Per ricordare Angelo Maria Ripellino

 

Raccolgo l’invito di Antonio Sagredo a ricordare  A. M. Ripellino (1923-1978), del quale il 21 aprile ricorre il 40° anniversario della morte. E propongo alcune sue poesie che ho tratto dai blog Poetarum silva e Carteggi letterari , Camera, una poesia dello stesso Sagredo che rammemora la Praga del Seicento e, infine, un magistrale saggio del 1974 scritto dal troppo dimenticato Cesare Cases, che rifletteva in modi critici proprio  sul fondamentale e famoso  Praga magica di  Ripellino uscito nel 1973. [E. A.]

Poesie di Angelo Maria Ripellino

*

Qui dentro io sono il sovrano
e mi appartengono tutti i colori:
l’azzurro del cielo-gabbiano,
l’inchiostro del mare spurgato da un pòlipo,
e le gialle campànule di un cotone stampato,
e il rosso sudore dell’arida terra,
e l’àureo torrente delle foglie autunnali.
Tutto ciò mi fu dato e sottratto e ridato
nel mio zoppicante destino, nella mia eterna guerra
per sopravvivere, in questo trèmito di acetilene,
e per troppe volte gli ho detto addio,
ben sapendo che tutto sarebbe durato
anche senza di me, anche se mi appartiene,
anche se non è mio.

*

da Sinfonietta

Un giorno sarai abbandonato,
come un riccio sull’orlo di una strada campestre.
Andrai qualche volta in cucina,
a chieder molliche
alla loro arroganza, umiliato.
Sei zavorra, sei molesto,
con quelle spine spuntate inutili,
sei cosa da regalare alle ortiche,
da mettere in un vecchio cesto,
da coprire di sputi.

*

Da Notizie dal diluvio, 1969

28.

Vorrei che tu fossi felice, cipollina, vorrei
che tu non conoscessi il cane nero della sventura,
quando sarai uscito dal blu dell’infanzia.
Vorrei che tu non debba portare bazooka,
che tu non debba tremare nel folto di un bombardamento,
che tu non debba pagare per le mie colpe
né vergognarti di me, del mio cicaleggio
e dei miei vani versi e della mia professura.
Vorrei che tu non fossi mai gramo o malato
o maldestro come Scardanelli,
vorrei vivere nella tua voce, nei tuoi gesti, nei tuoi occhi,
anche quando mi avrai dimenticato.

*

60.

Tra due-trecento anni la vita sarà migliore.
Ma intanto noi siamo ormai alla frontiera,
senza gli angeli di Elohim precipita la scala nel Novecento,
e il Duemila già sventola la sua bandiera
per coloro che sono sicuri di entrarvi.
Io resterò da questa parte, in questo buio,
in questo viluppo di meschinità e di bisogno,
senza conoscere il terso luccichìo del futuro.
A me sarà bastato visitarlo nel sogno,
come uno sciamàno che scenda con piatti e sonagli
nel reame dei morti a conversare coi lèmuri.
Resterò sulla soglia come un réprobo, come uno spergiuro.
Perché scusatemi, posteri, che freddo,
che vitreo deserto, che uniformità, che sbaragli
soffiano da quel futuro.

*

66.

Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi
mandano ancora in prigione per divergenza ideologica?
Quando esistono campi di pena e segrete e tortura,
e l’uomo è schiacciato dai soccorrimenti fraterni,
dalle moíne di una premurosa censura?

Come illudersi nella poesia, se quest’epoca prospera
barrientos, gomúlkoli, scigaliòv, papadòpuli,
enormi bolle in cui scende il Maligno, ghignando
da labbra a cuore che suggono come ventose,
ammostanti satolli, baracche di tintinnanti medaglie,
pettorali farciti, gravígradi, quaccheri,
in cui presunzione con insipienza si accòpula,
fanfalucchi nefandi che mingono dogmi, bargelli
sempre con sènapo al capo e grugnito di ciacchi?
Il pensiero, essi dicono, è un vizio che annebbia i cervelli:
e perciò liste di rèprobi, cíngoli, trappole, kàtorghe, carceri.

Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi
immergono gli innocenti in vasche di sterco e di urina
e con cachinni da iena, con frigide smorfie da volpe
dànno agli oppressi giusquíamo e scopolamina,
perché inventino le proprie colpe?

 

*

Camera di Antonio Sagredo

Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.
Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi profeta!
Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.
Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.
Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

Vermicino, 16-20 maggio 2008

 

*

Praga la maga di Cesare Cases

Libro ultrapremiato, Praga magica di Angelo Maria Ripellino (Einaudi, Torino 1973). Si avrebbe voglia di battere le mani anche noi. Perché da premiare non erano soltanto lo studioso e il sia pur troppo prezioso scrittore Ripellino, ma anche l’uomo, la sua tenacia, la sua coerenza, la fedeltà a se stesso. Quando tutti flirtavano con il marxismo, leggevano la
Fenomenologia, invocavano la società e la storia, esortavano al realismo,  nuotavano nell’impegno, egli non si spacciava se non per quel che era: un entusiasta della poesia e dell’arte, un onnivoro lettore di opere d’avanguardia, un collezionista di metafore vertiginose. La Rivoluzione russa era per lui anzitutto una rivoluzione poetica, teatrale, scenografica, e Stalin colui che l’aveva schiacciata. Questa posizione è in lui del tutto autentica, aliena dalle teorizzazioni. Se gli piace Sklovskij è perché apparteneva a un gruppo intellettuale prestigioso, non perché Ripellino sia strutturalista. Se gli piacciono le magie e i miti, è perché sono trasmutazioni, metafore, maschere, non perché abbia particolarmente in odio la ragione. Il suo stesso saltabeccare, la capacità di afferrare e unificare ciò che vi è di più disparato ed eteroclito, il bric-à-brac della storia e della cultura, non hanno niente di programmato e di ideologico, ma sono manifestazioni della sua natura, fenomeni di vulcanismo siciliano sia pure raffreddato dal gusto araldico della scuola romana, che trasforma in degustazioni letterarie anche la morte, la carne e il diavolo. Non mai abbastanza, peraltro, perché sotto le degustazioni non traspaia un soggetto senziente e sofferente, che l’istinto di rivolta lascia coinvolgere suo malgrado in zone politiche, in modo magari irriflesso, ma sempre preferibile allo snobismo apolitico di molti suoi fratelli in ispirito.
In Praga Ripellino ha trovato un oggetto altrettanto prezioso, sensibile e sofferente, sicché anche lui talvolta non sa più se parla della città o di se stesso. In effetti, è la città medesima ad acquisire le caratteristiche di un soggetto trascendentale che parla per mille pietre, immagini e libri. Questo soggetto trascendentale è una proiezione e un potenziamento collettivo del soggetto empirico che appare ad esempio nella concezione dello scrittore sottesa alla critica di Citati, di cui conserva le due connotazioni principali: l’onnipotenza e l’irresponsabilità. È una sorta di Golem che agisce irresistibilmente e la cui fine può sopraggiungere solo dall’esterno. Per questa ragione tale soggetto può essere ubicato solo in zone topografiche o cronologiche che hanno cessato di essere, anzi che spesso – come la Mitteleuropa oggi tanto di moda – diventano visibili e quindi cominciano ad esistere solo quando sono finite. Recentemente, in uno scritto autobiografico, Ladislao Mittner ricordava spiritosamente che solo l’avvento della nozione di Mitteleuropa ha posto fine all’imbarazzo in cui si trovava quando doveva rispondere di che nazionalità fosse, lui che partecipava di quattro: ora poteva rispondere di essere mitteleuropeo. li soggetto trascendentale sarà quindi, oltre alla Mitteleuropa scomparsa tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’intellighenzia ebraica massacrata da Hitler, o il teatro russo pre- e postrivoluzionario, distrutto da Stalin, ovvero Praga, soffocata dagli stivali russi del 1968 che riappaiono continuamente in questo libro. E la legge per cui il fondamento ontologico di tali soggetti mitici sta nella loro fine fa si che Ripellino sia costretto a vedere nell’intervento