Tre poesie da “Il lato destro dell’armadio”

di Canio Mancuso


Piccole manovre dell’abbandono

Le prime a cadere sono state le piante
non per volontà del tempo o del destino
ma del finto giardiniere
che le aveva ficcate nella terra.
Messe lì per dominare sulla voragine
del cortile erano ridicole: uno sbuffo verde
intorno al grigio su quattro righe di terra
macilenta quattro aiuole fallite
con un po’ di impegno tombe di passeri
neanche i vermi ci dormivano comodi.
Affacciate sull’asfalto in coda alle automobili
parevano sfottere non si sa cosa:
la natura la tecnica l’arte dell’equilibrio.
Ma erano piante vere con la linfa e foglie
che cadevano davvero e rinnovavano
il cerchio dell’esistenza i suoi disegni,
trattandosi di alberi, sempre concentrici.
Gli uccelli che ci stavano al riparo
erano veri uccelli con le piume e il becco
e anche le cicale d’estate facevano
le loro pernacchie ascellari che sentivi
fino allo sconquasso del cuore
nel sonno pomeridiano.
Le piante avevano radici che spaccavano
l’asfalto: formavano crepe sulla superficie
come quelle sulla crosta del pane.
Perciò decisero di abbatterle
le piccole e le grandi:
il pino di tredici metri
e la pianta di rose aggrappata al cancello
(ogni tanto una mano giallastra
ne prendeva una per portarla in chiesa
e io che non sapevo i nomi dei fiori
odiavo quella mano perché
sporcava la morte delle rose o così credevo).
Ma quella pianta forse era già marcita
in un fosso prima del massacro.
Poi è stata la volta degli animali
gli occhi notturni della casa:
una bastardina ermafrodita
mezza chihuahua mezza tina pica
un’idea storta a forma di cane.
Abbaiava per dimostrare al mondo
di non essere un’invenzione messicana
ma con un’ottava più alta incarognita
che pensavi ai rimproveri ululati
dalla nonna catarrosa
ubriaca di vino e acqua a cui il nipote rubava i giocattoli.
Aveva tanto coraggio quella nonna-cane
finché ti restava in braccio e da lì
sfidava gli eserciti e i camorristi
e che schifo aveva dei suoi simili
cani senza rimedio e del sesso
miserabile che le offrivano.
Femmina disponibile e cialtrona
nel tête-à-tête col cibo
l’unico maschio che non la spaventasse.
Vederla morire nell’agonia di una notte
la traccia sempre più debole del fiato
che le increspava il labbro sopra il dente
a fondo nella paralisi degli occhi
sbarrati dalla sorpresa Dio cane sto morendo
fu quasi un allenamento alle altre veglie.
E una coppia di gatti vissuti more uxorio
(tradendosi il giusto da buoni borghesi).
Lui con la faccia napoletana
scavata sotto gli zigomi i lineamenti mobili
del comico: ci leggevi la gioia l’angoscia
la noia del niente di nuovo nel deserto.
Mai visto prima un gatto così trasparente
così impoetico.
Lei gonfia come un enorme bignè tigrato
per via di un’operazione:
lei gatta-moglie-madre lui gatto-ragazzo
in pantofole con poche opinioni
e nessun segreto. Lui morì per primo
lei tre mesi dopo schiantata dal lutto
come Giulietta e Sandra.
I gatti ti insegnano a morire:
basta guardarli scherzare sullo sprofondo
abbuffarsi e fare debiti l’ultimo giorno
seguire la curva fino all’impatto
col moralista che arriva contromano.
Infine è toccato agli uomini:
quello che aveva piantato
gli alberi e le rose il finto giardiniere
competente almeno una volta
chi aveva allattato i figli dei gatti
e portato a spasso il cane sgorbio ermafrodito
il sesso che chiedeva l’ultima confidenza
della lingua il corpo sgonfiato del padre
senza rifugio tra le lenzuola bianche oscene
il ventre della madre posata su un tavolaccio
e anche lì in quelle morti tanto umane
non ci vedevi la volontà del tempo
e del destino ma un’altra che non era
quella che strappava le rose
e neanche quella sottintesa di Dio
nessun distacco nessuna morale
nessun commiato nessuna pace
nemmeno una schiuma di eternità
solo un contraddirsi per sparire meglio
di tutto ciò che nasce e fa rumore:
uomini animali piante
occhi bocche parole versi
e la loro maldestra inclinazione all’assenza.

 

 

 

