Disoccupazione

di Davide Morelli

Ho appena pubblicato uno stralcio di romanzo (“La gente per bene”) che ha per tema il problema della mancanza del lavoro o della sua precarizzazione; e  arriva un altro racconto sullo stesso tema. Vedo pure che lo stesso tema è oggetto d’attenzione di uno studioso come Alessandro Visalli (qui e qui). Non esito perciò a pubblicare di seguito al testo di Francesco Dezio il racconto di Davide Morelli. Per dare  risalto alla questione del lavoro e far notare,  come segno dei tempi (bui), che soltanto allo strumento ambivalente  (perché consolatorio e di testimonianza) della scrittura  e della letteratura sono costretti a ricorrere quanti vivono sulla loro pelle un problema non personale ma sociale e politico, che in altri tempi  riusciva a scuotere sindacati, partiti, intellettuali e opinione pubblica.  Difficile è oggi passare dai  cahiers de doléances privati o letterari all’organizzazione di  un discorso pubblico non genericamente populistico ma di rivendicazione collettiva ragionata (cosa che non è – sia chiaro – la chiacchiera attuale sul  reddito di cittadinanza). Il primo passo, comunque, è non chiudere gli occhi, ascoltare tutti i balbettii che salgono dai singoli umiliati ed offesi, riuscire ad immaginare anche il silenzio dei tanti che sono stati dimenticati non solo dai governanti ma anche da quanti un lavoro o una pensione ce l’hanno. [E. A.]

Mi sentivo come il protagonista di “Delitto e castigo”. Mi sentivo come il protagonista di “Lo straniero” di Camus. Mi sentivo assurdo. Fino ad allora fortunatamente non avevo mai compiuto un omicidio. Quando parlavo mi sembrava di essere un personaggio del teatro dell’assurdo: come in “Aspettando Godot” oppure ne “La cantatrice calva”. Comunque la mia vita non era un romanzo ed io non ero assolutamente un teatrante. Il disagio esistenziale restava. Le circostanze non mi aiutavano assolutamente. Restava l’assurdo, che superava sempre la mia razionalità. Leggevo e rileggevo “Il mito di Sisifo” ma non mi bastava. Non mi convinceva del tutto. Ero depresso. Ero un disperato. Ogni cosa che facevo mi sembrava assurda. Sfuggiva alla mia comprensione. La mia logica deduttiva non mi serviva a niente. La frase “Tutto ciò che è reale è razionale” mi sembrava totalmente fuori luogo. Niente mi sembrava che avesse un senso. Niente mi sembrava che avesse una logica compiuta. Avevo cinquanta anni ed ero senza lavoro. L’azienda per cui lavoravo era fallita. Facevo i colloqui e non facevano che ripetermi continuamente la solita frase, il solito ritornello: “le faremo sapere”. Cercavano persone più giovani. Cercavano persone in età di apprendistato. Preferivano persone più giovani o forse solo ritenute più qualificate o più capaci. Nel frattempo i soldi finivano la terza settimana del mese. Meno male che non avevo famiglia. Meno male che non avevo figli da mantenere. Mi restava qualche risparmio, ma avevo un’autonomia limitata. Ancora qualche mese e non sarei più riuscito a pagare l’affitto. Avevo bisogno assolutamente di un lavoro. Mi chiedevo a cosa era servito lavorare e sputare sangue fino ad allora. Dal punto di vista sentimentale non andava affatto meglio. Mi chiedevo a cosa fossero servite le mie delusioni sentimentali, i miei innamoramenti non corrisposti. Mi chiedevo anche a cosa fossero servite le mie storie d’amore passate. Tutto era destinato a cadere nell’oblio. Tutto era già caduto nell’oblio. Restava ormai qualche ricordo sbiadito.
Mi guardavo attorno e niente sembrava avere un senso. Gli alberi, le case, le strade, la volta del cielo, tutti i paesaggi mi sembravano insensati. L’assurdo sembrava nullificare tutto e tutti. Anche le azioni che compivo mi sembravano assurde. Una volta avevo scagliato una radiolina contro il muro dalla rabbia. Non sapevo esattamente il motivo per cui l’avevo fatto, ma in fin dei conti ritenevo che quello non fosse il gesto più assurdo che avessi fatto. Non sapevo con chi parlare. Non sapevo a chi dirlo. Ero andato da un prete, ma il prete mi aveva detto che dovevo rassegnarmi. Mi aveva detto che il disegno di Dio è imperscrutabile e che l’uomo con la sua intelligenza può capire ben poco della realtà. Mi aveva detto che forse ritornare a lavorare mi avrebbe ridato speranza. Il prete mi aveva detto che forse un lavoro mi avrebbe aiutato a salvarmi di nuovo dall’assurdo. Però mi aveva detto anche che ero io soprattutto che dovevo sforzarmi a pregare Dio. Cosa avrei dovuto fare per risolvere questa situazione ? Montare sulla torre di Pisa e minacciare di gettarmi nel vuoto ? Qualcuno allora mi avrebbe ascoltato ed aiutato ? Il mondo si sarebbe accorto di me e sarebbe scattata la solidarietà ? I giorni passavano. Un nuovo lavoro non arrivava e il mondo e le cose continuavano a sembrarmi assurde.
Un giorno ho preso il treno e sono andato a Firenze. Sono rimasto a girovagare sottostazione. Qui ho fatto due incontri che mi hanno cambiato. Ho trovato un ragazzo sulla trentina. Se ne stava tutto il giorno a fare collette alla stazione centrale. Accettava tutto, tranne le monete da cinque centesimi. Lui diceva che le odiava. Diceva di essere un esteta della moneta. Non so se mi prendeva in giro o che altro, forse l’alcol gli aveva preso la testa. Mettere su famiglia e comprare il giornale sono cose – mi diceva – che detestava. Le notti fredde sotto stazione erano bestemmie ed invocazioni ad un Dio dimenticato che sembrava volgersi altrove. Mi chiedeva quale pazzo assassino avesse sepolto gli insegnamenti del Vangelo, quale mano di idiota avesse bruciato in un solo rogo i libri della Bibbia. Poi continuava a scroccare sigarette e a chiedere birra ai turisti stranieri. Ma mi diceva anche che non aveva mai trovato niente di più buono dell’acqua delle fontane, quando i borghesi dormivano o facevano all’amore: lui trovava deprimenti tutti quegli amplessi sgangherati in quelle comode alcove. Poi mi sono messo a parlare con una donna sulla cinquantina. Il suo uomo era morto due mesi fa. Per lui si era fatta anche la galera. Piangeva e si disperava. Si stropicciava gli occhi, batteva i pugni sul tavolo, un amico fidato tendeva le sue mani; cercava di togliere ad ogni espressione del suo volto quella grave parvenza di torto e di sopruso sperimentato. I suoi capelli avevano lottato col vento, le sue gambe avevano danzato sotto la luna. Poi aveva conosciuto il nichilismo sulle strade vuote della città d’Estate. Il suo uomo era morto due mesi fa. Era l’unico della sua vita, che non le aveva mai messo le mani addosso. Niente percosse, niente segni sul volto. Dialogo, semplicità, nessuna complicazione, nessun paradosso. Lei diceva che era un uomo giusto, in armonia col mondo. Solo qualche tradimento per corpi più giovani, per fianchi più snelli. Ma le dinamiche del desiderio -si sa – sono senza senso e senza storia. Tirava gli ultimi mozziconi accesi addosso alla gente e malediceva tutto e tutti, malediceva i passanti che la maledicevano a loro volta. Ormai era troppo in là con gli anni per una rivolta. Ho incontrato queste due persone assurde. Ho parlato con loro e il mondo come per miracolo mi è sembrato meno assurdo. Ha iniziato a riacquistare un senso. Li ho ringraziati e loro mi hanno chiesto: “perché ?”. Ho ripreso il treno. Sono ritornato a casa. Ho continuato a cercare un lavoro.