russo una cesura molto più apocalittica di quanto non ci auguriamo che sia, anche perché in seguito ai suoi coraggiosi articoli di allora egli non può più tornare a Praga, e si sa che i Golem crollano quando i loro creatori non possono più insufflar loro la parola vivificatrice. Ciò è solo apparentemente in contrasto con l’acronia propria di questo come di ogni mito. Nel libro si salta magari nella stessa pagina dalla Praga di Rodolfo II a quella dell’inizio del secolo, dal Golem di Rabbi Löw ai robot di Čapek, dalle magie di John Dee e dello Scotto agli happening di Hašek, dai quadri dell’Arcimboldo ai collages di Hoffmeister, dal carnefice Mydlár al Bruciacadaveri di Ladislav Fuks, uno dei tanti libri che Ripellino ha avuto il merito di farci conoscere. Poiché egli domina con invidiabile e pressoché unica competenza sia il versante ceco che quello tedesco della letteratura praghese, quindi anche il divario linguistico non importa per lui un ostacolo all’unicità e alla contemporaneità assoluta del mito. Ma unità e contemporaneità emergono nel ricordo, nella nostalgia, poiché il mondo è divenuto indegno del mito. Questo sopravvive solo come spettro. Se Praga era un fantasma perfettamente incarnato nella città di questo nome, ora gli stivali russi hanno separato le due componenti che coesistono e convivono senza identificarsi: la città morta e le fantasime che la abitavano e che tornano come puri revenants ai luoghi che frequentavano di diritto. Deliberatamente disordinato, il libro inizia con una sapiente serie di anafore che dà il senso di questo spettrale disordine: «Ancora oggi, alle cinque, Franz Kafka ritorna … a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni volta Jaroslav Hašek. .. Ancor oggi, ogni volta alle cinque, Vitězslav Nezval… Ancor oggi il Fuoco effigiato dall’Arcimboldo … si precipita giù dal Castello, e il ghetto s’incendia … e Stalin ammicca malefico dal madornale monumento, e soldatesche in continue manovre percorrono il paese, come dopo la sconfitta della Montagna Bianca ».
I revenants non sono dunque solo scrittori e artisti, ma anche le loro creature o i fatti storici. Praga è tutto questo, appunto perché è un soggetto irrazionale di cui pietre e quadri, letterati e carnefici, personaggi reali e romanzeschi sono emanazioni di pari grado. Fuori dal mito, però, senza scrittori non si fa nulla. Per dirla con Ramuz, la città non è costruita finché qualcuno non lo dice. Ripellino ci vuol far credere che il mito genera gli scrittori, ma in realtà sono gli scrittori che generano il mito, last not least il suo cantore Ripellino. Difatti sono poi gli scrittori ad avere la parola, né potrebbe essere altrimenti. Ma siccome essi appaiono, anziché come generatori, come generati dall’Ingenerato, essi appaiono tutti sullo stesso piano. Il lettore sprovveduto immagina fin dalle prime righe che
Hašek o Nezval valgano Kafka. «Solo degli storici letterari – tuona Adorno nella Teoria estetica – hanno potuto mettere nella stessa categoria Kafka e Meyrink, solo degli storici dell’ arte fare lo stesso con Klee eKubin». Ora questo è esattamente quanto accade nel libro. L’autore è dunque uno di quegli storici letterari dileggiati da Adorno? In prima istanza, no. È troppo lontano dallo storico accademico e troppo dotato di sensibilità artistica per non saper distinguere, e molti passi provano che sa distinguere benissimo. Ma il buon gusto è un debole riparo contro la forza dell’ideologia di cui egli è il rappresentante più naïf. Le sue sterminate letture gli permettono di sfruttare ampiamente non solo Meyrink e Kubin (per il romanzo L’altra parte, trasposizione onirica di Praga), ma non so quanti romanzacci ottocenteschi sui misteri di Praga, i Mastriani cechi. Non ce li gabella per capolavori, però la ghiottoneria dell’orrido lo riattira sempre, come tanti critici contemporanei, verso la Trivialliteratur. E poi, Praga non vive forse anche lí? Anzi, molto più lí che in Kafka? Certo, Kafka è impensabile senza Praga, ma non poi molto diversamente da come Leopardi è impensabile senza Recanati. La biografia di Wagenbach ritesse pazientemente tutti i fili che collegano Kafka alla sua città, ma