Geometria delle coincidenze

Abitano sulla stessa scala
del palazzo di un rione quasi borghese
un’enclave di dialetti terroni
incolonnati come vertebre
nella carne dello stare al mondo.
Si ignorano come tutti i vicini di casa:
se tra loro c’è una fraternità
è sempre al di qua della simpatia
del fastidio di salutarsi
è la natura che li lega
a un invisibile filo di sangue.
Le marionette di carta che si aprono
come frasi identiche
non hanno sguardi meno bianchi
delle loro fantasie –
il paragone è facile non gli piacerebbe.
Al primo piano un uomo di quarant’anni
una madre spagnola un padre autarchico
che gli fa la spesa e ogni tanto piange
se lo vede ubriaco quel figlio
allevato in cortile diventato pazzo
per avere scambiato il no di una donna
col do delle trombe del giudizio. Capita.
La ragazza che gli fa eco al secondo piano
insulta sua madre vorrebbe sparire
per non somigliarle diventando vecchia
coi capelli ingrommati di tinta
l’alito degli alveoli vuoti
ma ogni sera le chiede il favore
di rimboccarle le coperte.
Al terzo piano c’è un professore
di cucito e di economia.
Ha spesso due macchie nelle mutande
quella davanti è la sua preferita.
Spia l’oltremondo con il telescopio
mentre impara la lezione del giorno
che ripete nel suo nascondiglio.
Pensa alle notti degli innamorati:
gli basterebbe un posto
nelle fessure dei loro sguardi
e nelle altre di cui si vergogna.
Indovina le traiettorie
dei baci e delle carezze.
L’infermiere del quarto piano
sa fare punture di precisione
sotto le unghie dei piedi.
Mette la divisa del fratello
che abita di fronte e gli presta gli aghi
e anche i pensieri che lo accoltellano
non sono suoi ma gli guastano il sonno.
La vedova che sta al quinto piano
crede che le abbiano fatto il malocchio
che il diavolo sorrida dentro il cognato
podista dilettante che voleva sposarla.
Il giorno che il cuore gli scoppiò
durante una gara che arrivava a Faenza
rimase a terra col suo amore cattivo.
Lei non versò una lacrima
che non avrebbe versato
per un povero cristo senza nome.
A chi non capiva la sua indifferenza
rispondeva che tutto ha un significato:
ricordare un nome come dimenticarlo
accarezzare un volto come graffiarlo.
Dio non è un impresario del baratto
e per questo avrebbe pregato.
Vivono tutti sulla stessa scala
si confondono con gli altri pazzi
ma non vogliono incuriosirti:
non scrivono versi non dipingono
indossando sottane per sentire
un respiro vinoso nel corpo.
Non eccitano la retorica
del genio imbottigliato in un delirio.
Non testimoniano il disordine del mondo
e neanche il loro.
Gli anatomisti dello stupore
i bravi a sorprendersi i commossi
non saprebbero cosa farsene
di un caos così inconcludente
che rifiuta la poesia e la prosa.

 

 

 

Promemoria del poeta colombiano

Maledette le metafore e le similitudini
maledetto chi me le ha soffiate
nell’orecchio da bambino.
Maledetti i gigli e la loro bianchezza
che nessuno schizzo di liquame
può macchiare. Avevo otto anni
una mia compagna di scuola
più bruna di me aveva fatto
una poesia: paragonava l’anima
di Gesù Cristo a un giglio purissimo.
Giuro quella metafora scialba
ha cominciato a lavorarmi dentro
fibra dopo fibra, tèndine dopo tèndine
mi ha aperto uno squarcio di invidia
inimmaginabile. In una settimana
ho riempito sei quaderni
di poesie religiose: non ce n’era una
che fosse un po’ meno scialba.
Chi ti rovina è la maestra che ti ascolta
e ti chiede di “coltivare il dono”
che nessuno ti ha dato. Poi sigilla
il giudizio con la firma sulla pagella
perché qualcuno ci creda davvero
che sei un poeta alto un metro e trentotto.
Per nove minuti ci hai creduto anche tu.
Da qualche anno vado in giro
a leggere i miei versi: suonano
sempre fragili e ammaccati.
Li nascondo dietro un arabesco
spettacoli di magia prevedibili.
Provo a distrarre gli sguardi.
La mia è un’ossessione stanca
che toglie il sonno e non dà niente in cambio
è un privilegio da accattoni
ma continuo a cercare un giglio impuro tra i sassi.

 

(Da Il lato destro dell’armadio, Giuliano Ladolfi Editore 2018).

*

Canio Mancuso (Melfi, 1971). Cresciuto a San Severo, attualmente vive a Omegna. Nel 2004 fonda il mensile umoristico “Za!”. Dal 2005 al 2006 è redattore del periodico “Sguardi”. Ha scritto o scrive per i periodici “Fermenti”, “Le reti di Dedalus” e “Christianitas”, e per i quotidiani “L’Attacco”, “Capitanata.it” e “Zeroventiquattro.it”. È citato nel volume Letteratura del Novecento in Puglia (Progedit, Bari 2009 e 2010), a cura di Ettore Catalano. Alcune sue poesie sono apparse su antologie e riviste, tra cui: “Fermenti”, “Gradiva”, “Poliscritture”, “Poetarum Silva”, sulla rivista spagnola “Ómnibus” e sulla francese “Lichen”. Nel 2015, insieme a Raffaele Niro, cura l’antologia Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni, numero speciale dei “Quaderni dell’Orsa” (Besa Editrice). Nel marzo 2016, ancora con Besa, pubblica la raccolta di poesie Fiammiferi, tradotta in francese e prossimamente in uscita con Hippocampe éditions. Nel 2018 pubblica Il lato destro dell’armadio (Giuliano Ladolfi Editore).

3 pensieri su “Tre poesie da “Il lato destro dell’armadio”

  1. …quel rinunciare già da subito alla “purezza”, alla “verginità”, alle grandi prospettive filosofiche per abbracciare tutto ciò che è animale e fragilmente umano con umorismo, simpatia e un pizzico di disperazione rende le poesie di Canio Mancuso particolarmente originali e belle…

  2. poesia molto ricca e interessante e altri aggettivi che vorrebbero non essere banali come non è banale la poesia di questo autore per me (lo confesso) fin’ora sconosciuto.

Rispondi a Canio Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *