Su Lega e leghismo

Lettera aperta del 1993 ad un compagno assessore

di Ennio Abate

Questa lettera aperta , anche se  è datata e si riferisce ad una situazione locale (Cologno Monzese), ha una sua attualità e perciò la pubblico nel mio Riordinadiario. Coglie, infatti,  in germe, in un anno che precede anche l’esperienza berlusconiana,  il fenomeno del leghismo di massa (oggi si direbbe del populismo leghista),  che  è  arrivato in quest’anno al suo apice; ma insiste pure sulla incapacità della sinistra di contrastarlo, perché troppo somigliante ad esso. Ora che si è arrivati quasi alla fine elettorale della sinistra, sarebbe il caso di capire che Troia è bruciata e non ci si può gingillare coi soliti discorsi o gridando “Al lupo! Al lupo!”. [E. A.]

Caro Donato,
sempre più spesso negli ultimi tempi durante le nostre passeggiate domenicali,  preoccupato della crescita della Lega Nord (“Chi si aspettava quel pieno di voti a Milano?”) e in vista di elezioni  ormai prossime anche a Cologno, ti sei chiesto: succederà lo stesso qui?  è ancora possibile (e come) riassorbire il malcontento e il rancore in cui nuotano e ingrassano pesciolini e pescicani leghisti? Io – che dal 1976 sono stato fuori dal sistema dei partiti  e ho guardato con crescente scetticismo sia la politica della Sinistra anni ’70-’80 (PCI, ma anche DP) sia la tua avventura prima nell’ex-PCI berlingueriano e poi di consigliere comunale e ora di assessore in una giunta di “unità nazionale” – anche ora che la frittata è fatta (PSI affondato, PCI squartato) e la Lega avanza, non riesco a condividere né il tuo allarme né la proposta che sicuramente verrà fatta anche qui a Cologno in vista delle elezioni, di “unire tutte le forze  democratiche che ci stanno” (come ha fatto a Milano Dalla Chiesa con la sua “società clvile” contro la Lega.

Saro’ coriaceo, ma questo anti-leghismo “di sinistra”  non mi convince.  Lo trovo reticente, ambiguo, elettoralistico, di bottega; e somigliante profondamente  (se si guarda alle pratiche e non alle dichiarazioni) proprio al suo dichiarato avversario, il leghismo appunto. Lo vedo, cioè, come un sintomo della  crisi della Sinistra più che un  segno di vitalità.

Partiamo dal malcontento “popolare” che, come amministratore, tu percepisci spesso  e scomodamente “in diretta”. Vedi che non è  limitato agli elettori della Lega. E’ più diffuso e facilmente, però, prende la forma del Ieghismo.
Per il momento solo la Lega riesce a fissare attorno al suo progetto una buona fetta dell’attuale malcontento “popolare”.  Strumentalizza? Promette cose che non potrà mantenere, se dovesse governare? Gioca sul tavolo della demagogia e poi su quello della contrattazione sottobanco? Carpisce la buona fede dei suoi elettori subordinando i loro interessi a quelli degli industrialotti, dei bottegai e dei laureati? Sì . Ma – aggiungo subito (e non è secondario) –  che in passato questo hanno fatto anche gli altri partiti, compresi quelli di sinistra. E che questo gioco politico – pericoloso per chi sta in “basso”, vantaggioso invece per quello “alto” –  oggi solo la Lega può  permetterselo. Gli altri partiti suoi  avversari non più o molto meno. Perché appare credibile. Gli altri partiti – anche della sinistra –  sempre meno.  E  non recupereranno voti gridando, sotto le elezioni, “al lupo, al lupo”. Quindi per me il problema è: o la sinistra è In grado di riassorbire il malcontento dando soddisfazione reale a bisogni e desideri da tempo individuati come legittimi; oppure, se continuerà a praticare – al posto di una vera politica –  il giochino degli sgambetti alla Lega e a richiamarsi ad un retorico patriottismo di partito, fallirà.  E non sul solo piano elettorale.

Ora dimmi: esiste, secondo te, a sinistra, qualche forza che possa rappresentare questi bisogni e desideri, se sempre più  i vari partiti di sinistra  li hanno elusi e spesso anche soffocati? Non mi pare, anche quando volessi considerare benevolmente Rifondazione Comunista.

Mi dirai: ma dobbiamo stare con la sinistra;  è, comunque, meno demagogica e migliore della Lega; ed è ancora un argine alla valanga di menzogne leghiste e ai  brontolii di fascismo,  che si sentono nella sua  pancia.

Ecco,  è il punto in cui divergiamo. Per me la sinistra non è in grado di arginare né la Lega né il leghismo. Perché  da tempo non solo ha digerito troppi rospi corporativi democristiani, finendo in passato consociata della vecchia DC , ma ha sempre più  blandito e introiettato, negli anni ’80, anche i nuovi rospi leghisti. E più s’illude di togliere voti alla Lega, facendo del semplice (e a volte grossolano) anti-leghismo, più lo lascia prosperare indisturbato o lo tollera entro le sue stesse file.

Sì c’è del leghismo  anche dentro la sinistra. Come sostiene Moioli [1] nelle sue Dieci tesi scomode:

Il leghismo è trasversale: è “a destra” ma anche “a sinistra”. Nei blocchi di pensiero e  di comportamento “di destra” si trovano venature e filoni “di sinistra” (un certo populisrno, ad es.) e viceversa la classica distinzione destra/sinistra è nell’oggi sempre più problematica, resta relativamente utile per il passato (se lo si interroga fuori dal senso comune di massa) e sul piano ideale, molto meno funziona nelle pratiche degli individui e dei gruppi sociali tendenti all’omogeneità, alla – appunto – massificazione, essendosi slegate dalla lotta di classe sempre più sotterranea e rimossa tanto da far dubitare delle sua esistenza.

Stanno accadendo processi formidabili di  “rivoluzione” – e non so più se, gramscianamente, soltanto dall’alto.  E possiamo percepirli soprattutto nei linguaggi tipici della cultura di massa, dove pillole di vecchie ideologie  e arcaici schemi dell’immaginario entrano nel gran frullatore dei mass-media e fanno opinione, producono consenso o  disorientano. Ed, essendo la cultura di massa gommosa, cangiante, spuria, sembrano valgono poco sia gli attacchi frontali (“i leghisti sono dogmatici, rozzi, ignoranti”, ecc.) sia le critiche  troppo sottili.

