrivavano a lei, quasi attutite, le risa di un gruppo di giovani gaudenti. Ancora dolcemente stordita, Judith sospirò. I suoi occhi rimanevano fissi sui due pianoforti che, soltanto poche ore prima, erano stati fusi insieme in un temibile congegno di seduzione. Eppure sembravano così innocui, ora che languivano inutilizzati. Senza vita. E senza morte. Perché erano questo, i gemelli Silver: erano vita ed erano morte. Nel ricordare ciò che in quei giorni si andava raccontando di loro, Judith si lasciò sfuggire un sogghigno sprezzante; perché nessun essere umano poteva essere per sua sola natura apportatore di dolore. E quando finalmente volse lo sguardo verso la porta, e qui incrociò il duplice sorriso della sua
passione, ella ebbe la certezza che, almeno per lei, era la gioia ad essere vicina.

*        *        *

Venne la notte. Distesa nel letto, sotto le coperte, avvolta nell’oscurità silenziosa della camera che la signora Hamilton aveva fatto preparare per lei, Judith non dormiva, eppure non era nemmeno sveglia. Si sentiva spossata nel corpo, ma profondamente calma. Sotto le palpebre abbassate, i suoi occhi vedevano solo una fioca luce calda, debole ma palpitante, ipnotica nel suo lento pulsare, e la sua mente veleggiava cieca, leggera e tranquilla su un oceano di nero velluto. Abissi senza fondo si spalancavano sotto di lei, e vaganti stelle distratte, di sopra, la seguivano da lontano dietro un velo di foschia azzurrina… Soffici chiome nere, fluenti, infinite, attorte ai suoi sensi, buio, calore…
Tutto era pace, oblio, abbandono. E quando la porta si aprì, ed egli entrò lentamente nella stanza, lei non provò né stupore né paura; socchiuse soltanto gli occhi per guardarlo, e alla vista della sua ombra le sembrò di sprofondare in un bagno caldo e profumato. Languidamente gli tese le braccia, come se fino a quel momento lei non avesse fatto altro che aspettarlo, e accogliendolo su di sé ebbe l’impressione che tutto il suo essere si spalancasse a lui. Per un istante sentì il suo stomaco contrarsi, e gemette; poi si lasciò andare, e lui penetrò dentro di lei. E allora, nel silenzio, tutto il suo corpo disse: “Sì!”

*         *         *

Una lettera ognuno, da consegnarle al suo risveglio. Di inchiostro ne era colato poco, non più del sangue versato quella notte, ma abbastanza da ricamare su carta profumata l’ammissione della propria colpa e l’offerta di una riparazione. Il tutto ripetuto due volte, il tutto sottoscritto da due diversi nomi e da un solo cognome.
Judith era piena di vergogna. Davanti alla carrozza che l’avrebbe riaccompagnata a casa delle sue zie, ringraziava l’amica Sybil con vuote parole, e intanto le sembrava che quelle due lettere, nascoste nella tasca dell’abito, mormorassero il loro disprezzo, tanto più umiliante quanto più mascherato da deferenza. Perché Judith non aveva soltanto perduto l’onore, ma non sapeva nemmeno a quale dei due gemelli l’aveva sacrificato. Ancor più la sconcertava che si addossassero entrambi una colpa che uno solo di loro aveva commesso; era una bizzarria, che aveva il sapore di un patto perverso. Judith non riusciva a capire. E come se la sua mente non fosse già piena di pensieri, dovette sopportare anche l’arguzia di Sybil, che nel salutarla le rammentò, tutta sorridente:
“Mi raccomando, stasera: due candele e una mela, davanti allo specchio!”
Judith non rideva più, ora, delle fisime dell’amica; per la prima volta la sua  spregiudicatezza l’aveva messa in una posizione falsa, la quale certo non le concedeva il privilegio di emettere giudizi. Seduta nella carrozza che la riportava a casa, ella malediceva la propria debolezza; perfino il ricordo del godimento assaporato quella notte la infastidiva. Si sentiva ingannata, anche se doveva riconoscere che in realtà non vi era stato alcun inganno, e che i Silver, a modo loro, avevano dato prova di grande onestà. Lei pensava che fosse stato Thomas; perché, altrimenti, l’avrebbe posseduta nell’oscurità, se non per celare agli occhi di lei il suo essere deforme? E, forse, a spingere Colin ad
assumersene la responsabilità era stato un sentimento di pietà per la sedotta, cui voleva risparmiare la necessità di sposarsi con una creatura così mostruosa. Naturalmente, la maledizione di cui tanto si parlava era una semplice chiacchiera di perfide comari, e lei continuava a non crederci. Anzi, a dispetto della compassione di Colin, le sarebbe piaciuto unirsi in matrimonio a Thomas, per urlare di fronte a tutta quella gente il suo disprezzo per la loro stupida credulità. Ad ogni modo, era ben cosciente di come ora fosse lei a meritare disprezzo, e, per quanto le fu possibile, cercò di soffocare sul nascere queste fantasie.
Judith arrivò a casa intorno a mezzogiorno; per lei il resto della giornata si trascinò poi lento e penoso fino al momento di ritirarsi in camera da letto. Quel pomeriggio non le fu permesso di uscire per la consueta passeggiata, perché le sue zie la ritenevano non ancora guarita; e più tardi, a tavola, dovette sopportare le indiscrete domande del curato, che, invitato a cena dalle due devote gentildonne, la interrogò sulle sue condizioni di salute con morbosa e rapace severità, come se sapesse. Judith si sentiva depressa e arrabbiata: arrabbiata con i gemelli Silver, che si scambiavano i ruoli dentro e fuori di lei; con Sybil, che pretendeva di conoscerla più di quanto lei fosse disposta ad ammettere; con le sue zie, che la credevano innocente; e con il curato, che la credeva colpevole. Fu con questo tumulto in cuore che, prima di salire nella sua stanza, rubò dal tinello una mela e due candele; avrebbe accolto l’invito dell’amica, avrebbe recitato quell’insensata pantomima davanti
allo specchio, e finalmente, in tutta lealtà, avrebbe potuto riderle in faccia senza il timore di essere smascherata. Con questo armamentario, salì le scale e si chiuse in camera.
In fondo al corridoio, nella stanza più grande della casa, dormivano in uno stesso letto le due zie di Judith. Sui loro grinzosi visi di vecchie zitelle era dipinta la quiete che accompagna i sogni di chi, ormai, non ha più tormentosi desideri. Per loro il sonno era arrivato in fretta. Ma altrettanto in fretta le abbandonò, quando, intorno a mezzanotte, il silenzio notturno fu squarciato da un grido di terrore che proveniva dalla camera della nipote.