proprio per spiegare come mai egli, pur essendo profondamente praghese e servendosi di motivi e sostrati linguistici praghesi, sia diventato l’opposto dello scrittore praghese, di un Meyrink o di un Leppin o anche del suo amico Max Brod. Se ha vissuto qualche mese nel vicolo degli Alchimisti, ha tanto a che vedere con la Praga rudolfina quanto Pirandello con i templi d’Agrigento. Egli non c’entra con le magie, le fantasmagorie, i giochi illusionistici che gremiscono il libro di Ripellino. Questa è tutta, dall’ Arcimboldo a Meyrink, arte fantastica, che, come dice Adorno, modifica l’empiria in modo da ottenere «la presentazione di qualcosa di non empirico come se fosse empirico ». Invece la vera arte moderna, «curva com’è sotto lo smisurato peso dell’ empiria, la prende cosi sul serio che le passa il divertimento della finzione». Quel che in Kafka sembra fantasia non è altro che l’allucinante verità del reale. Chi vuole il morto che parla legga Meyrink: gli potrà suggerire i numeri del lotto, oppure le dottrine esoteriche care a Julius Evola, di Meyrink grande ammiratore ed editore.
Per distinguere Kafka da Meyrink bisogna dimenticare gli uomini con la bombetta o con il parapioggia, entrambi egualmente amabili e fuori squadra, che appaiono nelle memorie di Brod o nel libro di Ripellino, smettere di considerare gli scrittori come epifenomeni, ennesime illusioni della gran maga Praga, e ridare loro autonomia e responsabilità. Non però affinché al posto del soggetto magico trascendentale riappaia quello empirico che si mette a sua volta a far giochi di prestigio «pour épater les bourgeois », bensi affinché si ricostituisca il rapporto duro, rischioso, improrogabile tra il soggetto e il suo mondo, che l’ideologia ripelliniana confonde in stravaganti penombre. Il soggetto cosi ritrovato non sarà certo privo di radici e di legami, affonderà nella propria classe, nazione, storia, trarrà succhi dalle pietre della città, e i brandelli d’esperienza di cui rivestirà la propria visione del reale saranno desunti, ad esempio in Kafka, dall’essere un ebreo praghese di lingua tedesca. Ma l’elemento decisivo sarà sempre il grado di questa visione del reale, che in Kafka trascende di gran lunga e Praga e ebrei e tedeschi e cechi, e si lascia ben addietro le fantasime che popolavano il vecchio ghetto e che si agitavano in lui come in qualsiasi altro.
Come Kafka esce continuamente, lungo e incerto, dal balletto fantastico in cui Ripellino vorrebbe costringerlo a danzare, cosi un’ altra inesorabile apportatrice di realtà, la Storia, batte continuamente alle porte della città da cui è stata esorcizzata. Là dove Ripellino eccezionalmente le concede l’ingresso non in forma di detriti da bruciare nel suo spettacolo pirotecnico, ma in prima persona, il suo soffio irrigidisce i contorni ameboidi del libro, che qui trova le sue pagine migliori. Non si tratta della storia attuale, che segna la fine del mito, bensí di quella della prima fase della guerra dei Trent’anni, che lo spezza a metà. Come il cantiniere del Wallenstein di Schiller, che nonostante sia al servizio del condottiero cattolico non può rievocare senza commozione gli antenati utraquisti e la breve stagione dell’indipendenza della Boemia, così Ripellino, che ha giurato fede all’unicità del mito, non può fare a meno di scegliere: scegliere Hus e i protestanti contro i Gesuiti, la Città Vecchia contro MalàStrana, la Praga gotica e popolare contro il tetro palazzo Wallenstein e il barocco controriformista. E nel pathos con cui racconta la tragica sconfitta della Montagna Bianca e l’esecuzione dei ventisette signori cechi che avevano capitanato la rivolta contro gli Absburgo vibra la partecipazione del Ripellino romantico e libertario, dedito alla causa del patriottismo ceco, anche se la descrizione delle «meticolose raffinatezze» del boia Jan Mydlá rientra nel gusto scenografico dell’orrendo che finirà per riconciliare nel libro la Praga barocca con quella rudolfina, Gesuiti e protestanti, e per richiudere su se stesso il mito che per un momento aveva minacciato di disgregarsi. Tra le «meticolose raffinatezze» del boia c’è quella di aver tagliato la lingua di Johannes