Nulla da fare, allora? No. Ma è evidente che una cultura di massa (Ieghista) non viene  scalfita da un’altra cultura di massa (progressista). Semmai si mescolano. Ci vorrebbe una cultura “critica” di massa. (Era l’ipotesi iniziale della nostra Associazione culturale IPSILON). Ma non s’improvvisa (specie sotto le elezioni o se pensiamo tutto in vista delle elezioni). Tanto più se pensiamo che la stessa cultura critica di sinistra, da cui veniamo, ha svolazzato alto sopra questa cultura di massa. E non si è voluto sporcare troppo le ali. A combattersi sul campo  sono rimaste, mi pare, in due: una cultura di massa “progressista” pseudo aristocratica e una cultura di massa “leghista” pseudo plebea. E le due tendono a confondersi.

Oggi,  restando beatamente sul piano dell’ideologia e della cultura di massa, i “progressisti” hanno un’immagine stereotipata del leghista. E viceversa Entrambi restano abbagliati da quella dell’avversario e cominciano inavvertitamente a ingigantirla, a demonizzarla; e soprattutto ad introiettarla,  a sentirla “vera”. Per non farsi ipnotizzare dal leghismo (di destra) e dal progressismo (di sinistra), bisognerebbe imparare a sospettare e a prendere le distanze  da queste false rappresentazioni. E ricordarsi , oggi più di ieri, che ogni tifoseria ma anche ogni  militanza –  sia “a destra” che “a sinistra” –  hanno dei tratti negativi, che  possono andare dal fideismo al fanatismo. E che bisogna tenerli sotto controllo.  Perché  spesso “il nemico” non  viene individuato attraverso l’esperienza reale  ma è in buona parte costruzione  immaginaria e arbitraria. E nessuno si chiede più chi sono  i progressisti e i  leghisti reali ; o che lavoro fanno, che redditi hanno, da quali famiglie provengono, eccetera.

E ritorno alle “Tesi scomode”:

Per fuoriuscire sul serio dal leghismo, bisogna fuoriuscire anche dalle sinistre. Non si faranno mai davvero i conti con la Lega corporativa di Bossi restando dentro il progressismo corporativo della sinistra, che volentieri esaurisce la “lotta”, secondo una lunga pratica, nel dimostrare» illuministicamente dove la Lega “sbaglia”, “mentisce”, “illude” per non svelare dove essa Sinistra “sbaglia”, “mentisce”, “illude”. Lottando “contro Bossi” sui piani alti dell’ideologie, la sinistra non vuol vedere cosa succede negli scantinati  delle pratiche politiche e sociali sia leghiste che proprie. La Lega spesso non esita a scendere populisticamente in basso per aizzare gli animi e dar voce a rancori sordi e a interessi apertamente corporativi, parlando “da plebea”. La sinistra non fa che ascoltare ‘”dall’alto”, calmare gli animi aizzati, censurare parte del malcontento, smorzare appena gli interessi troppo corporativi, parlando “da signora”. Cosi facendo, si resta tutti nel calderone della cultura di massa, dove però oggi la Lega è egemone e la sinistra subordinata, e tutti accomunati in pratiche corporative, rozzamente esaltate o pudicamente velate.

Prendiamo ora In considerazione questa città in cui viviamo e il simbolo della  “nuova Cologno” in gestazione, l’onorevole leghista Peraboni [2]. Per fermarlo, si accetterà, senza andar per il sottile, di difendere il “meno peggio” esistente; e cioè questa sinistra, questa giunta?  Chiediamoci pure, in un’ottica tutta local-elettoralistica, come mai Cologno – ex città dormitorio ex città proletaria – che non ha mai avuto (o sbaglio?) un suo frutto in parlamento, vi ha mandato – e solo oggi – un rappresentante  della Lega? Chiediamoci soprattutto cosa è cambiato nella struttura sociale e culturale profonda della città per permettere questo miracolo della burocrazia partitica, che non era riuscito neppure al socialisti nei loro tempi d’oro.

Un abbozzo di risposta lo trovo ancora nelle “Dieci tesi scomode” :

Il Ieghismo è il frutto (amaro) del fallimento di tutte la sinistre. Non – si badi – di semplici “errori” della sinistra, di cui i suoi astuti nemici hanno approfittato; e neppure della semplice “degenerazione” del “sistema del partiti” a cui la sinistra ha dovuto consociarsi “per difendere la democrazia” (dal terrorismo, dalle mafie, ecc.). Queste due opinioni giustificano, non spiegano. La prima minimizza le responsabilità della sconfitta e nasconde i limiti strategici di una politica pluridecennale. La seconda si copre col vecchio adagio “mal comune, mezzo gaudio”. La verità storica scandalosa è questa: il leghismo è l’erede del “compromesso storico” e la sua “preistoria” la troviamo, prima ancora, nella tradizione idealmente universalistica ma di fatto corporativa della sinistra (che è poi – coi nomi di famiglia – soprattutto quella “riformista–stalinista” del secondo Dopoguerra, essendo stata purtroppo la sinistra “eretica” (o “nuova sinistra”) una variante(o il controcanto) intelligente o patetica della prima.

Da qui bisogna partire per chiedersi: è vero o no che, a livello politico, a Cologno come altrove, su un blocco sociale materialmente e ideologicamente sempre più omogeneo e con un crescente atteggiamento corporativo di massa, si è costituito un blocco politico, un sistema del partiti, ideologicamente litiganti ma praticamente consociati, per cui è diventato sempre più “naturale”  il voto di scambio e la caccia privatistica ai “beni sociali” (lavoro, casa, istruzione, salute, ecc.)?

A questo  punto già sento borbottare “i compagni della sinistra” e li vedo preparare l’elenco delle lotte, dei morti, delle loro prese  di posizione “contro” (i fascisti, la DC, Craxi, ecc.) da “sbattere sotto il muso” a un “estremista irriducibile”, come – secondo loro – io sarei.  Ma io vorrei ricordare loro che negli anni Settanta sono stati uccisi, dispersi, azzittiti, emarginati, corrotti ( anche – ricordiamolo – con forti contributi di sinistra –  compromesso storico uber alles) quanti,  ben prima del leghisti e senza la grancassa dei mass media ma con volantini, ciclostilati “in proprio”,  manifestazioni dibattiti politici, scontri con polizia e fascisti, stando nei partiti o fuori, contrastarono l’inaridimento della democrazia e la professionalizzazione della politica nelle mani dei cosiddetti “capaci” (poi risultati tangentopolisti e corrotti) pur di bloccare l’ipotesi  dii un superamento e non di un semplice  “ammodernamento” del “sistema” .