17 pensieri su “Disoccupazione

  1. Molti poveri sanno come cavarsela, riescono a sopravvivere di giorno in giorno: chi gli regala 5 o 10 euro (la differenza c’è), chi ha bisogno di qualcuno per svuotare il solaio; ci scappano anche le sigarette.
    Alcuni poveri scacciano la paura bevendo o fumando canne. Comunque si tratta di sapere stare al mondo, in qualche modo: bere acqua del rubinetto, la bombola del gas per cucinare, qualcuno riceve i pacchi di alimentari. In casa niente riscaldamento.
    Ce n’è tanti, così. Molti vanno anche a votare, se guadagnano qualcosa regolarmente pagano le trattenute. Sono cittadini italiani come gli altri, questo voglio dire; non percentuali di povertà. Sono parte integrante, sono una componente della nostra società. Alcuni italiani sono poveri e lo sono molto. Punto. Una società davvero democratica dovrebbe tenerne conto e tutti dovrebbero darsi da fare, magari rinunciando a qualcosa; non per pareggiare i conti dello Stato ma per “pareggiare” le persone. Un minimo almeno.
    Il reddito di inclusione, proposto dal PD, lo ottengono in pochissimi: bisogna avere dichiarato un reddito annuo inferiore a 6000 euro. Non basta che sei disoccupato, se appena appena tua nonna ricevesse una pensione di 600 euro al mese non riesci ad averlo. Per i sessantenni disoccupati va anche peggio: per l’APE volontaria devi avere lavorato almeno 20 anni, ma devono essere tutti con lo stesso tipo di contribuzione (a chi avesse svolto un lavoro dipendente per 15 anni e poi avesse fatto il libero professionista non gliela danno).
    Finché non ci si mette in testa il fatto che molti italiani sono poveri, continueremo a fare la carità con mense e pacchi di pasta. Ah, se hai l’ISEE al livello più basso ti riducono il costo di gas e luce (però se non paghi te li tolgono). Stiamo messi così; che anche se tutti si dichiarano scandalizzati se si fa assistenzialismo, alla fine , quando va bene, non si fa altro che questo. La maggior parte delle persone che hanno debiti con Equitalia, li hanno perché non possono pagare. E intanto gli interessi crescono ( è la lotta all’evasione, se affidata alla burocrazia delle macchine).
    Siamo un paese di ricchi, di impoveriti e di poveri. Questo è.
    Bisogna rimettere in piedi i centri per il lavoro, e che siano davvero funzionanti; con corsi di aggiornamento gratuiti, e bisognerebbe anche fare qualcosa per la salute ( di cui in Italia hanno diritto tutti), ad esempio diminuendo o azzerando i ticket per chi davvero non può. Un povero assennato potrebbe dire: due sono le cose, o mi mettete nella condizione di poter pagare le spese di casa, per vivere, o non me le fate pagare. Almeno finché le cose non dovessero andare meglio. Altrimenti sopprimeteci che si fa prima. Non ci credete? Per buona parte della sua vita non ci credeva neppure il protagonista di questo racconto di Morelli. Almeno in India, un asceta, uno che non ha niente e vive di elemosina lo rispettano tutti. E’ una scelta religiosa. Però gli asceti, se passano davanti a un supermercato, mica si sentono ancora più asceti… Ma se sono poveri soltanto, è diverso. Così uno entra, e ruba.

