Niente andrà perduto. La poesia di Velio Abati

di Donatello Santarone

La raccolta di poesie Questa notte (Manni, Lecce 2018, pp. 80, € 12) di Velio Abati consiste in  un canzoniere asciutto, fatto di “coscienza chiara e angoscia mortale” (Per una tenzone), che dà voce alle torsioni storico-esistenziali di un quarantennio e a quelle più personali dell’autore, insegnante, scrittore, critico letterario, organizzatore di cultura (Abati, tra le altre cose, ha diretto per quindici anni la Fondazione “Luciano Bianciardi” di Grosseto). Dall’impegno politico degli anni Settanta nella Nuova Sinistra alla sconfitta del decennio successivo, dalle feconde allegorie naturali alla cronaca bruciante del presente, dall’amore alla paternità, dal lavoro contadino allo studio universitario e militante, fondamentale quest’ultimo, non meno della prassi umana, per comprendere il mondo:

Ma pure l’esperienza
e i fortunati studi con chiarezza ti provarono
come la catena di umani voleri e poteri
la terra e la carne stessa, le piante
nel profondo trasformano e piegano
in altri paesaggi.

Tutto questo è detto bene nella quarta di copertina: “Nel solco illustre del canzoniere, la presente raccolta si nutre di una pluralità di movenze ritmiche, cerimonie, occasioni, tuttavia sospinte all’allegoria dell’exemplum. Così il titolo indica il gusto e insieme la necessità della concretezza di fatti, di circostanze. Le poesie percorrono faglie esistenziali e stagioni storiche distanti, dall’impegno degli anni Settanta ai silenzi straniti del notiziario del mattino.”

Le 36 poesie di Questa notte, divise in 6 sezioni, non sono “parole innamorate” ma schegge taglienti, dantescamente aspre, di un sentire fatto di carne e sangue, ansiosamente proteso a nominare luoghi e persone, a scommettere sul pensiero della poesia, in cui la cronaca di una campagna elettorale (del 1976), esperienza di condivisione attraverso i paesi della Maremma, anch’essa però attraversata da una presenza continua e solare del paesaggio contadino, si alterna a un prezioso sonetto rivolto ai giovani studenti affinché non perdano la speranza e provino un futuro:

osate, invece, il sogno con amore
e la mente sia chiara più che perla,
ferma la mano, a le ingiustizie ferla
compagna ai vinti, in gioia e ‘n dolore.

Abbiamo detto che c’è sempre nella poesia di Abati una concretezza fatta di gesti, atti, cose, sentimenti, un richiamo aspro alle fatiche del vivere, al lavoro. Dall’insegnamento operoso e forte ricevuto in famiglia, “dai giacimenti della tua umana cultura”, come scrive Camillo Pennati nella poesia proemiale dedicata all’autore, Velio Abati ha tratto una radicale diffidenza verso i “nomi che hanno perso la cosa”, cioè verso le caste intellettuali e politiche i cui discorsi contraddicono i comportamenti: “E’ troppo facile riempirsi la bocca/di rotonde parole.”. Ma anche verso l’identificazione di cultura e privilegio, di sapere e potere.