E qui userei – a mo’ di ricostituente del mio discorsino – una citazione da un recente scritto di Aldo Giannulli :

I movimenti (dal ’50 al ’78-’79) posero Il problema di una reale partecipazione delle masse alla politica, le classi  dominanti protessero il loro potere rendendolo occulto. Gli anni ’70 furono in larga parte la storia dello scontro tra queste due opposte vie d’uscita dalla prima repubblica. I movimenti vennero piegati con una miscela di repressione selettiva, espansione ipertrofica del ceto politico, consociazione del principale partito d’opposizione e allargamento della spesa pubblica per recuperare Il consenso del governati . Con conseguenze che andranno ben al di lò della vittoria sui movimenti. Infatti, se da un lato, l’espansione della spesa pubblica sara la principale ragione dell’enorme  debito pubblico oggi accumulato, dall’altro, l’ipertrofia del ceto politico e il consociativismo costituiranno due delle principali ragioni della corruzione sistemica di Tangentopoli. I movimenti, indeboliti dalle proprie contraddizioni e dalla  mancanza di uno sbocco politico, furono battuti, ma questo innescherà Il processo di decomposizione della prima repubblica. Oggi, con la liquidazione della proporzionale e dello stato sociale, si apre definitivamente la strada ad una riforma autoritaria e decisionista delle istituzioni, e noi possiamo comprendere che le radici del presente affondano in gran parte nello scontro degli anni ’70 e nella sconfitta delle istanze democratiche del ’68

(Aldo Giannuli, 1968. Un  anno lungo un quarto di secolo, manifesto-mese n.6 luglio 1993)

Senza questo sciagurato esito della stona italiana, oggi né Bossi, né Peraboni, né Segni, né Occhetto, né Dalla Chiesa potrebbero esercitarsi in demagogia, in  rampogne moralistiche, in denunce risapute.

Non so se questo abbeccedario storico, che per leghisti, pidiessini e martinazzoliani è “roba vecchia” da seppellire  nelle discariche, sia ancora condiviso da “noi”.  E se vogliamo davvero recuperare e rielaborare eventi e idee di questa nostra storia, per non ridurci a contrastare solo il “falso nuovo” della Lega, ma anche Il “falso nuovo” di  sinistra.

È una posizione scandalosa, lo so. Tanti, pur disposti a riconoscere gli “errori” della sinistra
e dolenti per le batoste, tentennano di fronte ad un aut aut così drastico. A loro avviso esso porterebbe all’ ”estremismo”, al “quattrogattismo duro e puro”, alla sottovalutazione del “pericolo Lega”, all’intellettualismo  che contempla il “lungo periodo” ma evade dall’emergenza.

Che dire? Tu, a differenza di di me e di altri, stufo di stare in un gruppuscolo minoritario o ai margini, dopo gli anni ’70, un percorso dentro un grande partito di massa l’hai fatto. Non hai assaggiato (come me) solo il cibo minoritario (Avanguardia Operaia) ma anche quello di massa della Sinistra (il PCI anni ’70). Hai,  però, anche visto cadere prima la “nuova sinistra” e poi disfarsi il PCI o la Grande Sinistra, misurando, nella tua stessa pratica di amministratore, l’inefficacia del “compromesso storico”, la degenerazione del consociativismo e il disorientamento del “popolo di sinistra” che ti ha votato. Non puoi negare  che le pratiche di sinistra sono ormai in troppi casi omogenee o quasi Indistinguibili da quelle degli “altri”.  E puoi anche vedere i limiti del suo universalismo astratto, messo in crisi  dalla cultura differenzialista della destra e, nei fatti, dal fenomeno scandalosamente trascurato delle nuove immigrazioni o dal neocolonialismo statunitense ed europeo.
Dunque, che fare?

Ennio Abate, fine ottobre 1993

[1] Spero di non sbagliare ad attribuire le “Dieci tesi scomode” a un autore di nome Moioli. Purtroppo al momento   i tentativi di accertarlo non mi hanno dato questa sicurezza.

[2] PERABONI Corrado Arturo  MONZA (MILANO), 2 giugno 1964. Laurea in giurisprudenza. Eletto nel III (LOMBARDIA 1) Collegio: 28 – Cologno Monzese. Proclamato il 2 aprile 1994. Elezione convalidata il 17 gennaio 1995

12 pensieri su “Su Lega e leghismo

  1. Un aneddoto di vita vissuta con problematica in coda.
    Tra i miei conoscenti ci sono tre persone che hanno avuto esperienze lavorative prolungate all’estero, due in Germania e uno in Svizzera, soffrendo all’epoca tutti i disagi che la condizione di emigrante comportava e subendone tutti i cliché da parte dei cittadini dei paesi in cui lavoravano. Ebbene, queste persone, oggi in pensione, sono molto critiche nei confronti di “tutte queste invasioni”, come le chiamano loro, e il loro punto di vista si può definire, in breve, leghista. Una di queste persone ha una compagna d’origine rumena che, nemmeno a dirlo, è ancora più critica del marito verso questi “stranieri”. Detto questo, mi capita invece di vedere nei programmi televisivi (talk show e altri) o leggere articoli di giornale in cui attori, scrittori, cantanti, giornalisti stessi, insomma tutte persone che hanno avuto un certo successo e se si sono recati all’estero è stato per andarci in tournée o per conferenze, parlano di accoglienza, di solidarietà, d’umanitarismo, di democrazia, e per giunta con un tono da lezioncina che trovo molto supponente. Ora, come mai è possibile questo rovesciamento delle parti, ossia che chi ha avuto esperienze d’emigrazione con tutti i disagi che ne conseguivano, sia più critico e meno “tollerante” nei confronti delle attuali migrazioni rispetto a chi ha avuto una vita più privilegiata? Capisco che la mia domanda possa essere ispirata da un empirismo volgare e soggettivo (parlo d’una realtà piccola ma che conosco, senza generalizzare), ma la “coscienza di classe” che un tempo si invocava per superare questo” fenomeno” mi pare non sia più valida nel marasma ideologico e politico attuale.