*         *         *

“Calmati, mia cara Judith, o ti ritornerà la febbre.”
“L’ho vista, vi dico. Era lei!”
“Come può essere? Ora siediti e smettila di piangere, non è accaduto nulla. Avrai avuto una
vertigine; non è così strano, dopo una malattia.”
“Voi non volete credermi, ma io l’ho vista veramente. Era dietro di me, e la sua immagine si
rifletteva nello specchio. Mi sorrideva con cattiveria. E’ tornata per vendicarsi, lo so!”
“Ma vendicarsi di chi, e perché? Judith, sono passati sette anni da allora, e forse non ti ricordi che fu una disgrazia. Una disgrazia, capisci? Nessuno ne fu responsabile.”
“Sì, invece; sono io che l’ho uccisa!”
“Smettila, stai delirando! Dicevi così anche allora, e non eri nemmeno presente quando
accadde! Tutto quel gran parlar di gemelli, l’altra sera, deve averti impressionata. Ma devi smetterla di tormentarti. Quando il ghiaccio si infranse e Juliet cadde in acqua, tu eri in casa, nella tua stanza.
Non ti ricordi?”
Che più m’importa di foschi richiami? Purché tu m’ami, null’ho da temer. Ma la mela era a
terra, sul tappeto, e Judith, in ginocchio, batteva i denti dal terrore.
“No, no, il ghiaccio si infranse quando io infransi lo specchio. Lo so, lo so. Ricordo ancora il
suo grido, che sembrava uscire da quei frammenti di vetro. Non mi ha mai perdonata. E stanotte io ero lì, con una mela e due candele, come Sybil mi ha detto di fare. Avrei dovuto vedere riflessa dietro di me l’immagine del mio futuro sposo. E invece è apparsa Juliet. E’ a lei, dunque, che sono destinata ad unirmi! E’ un presagio di morte!”
“Ve lo dicevo”, mormorò la più anziana delle sue zie alla sorella. “Ve lo dicevo che i gemelli
Silver avrebbero risvegliato dolorosi ricordi. Dio, perché ravvivare questo dèmone che dormiva da anni?”
Judith continuava a dondolarsi avanti e indietro, e intanto bisbigliava:
“La odiavo, la odiavo, l’ho sempre odiata. Era cattiva, era oscura, si nascondeva dietro le tende per spaventarmi, e poi diceva: Ecco la sventata, che ha paura della sua stessa faccia! Lei era la mia parte maligna, era tutto ciò che io non avrei mai voluto essere, e che pure ero! E quando mi guardavo allo specchio non sapevo mai se ero io o se era lei. Ma quel pomeriggio seppi che era lei, e ruppi lo specchio. E allora la sentii gridare. E per sette anni non mi torturò più. Ma è finita, è finita. Lo sapevo che sarebbe tornata. E stanotte l’ho vista.”
Le due anziane signorine Shackleton si guardarono negli occhi, dove l’ansia e la disperazione si tingevano di grigio; poi, con un sospiro, la più giovane disse alla nipote:
“Tesoro, tua sorella non era come le altre bambine. Aveva dei problemi. La sua mente… Ma
non era cattiva. E sono sicura che tu non la odiavi.”
“Sì, che la odiavo!”
“Non l’hai uccisa tu, Judith, basta! Non si odia mai un proprio fratello, figuriamoci un
gemello!”
Ma Judith scuoteva la testa, ostinata. Lei sapeva. Lei aveva visto. Non v’era speranza di fuga.
Perché quando i Silver suonavano insieme, quei frammenti di vetro si conficcavano sempre più in profondità nella memoria, dando vita a un’emorragia di ricordi. Atavici, primordiali, terrificanti. Il cervello di Judith rotolava all’indietro, ad un passato in cui la Terra si univa in matrimonio al Cielo, e gli generava coppie di mostri che i comuni mortali chiamavano gemelli. E nelle orecchie risentiva Juliet che le diceva: Non vivrai a lungo, se hai paura della tua stessa faccia. Ma non era della sua faccia che Judith aveva paura, bensì della sua immagine raddoppiata dallo specchio della demenza, alterata, distorta, quasi oscena. Se era destinata a divenire tale, a che pro vivere a lungo? E invece era stata Juliet ad andarsene, lei che amava così tanto specchiarsi. Come Narciso. Quando il
ghiaccio si era infranto, le acque avevano restituito alla luna tutta la luminosità del suo doppio, e nessuno si era più curato della sua metà oscura. Che però continuava ad esistere. E nella notte di Ognissanti si affacciava agli specchi delle fanciulle superstiziose. Non si odia mai un proprio fratello, figuriamoci un gemello! Che cosa era allora, se non odio? Qual era l’intimo e sofferto moto del cuore che, quel lontano pomeriggio, le aveva armato la mano contro il suo riflesso?
Naturalmente aveva pianto, dopo. All’improvviso si era ritrovata completamente sola, senza la sua ombra. Non era stato poi così piacevole, non aver più paura; era stato orribile. Giusto i gemelli Silver avevano scalfito appena la sua imperturbabilità, dopo sette lunghi anni; perché era dal delicato tocco delle loro dita sui tasti del pianoforte che Juliet era stata risvegliata. Ma non si odia mai un proprio gemello, non si odia mai; non che ciò sia proibito, è semplicemente impossibile.
