I giovani e la sinistra dopo le elezioni del 4 marzo

Dialogando con il Tonto (22)

di Davide Sgrò e Giulio Toffoli

Sono ormai settimane che non sento più il Tonto. Non si è fatto vivo e non ne so proprio nulla.
Un giorno decido di andare a fare un giro a Milano, una specie di pellegrinaggio fra librerie, bancarelle e memorie di un tempo ormai inesorabilmente perduto nelle storia. Mentre mi avvio verso la Statale per puro caso vedo uscire da una fermata del metrò un mio ex studente. Lo saluto e gli chiedo come vadano i suoi studi, mi risponde che è felice di vedermi e pur dovendo andare a lezione ha un attimo libero per me. Allora ci sediamo in un bar in piazza S. Stefano. Troviamo un posto abbastanza riparato e iniziamo a parlare del più e del meno. Mi racconta della sua avventura a scienze politiche, della laurea triennale e del nuovo percorso che sta facendo fra soddisfazioni e piccole e grandi disavventure.
Poi cerco di capire quel che pensa dei risultati elettorali e della nuova realtà che si palesa di fronte a quella che un tempo chiamavamo “sinistra”. Dinnanzi a noi stanno infatti due scadenze tradizionali dei movimenti di sinistra, il 25 aprile e il 1 maggio, che in qualche modo sono un termometro dello stato di salute di quello che è stato per decenni un soggetto politico decisivo sulla scena mondiale.
Allora gli chiedo: «Caro D. il 25 aprile e il primo maggio sono alle porte. Andrai al corteo?»
Mi risponde, non senza che nella sua inflessione di voce noti un qualche segno di incertezza: «Come ben sai, studio scienze politiche proprio a qualche isolato da qui. Fra le facoltà è ancora una fra le più vivaci. Qualche cosa è sopravvissuto dell’antico spirito … ma non molto. Si, anche quest’anno sarò in piazza, ma devo dirti la verità: giorno dopo giorno sono sempre più sconfortato, disilluso e amareggiato da quel che vedo intorno a me. Da un po’ di tempo mi domando se, al di là delle celebrazioni in occasione di queste ricorrenze, abbia ancora senso per un ragazzo della mia età identificarsi con la sinistra, un’area politica che in Italia sembra estinta».
«Addirittura estinta, – gli rispondo – come mai un giudizio cosi radicale? Pensi insomma che la sinistra abbia davvero esaurito il suo ruolo nella società?»
«No, non dico questo. – mi risponde anche se con un accento incerto – Penso piuttosto che la sinistra abbia smarrito da tempo la sua identità e i suoi valori, abdicando e riducendosi a fare la portavoce di scelte politiche che non hanno nulla a vedere con la sua storia e la sua funzione sociale. Intendiamoci, parlando di “sinistra” non voglio esprimere un concetto generico o astratto, mi riferisco soprattutto ai suoi protagonisti nelle istituzioni, partiti e persone, in Italia come in Europa».
«Parliamone, – cerco di incalzarlo – fammi degli esempi …».
«Senza tornare eccessivamente indietro nel tempo, negli ultimi cinque anni nel nostro paese si sono succeduti tre governi incarnati da un partito, il PD, che ha il coraggio di definirsi di “sinistra”, o se si vuole essere più precisi di “centrosinistra”. L’ultimo di essi, l’esecutivo guidato da Renzi, solo per citare alcuni dei suoi provvedimenti principali, ha smantellato diritti e tutele dei lavoratori frutto di lotte e di compromessi di anni con il Jobs act, ha riformato la scuola con la cosiddetta legge sulla Buona-scuola introducendo un sistema di alternanza scuola-lavoro che favorisce un vero e proprio sfruttamento dei giovani, ha infine tentato di riformare maldestramente la Costituzione.
Possiamo considerare queste come delle politiche di sinistra?
Al di fuori del PD le diverse realtà di quella che si suole comunemente chiamare “sinistra radicale” sono oltremodo frammentate e litigiose; anche quando tentano di unirsi, penso al caso di Liberi e Uguali, lo fanno male, a ridosso delle scadenze elettorali, partorendo delle liste composte per lo più da persone che, già presenti in Parlamento, hanno votato i peggiori provvedimenti. Proprio quelli che ti ho indicato poc’anzi.
Davvero non ci siamo!»
Cerco allora di allargare lo sguardo e gli chiedo: «Questo per quanto riguarda l’Italia. In Europa le cose vanno meglio o i tuoi dubbi si allargano fino a interessare l’intero continente …»
«Guarda – mi risponde – se allarghiamo un attimo l’orizzonte all’Europa, finiamo di male in peggio. Tutti i principali partiti socialdemocratici, dopo decenni passati a fiancheggiare le destre, se non addirittura a imitarne le politiche, penso ad esempio alla Francia di Hollande, sono ormai al collasso. E’ un fenomeno quasi universale. In Grecia la speranza incarnata da Tsipras di un governo più giusto verso dei cittadini ormai stremati dalla crisi è miseramente crollata con l’imposizione di politiche durissime da parte della Troika.
E’ pur vero che ci sono delle eccezioni infatti esistono dei partiti, nati di recente in alcuni paesi europei, che rappresentano una buona fetta di elettorato, basti pensare a Podemos in Spagna, alla France Insoumise e alla Linke tedesca. Tutti soggetti di una certa importanza ma anche questi presentano diversi limiti che non vanno sottovalutati. Insomma all’orizzonte non vedo prospettive particolarmente incoraggianti».
Sono a corto di argomenti, mi aspettavo dal mio giovane amico un quadro meno duro e allora aggiungo: «Hai dipinto uno scenario a tinte fosche. Giunti a questo punto davvero mi sorge naturale la domanda cosa può spingere ragazzi della tua età a potersi dire di sinistra? Ed esiste ancora un significativo universo giovanile di sinistra?»
Mi guarda e sorbisce lentamente la bibita che abbiamo ordinato e poi: «Bella domanda! Come ti dicevo all’inizio quello che mi trovo a vivere – e penso di essere in buona compagnia – è un periodo di grande confusione e di scoraggiamento generale; le situazioni che ho sinteticamente passato in rassegna, poi, aiutano solo in parte a venirne fuori, ovvero nella misura in cui le si ritengano un buon punto di partenza per stabilire cosa voglia dire essere di sinistra, o, meglio, non attuare politiche di sinistra. Ciò detto, se mi metti con le spalle al muro, ti rispondo che sì, nonostante tutto, sono convinto che abbia ancora senso oggi per un ragazzo della mia età essere di sinistra».
«Esatto – aggiungo – ti voglio ulteriormente incalzare: quindi perché oggi un ragazzo dovrebbe essere di sinistra?»
«Chi riesce ad osservare ancora con un minimo di spirito critico quanto gli accade intorno, o che certe situazioni le vive in prima persona sulla propria pelle – e siamo in tanti, purtroppo –, vede quotidianamente la crescita delle diseguaglianze sociali, in una realtà dove fasce sempre più ampie della popolazione si ritrovano ad avere lavori estremamente precari, se non ad essere in uno stato di disoccupazione permanente. Assistiamo allo scontro del povero contro il povero: spesso e volentieri la colpa di queste drammatiche condizioni economiche e sociali viene data ai migranti – si vedano discorsi come “vengono qui a rubarci il lavoro” o “prendono 35 euro al giorno”, e via dicendo –. Senza dimenticare uno sguardo allo scenario internazionale, dove dei veri e propri imperialismi si fronteggiano inseguendo il proprio profitto sulla pelle delle persone. Tutto ciò non può e non deve lasciarci indifferenti. Battersi per la riduzione delle diseguaglianze, riscoprire e ricostruire il senso di appartenenza a delle comunità, ampliare gli spazi di partecipazione politica e di lotta: ecco i punti di forza di una politica sinistra che dovrebbe vedere i giovani in prima fila. Qui risiede, a mio avviso, il motivo profondo di un essere di sinistra e il vero e proprio compito a cui siamo chiamati noi giovani oggi».
Vedo che sta guardando con crescente attenzione l’ora e mi rendo conto che deve andare all’università, infatti mi dice: «Devo correre mi aspetta una lezione e nonostante tutto bisogna seguire se non si vuol perdere uno spazio che si è conquistato a fatica».
Lo saluto e lo ringrazio. Si alza con quella vivacità che è il marchio della gioventù e mi sorride.
Lo vedo sperdersi nella folla anonima di via Larga impegnato a trovare una sua strada fra tanta gente che si muove senza requie in questa strana corsa che è la vita.

