Sul ’68 a Colognom 50 anni dopo

di Ennio Abate

Questo è il mio intervento per l’incontro del prossimo 23 giugno (qui) a Cologno Monzese di ex compagni e compagne del ’68. [E. A.]

Nel ’68 la nostra giovinezza è stata attraversata da un lampo di ribellione, imprevisto, straordinario e mondiale. É arrivato anche in questa città di periferia, allora ben più grigia e abbandonata di oggi. A cinquant’anni di distanza Ambrogio ci ha invitato a ricordarlo e a celebrarlo. D’accordo senza esitazioni sul ricordare. Meno sulla celebrazione, non essendo chiaro cosa oggi dovremmo celebrare.

Si sa, infatti, che sul ’68 – come sulla Resistenza o la Rivoluzione russa del 17 – non c’è memoria condivisa. E ad ogni decennale ci si divide tra denigratori e difensori. Per me è un dovere contrastare a testa alta – e finora l’ho sempre fatto – i liquidatori di quella esperienza straordinaria che fece battere forte il cuore democratico di questo Paese. Quindi ricordiamo pure il nostro ’68 a Cologno: la lotta per la scuola materna del Quartiere Stella, il lavoro di organizzazione del «Gruppo Operai e studenti» tra gli operai delle piccole fabbriche (Bravetti, Panigalli, Siae microelettronica, Trapani Rosa, Intergrafica ed altre), la sede di Avanguardia Operaia in Viale Lombardia, la rete di contatti politici che costruimmo tra Milano, Cologno, Brugherio, Sesto San Giovanni e Cinisello, il Comitato scuola che si batté contro i doppi turni e occupò le scuole di Via Boccaccio e Via Liguria, il Comitato quartieri che organizzò l’occupazione delle case di via Papa Giovanni XXII, la contestazione di un comizio di Almirante in Piazza Italia.

Non mi va, però, di celebrare un «’68 per tutti». Perché è un ’68 deformato, spettacolarizzato, accomodato alle esigenze dei vincitori dello scontro che esso innescò e che si prolungò per tutti gli anni Settanta fino alla tragedia dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle BR. E perciò ai difensori del ’68 dico: guardiamoci negli occhi, io e te quale ’68 celebriamo?

Ha fatto bene Emilio Molinari, un ex dirigente di Avanguardia Operaia, a parlare di «due ’68» e a dire che uno – quello libertario e modernizzante – ha vinto ed oscurato l’altro – quello che si era collegato, a partire dal ’69, alle lotte dei lavoratori e ha perso(qui).
Io eviterei una contrapposizione troppo sociologica: un ’68 tutto degli studenti e degli intellettuali e un ’68-’69 tutto dei lavoratori. Anche perché la collocazione ibrida di lavoratore-studente che avevo allora mi ha sempre permesso di vedere sia i reali contrasti esistenti tra gli operai e gli studenti in quel nostro neonato Gruppo OS e poi nella cellula di Avanguardia Operaia (come poi tra noi maschi e le compagne; e tra noi più adulti e i giovani) sia gli sforzi – altrettanto reali – di confrontarsi, allearsi, lottare insieme. Ma a differenza di Molinari e di tanti altri – aggiungo una cosa che scandalizzerà qualcuno –, non cancello il ’68 che mirò all’assalto al cielo e che sfociò nel lottarmatismo e degenerò poi nel sangue. E lo dico, pur sapendo che toccare questo tasto, che è il grande rimosso di molte celebrazioni del ’68, aizza i suoi denigratori e insospettisce o rende diffidenti parecchi suoi difensori.

Secondo me, dunque, per una celebrazione critica del ’68, è onesto e d’obbligo ricordare e ragionare su tutti e tre questi ’68; e seguire i loro rivoli successivi e separati. Non mi va chi si sceglie o si ritaglia un ’68 «innocente» e solo «libertario» rovinato dalla “strumentalizzazione” dei gruppi extraparlamentari (AO, Pdup, LC). Non mi va chi si sceglie o coltiva nella memoria un ’68 tutto «democratico» e «costituzionale», «non violento» e immagina che sarebbe continuato a scorrere – evoluzionisticamente, senza conflitto – come un placido fiume verso un futuro di democrazia progressiva e poi socialista, solo se non fosse stato inquinato dai miti dell’assalto al cielo o della Resistenza o del ‘17 russo.