Jessenius, rettore dell’Università di Praga (forse antenato della Milena Jesénska di Kafka), l’intellettuale del gruppo dei condannati, ponendola poi sulla testa esposta alla pubblica ignominia sul cornicione della torre della Città Vecchia. Un raffinato, certo, questo boia su cui Ripellino giustamente non nutre le illusioni dei letterati ottocenteschi, che per salvare un ceco dall’onta di aver giustiziato i patrioti immaginarono che l’avesse fatto controvoglia, o addirittura fosse stato segretamente sostituito da un altro. Ripellino, invece, contro lui e contro tutti i boia «che hanno infuriato e che infuriano ancora su Praga », non si stancherà «di gridare: in ignem aeternum, in ignem aeternum!»
Benissimo. Qui i patrioti e i boia di ieri sono accostati ai boia e ai patrioti di oggi. Gridiamo anche noi in coro: in ignem aeternum! Però se i carnefici fanno volentieri il loro mestiere in tali circostanze è probabilmente anche perché questa è una delle rare occasioni in cui dei popolani possono fare ufficialmente la festa a fior di nobili e di intellettuali, sia pure progressisti. I repressori, cattolici o stalinisti, hanno sempre speculato su questi istinti elementari. E la lingua mozza di Jessenius ci fa certo venire in mente, come a Ripellino, l’eliminazione dell’agguerrita intellighenzia di Praga, ma anche l’indifferenza con cui la popolazione, altrimenti ancor oggi cosi poco rassegnata all’intervento straniero, l’ha accol-
ta. Non rimproveriamo un’ altra volta a questa intellighenzia di non aver saputo approfittare della primavera di Praga per cercare un rapporto con gli operai e le loro esigenze. Non sta bene recriminare davanti alle lingue mozze, e abbiamo abbastanza mea culpa da recitare a casa nostra. Ma la tristezza elegiaca di Ripellino è unicamente rivolta a questa classe intellettuale, la cui fine è la fine del mito di Praga, che nessuno più incarna. Degli uomini dimessi e malvestiti, per metà qualunquisti e per metà nazionalisti, romantici e scettici, stanchi ma pieni di gentile vitalità compressa, che continuano ad animare quelle strade e quelle piazze, Ripellino non sembra farsene un gran che, almeno in questo libro. Sono veri, quindi inesistenti agli occhi del mito. Da loro, che magari lo ignorano del tutto, esso non può risorgere. Supponiamo per un attimo che Ripellino abbia torto, che l’intellighenzia messa al bando torni a riformarsi. Dopo tutto Praga è fisicamente intatta, più splendida e magica che mai, e le ombre, teste Ripellino, vi hanno ancora diritto di circolazione. Forse se in una notte illune John Dee, lo Scotto, l’Arcimboldo, Kubin e Meyrink si incontrano sul ponte Carlo accanto alla statua del turco possono ancora combinare, loro
tanto esperti nel fabbricare omuncoli e ominidi, il prodigio della creazione di una nuova leva di intellettuali, in barba ai burocrati stalinisti. Che farà questa nuova leva? Continuerà a produrre fumisterie sulfuree, romanzi d’appendice, larve bislacche, golem e robot? Insomma, ad alimentare l’insaziabile Ripellino? Se sarà cosi, non c’è da piangere troppo la fine del mito. Poiché questo mito non è altro che il mito di un’arte depauperata del suo valore conoscitivo, ridotta a pura fantasticheria e funambolismo e suggestione: un’ arte che vuole incamerare Kafka proprio perché ne è l’esatta negazione. La contraddizione di Ripellino sta nell’ aver legato questo ideale estetico, da lui sinceramente sentito ma non per questo meno disastroso, e aleggiante in cento varietà meno nobili tra intellettuali che si vogliono atemporali e irresponsabili come il mito, a un’ansia , di libertà altrettanto sincera ma cui gioverebbe solo la verità, non la finzione. Secondo una delle più accreditate versioni della leggenda del Golem, questi si sfasciava in un mucchio di argilla quando dalla scritta della sua fronte si cancellava la lettera aleph che distingue la parola EMETH (verità) da METH (egli è morto). Al Golem di Ripellino succede il contrario: egli sta in piedi finché rappresenta un mito defunto e rievocato nella memoria, mentre si affloscerebbe in un cumulo di schede cartacee non appena gli si iscrivesse sulla fronte la lettera che suggella la verità.