6 pensieri su “I giovani e la sinistra dopo le elezioni del 4 marzo

  1. Sempre in giro…giro a far emergere le vere ragioni e forse sarebbe meglio rileggere la famosa canzone di Gaber ?

      1. basta rileggere le parole della canzone di Gaber ….e vedere dove siamo arrivati ..precursore della linea del non ritorno …?

        Tutti noi ce la prendiamo con la storia

        Ma io dico che la colpa è nostra

        È evidente che la gente è poco seria

        Quando parla di sinistra o destra.L’ideologia, l’ideologia

        Malgrado tutto credo ancora che ci sia

        È la passione, l’ossessione

        Della tua diversità

        Che al momento dove è andata non si sa

        Dove non si sa, dove non si sa.

  2. …sembrano convergere le idee del giovane studente con quelle del vecchio professore, che lo interroga sulla situazione po
    litica attuale…il giovane denuncia l’estinzione della sinistra in Italia, ma si sente collegato ai valori che la rappresentavano e guidavano in tempi migliori. Mentre durante il ’68, il movimento studentesco e operaio si contrappose al mondo degli
    adulti sulla base di una nuova visione del mondo, ma fu anche uno scontro generazionale…Durante la Resistenza, la contrapposizione, credo, non fu generazionale, piuttosto legata alla scelta del campo e dei valori per cui combattere o alla ribadita lealtà-fedeltà verso le idee dei padri…Nel dopoguerra, come emerge dal racconto dei ricordi di Giorgio Mannacio nel post precedente, il ragazzo cresce e si forma nelle sue convinzioni, confrontandosi con coetanei adulti, non si avverte un salto,
    ma una continuità…
    Cercavo spiegazioni di questi diversi comportamenti nel rapporto tra giovani e vecchi…l'”armonia” di oggi non mi suona molto positiva…

  3. Invece oggi c’è tanta, troppa discontinuità. Un esempio in questo scambio su FB tra me ed un giovane amico che, preferisco lasciare anonimo, a proposito di un articolo pparso su DOPPIO ZERO (che si legge qui: http://www.doppiozero.com/materiali/la-tirannica-liberazione
    *
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    Ennio Abate
    “Si tratta forse, però, di fare i conti con quello che la nostalgia del ’68 ci ha lasciato come eredità tossica, ovvero il nostro continuo dissociarci, in nome della decostruzione e dell’intransigenza, dai luoghi di effettiva elaborazione dell’azione politica e culturale. E portare forse finalmente lì, nei luoghi della costruzione, nelle articolazioni del sistema – che non è il migliore possibile, ma l’unico entro il quale si possa agire – l’efficacia del pensiero radicale, sganciato dal ribellismo e dall’attesa messianica – che si risolve in inconcludenza – della rivoluzione. Forse il nostro ’68 è questo: liberarci dal modello tirannico della liberazione assoluta, smettere di percepirci come arrivati dopo, e costruire una critica del presente che sia a immagine della nostra fantasia. ”

    Le timidezze verso il “Tirannico ’68” non fanno che produrre un “nostro ’68”, che in effetti è la continuazione inconsapevole ( perché nell’articolo si resta nelle maglie dello psicologismo generazionale) di una delle idee del ’68: ” la lunga marcia nelle istituzioni” (alla Dutschke, alla Capanna).

    Non mi pare che si esca dal dilemma rivoluzione/riformismo al di là della formulazione un po’ caricaturale che si dà dei due modelli: “I reduci ci mostravano la loro irriducibilità come un trofeo castrante: dovreste fare come abbiamo fatto noi, ma non riuscirete mai a fare come noi. Dall’altro lato c’era chi ci diceva invece che il ’68 non era poi stato un gran che, e anzi era stato l’inizio della fine, la consacrazione dell’individualismo edonista, il motore di uno sfrenamento del desiderio che aveva aperto la strada al consumismo e al trionfo delle ideologie liberiste.”