    1. Interessante il discorso, anche se difficile da seguire coi sottotitoli che scorrono veloci. Quale la fonte? Non esiste una versione scritta della tesi sostenuta ( che, se ho ben capito, richiede un’unica tassazione sui consumi)?

  2. …non sono contraria al reddito di base, se diventasse un diritto esteso proprio a tutta la popolazione senza sufficiente fonte di reddito…anzi lo ritengo un atto inderogabile, visto i livelli di povertà, che mettono a rischio la stessa sopravvivenza di moltissime persone, ma come uno sorta di medicina alle ferite inferte dalla stessa società che poi trova una cura ( ferisce e medica)…Una cura che io spero temporanea in vista di una trasformazione davvero virtuosa dell’organizzazione economica…Mi viene in mente: una ridistribuzione equa delle ricchezze esistenti e del lavoro, che sarebbe accessibile a tutti a tempi di impiego ridotti e nel rispetto dei vincoli ambientali…ci sarebbe spazio anche per le attività non strettamente a ricaduta economica. Se invece perdurasse solo la cura, temo che tutto in apparenza cambia per non cambiare nulla…

    1. Il reddito di base, o di cittadinanza, o quel che è, non deve essere puro assistenzialismo, perché altrimenti significherebbe la tomba, definitiva, del lavoro. D’altro canto, l’attuale contingenza che vive il paese è tale che uno Stato degno di questo nome, che abbia a cuore il destino dei suoi cittadini, avrebbe il dovere di fare investimenti cospicui a favore del lavoro, per crearlo, o anche per “inventarselo”, secondo il paradosso di Keynes che, pur di creare lavoro, e fornire così un reddito adeguato ai disoccupati, consigliava di assumere disoccupati per far scavare loro buche che avrebbero successivamente riempito. Al di là dell’intento provocatorio di questo ragionamento, quel lavoro non sarebbe inutile dato che si porrebbe come fonte di reddito per coloro che non ne avevano, quindi farebbe ripartire l’economia. Ma per creare lavoro uno Stato deve spendere a deficit, cosa che il cosiddetto vincolo esterno, ossia la dottrina liberista alla base degli attuali trattati internazionali che istituiscono l’Unione Europea, lo impedisce. Con una banca centrale sovrana la spesa a deficit non sarebbe “impossibile”, con la BCE, il cui obiettivo principale è la stabilità dei prezzi, invece lo è. Oramai siamo arrivati a un punto tale di lucida follia europea che questi trattati internazionali (Maastricht ecc.) sono ritenuti dal “nostro” ceto politico più importanti della nostra Costituzione, che riguardo al lavoro è orientata a favorire la piena occupazione, mentre alla BCE interessa solo la compatibilità dell’occupazione con l’inflazione, e considera un certo tasso di disoccupazione funzionale all’architettura europea, perché la piena occupazione comporta anche una certa inflazione, e l’inflazione è il nemico principale del capitalismo finanziario e di quello che Marx definiva rentier. Mi pare questo uno dei nodi decisivi da considerare in tema di occupazione