Quel movimento, sbocciato nel ’68 e che in Italia durò fino al ’78, fu composito. Anche qui a Cologno. Ci furono in una prima fase quelli che vennero calamitati dal «Gruppo Operai e studenti» e poi scelsero di stare – più o meno convinti – con la sezione di «Avanguardia Operaia». E, più tardi spuntarono quelli del «Circolo La Comune» di Via don Giudici, che volevano “cambiare la vita”, interessati soprattutto alla rivolta antiautoritaria, alla rivoluzione sessuale, alla nuova musica. Per me fu sempre in primo piano il «progetto rivoluzionario». Da costruire ragionando sia con i lavoratori (e a Cologno i lavoratori erano come me – cosa non trascurabile – immigrati) sia con gli studenti. E più tardi con le femministe o – malgrado la distanza d’età che ci separava – con i giovani del «Circolo La Comune».

Poi arrivò la sconfitta. Certi nodi contraddittori, da subito presenti nel dibattito – già nel ’68 – non furono mai del tutto chiariti o sciolti. (Ricordo lo scontro simbolico tra Fortini e Fachinelli, riassunto dal primo in un articolo sui Quaderni Piacentini, «Il dissenso e l’autorità»). Nodi che si complicarono con il femminismo che, come ha scritto di recente un amico, vide le «sorelle» che «si ribellavano ai padri come noi, ma anche ai fratelli che noi eravamo». E poi con il lottarmatismo. In tutti questi decenni ho cercato di capire il perché della sconfitta, ma sempre considerando insieme tutte queste tre “anime” del grande movimento. Che a tratti si fusero, altre volte si sfiorarono, altre si divisero e alla fine si combatterono anche mortalmente.

Il ’68 entusiasmante e irripetibile è stato – ripeto – un lampo, una effimera e giovanile “età dell’oro”. Che va tenuta a mente (come Leopardi faceva con i miti degli antichi). È stato fin troppo facile collocarlo in questa eternità astorica (forse simile a quella in cui si è collocato anche un *certo* femminismo). Il ’68 «democratico» e «costituzionale» già con le bombe a piazza Fontana rimase inchiodato, malgrado l’energia profusa in tante bellissime lotte, in una terra di mezzo, in un posizione di surplace. Che non poteva durare. E, infatti, quando ripiegò verso la soluzione – in apparenza moderata e sensata, in realtà fallimentare e rinunciataria – del «compromesso storico», provocò il colpo di coda cieco e disperato delle BR. E si arrivò, diluita nel tempo, alla sconfitta di tutti gli attori politici, storici e nuovi. Si imposero scelte niente affatto felici né innocenti. Per alcuni furono drastiche, distruttive, autodistruttive (il terrorismo, l’eroina). Per altri furono di “ritorno all’ordine” o di solitudine. Per altri ancora (tra cui molte «sorelle») furono di adesione disincantata alla “modernizzazione” della «Milano da bere».

Difendo certamente il mio ‘68 di lavoratore-studente e, fino al ’76, di militante di AO. E lo ricordo e ripenso senza piangermi addosso né cancellare quel po’ di felicità assaggiata, ma non posso non chiedermi in quale contesto oggi lo dovremmo celebrare. E non vedere che, come nel ritratto di Dorian Gray, esso si presenta col volto di una sirena invecchiata e che l’«adesso» ne è di fatto la completa negazione.

Guardiamoci attorno. Qui a Cologno le fabbriche sono diventate uffici e la vegetazione incolta nasconde la Torriani abbandonata dove andavamo a volantinare. Gli ex migranti meridionali o veneti hanno venduto i loro appartamenti ai nuovi migranti extraeuropei o spesso glieli affittano a prezzi da strozzini. In Comune comandano i leghisti, che hanno appena chiuso la Scuola d’italiano per stranieri e il Centro interculturale donne. Non ci sono più vere sezioni di partito. I giovani o frequentano l’oratorio o si sbronzano nei parchi di sera o corrono nel centro di Milano. Di discussioni o proteste vere non se ne vedono. La cultura è arrivata alle bassezze del recupero del dialetto lombardo con il marchio della «piccola patria» leghista o alle grottesche “rievocazioni storiche” con le divise della Wehrmacht e le croci uncinate. La periferia, così, torna ad essere ancora più periferia, anche se si è data un po’ di belletto e la gente s’è più incattivita.