    1. Interessantissima la questione che poni. Episodi simili potrei citare io pure.
      Rischioso mi pare, però, mettere queste reazioni da “leghismo spontaneo” (e ricordo che nell’articolo, citando le “Dieci tesi scomode”, viene detto che «Il leghismo è trasversale: è “a destra” ma anche “a sinistra”») nello schema popolo/radical chic oggi di moda.
      Episodi del genere smentirebbero la “coscienza di classe” che un tempo invocavamo (o “si invocava”)?
      Non credo, se per *coscienza di classe* intendiamo qualcosa di acquisito nella lotta (“il combattimento per il comunismo è il comunismo) e non di *naturale* o di attribuibile sociologicamente a questo o a quel gruppo o classe astrattamente intesi.
      A parte il fatto che, a complicare il tuo quadro “empirico”, ci sono anche i molti altri ex immigrati e i molti di cultura media o buona che, pur avendo viaggiato all’estero poco o molto, non hanno atteggiamenti di chiusura totale di fronte alle nuove immigrazioni, credo che le posizioni presenti oggi nel senso comune “popolare” o tra i “pensanti” (ex intellettuali?) risentano parecchio dallo scontro in atto tra – dico io – “buonisti” e “cattivisti” (o tra “globalizzatori” e “nazionalisti”).
      Abbiamo avuto per un po’ di anni l’egemonia dei “buonisti” (Renzi & C.). Abbiamo ora l’egemonia dei “cattivisti” (Salvini & C.). E mi pare che chi ha saldamente o solo superficialmente in mano le leve dello Stato possa influire di più sull’opinione pubblica più che sui fatti in sé. (Sia tale opinione pubblica quella dei mass media, che immediatamente si adatta all’egemone di turno, o un senso comune più sfuggente, di pancia, molto difficile da indagare).
      Ricordo e condivido un’opinione espressa negli anni Novanta da Balibar: parlava di un “razzismo spontaneo” o latente o soffocato, che può diventare pericoloso quando viene valorizzato o legittimato da un’autorità statale.

      P.s.
      Da rileggere e rivedere (sperando che i link si aprano anche se non si è presenti su FB):

      – APPUNTI SU UN CASO DI SADISMO RAZZISTA
      https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/1866786290239534/

      – SUL PASSO DI MARX RIGUARDANTE LA CONTRAPPOSIZIONE OPERAI INGLESI/OPERAI IRLANDESI
      https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/2128079964110164/

  2. La “coscienza di classe” cui ci “si” appellava per risolvere le contraddizioni, mi pare costituisse una presa di coscienza da parte del singolo rispetto alla natura di classe della propria condizione sociale. Insomma, una sorta di maturazione politica all’opposto della” falsa coscienza” (di marxiana memoria), maturazione che comportava il concetto d’avanguardia politica (anch’esso sepolto ormai sotto le macerie). Ma, al di là di ciò, il vero nodo non mi pare “lo scontro in atto tra – dico io – “buonisti” e “cattivisti” (o tra “globalizzatori” e “nazionalisti”)”, bensì lo scontro in atto tra liberismo nazionalista e liberismo globalista. Questo scontro è iniziato negli Stati Uniti con Trump, che sta dando voce a quelle forze capitaliste nazionaliste che ci hanno rimesso (“perso”) con la globalizzazione, in sostanza il capitalismo industriale nazionale che ha interessi divergenti da quello del capitalismo finanziario, rappresentato (come maschera) dalla Clinton. Tutto il resto, a mio parere, (razzismo e cattivismo di Trump, buonismo di Obama, supportato dalla maggioranza dei media) è sovrastruttura, per dire all’antica. Scontro simile sta avvenendo in Italia, con l’attuale governo, espressione, soprattutto la parte leghista, della borghesia industriale piccola e media del Nord Italia, ma, a differenza degli Usa, a giocare qui da noi è anche l’aspetto peculiare della UE, della moneta unica, del vincolo esterno, della supremazia tedesca, ecc. ecc. che si è realizzato nella globalizzazione liberista e che non vuol tornare ai nazionalismi (e a tutto ciò che comportano: dai dazi commerciali alle monete nazionali). Quindi, per tirare le somme, direi che “buonismo” vs “cattivismo”, razzismo vs tolleranza, sono rappresentazioni di facciata buone a celare i nodi dello scontro in atto, dei quali uno importante è il lavoro.
    Interessanti mi paiono le analisi di questo blog:
    http://www.militant-blog.org/?p=15388

    http://www.militant-blog.org/?p=15380

    1. Ma, al di là di ciò, il vero nodo non mi pare “lo scontro in atto tra – dico io – “buonisti” e “cattivisti” (o tra “globalizzatori” e “nazionalisti”)”, bensì lo scontro in atto tra liberismo nazionalista e liberismo globalista ( Bugliani)

      Se non è zuppa è pane bagnato. Ho virgolettato i termini che ho usato proprio per prenderne le distanze. Peciserei, però, che se lo scontro in superficie ( sui mass media, nella “sovrastruttura”) si presenta proprio tra questi attori/maschere sia a livello internazionale ( Trump, Clinton) che nazionale (Salvini /Renzi o suo supplente) o europeo ( alleanza Le Pen-Salvini-Kurz, Macron-Mercke ?), non concordo, come tu sai per avertene parlato anche di recente, nella scelta (tattica, si dice) di puntare sul tavolo “nazionale” . Come sostengono i vari Formenti, Boghetta, Porcaro (e, credo, anche Cesaratto). E anche l’articolo al secondo link che hai segnalato:

      « Il cosmopolitismo opposto al famigerato “sovranismo” è oggi sinonimo di globalizzazione. La “società aperta” con cui si vorrebbe ribattere alle minacce leghiste di chiusure, dazi e respingimenti corrisponde oggi a Unione europea, libero mercato, vincoli monetari e austerity. L’opposizione, in altre parole, ha senso solo se accetta il piano della lotta all’euro-liberismo fatta propria dal populismo, senza timori di ambiguità. La sovranità – intesa come difesa politica dal mercato, dalla libera circolazione dei capitali – è una nostra parola d’ordine, il nostro tentativo di sottrarre alla proprietà privata il diritto di decidere le relazioni umane della popolazione. Tutto questo è vagamente agitato dal populismo, che però non potrà mai fare i conti davvero con le conseguenze di ciò che paventa. Tsipras docet, e quello era pure “di sinistra”. Figuriamoci questa accozzaglia di professori universitari e prestigiatori elettorali che hanno come limite il terrore – il vero e proprio terrore – di doversi trovare un lavoro vero, nel caso andasse tutto davvero in fumo.

      E’ questa tensione che dovrebbe suggerire le mosse di un’opposizione molto pratica e molto poco ideologica, che sceglie, ahinoi proprio in virtù della nostra attuale debolezza, di vedere le carte del populismo, costringendolo alla crisi. »
      http://www.militant-blog.org/?p=15380

      La «debolezza» è cattiva consigliera, se pretende di influire comunque come se fosse forza. Per me riconoscersi “deboli” comporta altri compiti forse più “catacombali”.