  3. @ Bugliani

    Caro Roberto,
    ricordi i romantici che di fronte all’avvio delle disumane fabbriche della prima rivoluzione industriale capitalistica, immediatamente sconvolgente e distruttore del mondo contadino, pensavano ad esso con nostalgia e a quel modo di produzione artigianale volevano tornare?
    Ecco a me – lo sai – le tesi sovraniste miranti a uscire dall’Unione Europea invece di cambiarla e che puntano, come tu dici, a rifondare « uno Stato degno di questo nome», nazionale e magari keynesiano, capace di « di fare investimenti cospicui a favore del lavoro, per crearlo, o anche per “inventarselo”», come fecero gli USA di fronte alla crisi del ’29 ( e dunque capace di combattere disoccupazione e povertà), sembrano nascere da un atteggiamento simile. Mi appaiono nostalgiche e cieche di fronte al contesto creatosi con la globalizzazione.
    Anni fa contestai a Roberto Buffagni questa prospettiva del ritorno alla nazione, che in lui si carica anche di toni sacrali e naturalistici assenti dalle tue posizioni. E dissi: troppo tardi, è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
    È un’idea che mi pare condivisa da molti. La ritrovo esposta anche in un recente scritto dello storico Claudio Vercelli ( Cfr. http://moked.it/blog/2018/03/25/in-esordio/
    ) : « I processi di globalizzazione sono troppo avanzati per potere pensare di risolvere i problemi e gli squilibri che essi ingenerano facendo leva sui soli Stati nazionali. Che ciò piaccia o meno»; per cui « in un mercato globale non è possibile interagire efficacemente all’interno di un fortino. Il livello di interazioni, d’interconnessioni, di scambi e di continua mobilità rende impossibile questa riconfigurazione verso il passato».
    Certo, la mia è un’impressione. E non sono in grado di documentare a fondo questa tesi. Mi pare però di poter dire che l’Italia non è quella grande potenza mondiale, come lo erano gli USA agli inizi del Novecento. Essi , sì, poterono fronteggiare la crisi del ’29 ricorrendo a quelle politiche keynesiane. ( Non pare del tutto risolutive se vari storici sostengono che furono soprattutto gli investimenti in armamenti e la seconda Guerra mondiale a rilanciare quel capitalismo).
    Anche il tuo appello alla Costituzione («che riguardo al lavoro è orientata a favorire
    la piena occupazione») appare nostalgico. Specie se, come nota ancora Vercelli nel medesimo articolo, siamo « in un’età dove alla Costituzione formale, quella che dovrebbe per davvero essere sovrana nel nostro Paese, si è sostituita una “costituzione materiale” dove i rapporti di forza non corrispondono necessariamente alle norme di diritto sancite dalle leggi supreme.»
    E allora? La domanda che mi farei è se convenga o meno uscire dalla *dimensione europea*, che è almeno una dimensione continentale con più risorse rispetto a quelle di una singola nazione, che in partenza non ce la farebbe.
    Questo non significa approvare le politiche della UE.
    Giustamente, a mio parere, Vercelli fa notare che «l’Unione Europea è, per molti aspetti, un progetto stanco e sfiancato non per l’eccesso di integrazione ma, piuttosto, per il suo difetto». Il vero problema sembrerebbe essere allora « l’assenza di un’Europa sociale, capace di esercitare un’azione redistributiva a livello continentale». Al suo posto si è avuto « un processo di integrazione diseguale», per cui « le nazioni maggiormente fragili sono state chiamate a fronteggiarne in prima persona gli effetti». E l’Europa si è dimostrata «“matrigna” rispetto agli effetti sociali che, come un colpo di frusta, hanno scompaginato paesi quali la Grecia ed in parte la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda», portando a « una vera e propria crisi dei ceti medi, messi alle corde dalle repentine trasformazioni delle condizioni di vita quotidiana.»
    A me paiono considerazioni su cui riflettere.

    1. @ Ennio,
      forse dovrei rivalutare i romantici, finora da me sottovalutati. Ma, rispondendoti un po’ in ritardo perché mi sono distratto dal “pezzo”, un’unica domanda: con chi la faresti l’Europa sociale? La sinistra radicale o chi per essa (naturalmente mi riferisco alle forze di sinistra non liberiste, non certo al PD che è parte del problema) non è nemmeno riuscita a fare un’Italia sociale, visto la recente batosta elettorale che ha preso, dove ha giocato in casa per lingua e cultura, e vuoi dunque che riesca a fare un’Europa sociale? L’unica Europa che è stata fatta è quella liberista (ordoliberista) a immagine e matrice tedesca, e con(tro) quella credo ci si debba misurare.

      1. Un cammeo, trovato in rete, di Jean-Claude Michéa, che dovrò decidermi a leggere, perché mi pare abbia capito molte cose:
        “Un militante di sinistra è sostanzialmente riconoscibile, ai nostri giorni, dal fatto che gli è psicologicamente impossibile ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima”
        (“I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto”. Neri Pozza).

        1. @ Roberto

          La contrapposizione fra sovranisti (di varie tendenze) e europeisti ( di varie tendenze) è seria. Non giovano a chiarla o a superarla le battute irrisorie. Anche se la sinistra avesse esaurito tutte le sue carte, il dilemma per me resta. Chi ha più buone ragioni? Io ho riportato due opinioni (di Vercelli e Negri). Tu potresti controbattere ai loro argomenti o portarne altri a te affini. Sarebbe più utile.

          1. Caro Ennio,
            se per battuta irrisoria ti riferisci al mio commento delle 14:37, devo dire che quella non era una boutade, ma nella domanda c’era la constatazione della sconfitta della c.d. “sinistra radicale”. Della realtà politica che offre e ha offerto questo inizio di XXI secolo credo si debba prendere atto, e rapportarsi, misurarsi, confrontarsi con essa. Il che significa fare politica (in senso lato ma a suo modo militante, dopo aver fatto io a lungo politica in senso stretto) in queste condizioni date, ossia all’interno d’una realtà in perpetuo mutamento, e oggi di gradazione alquanto notevole. Ritengo ancora che se ci si rifiuta di confrontarsi e di rapportarsi a tale dinamica politica del reale per un malinteso senso di appartenenza, la comprensione stessa del reale rischia di sfuggirci di mano. L’altra alternativa che vedo è quella portata avanti da Gianfranco La Grassa in “Conflitti e strategie”, ovvero quella di ridurre/concentrare le cose del mondo al conflitto geostrategico tra monopolarismo e multipolarismo, e di porsi in costante osservazione del “fenomeno” (infatti, a conclusione della stragrande maggioranza dei suoi articoli occasionali, la locuzione preferita di La Grassa è “staremo a vedere”). Insomma, fare gli osservatori (mettersi alla finestra) per analizzare le cose dal punto di vista della contraddizione monopolarisno VS multipolarismo, mettendo nello sgabuzzino o sotto il tappeto la realtà quotidiana vissuta dalle persone in termini di disoccupazione, aumento della povertà, mancata redistribuzione del reddito, in cui l’Europa a trazione mercantilista tedesca ha grande responsabilità.
            Se invece consideri “battuta” la mia citazione di Michéa delle 15:16, beh, quella voleva essere una sintesi di certo pensiero micheaiano fatta da lui stesso e che qui capitava a fagiolo (per rubarti l’espressione), a conclusione d’un suo percorso analitico della “sinistra” che, da quel poco che ho letto di lui, trovo estremamente interessante e meritorio d’approndimento.