    X-
    A me interessa l’appello a fare teoria a partire dal presente. Poi, è vero, suona un po’ riformista l’articolo, però mi pare che sottolinei bene la necessità di interagire con le istituzioni: il che vuol dire i luoghi in cui si istituisce il nostro stato di cose, almeno per me (non solo lo Stato, insomma; anzi, lo Stato sempre meno). Anche l’immaginario, per dire, è un’istituzione.
    Perché poi chiamare “psicologismo generazionale” un semplice e tutto sommato utile sforzo autobiografico? Possiamo e dobbiamo sforzarci di fare discorsi su struttura e sovrastruttura, ma la nostra esperienza individuale (pure nelle sue articolazioni sociali) resta un criterio di verifica insostituibile. Altrimenti ci occupiamo solo di economia e di tecnica militare; ed è inutile scrivere poesie.
    Anche il ’68 è stato un fatto generazionale: è stato possibile in un preciso momento non solo economico e politico, ma anche demografico. Il fatto che la mia generazione rifletta di più su queste cose, rispetto a chi queste cose ha provato semplicemente a farle, non è la malattia, è il *sintomo* che c’è qualcosa che fa problema in termini sistemici. Se è così, anche se io per primo sento la necessità di studiare e discutere Marx, ben venga ogni tipo di contributo, ogni tipo di esperienza, “psicologistica” o meno che sia. Non si può mica chiederci di far la rivoluzione per conto d’altri e pretender che funzioni.

    Ennio Abate

    1.
    Con le istituzioni “interagiamo”( nel senso che *siamo costretti a*) sempre. Bisogna giudicare i modi e chi e quanti da questa “interazione” s’avvantaggiano o ci perdono. (Evito ogni casistica). Non si scappa, comunque, dall’aut aut che ho riassunto nella formula riformismo/rivoluzione ( i due poli estremi di comportamenti che nella pratica possono essere vari, ambivalenti, sfumati, indecisi, ecc.).
    2.
    Non ho nulla contro l’autobiografismo o l’«esperienza individuale» o il «fatto generazionale». A patto che non diventino ( e a me pare che oggi sia accaduto) passpartout abbastanza facili e sostitutivi di una visione politica e storica che non si è in grado di ridelineare. Nel caso di Paolo Gervasi ( che non conosco) a me pare che se ne serva – consapevolmente o meno – per sostenere posizioni timidamente riformiste.
    3.
    Il ’68 fu movimento complesso, contraddittorio e in esso furono compresenti varie spinte. Anche per questo ognuno lo può tirare dalla sua parte. Non può però essere ridotto rigidamente a «un fatto generazionale» o a fatto esclusivamente politico o solo economico o solo sociale. Fu *anche* generazionale ( ma tra l’altro).
    4.
    Sarebbe sempre meglio evitare generalizzazioni ( “noi del ‘68”, “noi del ‘77”, “la mia generazione”). Comunque non è vero che tu o la tua generazione (se parli a nome di essa) riflettiate « di più su queste cose, rispetto a chi queste cose ha provato semplicemente a farle ». Ci fu produzione alta di teoria anche allora ( e da parte di giovani come Krahl e di anziani come Sohn-Rethel o Castoriadis, ecc. ) e ci fu un attivismo antiteorico come in certa misura anche oggi.
    5.
    Sì, l’approccio psicologistico o generazionale ( o romantico o desiderante) « è il *sintomo* che c’è qualcosa che fa problema » e quindi non lo butterei via, ma è il suo uso unilaterale che non aiuta a chiarire quale sia il problema…

    X –
    Sono d’accordo su tutto, anche su Sohn-Rethel e Castoriadis (Krahl, nella mia ignoranza, lo scopro ora grazie a te: mi sembra a dir poco interessante e ti ringrazio).
    Il fatto che con le istituzioni noi interagiamo sempre, che ci piaccia o no, è assodato: quello che mi è piaciuto soprattutto di questo pezzo è appunto che lo sottolinea, ravvisando nell’etica contestataria delle forze populiste un principio di degenerazione di qualcosa che era già nel ’68 o, se preferisci, in un certo ’68. Poi son d’accordo anch’io che dobbiamo chiederci molto di più, in termini di profondità di analisi.

  4. …trovo questo un problema molto complesso. Riflettendoci ancora, per vita vissuta in un'”armonia” apparente non mi riferisco alla continuità o allo sforzo di continuità nella conoscenza (e scelta)delle lezioni e delle azioni, quelle migliori, del passato ( il giovane che dialoga con il prof. mi sembra un buon esempio). E’ la discontinuità infatti che, in molti casi, genera un appiattimento sulla realtà presente…vengono meno gli strumenti minimi di difesa: ma anche questo è un obiettivo perseguito dal sistema che sa mettere in atto interventi “educativi” dalla nascita molto efficaci. I giovani che dialogano senza barriere generazionali sono saggi, altrettanto i vecchi che sanno confrontarsi…L’età comunque non è lo spartiacque per nessuna verità…Aiutiamoci!

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