  3. Come si collega l’argomento ipertrofia del ceto politico e consociativismo, lega e sinistra come “blocco politico, un sistema dei partiti, ideologicamente litiganti ma praticamente consociati” con “lo scontro in atto tra liberismo nazionalista e liberismo globalista” (lasciando in sospeso per il momento l’opportunità di lottare o no in senso sovranista e populista)?
    (Anche se in realtà, dicono gli anti-euro, fin dagli anni dell’adesione allo SME il ceto politico italiano si era volontariamente sottoposto al vincolo esterno entrando in un regime monetario di scambi fissi: poche scelte quindi restavano per indirizzare la politica economica: l’ipertrofia del ceto politico, per avidità personale, e il consociativismo ne furono, come ancora è, conseguenza necessaria.)
    Per contraddizioni interne, per la cecità delle classi dominanti, e per gli interventi esterni, i movimenti furono sconfitti. Ma l’unico rinnovamento politico lo fece il femminismo: “una strana rivoluzione che, in Italia, ha potuto essere definita ‘l’unica rivoluzione seria’ (così scrisse Tronti) o indicata come ciò che ha connotato la ‘differenza italiana’ nel Novecento, attraverso l’opera di Gramsci, Tronti e Muraro” (così scrisse Negri).
    Sembra ancora complicatissimo far capire di che cosa si tratta, il rifiuto è violento e irragionevole: non si accetta né che il femminismo sia vera e propria politica, né che, in quanto tale, abitino la stessa terra corpi con teste pensanti dei due sessi.
    Il discorso del sito Militant sull’ideologia: “Ci sembra che non sia questo il tempo di giocarci la partita dell’ideologia. La lotta ideologica, l’opposizione fatta sui ‘principi’, sarebbe al momento incomprensibile“ indica qualcosa di vero: che nella trasformazione in corso occorre uno spostamento.
    Da un vecchio articolo di Federica Giardini:
    * La differenza sessuale… agisce come un operatore … quali i nodi conflittuali al presente che rivelano l’operare della differenza? * Si può cominciare dall’ambito tradizionalmente deputato alle donne, la famiglia … a cominciare dal crollo delle dinamiche di identificazione psichica…
    * La figura del lavoratore/cittadino di diritto (art.1 della costituzione) istituisce infatti un’antichisima ripartizione tra lavoro produttivo e attività riproduttive … non riconosciute come lavoro vero e proprio
    * “Femminilizzazione del lavoro” che si caratterizza per la fusione tra tempo di vita e tempo di lavoro per la messa a profitto di quelle competenze relazionali affettive e linguistiche, un tempo relegate nel domestico
    * Crisi del circuito reddito-previdenza-assistenza che … mostra quanto l’equilibrio del sistema statuale della redistribuzione della ricchezza … fossero debitori della divisione sessuata dei compiti…
    * A riprova che il “lavoro di cura” non è una variabile … troviamo gli immigrati, perlopiù donne, che si trovano in una posizione liminare rispetto al mercato…
    * L’etica… dovrebbe essere il luogo abitato dai corpi … non ancora e non più cittadini … ai cui confini la politica si arresta … nel momento in cui non produce le proprie regole attraverso le attività femminili della cura … diventa spazio in cui legge, tecnica, ma anche religione, sconfinano alla ricerca di nuove misure regolative
    * La differenza sessuata … si attesta infine su un piano che eccede i confini della nazione e delle appartenenze culturali … ci offre infatti gli strumenti per leggere le retoriche che accompagnano questa epoca di globalizzazione, di “esportazione della democrazia” in nome della liberazione della donne o dell’affermazione dei diritti umani per soggetti che umani non sono ancora
    http://romatrepress.uniroma3.it/ojs/index.php/babelonline/article/view/1073
    Nello stesso articolo un riflessione sul tempo della rivoluzione femminista: una “temporalità che caratterizza i soggetti non previsti dalle filosofie della storia progressive”.
    In un articolo di otto anni successivo una osservazione fondamentale: “innescare delle trasformazioni non è affatto equivalente ad ottenere le trasformazioni desiderate. In un primo senso, cioè che non siamo padrone dell’opera che mettiamo al mondo, e in un senso ulteriore, cioè che nessuna trasformazione si dispiega in modo lineare e accumulativo.” http://www.diotimafilosofe.it/larivista/ripensare-il-materialismo-per-un-linguaggio-che-rimanda-ad-altro-da-se/

  4. AL VOLO
    (dalla bacheca di Alessandro Visalli)

    * Dice bene, con maggiori e puntuali informazioni, che un isolato (come me) non possiede, le cose che ho tentato di dire invano in questi anni ad alcuni/e amici/che di POLISCRITTURE ogni volta che abbiamo parlato di migrazioni, Stato-nazione, sovranismo, ecc. [E. A]

    D. A proposito di socialsciovinismo, tra i fenomeni che la crisi ha riportato all’ordine del giorno c’è quello del fascismo, di cui parlerai nel tuo ultimo saggio, che dovrebbe uscire dopo l’estate (Comunisti, fascisti e questione nazionale. Fronte rosso bruno o guerra d’egemonia?). Qual è l’utilità di quest’analisi per l’oggi? Pensi che il fascismo sia relegabile alla Storia e agli zerovirgola di Casa Pound e Forza Nuova o che invece l’impauperimento di vasti settori sociali e l’odio acuto verso la socialdemocrazia uscita sconfitta dalle ultime elezioni possano portare all’ulteriore sviluppo dello sciovinismo nazionalista e di politiche anti-operaie?

    R. Il “fascismo” degli anni Venti e Trenta, di cui mi occupo nel libro (in particolare, della disputa tra Radek e gli esponenti della Rivoluzione conservatrice tedesca dopo l’occupazione francese della Ruhr e l’uccisione di Schlageter: a prescindere dal merito, uso la terminologia impiegata all’epoca dal Komintern) è un fenomeno storico determinato e come tale non tornerà. Tuttavia il fascismo è la risultante di una configurazione della lotta di classe. E se non è replicabile il suo esito, è perfettamente possibile che sia, almeno in parte, replicabile quella configurazione. Dunque, non vedremo certamente più le camicie nere se non come fenomeno folcloristico, e però è chiaro che siamo di fronte alla possibilità di esperimenti politici inusitati che non possiamo prevedere nella loro maturazione.