  4. In aggiunta (e capita a fagiolo):

    SEGNALAZIONE
    (dalla bacheca FB di Giso Amendola)

    PER UN’EUROPA SENZA GUERRA

    di TONI NEGRI.
    http://www.euronomade.info/?p=10469

    Stralci:

    1.
    Nel recente editoriale Ripensare l’Europa Unita avevamo cominciato a proporre questo nuovo livello di analisi, concludendo con un «sì all’Unione» e proponendo un’approfondimento della battaglia per il federalismo europeo. Un federalismo – avevamo aggiunto – non delle nazioni ma delle metropoli, dei luoghi produttivi di un nuovo modo di vita, di sentire e di desiderare, nella nostra Europa – se si vuol dire con parole antiche, un federalismo delle lotte di classe.
    2.
    Oggi è forse necessario – dopo le elezioni italiane e considerando che la deriva di entrambe le forze vincenti trova equilibrio nel sovranismo antieuropeo – ritornare su questo «sì» per riaffermarne il senso e la direzione. Tanto più che anche alcune forze di sinistra, emerse nell’ultimo periodo elettorale, appaiono adepte alla rinnovata illusione del sovranismo e del populismo ed incrociano (non mi sembra volentieri – tuttavia effettualmente) i loro desideri e quelli reazionari della Lega e del M5S.
    3.
    Ora, nell’editoriale che abbiamo citato, sottolineavamo che alcune difficoltà (forse le principali) nella costruzione di un’Europa Unita stavano nella confusione del progetto europeo e delle politiche della superpotenza americana e nella sovrapposizione ad esso della NATO. Dopo aver sostenuto il processo di unificazione europea durante la Guerra Fredda (e ben si intende perchè), gli USA con sempre maggior nervosismo, hanno operato ad un indebolimento dell’Unione: ciò è reso evidente, per esempio, dalla maniera nella quale essi hanno sostenuto e sostengono i discorsi della destra più ribalda nei paesi dell’Est europeo, e fatto sì che la guerra sia ancora aperta sui bordi russofoni dell’Ucraina; e soprattutto per il modo in cui gli Stati Uniti corrompono le élites dell’Unione e, ancora, sempre più rigidamente sovrappongono la questione dell’allargamento della NATO a quello dell’Unione, forzando, da un punto di vista militare, l’Unione ad accettare le politiche di un Impero declinante.
    4.
    Di contro, condizione fondamentale per la crescita dell’Unione sembra essere una rinnovata attenzione critica, e eventualmente l’espressione di un forte dissenso, a fronte del sovrapporsi della NATO allo sviluppo dell’Unione. L’assenza di questo tema dal dibattito degli europeisti di sinistra – ed alludiamo alle «liste trasnazionali» ora in formazione – è cosa scandalosa. Non ci si può considerare europeisti se non si prende coscienza (e non si assume la responsabilità) del fatto che le divisioni corazzate turche distruggono la «democrazia di Kobane» nei territori curdi o che i corpi speciali francesi, sotto la maschera dell’antiterrorismo, combattono forze popolari di resistenza al neocolonialismo nell’Africa subsahariana – ebbene, si tratta sempre di truppe NATO.
    5.
    Quali sono le possibilità di costruire un nuovo cammino federale fuori dalla tutela americana e come pervenirvi? Siamo così ricondotti al punto di partenza: che cosa può essere l’Unione Europea nel momento in cui l’egemonia americana è in declino e una sorta di multipolarismo continentale si afferma?
    6.
    Prima osservazione: l’Europa è aperta sull’Oceano atlantico. Il rapporto atlantico con la superpotenza americana (perchè, pur essendo in declino, gli USA continuano ad essere una superpotenza) è evidentemente una questione essenziale. Ci vuole un rapporto – ma quale tipo di rapporto? Quello che si era costituito durante la Guerra Fredda, e che il trattato nordatlantico continua a far esistere, sottomettendo ogni strumento di sicurezza europeo alle scelte americane? Quel rapporto, nelle forme che gli sono proprie, non può permettere la ricostruzione dell’Unione. Si dimentica troppo spesso che l’Europa è una penisola del continente asiatico; che l’Europa si apre al Medioriente e all’Africa attraverso il suo mare interno, il Mediterraneo. Dopo la fine della guerra fredda, l’Europa si è integrata ai paesi euroasiatici – dal punto di vista del rifornimento energetico, e almeno parzialmente ma in maniera determinante, dal punto di vista commerciale. Questa integrazione si svilupperà molto probabilmente in maniera ulteriore
    7.
    l’Europa e la sua unione non possono nascere senza un equilibrio tra dimensione atlantica e apertura asiatica. Da questo punto di vista, il Brexit è alla fin fine una cosa buona, perchè ha permesso di restringere le possibilità di sovrapposizione dell’interesse europeo e dell’interesse atlantico. Le «relazioni speciali» tra Gran Bretagna e USA non interferiranno più nelle politiche europee – o in ogni caso, meno di quanto esse lo facessero fin’ora.»
    8.
    È in questa direzione che dobbiamo muoverci. Ma ancora una volta sottolineando che non è possibile farlo se si assumono posizioni nazionaliste o si promuovono populismi sovranisti. Vi sono, certo, dei filosofi e degli «esperti», senza parlare dell’opportunismo dei politici, che sostengono che non si possa fare in nessun caso l’economia del tema della sovranità nazionale e che, «se non si passa attraverso il quadro dello Stato», la lotta per l’Unione «non avrà alcuna possibilità di pervenire ad un livello continentale e neppure di aspirare a un nuovo equilibrio nelle relazioni internazionali» – ecco il parere del politologo che si annovera fra gli ultimi schmittiani. Non è tuttavia servendosi dello Stato nazione, utilizzando questa «leva di potere», che si potrà pensare la costruzione di una «Europa differente». Questa posizione (sostenuta dai populisti di sinistra – bisogna aggiungere: spesso con onesta ingenuità) riposa su una falsa affermazione. Essa infatti non comprende l’enorme declinazione negativa delle sovranità nazionali che la globalizzazione ha provocato. Essa nutre l’illusione di sufficienza dell’istanza sovrana «in sé e per sé» – come se paradossalmente lo Stato nazione potesse rappresentare una sorta di «fuori» in rapporto alla mondializzazione, un luogo neutro nella «sussunzione reale» del pianeta sotto il comando capitalista. E anche se certi ammettono che gli Stati nazione hanno finito per essere degli intermediari disciplinari necessari alla realizzazione dei programmi neoliberali (scoprendo così – un po’ tardivamente – quella vocazione sempre più statalista della governance neoliberale, che sfiora il fascismo), bisognerà che essi comprendano che la governance europea è divenuta determinante e che è solo a partire da essa che si può incidere sul livello globale del potere – e lottare efficacemente contro il neoliberismo.
    9.
    Una nuova stagione di insubordinazione che sollevi la protesta contro le politiche atlantiche dell’Unione (politiche che sempre più prefigurano la guerra) e che solleciti i movimenti a convergere su questo terreno – questo è un terreno sul quale ricomporre una spinta costituente per l’Unione. Va qui sottolineato che la democrazia costituzionale, costruita alla fine della seconda Guerra Mondiale sullo specchio delle urgenze della Guerra Fredda, non è riuscita a trasformarsi e vive l’agonia delle forme politiche di quel tempo. Bisogna uscire da quell’epoca. Introdurre nel dibattito il tema della soggezione atlantica dell’Europa, e quindi l’incombente possibilità di guerra – vale a dire riprendere l’agitazione contro le spinte alla guerra che l’amministrazione americana sempre più ossesivamente produce ed esprimere un radicale rifiuto di questa minaccia che si organizza sulla paura per produrre terrore, significa proporre finalmente un’Europa senza guerra, un mondo senza guerra.