Così, almeno, si dice. Erano ben altre le cose che, sebbene fuori dell’ordinario, erano tuttavia possibili. Per esempio, che nella notte di Ognissanti si avesse la visione del proprio futuro sposo. O che chi era passato a miglior vita ritornasse a mostrarsi sotto forma di oracolo. Questo era possibile?
Judith, nel compiere il suo piccolo rituale, si era aspettata di veder apparire un certo viso maschile, quello cui lei, in segreto, aveva già accordato la sua preferenza, e invece si era manifestato forse un avvertimento. Chi non è più di questo mondo è spesso clemente, e poi Judith aveva pagato. E se era vero che non si odia mai un proprio gemello, poteva anche darsi che quello di Juliet fosse stato un benevolo tentativo di metterla in guardia. I pensieri di Judith navigavano ormai a vele spiegate, cedendo sotto il peso di quei sette anni di terrore represso che le si erano riversati addosso tutti insieme. Non aveva più senso affidarsi alle funi che la razionalità gettava dall’alto della sua solida dimora: erano troppo lisce per potervisi aggrappare. E se ciò che si raccontava in giro dei gemelli Silver corrispondeva alla verità (perché ormai non ne dubitava più), rimaneva una sola cosa da fare.
Peccato, però. Il cuore di Judith piangeva di pietà per lo sventurato Thomas; a lui si era forse concessa la notte precedente, a lui aveva infine risolto di unirsi in matrimonio. Ma i segni erano chiari, quando finalmente si imparava a leggerli: dal laghetto in cui Juliet aveva perduto se stessa era forse salito allo specchio un gesto di perdono, e ignorarlo sarebbe stato follia.
*        *        *
La carrozza procedeva speditamente verso il sole che tramontava in un cielo di nubi rosate,
sobbalzando di quando in quando, e custodendo con discrezione il suo carico di gioventù, di speranze inconfessate e di inconfessate paure. I due sposi sedevano l’uno di fronte all’altra, senza parlare, scossi ancora dal diluvio di abbracci e di felicitazioni che si era riversato sulla loro concitata partenza. Il rossore rendeva entrambi più attraenti del solito, ma né l’uno né l’altra indulgeva nella contemplazione del consorte; mentre Colin Silver, infatti, leggeva il giornale, Judith Shackleton, ora signora Silver, guardava ansiosamente dal finestrino le sterminate campagne coperte di neve che si lasciavano alle spalle. Non sembravano proprio due sposi in luna di miele, e, anche se spesso gli innamorati non hanno bisogno di parole per comunicare tra di loro, lo stridore di quel silenzio era per le orecchie di Judith ciò che per i suoi occhi sarebbe stato la vista di uno strapiombo: l’improvvisa percezione di un vuoto. Non era stato lui ad amarla, in quella notte ormai
così lontana. E Thomas Silver non aveva voluto assistere alle nozze. Come biasimarlo? Ma come, del resto, biasimare Judith? Si vergognava di aver capitolato, di aver ceduto ad una minaccia tanto evanescente, ma così era stato; e, tornando indietro nel tempo, avrebbe rifatto la stessa scelta. Erano stati giorni di dolore, quelli che avevano preceduto il matrimonio, e a pesare sulla sua coscienza era soprattutto la viltà con cui si era rifiutata di incontrare Thomas, che più volte aveva chiesto di parlarle. Ora, nascosta nella sua borsetta e ancora sigillata, ristagnava come un frammento d’incubo la lettera che il gemello respinto le aveva fatto pervenire il pomeriggio precedente. A che pro leggerla? Perché il rimpianto le divorasse il cervello? Thomas Silver, il tanto disprezzato Thomas Silver, meritava oltre ogni dire di essere riamato, ma lei aveva paura, e tanto bastava.
La carrozza si fermò ad una stazione di posta per cambiare i cavalli; Colin ne approfittò per
andare a bere qualcosa, ma Judith rimase al suo posto, sempre più pensierosa e depressa. Signorina Shackleton, per pietà, acconsentite a che io vi parli! La giovane si coprì le orecchie con le mani; le sembrava di essere ancora nella sua stanza, raggomitolata per terra accanto al suo letto, a mordersi le labbra nell’udire la voce implorante del suo seduttore, malamente cacciato dal guardaportone.
Come se fosse la lettera chiusa nella sua piccola borsa a supplicarla, Judith si accinse a strapparla, pur di far tacere per sempre quel grido; ma poi le salirono le lacrime agli occhi nel tenerla tra le mani. Nell’attesa che Colin ritornasse, e pensando di dovere almeno quel gesto a colui che gliela aveva scritta, ella si risolse infine ad aprirla e a leggerla.