La sintassi di queste poesie è insieme argomentativa e colloquiale, così come il lessico, colto e “popolare”, in parte di matrice toscaneggiante ed anche con qualche neologismo: “biondità”, “stente” (“che stentano”, riferito alle “vacche brade”), “carpiccia” (“muschio”), “s’ingialla”, ”grìcoli” (neologismo onomatopeico che allude al “gri gri” delle dita che solleticano i bambini),“impannate” (“vetri”), “slontana”, “affolta”, “gattonare” (ma nel significato toscano di “amoreggiare”), “s’ingerla” (neologismo che imita l’italiano antico e che allude alla “gerla”, al cestino da cui nasce metaforicamente la speranza), “ferla” (la frusta del maestro, dal latino “ferula”),  “accestisce” (con richiamo immediato a un poemetto di Pascoli, anche se l’autore precisa che “quell’impiego non ha assolutamente nessuna motivazione o eco letteraria, perché è la forma ‘tecnica’ con cui nella lingua contadina dei miei s’indica il far cesto della pianticina d’erba, d’arbusto o di giovanissimo albero.”). E poi il Dante del Paradiso: “permotore” (“principio motore”), “s’indìa” (si avvicina e penetra in Dio: questo è un neologismo dantesco).  Al quale si accompagnano echi novecenteschi di Zanzotto e Fortini (di quest’ultimo segnaliamo due calchi espliciti nella poesia dedicata al poeta curdo Fahrad che evoca lo strazio dei migranti). Va ricordato che molto lessico poetico dell’autore richiama le escursioni lessicali necessarie a mettere in scena contadini e latifondisti, servi e padroni, volgo e clero, protagonisti di quel notevolissimo “romanzo storico” pubblicato da Velio Abati nel 2013 e che ha per titolo Domani.

La raccolta si conclude con l’ostinata rivendicazione di un futuro e di una speranza nella poesia significativamente intitolata Aggiornamenti. La nostra storia, quel che nel bene e nel male siamo stati, va trasmessa e usata: “Proteggete le nostre verità”, scrisse Fortini nella sua ultima poesia. Tutto questo è sempre attraversato da una natura incombente, pressante, viva, che, sembra dirci il poeta, non può essere cancellata dal nostro orizzonte storico-politico perché testimonianza insieme di asprezza e felicità:

Ma senti, nascosti tra i róghi
altri sguardi in attesa:
niente, di vero e di falso,
andrà perduto. Irromperà
lo squillo del picchio.

(E anche qui il lessico toscano ci consegna i “róghi”, i rovi, da non confondere con i “ròghi”, i fuochi.)

4 pensieri su “Niente andrà perduto. La poesia di Velio Abati

  1. Non avendo letto la raccolta poetica di Abati, ma solo quel che passa il convento di Santarone, mi pare, da questi excerpta, che l’impronta poetica fortiniana sia forte, a partire già dal titolo (il deittico, come nel titolo fortiniano “Questo muro”), molto di più di quella di Zanzotto, che qui non scorgo. Poi, negli ultimi versi di Abati citati da Santarone, l’eco di Fortini lo trovo assordante. Quanto all'”escursione lessicale”delle poesie che il recensore accosta al romanzo storico di Velio, e prendendolo in parola (qui a testimoniarlo c’è solo un piccolo regesto), se quello è il crogiuolo originario, me ne compiaccio, perché “Domani” è un bel romanzo.

  2. Volevo, come di solito qui su POLISCRITTURE, pubblicare alcune poesie della ultima raccolta dell’amico Velio Abati con una mia nota. Donatello Santarone mi ha preceduto con la sua recensione. E allora aggiungo qui, nello spazio dei commenti, i miei appunti, nella speranza che possano animare una riflessione con l’autore di «Questa notte» ed altri amici/che. [E. A.]

    * Appunti da una prima lettura di «Questa notte»

    1.
    Garbo senza affettazione. Saldo rapporto con una natura appartata e antica. Molto humus fortiniano.
    2.
    Echi di Pavese ( forse per il clima o per il modo di trattare il tema?)
    3.
    «Campagna elettorale» (pag. 7). Un titolo quasi ironico e ossimorico ( Ma la campagna – i terreni, le piante -può mai essere elettorale?). L’elegia prevale sulla storia: qui la campagna e l’assenza di persone o di folla si mangia la storia, la politica; e la stessa auto, che si è in essa insinuata, è quasi un accessorio del verde. Quella somara che «strappa l’erba /arrancando la costa» a me evoca Carducci, l’Ottocento e «Davanti San Guido» imparato a scuola a memoria:

    «un asin bigio, rosicchiando un cardo
    Rosso e turchino, non si scomodò:
    Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
    E a brucar serio e lento seguitò.»