  5. @ Bugliani

    Caro Roberto,
    Poliscritture è sorta nel 2004 e si è dibattuta da allora sul dilemma “rifondazione (della sinistra) o esodo (anche dalla sinistra)”. Si può dire che dopo le varie batoste elettorali (e l’ultima del 4 marzo pare definitiva, molti parlano di cancellazione o abrasione della sinistra) è venuto meno il primo corno del dilemma e *siamo costretti* tutti all’esodo? Potrei rispondere anche di sì, ma poi mi ritrovo di fronte ad altri dilemmi, come questo di cui stiamo qui discutendo, tra sovranisti e nazionalisti, e tutto si fa ancora oscuro e contorto. Credo che almeno noi, che tentiamo di chiarirci le idee (con la speranza di chiarirle anche ad altri), vogliamo senza remore rapportarci, misurarci, confrontarci con questa « sconfitta della c.d. “sinistra radicale”.». Ma per far che? Per andare dove? Non è « un malinteso senso di appartenenza» a bloccarci. E’ che quella che tu chiami « dinamica politica del reale» non è affatto afferrabile e chiara. Non sono per lo “staremo a vedere”. Semmai mi si accusa di inseguire fin troppo e vanamente « la realtà quotidiana vissuta dalle persone in termini di disoccupazione, aumento della povertà, mancata redistribuzione del reddito». Su certe questioni, però, si devono pur prendere delle posizioni chiare, magari dopo il massimo di approfondimento che ci è consentito a livello individuale o in qualche residuo cenacolo pensante. E perciò insistevo nel richiedere argomenti e ragionamenti a favore o contro certe tesi sovraniste o certe tesi europeiste. Sono questioni ineludibili, si voglia essere puri osservatori oppure immersi nella realtà quotidiana. Prima o poi te le trovi di fronte.