Cara signorina,

Vi scongiuro di perdonarmi se dopo il Vostro primo rifiuto di ricevermi io ho continuato ad
importunarVi, pretendendo di parlarVi personalmente. Vi sarò apparso importuno, e Voi avrete avuto, del resto, ogni ragione possibile per opporVi al mio desiderio. La mia speranza è, però, che almeno Vi degniate di leggere questa mia, prima di risolverVi al grande passo.
Non esistono parole atte a descriverVi quanto io sia disgustato di me stesso per aver così
meschinamente approfittato della Vostra innocenza; ma ebbi coscienza della mia bassezza nel momento stesso in cui caddi, e non indugiai minimamente nell’offrirVi una riparazione. So però che mio fratello Colin, venuto a conoscenza dell’accaduto e spinto dal fascino che, fin dal primo istante, avete Voi esercitato su di lui, se ne assunse ogni responsabilità al pari di me. Voi avete fatto la Vostra scelta, e non è mia intenzione biasimarVi. Sarei prontissimo a farmi da parte, se non mi trattenesse un particolare timore, ed è di questo che voglio parlarVi. Voi avrete senza dubbio udito strane voci circa l’origine mia e di mio fratello, giacché sono voci che ci seguono ovunque andiamo. Io non so se coincidano o no con la verità: mio fratello sarebbe senz’altro disposto a negarlo categoricamente, io avrei invece qualche titubanza. Voi, con la Vostra intelligenza, Vi sarete fatta un’opinione al riguardo, ed io non posso in alcun modo né confermarla né confutarla.
Quale che sia, vi è però una cosa che dovete assolutamente sapere: è mio fratello, il signor Colin Silver, il primogenito, ossia il ‘primo argento’ di cui tanto si chiacchiera. Il mio aspetto, che in accordo con le dicerie che circolano sembrerebbe indicare invece me come primo figlio, non deve trarVi in errore. Poi può darsi che a Voi poco importi, può darsi anzi che Voi vediate in questa mia confessione un ulteriore tentativo di ingannarVi. Vi giuro però che non sono mai stato più sincero di adesso.
Ora potrete ribadire la Vostra decisione, oppure cambiarla, come vorrete. Non Vi nascondo
quanto essa mi abbia addolorato, sebbene non stupito, e non solo per quanto concerneva il mio destino; sappiate però che non è per la speranza di essere da Voi favorito che ho voluto raccontarVi ogni cosa, bensì perché poteste operare la Vostra scelta con maggior serenità.
Rimango il Vostro umilissimo servitore
Thomas Silver

