A vocazzione. Pezzo in lavorazione (1)

Via Sichelgaita 48 – Salerno 2017 ( da Google Maps)

di Ennio Abate

Capitolo 2

 

A vocazzione inizia a Salierne? Sì, in via Sichelgaita 48. Nell’appartamento al terzo piano che Mineche aveva comprato e abitava con Nannine, quando si era congedato da carabiniere e s’era sposato con lei. Ah, non a Casebbarone!  Eh no,  là, nella casa di sua madre Fortuna, la sarta,  Nannine aveva partorito    nel ’41 e nel ’42 e criature –  Chiero e Eggidie. C’era tornata per lo scoppio della guerra.  Perché Mineche era stato richiamat’e sotto le armi.  Ma c’era  ‘nmiezze pure nu suicidie.  La sua vicina di via Sichelgaita, a mugliera e nu ferroviere, s’era buttata dal ponte di via Arce sui binari sotto  un treno. E proprio  all’ora in cui sapeva che il marito era in servizio su quel treno. Nannine  era molto amica di questa  signora. Sapeva molte cose di lei e che  il  marito la tradiva e  che lei era gelosa e ne soffriva. E figurati –  Nannine è state sempe paurosa – quando cominciarono ad interrogarla polizia e carabinieri. Da sola  nell’appartamento accanto a quella della suicida non  ce la faceva più a restare.  E così se ne tornò dalla madre a Casebarrone.

Nella casa di via Sichegaita vanno ad abitare quando finisce la guerra.   E’ un  posto nuovo per Chiero e il fratello. Sono curiosi  e spaesati.  Basta con la casa di nonna Fortuna. Basta con quelle stradine, che appena avevano cominciato a conoscere. Alcune neppure asfaltate. Che s’insinuavano nella campagna. Casebbarone, Acquamele, Saragnano, Barunisse e Antessane. Un pentagono di paesotti. Pochi chilometri di distanza tra loro. Li esploreranno sempre a piedi e qualche volte sulla bicicletta dei cugini Alfano più tardi quando torneranno  d’estate  in vacanza. Spazio-mondo chiuso e  abbastanza protetto. Soprattutto perché ignoto.

Il nome della via non ti suona strano e duro? Si-chél-ga-ì-ta. Sì, una  principessa normanna. Saputo dopo, tardi, molto tardi. Allora era  un semplice suono. Non una principessa. Non  un blocco ignoto  di storia.

«Addò state mò?». «Eh, stamme ‘ncopp’a Via Sichelgaite…’. Cumme si une ricesse: fore e Salierne. Sichelgaita. Che nome strano, straniero. Una principessa normanna. I Normanni? Hanno comandato qui. Tanto tempo fa. Sulla collina c’è rimasto  o’ castiell’e. È mezzo rovinato. Vai a Lungomare e da lì lo vedi bene. Sulla cima della collina. Ci arrivi pure da Via Sichelgaita. Continua a camminare. Vai oltre le ultime case contadine. Sì, dopo quella di De Sio. E dopo quella della contadina che, nei primi giorni  -eravamo appena  arrivati -  ogni mattina  bussava il campanello di casa e ci portava la bottiglia di vetro  con il latte. Nannine  diceva che si beveva solo dopo che era  bollito. E poi la gara a chi si fregava più panna. La via continua miezz’e muntagne.  O guaglione e primm’e iuorne nun scenne manche  fore  nzieme a l’ati guagliun’ie  ca  facevane a bande.  Assettate pe terre, se ne stann - isse o o frate - ‘ncopp’ao balcone ra palazzine, ca ere o nummero 48 e Vie Sichelgaite.  'nfilene l'uocchie tra le colonnine e  spiano se passa  qualcuno.

