Quartine di Omar Khayyam

traduzione di Virginia Arici

Nelle librerie si possono fare gli incontri più disparati. Fu così che molti anni fa in una libreria di libri di seconda mano a New York mi capitò fra le mani un libretto elegante per veste grafica e piacevole da vedere come da leggere; si trattava del Rubiayat di Omar Khayyam, matematico, poeta e filosofo persiano vissuto fra il 1048 e il 1131, nella versione inglese di Edward Fitzgerald che aveva reso nota la collezione al mondo anglosassone, con illustrazioni di Edmund J. Sullivan. Quell’esemplare della Old Ivory Library of Beloved Book divenne mia per pochi centesimi, e da allora mi ha fatto compagnia sugli scaffali di casa.
Molto è poi stato detto e scritto; Fitzgerald aveva adattato i versi del poeta persiano al gusto inglese, la sua traduzione dunque era men che perfetta, altre ne sono uscite più fedeli. Fitzgerald presenta un poeta vecchio e disilluso, con poche speranze sul destino dell’uomo, che invita a bere con lui e a cogliere il momento. Si dice invece che Omar avesse fatto un’opera essoterica, figlio di uno zorostraiano convertito all’Islam, o che addirittura un poeta di nome Omar Khayyam non sia mai esistito, ma tutto questo non ha molta importanza.
Non so se la mia traduzione in italiano di poche quartine possa rendere il fascino dell’originale, ma sicuramente il lettore curioso potrà proseguire la ricerca su internet e conoscere meglio questo antico maestro. [V. A.]

I
Sveglia! Poiché il Mattino nella Coppa della Notte
Ha scagliato la Pietra che mette in Fuga le Stelle
E Guarda! Il Cacciatore dell’Est ha catturato
La Torre del Sultano in un Cappio di Luce.

 

II
Sognando quando la Mano sinistra dell’Alba era nel Cielo
Sentii una voce dalla Taverna gridare:
“Svegliatevi, miei Piccolini, e riempite la Coppa
Prima che il Liquore della vita nella sua Coppa si secchi”.

 

III
E, mentre il Gallo cantava, quelli che stavano davanti
Alla Taverna urlarono: “Aprite dunque la Porta.
Sapete quanto poco dobbiamo restare,
E, una volta partiti, non possiamo più tornare”.

 

XI
Qui con una Pagnotta di Pane sotto il Ramo,
Un fiasco di Vino, un Libro di Poesie – e Te
Vicino a me che canti nella Solitudine –
E la Solitudine è Paradiso sufficiente.

 

XII
“Quanto è dolce la Sovranità mortale” – pensano alcuni:
Altri: “Quanto benedetto il Paradiso che verrà!”
Ah, prendi il Contante in mano e lascia perdere il Resto;
Oh, l’audace Musica di un Tamburo lontano!

 

XIV
La Speranza Mondana su cui gli uomini mettono il loro Cuore
Diventa Cenere – o prospera; e subito,
Come Neve sulla Faccia polverosa del Deserto
Illuminando una breve ora o due – è andata.

XX
Ah! Mio Amato, riempi la Coppa che pulisce
Oggi dei Rimpianti dell’Ieri e delle Paure future –
Domani? – Che importa, Domani potrei essere
Io stesso con i Settemila Anni dell’Ieri.

 

XXIII
Ah, trai il massimo di ciò che possiamo ancora godere,
Prima che anche noi nella Polvere Scendiamo
Polvere alla Polvere, e sotto la Polvere, giacere
Sans Vino, Sans Canzone, sans Cantante e – senza Fine!

 

LII
E quella coppa capovolta che chiamiamo il Cielo,
Sotto il quale strisciando viviamo e moriamo,
Non alzare la tua mano verso di lui per Aiuto – poiché Egli
Continua a girare impotente come Te o me.

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