    Bisogna però anzitutto capire una cosa, senza la quale sbagliamo completamente analisi. La democrazia moderna come superamento delle clausole d’esclusione del liberalismo è già finita da un pezzo e dunque, se il problema è che temiamo che arrivi il fascismo come possibile carnefice della democrazia, non c’è nessun bisogno di aspettare il fascismo. In realtà, nel nostro come in altri paesi, gli elementi di modernità che sono definitori rispetto alla democrazia nella forma in cui l’abbiamo conosciuta (fino alla generazione degli anni Ottanta) sono già stati smantellati da tempo. La democrazia moderna, come ho cercato di spiegare in passato in Democrazia cercasi, è stata un fenomeno esso stesso storico-determinato ed ormai è conclusa. Siamo invece in un regime di bonapartismo postmoderno – e il bonapartismo si coniuga sempre con qualche forma di populismo – che è maturato in maniera pressoché invisibile nel corso degli anni Novanta, un regime che della democrazia mantiene le forme (alcune) ma distorce la sostanza.

    Certo, al peggio non c’è mai fine. Gridare “al lupo al lupo!” per paura del fascismo quando i buoi sono già scappati però mi sembra sbagliato. Sono decenni che il quadro politico complessivo si è spostato a destra e ancora oggi tende a spostarsi e lo farà per chissà quanto tempo ancora. La crisi della democrazia moderna, oltretutto, non è stata conseguenza di un attacco fascista ma di dinamiche della lotta di classe che hanno portato al trionfo del liberalismo reale. Il quale, senza più avversari, si riprende con gli interessi ciò che aveva dovuto cedere in passato.

    Questo è il vero punto: il fascismo nasceva per tanti motivi. Alcuni li hai citati. L’impauperimento dei ceti medi, ecc. ecc. sono tutte cose che ci sono anche oggi, è vero. Tuttavia il fascismo era anche un movimento che si opponeva a due rivoluzioni, quella sociale e quella coloniale. Entrambi questi elementi oggi mancano perché non c’è nessuna rivoluzione sociale in corso – tutt’altro: la lotta di classe viene esercitata soltanto dall’alto – e nessun risveglio anticoloniale – tutt’altro: siamo in piena ricolonizzazione. Mi chiedo in queste condizioni che bisogno ci sia del fascismo. Il fascismo è un bonapartismo che non riesce a superare lo stato d’eccezione e lo rende perpetuo. Oggi lo stato d’eccezione manca. E infatti noi non vediamo squadracce che interrompono scioperi e manifestazioni. E parlerei, più che altro, di riscoperta del protoliberalismo, che era una cosa terribile non meno del fascismo (pensiamo alle descrizioni marxiane del processo di accumulazione originaria in Inghilterra e alle politiche o biopolitiche, come si usa dire oggi, che ha comportato). I liberali hanno revisionato già subito dopo la guerra il paradigma antifascista sostituendolo con quello del totalitarismo, che associa e persino identifica fascisti e comunisti nel nome del “radicalismo”; noi dobbiamo ora revisionarlo in maniera autonoma (ne aveva già parlato Alberto Burgio ormai diversi anni fa), mostrando come siano semmai fascismo e liberalismo a far parte di una stessa famiglia politica. Del resto il fascismo appena arrivato al potere era stato salutato con grande interesse dalle ”democrazie” liberali anglosassoni. E come diceva uno dei leader industriali dell’epoca, Ettore Conti, “La politica finanziaria e economica del governo italiano è essenzialmente quella che era stata richiesta dai fabbricanti e dagli uomini d’affari italiani da molti anni prima dell’avvento del governo fascista”.

    In ogni caso, quel paradigma al quale siamo affezionati è andato in pezzi e romperlo sono stati anzitutto proprio i liberali.

    La crisi attuale, per tornare a noi, mi sembra provenire da un’altra direzione. Il processo di decolonizzazione si è arrestato ma nel frattempo ha suscitato l’emergere di nuovi soggetti planetari. La globalizzazione, nata come progetto imperialistico americano, ha finito per contribuire a questa dinamica (è stata l’ideologia aperturista che ha finito per entrare in contraddizione con la sostanza imperialistica del processo). Questo ha determinato una diminuzione relativa della quota di ricchezza della quale l’Occidente può appropriarsi. E ha innescato sia la spinta alla ricolonizzazione (tramite la guerra e non solo), sia una lotta selvaggia tra le grandi aree capitalistiche per accaparrarsi quanto rimane. Inoltre, ha scatenato una durissima lotta di classe all’interno dei singoli paesi, perché i più forti cercano ovviamente di scaricare sui più deboli le conseguenze di una riduzione inesorabile delle risorse a disposizione.

    Da qui nasce la rivolta della piccola borghesia. Non più garantita dalle élites stabilite, le quali non riescono più a far cadere le briciole dal tavolo, essa si ribella alla “casta” nei suoi diversi aspetti (politici = i partiti di massa e le identità storiche costituite; economico-finanziari = le banche; culturali = l’università, i grandi giornali). Incapace di autogovernarsi, la piccola borghesia non può però che inserire la propria lotta di classe in una lotta di classe diversa, che è scoppiata in seno alle classi dominanti. Ecco che la cordata sinora vincente è stata scalzata dalla cordata outsider, la quale ha usato i ceti medi come massa di manovra. Non è il fascismo ma è semmai la risultante che nelle condizioni attuali ha avuto una configurazione dei rapporti di forza che in parte è analoga ma per altri versi molto diversa da quella degli anni Venti e Trenta del Novecento. In questo contesto si gioca anche la partita sull’Europa.

    D. Un’Europa utilizzata dall’ideologia dominante per spiegare il risultato elettorale in termini di affermazione dei populisti/sovranisti contro gli europeisti/globalisti. Una lettura che sposta il focus dell’analisi su un terreno alieno a quello della lotta di classe e che tu hai giustamente definito un “conflitto interno alle classi dominanti”. Sul tavolo, però, tra i mille problemi rimane quello della contraddizione tra stato-nazione ed unione europea che una certa destra cavalca per dipingere l’Italia come una semi-colonia della Germania. Allo stesso tempo alcuni settori della sinistra tentano di rivendicare una piattaforma sovranista, venendo però a trovarsi su un terreno scivoloso in quanto già occupato e in maniera più efficace dalla destra. D’altro canto, il tema della questione nazionale non può essere eluso. Puoi dirci qual è la tua opinione su come andrebbe impostato correttamente il tema in questa fase?