Cercavi di memorizzare. Quella era la consegna dei prof d’allora. Che fatica. Leggevi e poi ripetevi a Nannine.  Quella volta – era  in prima o in seconda media? –  era a letto malata. Per cosa?  E tu le ripetesti svogliato alcune date e quei nomi – Altavilla, Roberto il Guiscardo (l’astuto). A un ragazzo d’allora, di quella famiglia, non dicevano nulla. E poi, dopo aver mangiato, correvi a scola e piazza Malta. La tua classe faceva  il secondo turno. E  andavi a comprare un quaderno nella cartoleria. E ti sedevi con uno dei compagni di classe. Volti e nomi tutti dimenticati.  Sì, vorresti rivedere tutti i i volti che hai incontrato. Bene, male.  Sarebbe bello e inutile. Ma bello, sì. Di tutte quelle ore passate su quei banchi di legno pesanti e immobili (come il fascismo?) ricordi niente o quasi. Una volta avevi mangiato  pene e marmellata e non so se allora ti lavavi i denti tutti i giorni.  Con uno di loro avevi parlato dell’anno Duemila. Lontanissimo. Non sapevate se ci sareste arrivati.  E la volta che finisti al Pronto soccorso degli  Ospedali Riuniti,  su un’auto strombettante che ti aveva raccolto? Risvegliato tra le braccia  di un vigile. E poi su una  brandina.  E  Mineche  che arrivò di corsa lasciando il magazzino di Salentine.  Un colpo  al cranio e un colpo  alla caviglia. Tutto dalla parte destra. Travolto da una Topolino, per fortuna. A lungomare. Bella giornata.  Bel sole. Accecante. Una certa stanchezza. Eravate appena usciti dalla sala buia del cinema Augusteo. Un film ambientato in India. Parlava di  Kim.  Ti aveva impressionato la scena dei macigni bianchi che rotolavano giù da una montagna. Addosso a chi? E tu attraversavi la strada con altri compagni di classe. Chiero, tu dei Normanni avevi saputo quattro notiziole dal libro di storia della media. Un manuale con illustrazioni – personaggi e cartine geopolitiche – tutte in grigio.  Edizioni da dopoguerra.  E un discorso impenetrabile. L’avessi conservato. Ma che te ne fai, ti dicevano, ti dicevi. Vivi, corri,  non avere le braccia ingombre di palline, birilli, libri e libretti. Simbolini del passato che la tua memoria ha depositato nei tuoi omini  disegnati. anche questi di fretta.  La nostalgia a volte ti fotte, ti annebbia. Ma come, da vecchio ricompri dalla bancarella di Giussani  “I cinque libri del sapere” della Garzanti, che tuo padre t’aveva comprato  a rate? E che volevi riprovare? L’emozione del divoratore di libri di allora? Eri al ginnasio o al liceo?

C’era  il castello, o castiell’e. Che si chiamasse di Arechi lo sapesti tanti anni dopo. Da ragazzi e da giovani non ci si cura della storia. Era stato costruito nell’epoca (quale?) in cui quella regina era vissuta. Ma tracce dell’epoca normanna erano anche nell’architettura del Duomo. Anche questo lo sapesti tardi. Non importa. Con me non  devi giustificare la tua ignoranza. Dal libro di storia dell’arte. Il Carli e Dell’Acqua. Anche questo libro  aveva illustrazioni solo in bianco e nero. Sì, soliti libri del dopoguerra editi al risparmio. E quand’è che t’accorgesti che avevi vissuto SA  in un tuo piccolo medioevo immaginario? Tardi, sempre più tardi. Quando cominciasti a fare gli esami di storia medievale alla Statale con Martini. Cazzo, ti sentivi combattuto. Stavi a MI o a SA? Stavi nel medioevo o nel Novecento? Mentre studiavi i libri di Gioacchino Volpe o di Ernesto Sestan per dare l’esame a te venivano in mente i luoghi medievali di SA. E che volevi fare? Tornare là in mezzo a quella viuzza che portava al Duomo, metterti a scrivere di quando stavi in mezzo ai preti e in una città dove di preti e di seminaristi a passeggio se ne vedevano tanti?

Il loro appartamento era una palazzina di tre piani. Le pareti esterne  te le ricordi gialline. Un portone alto, massiccio a cui si accedeva da una doppia e breve scalinata.