(1974)

Da Cesare Cases, Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, pp. 439-444, Einaudi, Torino 1985)

 

 

  • Ripellino, Angelo Maria. – Critico e scrittore italiano (Palermo 1923 – Roma 1978); prof. all’univ. di Roma dal 1961, divise la propria originale attività di studioso tra la letteratura russa (Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, 1959; Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, 1965; Letteratura come itinerario nel meraviglioso, 1968; L’arte della fuga, post., 1987) e quella ceca (Storia della poesia ceca contemporanea, 1950; Pragamagica, 1973); altri scritti sono raccolti in Saggi in forma di ballate. Divagazioni su temi di letteratura russa, ceca e polacca (1978). Curò l’antologia Poesia russa del Novecento (1954). Parallela, e forse stimolata dal suo raffinato lavoro di traduttore (Pasternak, Chlebnikov, Holan, Halas, ecc.), è la produzione poetica di R., dove il gusto della ricerca verbale e un’estenuata teatralizzazione della parola accompagnano e velano il senso tragico dell’esistenza: Non un giorno ma adesso (1960); La fortezza d’Alvernia (1967); Notizie dal diluvio (1969); Sinfonietta (1972); Lo splendido violino verde (1976); Autunnale barocco (1977). Una scelta dei suoi versi è in Poesie (post., 1990). Da ricordare sono anche i quattro racconti riuniti in Storie del bosco boemo (1975). La sua attività di critico teatrale per L’Espresso è documentata dal volume Siate buffi (post., 1989).

(da http://www.treccani.it/enciclopedia/angelo-maria-ripellino/)

6 pensieri su “Per ricordare Angelo Maria Ripellino

  1. APPUNTI

    1.
    La mia attenzione di lettore nei confronti della figura di A.M. Ripellino è recente. Ed è stata incoraggiata soprattutto dall’incontro con Antonio Sagredo che, a partire dai nostri primi scambi sulle sue poesie (le prime furono pubblicate su Poesia e Moltinpoesia il 21 settembre 2013), me ne ha molto parlato; e dal ruolo privilegiato di allievo e amico del grande slavista.