    Quasi una pagina di diario realistico, descrittivo, appena poetizzato. Campagna (ossia natura) contro umoralità frettolosa, ansiosa, angosciante del compagno di città pragmatico (e malato?):«”La strada, guarda la strada!”». Con sbalzi e impuntature utopiche improvvise, che dal prosaico vanno ai secoli , al Fortini dei «destini generali»: «Penso ai contratti/penso allo stato/penso a un mondo e a una vita/dove il dolore diventa coscienza/dove la lotta diventa gioia/potente/come i millenni di oppressione e di preistoria».
    4.
    «Legàmi?» (pag. 13). Assorto. Parentesi di quiete (« La sera è davvero stupenda»). Atti semplici… buon vino… essenzialità. Toti è Scialoja, credo…La realtà del capitalismo è evocata in questo clima elegiaco e di pace, riducendo al minimo discorsi che altrove si fanno troppo complessi e specialistici. Accostamento di immagini abissalmente lontane per il senso comune( «Che cosa/ mi dico/ separa la nostra serena terrazza/ dal perduto villaggio» (pag. 15). Sospensione nelle due domande finali: «Qual è/ mi chiedo/ il sottile legame che stringe/ la parola che convince/ a quella che vince?/ E chi non vinse/ negata amica/ allora/ non avvince?»
    5
    * Nel verso libero le ripetizioni ( a coppie ritmiche?):
    «Fuori forse l’allodola canta/forse» (pag. 7);
    « verde e giallo/ giallo e verde» (pag. 7);
    «rosso/ come il sangue versato/ rosso) (pag. 9)
    «Penso ai contratti/ penso allo stato/ penso a un mondo e a una vita/ dove il dolore diventa coscienza/ dove la lotta diventa gioia ( pag.10);
    «Sono incazzato/ – si picchia con una mano -/sono incazzato»; «Camminiamo ancora/camminiamo a lungo» (pag. 11)
    «il fascio della tesi/ che non va avanti, analisi/ di alcune strutture narrative nel Risorgimento/ analisi del ruolo dell’intellettuale/borghese/ nel Risorgimento/ che non va avanti.» (pag. 17)-

    * Il rientro di certi versi. Per accentuare la sospensione?
    Per fare un controcanto a se stesso come in un dialogo teatrale( pag. 24)?
    Ma non è lo stesso in «Legàmi»… (pagg. 13 – 16)
    Quella ‘è’ (o ‘E’) isolata in un verso (pag.27, 29)

    6.
    Il titolo della sezione «Albe,rese» (che rimanda ad Alberese, Grosseto; alle ‘rese’ nel senso di arrendersi e di rendere a qualcuno qualcosa).
    7.
    «Aberrante pedale»? ( pag. 23)

    8
    «Vedo che siete, come pensavo, cocciuto/ vi porta dietro /il vostro sacco sonante, vi sento/ lamentoso e altero/ per le stanze /[Nota mia:poi versi con rientro] (e insiste il vento/ nella conca del mare, brucia/ il tramonto il cielo che affonda/ a riva/ oscilla una canna). ( pagg.24-25)
    Sempre al dialogo segue uno sguardo alla natura,un estraniarsi nella contemplazione.
    9.
    «L’Ospite» (pag. 27). Colgo il riferimento a «L’ospite ingrato» di Fortini (e forse alla sua poesia «Gli ospiti»?), ma, assieme a «Strage; Permanenza» ( pag. 29), è il testo che mi resta più oscuro….
    10.
    Sezione « L’ospite cerimonioso». Rimanda a «Congedo del cavaliere cerimonioso» di Caproni? Qualcosa tra Fortini e Caproni?
    11.
    «Nel tempo che la primavera in mare» (pag. 35). Un tono gioioso, rinascimentale… tutto natura e donne… senza storia
    12.
    «Voi che la vita educate in fiore» (pag. 36). Sonetto zanzottiano… ultraletterario.. forma e lessico d’antica tradizione
    13.
    «Sulla Mosa c’è una rosa» (pag.37). Abbandono alla rima… quasi da filastrocca…abusatissima rosa della letteratura… con morale inclusa
    14.
    «Dalle fiere selvagge che in odio hanno» (pag.38). Aumentano i riferimenti e le citazioni letterarie…. Dante qui… da festa nuziale…
    15.
    «Nel dì che ognuno invita la su’ diletto» (pag.39). Esplicito inno di festa e di cerimonia. Abbellimento del quotidiano con l’aulico. O travestimento rinascimentale di un evento familiare o poi amicale
    16.
    «Per una tenzone»( pag. 40).