A piano terra  a famiglie ro surde. Dormivano  in quattro in uno stanzino che dava sulla scalinata e di giorno nello scantinato che dava sulla strada senza servizi igienici. Prima dell’alba  o surde sollevava con un gancio il tombino di ghisa della fogna appena costruita e che stava, proprio lì, al centro della strada.  E versava dentro il  bidone  coi liquami di famiglia. La porta  dello scantinato  era quasi sempre aperta. E tu - ma non solo tu, tutti - quando  passavi non resistevi a guardare in quell’interno ombroso, poco illuminato e maleodorante. Era sempre lì. Passava quasi tutta la sua giornata  a fare lavori da elettrotecnico. Riparava radio. Allora ancora a valvole di vetro, piccole cupole che racchiudevano architetture di filamenti metallici. Voi avevate la Marelli. Ma  sotto Natale quel suo scantinato incuriosiva il doppio, il triplo.  O surde costruiva un presepe così grande che nessuna stanza d’appartamento avrebbe potuto contenerlo. Cominciava i preparativi agli inizi di dicembre. Accostava alla lunga parete di fondo  ampi e robusti tavoli. Da dove li prendeva? E vi faceva crescere sopra, giorno dopo giorno, una intelaiatura che vi stupiva. Pezzetti di legno, segati nelle giuste misure. Li inchiodava  con brevi colpi di martello. L’impalcatura  - archi e  travature .  ben calibrata solidissima. Poi segnava in anticipo con gessetti colorati i punti da illuminare: la grotta della  sacra famiglia , i palazzi del re Erode , le casette dei pastori. Infilava piccole matasse di fili elettrici. Ricopriva tutto con carta da pacchi marrone scuro spiegazzata e arricciata. Spruzzi di tempera di vario colore fingevano picchi nevosi,  radure e vegetazione. Muschio e pungitopo, sabbia e sassolini  ordinavano gli spazi orizzontali.  Alla fine  per te quel presepe  è diventato Via Sichelgaita. Si  sono sovrapposti fino a combaciare due ricordi - del presepe ro surde  e della via di quegli anni -  fissati  nel senza tempo della tua  memoria. Era come vedere  la sezione  di SA  che avevi abitato da lontano. Da un peschereccio in mezzo al golfo?  Palazzi e casette  dalle architetture semplificate s’aggrappavano ai  pendii verdeggianti come quei pochi che allora si vedevano  nei dintorni. Anche le  immobili statuine dei pastori erano ai loro posti. Nel buio stanzone le luci colorate si accedevano e spegnevano. E noi ragazzi, invitati a lavoro finito ad entrare e a non più spiare di  sfuggita, c’incantavamo dietro le figure di pastori, macellai, pescivendoli, acquaioli, falegnami.  Un’immobile società  d'altri tempi dispersa fra balzi, valloni, sentieri e anfratti.

Via Sichelgaita allora era stata appena sterrata. Solo più tardi fu lastricata a pavé con pietre nerastre, trasportate assieme a sabbia scura da camioncini [tipologia?] e disposte lentamente dagli operai [ poi martellate…ecc]. Al lato della salita c’erano alcuni lampioni  su pali di legno, uno ogni duecento metri circa. Salendo, prima di arrivare alla palazzina gialla, c’erano solo due edifici: un’altra palazzina, anch’essa a tre piani, dove a pianoterra abitavano  la  numerosa famiglia dell’operaio dei telefoni  Martino… e ‘a Marfitana e poi al primo piano i parenti dei Giarletta…il nipote Paolo..con la pelle scura.. calabrese. . e al secondo la famiglia  Iemma. Subito dopo veniva l’edificio poderoso e con un vastissimo terrazzo dei Bonomo. Poi , dopo la nostra, la villetta dei Forte e, dove la strada curvava, un palazzo di quattro piani. Al primo c’erano i Laurenzi, marito e moglie chirurghi. Al terzo la madre del dottore. I  Bonomo e i Laurenzi erano per voi  i “ricchi”. E Nannine  andava  qualche volta a far visita alla madre del  dottore. Era stata la sua madrina di cresima. Lì abitava pure un’altra famiglia Iemma. Anch’essa di ricchi? Di un altro genere. Avevano, a pianoterra del condominio, una enorme cantina con botti gigantesche. Commercianti di vino. Rosario ti  ha detto che il vino buono lo consegnavano agli ufficiali,  l’annacquato alla truppa. E in quel tratto di strada – uno slargo che permetteva le manovre dei carri (e  più tardi del primo autobus che cominciò a fare servizio) in certi giorni un gran viavai. Carri trainati da  muli e cavalli  arrivavano per caricare e scaricare le botti. Gli operai le facevano scivolare su  pesanti assi di legni, manovrandole e trattenendole con lunghe funi. Al secondo e al terzo piano c’erano finestre con cornici biancastre a sesto acuto e balconcini di pietra con colonnette tortili sul grigio Chi l’aveva costruita si era ispirato alle case veneziane? Forse. Stava a metà della collinetta, ancora immersa nel verde [tipo di vegetazione?].

Accanto c’era la villetta dei Forte.  Ci si arrivava dopo una lunga e stretta scalinata, che a metà sboccava in un  bel giardino pieno d’alberi. E più in fondo, scendendo, alla fine di un sentiero un’altra villa, ancora più grande e  a più piani. Qui abitavano i Quaglia, la famiglia del parroco di S. Domenico. La facciata era esposta a mezzogiorno. E vi si arrivava anche dal basso attraverso una lunghissima scalinata, che sboccava in una stradina, Via Saverio Avenia, proprio di fronte allo spigolo del gigantesco convitto Pascoli.