    2.
    Questo mio approccio, tardivo e non sostenuto né dalla conoscenza sia pur minima delle lingue slave né di quelle culture, su cosa si poggia? Rispondo sinceramente:
    – sull’ammirazione (in un certo senso incondizionata e un po’ da provinciale, da outsider, da periferico, verso ogni vero erudito (in letteratura o in scienze), conoscitore di lingue a me ignote;
    – sulla prossimità tra i mondi culturali e certi autori esplorati da Ripellino e quelli a cui mi sono accostato io leggendo, in traduzione, alcune opere di Kafka, Tolstoj, Dostoevskij, ecc.

    3.
    C’è poi un problema: proprio perché tardivo, l’accostamento agli autori del mondo slavo mediato da Ripellino è in me filtrato da una precedente, diversa e in alcuni tratti contrastante mediazione. Che è stata più direttamente politico-culturale e marxista: quella,cioè, di autori per me importanti come Fortini e Cases (e, meno frequentato, Giudici).

    4.
    Non direi, però, che il mio atteggiamento verso l’opera di Ripellino sia ostile. E’, per forza di cose, guardingo. Come quello che ascolta una campana, dopo averne ascoltato a lungo altre. Ed è portato a confrontare, a cogliere le differenze, i punti di attrito.

    5.
    Proprio come fa, da par suo, Cesare Cases. Non a caso, nel preparare questo ricordo del grande slavista, mi sono ricordato del suo saggio, che avevo letto non so quanti anni fa. E che, pur datato (risale al 1974) e circoscritto (ad una sola opera di Ripellino), ho voluto riproporre. Per interrogare l’opera di Ripellino da un’ottica che sento a me più vicina, malgrado oggi la concezione marxista della letteratura (di un Lukács) o paramarxista (di un Adorno, di un Brecht) di cui Cases e Fortini (e in piccolo pure io) si sono nutriti, si sia inabissata.

    6.
    Per una eventuale discussione con Sagredo o altri slavisti partirei da alcuni rilievi precisi fatti da Cases nel suo saggio. Ne ho stralciato almeno tre:

    – Ripellino «non si spacciava se non per quel che era: un entusiasta della poesia e dell’arte, un onnivoro lettore di opere d’avanguardia, un collezionista di metafore vertiginose. La Rivoluzione russa era per lui anzitutto una rivoluzione poetica, teatrale, scenografica, e Stalin colui che l’aveva schiacciata. Questa posizione è in lui del tutto autentica, aliena dalle teorizzazioni.»;

    – «Praga è tutto questo, appunto perché è un soggetto irrazionale di cui pietre e quadri, letterati e carnefici, personaggi reali e romanzeschi sono emanazioni di pari grado. Fuori dal mito, però, senza scrittori non si fa nulla. Per dirla con Ramuz, la città non è costruita finché qualcuno non lo dice. Ripellino ci vuol far credere che il mito genera gli scrittori, ma in realtà sono gli scrittori che generano il mito, last not least il suo cantore Ripellino.; -erto, Kafka è impensabile senza Praga, ma non poi molto diversamente da come Leopardi è impensabile senza Recanati. La biografia di Wagenbach ritesse pazientemente tutti i fili che collegano Kafka alla sua città, ma proprio per spiegare come mai egli, pur essendo profondamente praghese e servendosi di motivi e sostrati linguistici praghesi, sia diventato l’opposto dello scrittore praghese, di un Meyrink o di un Leppin o anche del suo amico Max Brod. Se ha vissuto qualche mese nel vicolo degli Alchimisti, ha tanto a che vedere con la Praga rudolfina quanto Pirandello con i templi d’Agrigento. Egli non c’entra con le magie, le fantasmagorie, i giochi illusionistici che gremiscono il libro di Ripellino» ;