Judith sollevò gli occhi dal foglio, come svegliandosi da un lungo sonno. Non si era nemmeno accorta che, mentre lei leggeva, Colin era risalito sulla carrozza. In quel momento la stava fissando con aria preoccupata.
“Vi sentite bene, mia cara?”, le chiese.
Judith annuì appena, sorridendo debolmente. Si sentiva bene, infatti. Ma quando lui si protese verso di lei per baciarla, nei suoi occhi non si rifletté l’immagine di Judith, ma di Juliet, che, ormai vendicata, sogghignava trionfante.

3 pensieri su “Il primo argento

  1. …questo racconto di Alessandra Pavani presenta molte possibilità di lettura; al riparo di una cultura che si dichiara illuministica e di un’ambientazione rassicurante aristocratico-borghese- penso dell’Inghilterra vittoriana- una giovane donna affronta un tormentoso cammino al confine tra la vita e la morte e a rischio follia per quel continuo sdoppiarsi della sua realtà…I passaggi sono molto ben descritti e mascherati, da farne un racconto di piacevole lettura. Per la fanciulla protagonista l’amore arrivato improvviso, vissuto secondo istinto e semplicità nonostante contro le norme sociali, poteva forse aiutarla a sciogliere i nodi di una identità tormentata, ma scatena altri dilemmi e ricordi , che risvegliano minacce oscure di perdita e sensi di colpa…La scelta narrativa di far incontrare due coppie di gemelli in qualche modo “non risolti” è esplosiva e la ragione nulla può, anzi quando si attesta sulle convenienze sociali- la ragazza che sceglie il gemello apparentemente bello-, porta alla tragedia…Nel finale mi sembra anche di scorgere da parte dell’autrice una critica radicale alla società descritta, di cui la ragazza diventa in parte una vittima. Si potrebbe parlare del tema del doppio, io invece preferisco riferirmi a quello della metà mancante, come appare nella significativa immagine del post…Per tutti gli esseri umani, credo, ma per i gemelli in particolare, la propria gestazione dura l’intera vita…Ma poi se ne esce? Questo tema, essendo anch’io gemella, mi prende molto. Grazie

    1. In effetti il tema del doppio mi è servito semplicemente come base di partenza per sviluppare una tematica più ampia, che è quella dell’incompletezza. Il “fenomeno” dei gemelli mi affascina da sempre, soprattutto dei gemelli omozigoti, e mi sono spesso domandata come debba sentirsi qualcuno che veda agire “un altro se stesso” (il doppio) che è contemporaneamente una parte di sé (la parte mancante) di cui non ha il controllo. Mi rendo conto dell’immensa complessità di tale questione, e immagino che Lei, essendo una gemella, abbia trascorso tutta la vita ad interrogarsi su questo irrisolto (e irrisolvibile) mistero. La ringrazio delle belle parole, e soprattutto delle Sue interessanti considerazioni, che mi hanno fatto ulteriormente riflettere.

  2. …La ringrazio a mia volta, Alessandra Pavani, perchè il Suo racconto mi ha offerto altre possibilità di riflessione su un tema per me tormentoso della identità gemellare sempre incompleta e confusa. Del resto se penso che i gemelli nel ventre materno condividono per mesi i canali della nutrizione e della respirazione…se penso che i genitori di una volta, come i miei, ci vestivano in modo assolutamente identico e per lo studio offrivano, data la necessità di risparmiare, un solo libro in due, a scapito di due diversi metodi di studio…non vedo come avremmo potuto non avere qualche complicazione nello sviluppare i confini di due pur diverse personalità…

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