    P.s.
    Su Michéa che conosco poco ha scritto schede puntali e ben documentate Alessandro Visalli:
    http://tempofertile.blogspot.it/2017/03/jean-claude-michea-il-vicolo-cieco.html?q=Miche%C3%A0
    http://tempofertile.blogspot.it/2016/11/jean-claude-michea-i-misteri-della.html
    Se ne può benissimo discutere. Anzi se vuoi preparare tu qualcosa…

  6. Caro Ennio,
    al momento posso darti solo una risposta “montaliana”: non sono “disinistra” (nel senso che Michéa attribuisce a questa parola. beninteso) e quel che non voglio è un ulteriore governo a conduzione PD, ossia €peista senza se e senza ma. Quanto al resto, grosso modo mi ritrovo, vista l’attuale offerta politica, in queste posizioni:
    http://www.socialismo2017.it/2018/03/06/populisti-50-comunisti-1-vogliamo-parlarne/#more-639
    http://sollevazione.blogspot.it/2018/03/perche-si-un-governo-m5s-lega-di-p101.html
    http://sollevazione.blogspot.it/2018/03/bagnai-batti-un-colpo-di-moreno.html

    1. Beh, caro Roberto, io sono rimasto a «proteggete le nostre verità» e se è questa la compagnia che ti sei scelto o a cui guardi con simpatia, devo dichiarati che dissento.
      Secondo me, l’articolo di Porcaro e Boghetta – l’unico che esprime la “linea”, gli altri due interventi la volgarizzano per la propaganda contingente – trasuda spocchia e livore verso gli ex (loro, suppongo) compagni di Rifondazione Comunista; e già questo m’indispone.
      Vi trovo poi affermazioni impressionistiche e inverificabili: dopo la lezioncina a PaP ( Potere al Popolo), che, malgrado le intenzioni non sarebbe in sintonia con il “popolo” stesso («le idee che tanto piacciono alla sinistra radicale non piacciono al popolo»), attribuiscono loro i *propri* pensieri a questo astratto popolo o ad altrettanto astratti lavoratori e cittadini. E, come si fa di solito, parlano pur essi in suo nome: « i lavoratori pensano realisticamente che il conflitto sociale diretto, al momento, non può pagare più di tanto, e cercano quindi qualcuno che li rappresenti sul piano politico».Ma chi gliel’ha detto? Che inchieste hanno fatto o sono in grado di fare a sostegno di questi pensamenti del “popolo”?
      Io non so se sull’immigrazione PaP o, prima, Rifondazione Comunista abbiano “postulato” « una completa assenza di controlli». Mi pare una caricatura di posizioni, che non possono essere così rozze come loro le presentano.
      Sostenere poi che « nessuno stato si potrebbe mai permettere» una scelta del genere, la dice lunga sulla svolta statalista e sovranista («la politica è oggi soprattutto lo stato») di costoro, che a me paiono – ma sinceramente non sono certo – essere passati da posizioni fieramente leniniste ( mi ricordo di aver letto anni fa un articolo di Porcaro su Sinistra in rete) a posizioni che a me paiono comunque di matrice stalinista.
      Ma si arriva al colmo quando presentano come marxista (sia pur con tra virgolette) le posizioni della Lega:«il “cattivismo” può spiegare un 50% del voto leghista, mentre l’altro 50% può essere largamente spiegato dal fatto che la Lega si è mostrata, per ora, molto più radicale dei radicali e molto più “marxista” dei marxisti.». Vabbè, ormai Marx ognuno se lo cucina come vuole.
      E ancora mi fa ridere:
      – attribuire a Salvini la capacità di interpretare meglio degli attuali dirigenti di sinistra questo inverificabile « pensiero del popolo stesso» ;
      – sostenere che il “popolo” pensa proprio come loro e che le loro tesi (di Porcaro e Boghetta) e cioè: – « Lo stato ci deve essere»; – « L’immigrazione è prima di tutto un problema»; – « L’Unione europea è un guaio; l’euro ci rovina; da quando c’è il mercato libero stiamo tutti peggio» coincidono con il pensiero del “popolo”;
      – valutare sempre migliore una posizione politica ( di destra o comunque avversa) soltanto perché sarebbe « molto più comprensibile (ed efficace)»; per cui , con un salto logico e politico, se ne dovrebbe dedurre che tutto ciò che *appare* comprensibile corrisponda alla realtà; o sia comunque auspicabile; per cui – forzando un po’ – l’efficacia elettorale della Lega o del M5S, che riescono a far bottino di voti anche contando frottole (come fecero ai loro tempi Berlusconi e Renzi) è la cosa che conta, indipendentemente dalla corrispondenza con ciò che ancora diciamo *realtà*.
      Andando avanti. Dire che l’immigrazione sia un problema solo i ciechi possono negarlo. Non credo ci sia bisogno di essere marxisti per affermare tale banalità. E anche dire che ci sia un « l’uso imperialistico dei proletari delle zone periferiche contro quelli delle metropoli» mi pare per chi appena mastica un po’ di politica un’ovvietà. Importante sarebbe riuscire a contrastare in qualche modo tale uso.
      Ma Porcaro e Boghetta cosa suggeriscono? Non va bene la «clandestinizzazione dei migranti». D’accordo. Considerano «ovvia» la lotta comune dei bianchi e dei neri, ma da tattici maneggioni – a me sembra – la rimandano a « un poi » indeterminato. E, nel frattempo, non fanno che ripetere gli argomenti leghisti:«Una razionale considerazione del problema vede per ora soprattutto un peggioramento del mercato del lavoro e delle condizioni di vita, e si deve prenderne atto se si vuole trovare una soluzione».