    – «E la lingua mozza di Jessenius ci fa certo venire in mente, come a Ripellino, l’eliminazione dell’agguerrita intellighenzia di Praga, ma anche l’indifferenza con cui la popolazione, altrimenti ancor oggi cosi poco rassegnata all’intervento straniero, l’ha accolta. Non rimproveriamo un’ altra volta a questa intellighenzia di non aver saputo approfittare della primavera di Praga per cercare un rapporto con gli operai e le loro esigenze. Non sta bene recriminare davanti alle lingue mozze, e abbiamo abbastanza mea culpa da recitare a casa nostra. Ma la tristezza elegiaca di Ripellino è unicamente rivolta a questa classe intellettuale, la cui fine è la fine del mito di Praga, che nessuno più incarna. Degli uomini dimessi e malvestiti, per metà qualunquisti e per metà nazionalisti, romantici e scettici, stanchi ma pieni di gentile vitalità compressa, che continuano ad animare quelle strade e quelle piazze, Ripellino non sembra farsene un gran che, almeno in questo libro. Sono veri, quindi inesistenti agli occhi del mito».

  2. Le poesie di AMR mi sembrano straordinarie, di una semplicità razionale che sospende il fiato:
    “Vivere è stare svegli/e concedersi agli altri,/dare di sé sempre il meglio,/e non essere scaltri” rime e assonanze tra settenari e ottonari alternati.
    Se capisco la devozione di Sagredo, la immagino per il lavoro letterario di Ripellino, ma trovo incredibilmente opposte le due poetiche, l’io imperioso e sovrabbondante messo in scena da Sagredo, l’io ritirato e spettatore di Ripellino “senza conoscere il terso luccichìo del futuro./A me sarà bastato visitarlo nel sogno”.

    “Vorrei che tu fossi felice, cipollina, vorrei/che tu non conoscessi il cane nero della sventura”: a Milano a una creatura piccola e lacrimosa si dice: “puar scigulìn” (cipollina).

  3. Caro Ennio, ecco la mia poesia:

    In memoria di Angelo Maria Ripellino

    Dopo tanto sfolgorìo
    Dopo tanto logorìo
    O incantato esploratore
    Delle lettere slave
    Instancabile cesellatore
    Di fantasiosi accenti
    Hai serrato per sempre
    La tua bottega di portenti
    E hai tolto l’insegna:
    U zlaté studnie.
    La Praga di Jaroslav
    La Mosca di Anna e Marina
    La Pietroburgo di Aleksandr
    Ti chiamano al Gran Festino…
    Va’ non tardare
    Sei tu l’ospite d’onore –
    Angelo Maria Ripellino.

    Ciao e buona notte! Paolo

  4. <<>>>
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    Come al solito Cris è arguta: vi è una distinzione netta fra “le due poetiche”, e questo è diretto a chi mi ritiene ripelliniano erroneamente.
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    Cercherò di coinvolgere l’amico Giuseppe Dierna (dopo Ripellino giustamente il più grande boemista) per rispondere a quanto scrive Ennio Abate… ieri sera al Teatro di Villa Torlonia in Roma si è svolta una serata dedicata allo slavista… il luogo in cui si è svolta è semplicemente stupendo. Dierna ha organizzato tutto: egli stesso mattatore e lettore declamatore efficace dei versi ripelliniani… gli interventi di studiosi e critici ed ex-allievi hanno scandito il ritmo della serata con le loro testimonianze – il sentimentalismo bandito: non era il caso – Sono Intervenuti lo slavista Cesare De Michelis, Daniela Di Sora, Ubaldo Soddu, Il sottoscritto (D.P.A.), Gianfranco Evangelista.

  5. …trovo molto belle queste poesie di Angelo Maria Ripellino, scritte senza enfasi, ma dall’irresistibile movimento musicale. Le parole vi hanno un corpo e una certezza assoluti e scolpiscono immagini e concetti, come stele istoriate, porte che mettono in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti…

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