    R. Solo Rifondazione Comunista votò contro Maastricht. Tutti gli altri votarono a favore, compresa la Lega che oggi sembra alfiere della difesa del popolo italiano contro i nani di Bruxelles. All’epoca la critica dell’UE non portò molto consenso ai comunisti. All’epoca il consenso verso l’UE era a livelli bulgari. Se qualcuno si fosse messo di traverso lungo la marcia verso l’Europa, gli italiani che oggi hanno la bava alla bocca lo avrebbero impiccato. Noto inoltre che nessuno di coloro che oggi protestano perché l’Europa ci colonizza protestò quando il settore del commercio in Italia raddoppiò i prezzi a spese dei lavoratori dipendenti nel giro di una notte. Bisogna ricordarsi di queste cose quando si parla di “imperialismo europeo” (che è una sciocchezza: l’Europa non è uno Stato nazionale ma un campo di battaglia, semmai) o di “imperialismo tedesco” (quando poi la Germania ha gli americani in casa).

    Nessuno ci ha puntato il fucile e per venti anni abbiamo avuto tassi d’interesse bassissimi. Io penso che più che incolpare l’Europa dovremmo incolpare noi stessi, ovvero la struttura produttiva di questo paese, che stracciona era e stracciona è rimasta, e le classi dominanti di questo paese, le quali hanno gestito il processo di convergenza come una forma di lotta di classe dall’alto.

    Detto questo, è chiaro che la critica dell’UE e dell’Euro è sacrosanta e necessaria. Come ho detto, i comunisti lo sanno sin dall’inizio, a differenza di altri. Sapevamo da subito, in altre parole, che il processo di convergenza si sarebbe svolto a spese delle classi subalterne, come effettivamente è avvenuto. Questo significa però che il processo di convergenza è il male? Non è così. Certamente i Trattati europei sono molto penalizzanti per le classi più deboli se paragonati alla Costituzione italiana, con la quale sono in contraddizione. Ma constatare questo è una pura banalità. Quando è stata scritta la Costituzione italiana? Al termine di una fase di rivoluzione internazionale che aveva abbattuto il Terzo Reich. Quando sono stati scritti i Trattati europei? Al termine di una fase di restaurazione che aveva abbattuto il primo esperimento socialista nella storia europea. Vorrei capire, in una prospettiva marxista, come sarebbe stato possibile qualcosa di diverso da ciò che è avvenuto e cioè una compressione del costo del lavoro. È ovvio che ci sia stato. Mi stupisce che alcuni marxisti abbiano dovuto aspettare tanto tempo per capirlo e che lo presentino come chissà quale scoperta.

    Il problema dunque non è l’Europa (la cui costruzione unitaria è in corso da secoli e secoli e rappresenta un fatto progressivo perché procede lungo la costruzione dell’essenza specifica umana) o l’Euro ma il fatto che il processo di convergenza sia avvenuto in una fase nella quale i rapporti di forza erano già enormemente squilibrati e questo in primo luogo proprio nel nostro paese. La scala mobile l’ha tolta l’Europa? Il maggioritario lo ha introdotto l’Europa? Bene, chiediamoci una cosa adesso. Ai nostri giorni, quei rapporti di forza sono migliorati rispetto agli anni Novanta ed a i primi Duemila? C’è qualcosa che ci possa fare sperare che un’inversione del processo di convergenza possa avere un esito progressivo? Oppure questi rapporti sono semmai ulteriormente peggiorati, certo anche in connessione con l’UE ma per dinamiche che con l’UE hanno a che fare solo in parte? Uscire dall’UE renderà il proletariato fortissimo? A mio avviso è chiaro: se l’UE è sinonimo di ancoraggio a destra, nel senso di una destra liberista e tecnocratica, dall’UE si esce altrettanto a destra, nel senso di una destra populista e sovranista. Certo bisogna avere un piano B perché può anche darsi che ci sbattano fuori. Ma chi pensa che si possa guidare da sinistra un processo di Exit prende lucciole per lanterne.

    Ma faccio un’altra domanda: è più probabile che l’exit la guidi Salvini oppure i comunisti, o i populisti di sinistra? Secondo me è più probabile che la guidi Salvini e che quelli che vorrebbero “contendergli l’egemonia” – ridicolo, perché da una parte c’è un soggetto consolidato, dall’altra il nulla… – alla fine salgano sul suo carro. L’inselvatichimento di tanti ex compagni che ci sono già saltati senza nemmeno l’invito sta a dimostrarlo. Del resto, non c’era quel celebre economista del popolo [si riferisce ad Alberto Bagnai ndr.] che doveva tagliare le unghie ai banchieri ed è finito con il tagliare le tasse ai ricchi e agli evasori? Un’altra domanda: l’UE impedisce di fare la patrimoniale o di combattere l’evasione fiscale, che è un’altra faccia della lotta di classe dei ricchi? Usciti dall’Euro ci metteremo d’accordo con i padroncini nazionali affinché paghino le tasse?

    Tutto questo significa che non c’è più la questione nazionale per l’Italia? Non è così. L’UE è una alleanza di Stati nazionali che fanno i propri interessi ed è giusto sollevare una questione nazionale che ha molteplici aspetti e problematiche. Una cosa è la questione nazionale, una cosa è il patriottismo della costituzione, una cosa cioè è lo Stato nazionale come luogo del massimo potere relativo raggiunto dalle classi subalterne, ben altra cosa – pessima – è il “sovranismo” oggi di moda. La questione nazionale può essere tranquillamente coniugata con l’universalismo e anzi deve esserlo, se questo universalismo deve essere concreto e non mero cosmopolitismo. Laddove invece – come in questa fase – si parla di “sovranismo”, utilizzando a pappagallo parole e pensieri delle destre (“sinistrati”, “buonisti”, “politicamente corretto”, “semicolti”… come se non fosse meglio essere semicolti che completamente ignoranti), non si fa che replicare lo stesso codismo che abbiamo avuto per decenni nei confronti della sinistra liberale e imperiale. Soltanto che adesso ci metteremmo alla coda di Matteo Salvini e mi sembra un po’ troppo anche per chi ha lo stomaco di ferro come noi, che ci siamo sorbiti Prodi e Veltroni.