    http://letteritaliana.weebly.com/la-tenzone.html
    La “tenzone” come forma poetica nasce nell’ambito della letteratura cortese in lingua d’oc nel XII sec., dove per tenso si intendeva uno scambio di liriche fra due o più trovatori per discutere intorno a un argomento di carattere letterario, morale o politico, a volte con stile raffinato ed elegante e talvolta, invece, con accenti polemici e scambi di ingiurie e oscenità. All’inizio i rimatori impegnati nella tenso si indirizzavano poesie intere, mentre dopo la metà del XII sec. si preferì una sorta di dialogo a strofe alternate, che costituivano poi un unico componimento; tale forma divenne quella normale nel XIII sec. e non erano rari i casi di tenzoni composte in realtà da un unico trovatore, che si fingeva in polemica con altri poeti. Non di rado le rime della risposta riprendevano, in tutto o in parte, quelle della proposta, nel qual caso si parla di risposta “per le rime” (da cui l’espressione ancora oggi in uso) e la consuetudine passò poi anche nelle tenzoni della poesia italiana del XIII sec. Una variante della tenso era il cosiddetto joc partit o partimen, che si aveva quando il trovatore che dava origine allo scambio proponeva un dilemma (sulla natura amorosa, per esempio, o su una questione politica) e suggeriva due tesi contrapposte, delle quali una veniva difesa con vari argomenti dall’interlocutore, l’altra dal suo avversario; non di rado veniva poi designato un terzo poeta che doveva fare da giudice e stabilire quale dei due contendenti dovesse prevalere in base alle argomentazioni esposte. La più antica tensoprovenzale a noi giunta è quella fra Ugo Catola e Marcabruno (XII sec.), che dibattono sulla preferenza da accordare all’amore spirituale o sensuale, mentre famoso è lo scambio di rime tra Raimbaut d’Aurenga e Giraut de Bornelh sullo stile poetico, con il primo che sostiene il trobar clus e il secondo che prende le difese del trobar leu (► PERCORSO: Le Origini). Come genere letterario la tenzone è affine al “contrasto” tipico della poesia popolare e giullaresca, anche se quasi sempre a un livello tematico e stilistico più raffinato, benché alcuni esempi di tenzoni presentino un’acredine personale e un motteggio più vicino allo stile “comico” e, in qualche caso, ciò è dovuto al fatto che alcune tensos erano opera di trovatori-giullari che avevano familiarità con i caratteri della poesia popolare, a volte fingendo una polemica con interlocutori inesistenti per il gusto della finzione e della beffa.