Se guardiamo a livello nazionale, il quadro negativo è lo stesso. La «buona scuola» di Renzi ha sostituito quella che si voleva nel ’68. La sconfitta della classe operaia ha portato al Jobs act, all’eliminazione dell’art.18, alle privatizzazioni dei servizi pubblici e della sanità. Siamo quasi alla scomparsa di quella stessa sinistra, che nel bene o nel male sembrava la nostra famiglia politica, che criticavamo per il suo moderatismo e pensavamo di cambiare. L’ «adesso», questo «poi» è – come minimo – “reazionario” o “controrivoluzionario” o incomprensibile, indecifrabile, né carne né pesce o un po’ carne e un po’ pesce (un po’ destra e un po’ sinistra).

Da questo punto di vista cosa noi, che abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di assistere a ben cinque decennali del ’68, dovremmo celebrare? Quasi nulla. Non so voi, ma io ho preso atto nel tempo della dispersione di quel «noi» che pur avevamo costruito e in questa città aveva smosso qualcosa. Molti ex compagni di allora sono andati nel PCI e poi nei DS e poi nel PD. Altri coi verdi. Altri con Berlusconi. Altri si sono isolati. La libreria Celes ha resistito e poi ha dovuto chiudere. L’Associazione culturale Ipsilon è stata un cenacolo catacombale di “intellettuali” ignorati o malvisti. Le mie rivistine o i miei «samizdat» hanno avuto, nel migliore dei casi, circolazione amicale. Posso riconoscere che i tanti «io», venuti fuori da quel «noi» – dal bozzolo iniziale del Gruppo OS e dall’apprendistato politico di AO – abbiano fatto, a Cologno o altrove, cose anche buone o ottime. E che semi di quel ’68 ribelle, aperto al mondo e ai bisogni dei proletari o dei poveri, abbiano continuato a germogliare: nel privato, nelle professioni intraprese, negli stessi partiti a cui gli ex sessantottini hanno aderito. Ma a me non va di celebrare il ’68 – neppure quello minuscolo di Cologno – tacendo e sorvolando su quel «di più» immaginato e tentato allora. E oggi completamente perso di vista. E sono certo che, se – per miracolo – potessimo ridiventare un attimo quel «noi» d’allora, non approveremmo gli «io» o i «noi» che oggi ci siamo adattati ad essere. Lo slogan più vero del ’68 fu «ribellarsi è giusto». Ma ribellioni di quella intensità e vastità non ce ne sono più state. Se dovessero, chissà, spuntare, è consigliabile tenere a mente le istanze di tutti e tre i ’68 che ho appena evocato.

 

* Il quadro in apertura e i disegni sono di Tabea Nineo

2 pensieri su “Sul ’68 a Colognom 50 anni dopo

  1. E’ una voce onesta e vera, la tua, Ennio, Anche io, un poco più giovane, diciannovenne nel ’77, cerco di tenere dentro la mia riflessione e la mia identità politica e umana tutti e tre quei vettori, senza anatemi né rimozioni né pentimenti. Figli di una stessa ribellione. Dialetticamente compresenti. Senza caricature.
    Da rimememorare collettivamente se la ribellione, nostra e dei migranti, dovesse ritornare e congiungersi in un ‘noi’.
    Emanuele

  2. …Ennio Abate in questo discorso fa una rievocazione del ’68 e del decennio successivo a Cologno Monzese e non solo sintetica, obbiettiva ma anche partigiana, che comprende tre vettori o istanze: quello libertario, quello per la difesa dei diritti dei lavoratori e quello che non accettò la repressione esercitata dallo stato e dai partiti e arrivò ad impugnare le armi. Riguardo a quest’ultimo penso anch’io che, dialetticamente, faccia parte del movimento per adesione alla ideologia e all’ispirazione del’68, ma, secondo me, fu intempestivo perchè si definiva rivoluzionario, quando non aveva nessun seguito di popolo e impietoso quando scelse di colpire dei capri espiatori in una situazione che vedeva una ampia corresponsabilità delle parti, istituzioni e partiti, nel fallimento di un decennio di lotte. Se un giorno si verificherà quella rivoluzione a cui accenna Emanuele Zinato, noi e loro migranti insieme come unica possibilità reale, spero che si ispiri al ’68, il coraggio non gli mancò, con una maggiore unità di presenze consapevoli di giovani, vecchi, donne, uomini e con un ricorso minimo alla violenza, se possibile solo per l’autodifesa…

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