Le prime immagini luminose di SA le  avesti dalle finestre e dai balconi di due appartamenti: quello della casa di zio Cosimato in Via Pio XI, dove t’aveva portato zi’ Rina. Erano i primi giorni del trasferimento a SA da Casebbarone.  La zia cominciare a fare le pulizie prima di trasferirvisi con la famiglia. Con loro la  suocera, nonna Fortuna,  e una delle sue figlie, zi’ Rafiluccia, rimasta vedova del marito e orfana del figlio, morti sott’a nu bumbardament’e; e quello della casa di Via Sichelgaita. La finestra della stanza dove dormivi  con Eggidie diventò, dopo quella del paese che dava sui campi di granoturco e i frutteti delle terre di Casalbarone, il tuo nuovo posto da cui osservare il fuori.

Chiero, tu stavi ore a osservare dalla finestra  il golfo di SA e il cielo  e le nuvole. Eri ammalato. Dicevano che forse avevi  il tifo. E ti tennero in isolamento nella stanza non so per quanti giorni. Tuo fratello  a dormire dai  Ferraro o forse  a casa di Zi Vicienze. Fisso e lento il tuo sguardo. Si perdeva nella lontana massa d'azzurri o in quelle verdastre delle colline che la delimitavano. O cercava  (cosa?) più vicino, nei dintorni della casa.

Nei dintorni di altra casa ora qui, in pianura. Decenni dopo  hai osservato.  Il vento aveva fatto cadere un cesto di vimini da un balcone. Le traiettorie di due passanti si erano quasi incrociate - all’insaputa di entrambi - in un punto del marciapiedi proprio all’angolo di un palazzo. Un bambino  si era sporto - troppo pericolo -  da un balcone. Allora il paesaggio era sembrato mettersi in moto. Iniziava così un racconto, svelando  catene di eventi sotto la sua superficie. Tu a  chiedergli di farsi avanti. Al paesaggio, al racconto.  E , allarmato e ansioso,  ti eri interrogato sul possibile seguito.  Inventavi sorpresa e paure su volti così lontani e indistinguibili.  Poi hai registrato con freddezza l’avanzare guardingo di un gatto sulle tegole di un tetto,  un volo d’uccello (quale?), il passaggio di un uomo nella strada, gli effetti smorzati di una raffica di  vento sul fogliame. E  hai chiuso gli occhi. Sapevi  di aver vissuto fino a quell'anno. In un ritaglio di mondo. Fra cose, animali e persone rimaste da  te distanti e che mai avrebbero badato a te dietro quella finestra. Anche dopo la tua morte sarebbe andata così.  Quelle apparizioni non chiedevano  interventi. E neppure la tua osservazione ansiosa. Dove sprofondavano? Cominciasti a scrivere.

Lampioni rari. E quando calava la notte il bimbo vedeva uno spicchio di strada illuminato e cercava di indovinare,  tra le sagome scure che l’attraversavano, quella  piccola e lenta di sua madre che tornava da qualche visita ai parenti.

Cosa vedeva da quella finestra della stanzetta dove dormiva col fratello?…

Tempeste di mare, e cavvalune, io, mia madre e mio fratello Egidio seguivamo con apprensione da dietro i vetri ( si usava ancora lo stucco per tenerli) il rientro a volte difficile delle imbarcazioni dei pescatori.

Sentiva parlare del porto (mai visto..) Una voce raccolta da sua madre: erano arrivate delle navi (sovietiche?). Portavano grano dalla Russia….

Gli inizi della ricostruzione soprattutto edilizia: un primo gruppo di palazzine di 5-6 piani cominciò ad essere costruito un duecento metri più in basso rispetto alla casa gialla dove abitavamo, proprio nella curva accanto al convitto Pascoli e all’edificio dell’ONMI che sorgeva in un vasto giardino. Durante una giornata di fortissimo vento una parete di tufo, già eretta dai muratori all’ultimo piano di un palazzo, era crollata proprio mentre egli e il fratello stavano guardando dalla finestra.

I lavori di lastricazione della strada (a pavé, in selci).Tra il ’46 e il ‘47. Lentezza dei lavori. Quando arrivarono davanti casa, fece seppellire sotto le mattonelle del marciapiedi la quaglia regalatagli dal padre, che s’era presto ammalata nella gabbia e non mangiava più. I carri tirati dai cavalli trasportavano lunghi tubi di cemento per i lampioni. In sostituzione di quelli di legno. Uso  forsennato della frusta da parte dei carrettieri quando i cavalli  cadevano. I cazzi lunghi e pencolanti dei cavalli e dei muli durante le pause.

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