    Una dichiarazione di poetica:
    «La mia vita vedi tutta è ognor tesa/a nominar dell’olivo il sudore/ e, fra i bus, il sentore di ciliegio.»
    17.
    Sezione «Il vino». Lirismo amoroso
    Notazioni numerate di pezzi intimi o di vita familiare quotidiana, di memoria (IV).. quasi diarismo…
    Si rivolge a un tu femminile? Serenità. Raccoglimento.
    18.
    Sezione «Il figlio»
    Toni affettuosi.. .scherzosi.. d’incitamento. Ritorna insistente la rima. Epigrammicità più forte. Numerazione dei mesi (manca – mi pare – solo settembre). Composizione a moduli ( due distici rimati per ciascun mese)
    19.
    «Tu sai già – pigolio di baci, trottola» (pag. 65). Cosa sono i «gricoli»?
    20.
    Sezione «Questa notte» . In posizione conclusiva e che dà il titolo alla raccolta. Dialoga con Fortini («Le tue stanze sono alte il via Legnano/ a dito mostri i resti anneriti dei muri/ sinistri per le tracce slabbrate del novantanove») ma contemporaneamente con la figura di suo padre contadino («Ma solo a primavera, mi dice mio padre/ sapremo dei danni»). Attesa … pacatezza…
    21.
    «Stanotte ho vegliato i soprassalti del mare» (pag. 70). È come se, invece di dire cosa sente, descrivesse un paesaggio equivalente? Parla della tragedia vissuta da un migrante. La natura che accoglie come in una tomba drammi di mancanti incontro.
    22.
    «Bruno» (pag. 72). Atmosfere sempre sospese… pochi verbi.. molti nomi con aggettivo ( «gesto ritroso», «ciuffo superbo»…). Allusivo. Nel finale pare parlare di una salma: «Il referto è stato redatto. L’abito è composto./Il volto è senza pensieri. Solo i pugni/ non si sono sciolti».
    23.
    «Le nostre notizie sono ora
    i licheni discreti, tra poco
    il clamore del papavero effimero,
    il sorriso fragile dei cisti. In alto

    la burrasca» ( pag. 73)

    Le notizie sostituite dalla contemplazione della natura
    24.
    «Non è vero» (pag. 74)
    Pacatezza.. nessun risentimento… distacco..

  3. …di Velio Abati ho letto frammenti di alcune sue opere, recensioni e commenti apparsi su Poliscritture, per intero la pièce teatrale “Sera di primavera”, apparsa su un numero della rivista Poliscritture…Trovo un legame tra queste opere nel cammino tracciato dall’autore -personale e corale, difficoltoso ma convinto e ispirato- inseguendo un filo rosso di continuità tra passato, presente e, profeticamente, futuro…Del passato “seleziona” l’età dell’oro nella arcaica, agreste civiltà contadina, dai forti sentimenti e personaggi, dure lotte (“Domani”). Il presente è “Questa notte”, lunga e buia, quella dei fallimenti, degli orrori, della desolazione di una umanità sconfitta nei suoi valori, ma che, barcollando, non vi rinuncia; attraverso la poesia dal sapore rude e antico (dei trovatori, delle tenzoni…) rinnova in qualche modo la speranza di una rigenerazione. Un percorso, secondo me, ove lo sbandamento e il cadere nel labirinto del senso, cozzandovi quasi ai margini della follia, appaiono nei versi ripresi da Ennio Abate: ” Qual è/ mi dico/ il sottile legame che stringe/ la parola che convince/ a quella che vince?/ E chi non vinse/ negata amica/ allora/ non avvince?”…Mi colpiscono la rassegnazione e la tenacia del discorso.

  4. A proposti di «Che cosa/ mi dico/ separa la nostra serena terrazza/ dal perduto villaggio» (pag. 15)…

    ACCOSTAMENTI

    Accompagno queste amare note di Nevio Gambula:

    Torno da un un pranzo con mio figlio Sebastiano. Un bel momento. Che mi propone il mondo?, mi chiedo sedendomi davanti al computer. Cecchini israeliani sparano contro manifestanti palestinesi: dodici morti. I manifestanti – è lo stesso esercito israeliano a dirlo – «fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza»; i soldati prendono la mira contro «i principali istigatori» e sparano. Dodici morti. Nessun ambasciatore verrà richiamato, nessun diplomatico verrà espulso. Questa è una guerra che non interessa. Sei senza avvenire, dico a mio figlio. Lui non capisce. Un figlio è, in fondo, un modo di alimentare la speranza in un mondo diverso; ingenuo finché si vuole, ma questo pensiero di fare figli per migliorare il mondo mi appartiene. Ma il mondo fa di tutto per rendere vulnerabile la speranza. Leggendo altre notizie, mi imbatto in un articolo sulla «guerra ibrida globale di Putin contro L’occidente». È pubblicato sul sito dell’Atlantic Council, un Think Tank americano molto influente, il cui scopo è quello di «promuovere la leadership americana» nel mondo. Secondo l’estensore dell’articolo, «esiste già uno stato di guerra tra Russia e l’intero mondo democratico» e l’unico modo per fermare questa guerra «è vincere». Non hai scampo, dico a mio figlio. Che continua a non capire; alza le spalle e riprende a giocare. Nel leggere l’articolo, ho avuto la sensazione che il linguaggio si stia sempre di più adattando alla propaganda di guerra. La guerra del linguaggio, ecco; come prologo a una guerra ben più fragorosa. Cerca – dico a mio figlio – di proteggere la verità. Mentre lui mi ignora, approdo a un articolo del Wall Street Journal. E l’inquietudine aumenta. Secondo il WSJ, La Nato ha chiesto ai governi alleati di prepararsi a una guerra contro la Russia. Hai un’unica via d’uscita, dico a mio figlio; sentire la necessità di un mondo diverso. Lui si è ormai addormentato sul divano, anche se io lo immagino proiettato verso un altrove del mondo in cui il linguaggio smetterà di essere inganno.