      In sostanza una soluzione *marxista* o “più marxista” di quella di Salvini (di fatto: il respingimento) non la indicano. Preferiscono criticare soprattutto gli ex compagni ( e torno al rancore che m’infastidisce). Non pensano, infatti, che l’immigrazione sia « soprattutto una risorsa », come quelli buonisticamente o ingenuamente ripeterebbero. Non dicono lealmente che una soluzione “marxista” ( o lo è quella di Salvini?) non ce l’hanno; e finiscono per appiattirsi o nascondersi dietro « l’esperienza concreta del popolo». Che, razionalmente parlando, per me non è una soluzione.
      Anche se comprendessimo la ipotetica « base razionale della paura» del popolo, che si fa? Cosa comporta assecondare questa paura? Ed è una politica approvabile assecondarla, inchinarsi ad essa o cavalcarla contro i migranti? O sarebbe da comunisti (appunto) battersi per mostrarne spesso l’inconsistenza reale, mirare a contenerla o a vincerla, intensificando esperienze di rapporto coi migranti invece che esaltare la “italianità” o la identità nazionale più gretta?
      Altrettanto banale (oltre che non argomentata e data almeno in questo articolo per scontata) mi pare l’affermazione che «’Unione europea è un guaio; l’euro ci rovina; da quando c’è il mercato libero stiamo tutti peggio».
      Ma chi sono questi «tutti»? Sono compresi o no i migranti? Sono compresi anche gli imprenditori o i ceti che dall’euro si sono avvantaggiati? O nessuno s’è avvantaggiato dell’euro? E poi non sopporto queste concessioni a mezza bocca, che alludono a una realtà molto più complicata ( «Certo, il popolo spesso non sa che non basta uscire dall’euro»), che il “popolo” non conosce, ma che per il momento deve restare velata. E ancora questa indicazione del nemico nei soli « gruppi economici e politici dominanti in Italia», senza vedere i legami ormai solidi e quasi inestricabili (suppongo da profano) con gli attori principali della globalizzazione ( multinazionali, grandi potenze). O questo dare ad intendere che basterebbe disfarsi dell’attuale ( e pessima, convengo) classe dirigente italiana o chiedere «“più stato”» per migliorare la nostra condizione. E qui tornano irrisolti i problemi , che ho cercato di porre all’attenzione dei lettori di Poliscritture citando gli stralci di Vercelli e Negri.
      A me pare che Porcaro e Boghetta banalizzino anche la formula leninista e maoista del nemico principale. Anzi la trasformano nell’«l’individuazione del nemico del momento». E ancora una volta si genuflettono al “popolo”, anzi addirittura alla « parte più povera del popolo [che questo nemico del momento] lo individua correttamente».
      E perché gli altri (definiti sprezzantemente «avanguardia») no? Perché – precipitando in un piatto determinismo sociologico – siccome l’avanguardia «proviene in larga misura dalla parte meno povera » non capisce un cazzo. E il “popolo” invece tutto. E perché? Perché «il “populismo” è ormai diventato forma normale della lotta di classe».
      Cosa vuol dire tale formula? Che la teoria populista ( Laclau e compagnia?) ha sostituito il marxismo e che la lotta di classe oggi o è populista o non è?
      Ma la «rinazionalizzazione» ha prospettiva di riuscita in un mondo tanto globalizzato? O lo si assume come obiettivo valido sperando di far concorrenza o dispetto alla Lega?
      Infine, sempre in questo clima di euforia populistica , orma sarebbe sbagliato parlare di passività popolare. E perché?
      Il voto di protesta del 4 marzo avrebbe dimostrato ormai senza incertezze che il popolo s’è attivato? Un voto, dunque, può sostituire un vero movimento? Porcaro e Boghetta nonpaiono porsi un problema del genere. A loro basta esultare perché la colpa è tutta della sinistra radicale e dei suoi dirigenti. Anzi di proclamare che«la sinistra radicale è finita» e finalmente essi possono proporre la vera soluzione finora osteggiata e gridare: Nazione, nazione! Costruiamo il socialismo in un sol paese! In Italia! Facciamo «un socialismo disegnato sulle esigenze del paese». Il resto verrà da sé.
      P.s.
      1.
      Non mi soffermo sui due articoli di Sollevazione, che, come ho detto, ripetono gli stessi schemi di Porcaro involgarendoli. E, mettendo insieme diavolo e acqua santa ( almeno a parole) agitano il vessillo di una «sinistra nazional-popolare, patriottica e libertaria» per arrivare alla originalissima e astutissima pensata: costringiamo M5S e Lega a fare quello che vogliamo “noi”. A me anche questa pensata fa ridere. Mi ricorda Lotta continua quando volevano “costringere” il PCI al governo, mentre i suoi dirigenti si davano da fare per il compromesso storico.
      2.
      Nel frattempo è uscito un altro saggio ancora più articolato di Formenti, Porcaro e Boghetta( https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/12009-ugo-boghetta-carlo-formenti-mimmo-porcaro-idee-per-una-sinistra-nazionale-e-popolare.html). Se ce la faccio, lo leggerò per vedere se il mio dissenso calerà o aumenterà.

  7. “Fortunato il Paese che non ha bisogno di eroi” chiosava non mi ricordo più chi . Ora , se questi giovani di belle speranze che hanno ( per ora ) vinto volessero fare sul serio e confermarsi ( con i fatti ) , rischierebbero la pelle come è successo – cruentemente – a tante persone pulite e a tutti i livelli . Se è ancora possibile parlare di “speranza”, questa è rivolta a loro , in un Paese tra i più corrotti del mondo . Utopia ? Se ci tolgono anche l’utopia siamo proprio fregati in toto …

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