    con questa poesia di Fortini:

    IL NIDO

    A metà marzo fra il muro e il tetto
    certi uccelli di becco ostile giallo
    nervosi miseri fanno di stecchi un nido.
    Quando è notte molto alta e non dormo
    so che stanno dietro il muro i loro nati.

    *A Praga, leggo, le teste recise dei nobili
    le chiusero in fregi di aquile e di oro.
    Da teatri profondi i valorosi umani
    cantano. Squilli dividono la notte,
    Voci chiamano altere miserere.

    Dentro il nido ignoranti esserini
    Alla frenesia della madre tremeranno.
    Griderà la fame e tutto insegnerà la madre.
    Nell’aria inorridita voleranno
    E non sapranno nulla più mai.

    *La illusione ha desrto le scene.
    Minimi popoli sono bruciati nei díodi.
    Nella tua nave paziente accogli, mi dico, le membra,
    mente pia, spezzate. Fai che sembri
    il mio un solo essere assopito.*

    Ma già quanti in cammino al primo grigio
    Dove la strage tra fosse e discariche
    Tentenna e quanti tendono le nuche.
    Sarà così. È possibile, questo, comprenderlo.
    Vicini, miei vicini, dormite nel vostro sangue.

    *Il destino che può essere compreso
    A poco a poco si fa chiaro nella stanza.
    Aspettando che quei piccoli si sveglino
    Una forma fanciulla della coscienza guarda
    il corpo tutto chiuso nel riposo.

    (da Paesaggio con serpente, pag. 85-87, Torino, Einaudi 1984)

    E questo stralcio di commento da un saggio di Pietro Cataldi:

    “Al sonno ignaro degli altri,animali e umani, tiene testa la veglia operosa del poeta.[…Che] comporta il confronto con la storia e con la coscienza. Il poeta legge di un episodio che rimanda alla Guerra dei Trent’anni, . ed è capace di congiungerne il significato alla presenza del nido dietro le imposte, al cammino anonimo per le strade all’alba. Contro l’ignoranza e la complicità degli altri prende forma la consapevolezza: «È possibile, questo, comprenderlo» e «Il destino che può essere compreso / a poco a poco si fa chiaro nella stanza». […] La sifda etica della veglia e la consapevolezza conseguita per mezzo di essa aprono la possibilità, possiamo forse dire addirittura garantiscono il diritto, di abbandonarsi a propria volta al sonno. […]«Aspettando che quei piccoli si sveglino / una formac fanciulla della coscienza guarda / il corpo tutto chiuso nel riposo». È qui conquistato un sonno che non esclude ma anzi comprende la coscienza, sia pure in una forma fanciulla».

    ( da Pietro Cataldi, Il sonno e la veglia, in «dieci inverni senza Fortini 1994 – 2004», Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa, pag. 60, Quodlibet Archivi Fortini 2006

    Nota.
    Gli * segnalano i versi della poesia in corsivo nell’originale.

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