    A questo proposito va detto che bisogna isolare prima che sia troppo tardi la deriva “rozzobruna” che dilaga a sinistra, evitando l’errore speculare fatto a suo tempo con quella parte della nostra area che diventava sempre più liberale e imperiale. Parlo di “rozzobrunismo” e non di “rossobrunismo”, come fanno i liberali. “Rossobruni” sono in realtà quelli di SEL, del Manifesto, una parte del PD: diritti umani e bombe Nato, universalismo astratto e immediato. “Rozzobruni” sono invece quelli che di rosso non hanno proprio più nulla, se mai hanno avuto qualcosa, perché sono stati egemonizzati dalla destra e vi si sono tuffati senza nemmeno che questa dovesse andarli a cercare. E ora affrontano le tematiche nazionali, dell’immigrazione, dei diritti civili, all’insegna di un particolarismo plebeo e reattivo che li colloca dall’altra parte della barricata. Queste problematiche esistono, ma la differenza tra destra e sinistra – che c’è – consiste proprio nell’affrontarle diversamente dalla destra. Invece, dopo essere stati per 20 anni subalterni ai liberali contro il fascismo berlusconiano, adesso stiamo diventando subalterni di Lega e 5Stelle contro il fascismo europeista (anche per questo uso disinvolto, la categoria di fascismo è oggi fuori luogo).

    Il cavallo di battaglia dei rozzobruni consiste nell’accusare la sinistra liberale e quella radicale di aver sacrificato i diritti economici e sociali sostituendoli con il fumo negli occhi dei diritti civili, occupandosi di minoranze elitarie e dimenticando i lavoratori. Invece di impegnarsi a dimostrare come queste cose debbano andare insieme, e come proprio la crescita dei diritti economici sia la premessa migliore per un’espansione dei diritti individuali, però, sono poi proprio loro a metterli in contrapposizione, come se una riduzione di questi ultimi portasse a una crescita dei primi. Inoltre, sono ossessionati dall’immigrazione e dagli omosessuali, sui quali sparano sempre, mentre in realtà nulla o nulla di significativo hanno da dire sulle questioni del lavoro. Sembra che il loro problema sia in realtà proprio con gli immigrati e con gli omosessuali in quanto tali, come è spesso confermato da un certo machismo ostentato e da un culto compensativo della forza altrui (eredità di una concezione preistorica del socialismo come comunismo da caserma).

    Quando si comincia a sparare troppo spesso sempre e solo verso sinistra e dintorni, dimenticando di sparare simultaneamente a destra – che sarebbe altrettanto doveroso se non di più, visto che al potere c’è quella parte politica e non più la sinistra -, vuol dire che qualcosa ci sta cambiando dentro. Anche perché ormai è lo sport nazionale e lo fanno tutti, non ci vuole molto coraggio né originalità. È il vento che tira. Non tirava altrettanto fino all’altro ieri, quando assai spesso le stesse persone difendevano le alleanze di centrosinistra contro il “fascismo berlusconiano”. Capita persino che quelli che oggi più sbraitano abbiano persino avuto incarichi consiliari o amministrativi proprio grazie alle alleanze con quel partito che ora associano alle élites. E a volte addirittura si atteggiavano anche a marxisti-leninisti ortodossi e facevano le lezioncine di compagneria. Era allora che bisognava sparare prevalentemente sul PD, ma ricordo che non c’era nessuno disponibile. Anzi, tutti cercavano di accomodarsi a tavola per raccogliere qualche briciola e chi dissentiva veniva isolato. Adesso è sin troppo facile. Ed è sempre la stessa subalternità.

    Ad esempio, il fatto che da qualche tempo un miliardario come Carlo Freccero, incarnazione perfetta della sinistra caviale – la cui formazione culturale situazionista e i cui trascorsi berlusconiani non sto qui a rammentare – sia stato elevato a marxista ortodosso e difensore del popolo fa capire in che genere di farsa ci troviamo. Nulla di ciò che accade è vero, sebbene sia drammaticamente reale. È lo stesso meccanismo per cui a difensore del popolo può essere elevato dai nostri stessi ex compagni Salvini, che sino a ieri ha votato tutte le porcherie che hanno semmai proseguito la distruzione dell’unità delle classi subalterne.

    È un fenomeno drammatico ma anche penoso: compagni che per tutta la vita si sono dedicati feticisticamente al culto del leninismo e della falce e martello, adesso sbavano per Salvini o Di Maio senza pietà per se stessi e la propria storia. È la conseguenza dello smantellamento sistematico dei partiti organizzati, la cui mancanza sentiamo soprattutto in questi momenti, nei quali non esiste nessuno che sia in grado di dare un orientamento. È del tutto normale che, ridiventato plebe a causa della distruzione sistematica dell’unità organizzata delle classi subalterne, il “popolo” – che è sempre una costruzione – rintracci l’origine dei propri mali in chi sta sotto, e non in chi sta sopra. La spontaneità delle cose induce il forte a sottomettere il debole e il debole a sottomettere chi lo è ancora di più. Ci sono voluti 150mila anni di evoluzione del genere umano per scoprire la lotta di classe organizzata contro i padroni, mentre fino a quel momento c’erano state migliaia di guerre ma solo una rivoluzione. Per questo le poche forze organizzate che ci sono vanno tenute care.

    Eppure è semplice: dialettica contro immediatezza. Comprendere le sofferenze dei subalterni e le loro ragioni ma senza lisciar loro il pelo e cioè senza mai identificarsi con l’attuale configurazione plebea alla quale lo smantellamento sistematico e organizzato della “classe operaia” ha ridotto la loro antica alleanza popolare. E proporsi semmai di annientarla ricostruendo. È semplice da capire ma è anche la cosa più difficile da fare, soprattutto nell’epoca dello spettacolo realitario diffuso e della disintermediazione ovvero, come dicevo, dell’immediatezza. Per le destre, che sono sinonimo di spontaneismo e particolarismo, è sempre stato tutto molto più facile.

    (da https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/12664-stefano-g-azzara-crisi-della-sinistra-ruolo-dei-comunisti-e-restaurazione-neo-liberale.html)

  5. SEGNALAZIONE

    LA POSIZIONE DI CARLO FORMENTI E UN COMMENTO DI CRITICA

    CARLO FORMENTI – Tra euroliberismo e anticapitalismo, le anime divise della sinistra in lotta per sopravvivere

    http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=25358&refresh_ce

    Sotto i colpi della rivolta delle classi subalterne contro i processi di globalizzazione, le sinistre lottano per la sopravvivenza, tentando di mutare pelle, nella speranza che, cambiando look e narrazione, divenga più facile proseguire sulla strada delle scelte antipopolari. Sedotti dal successo di Macron – peraltro già <> da una serie di infortuni tanto sul piano nazionale quanto su quello internazionale – un’ala di quanto resta d’un PD in rapido avvitamento si prepara a scimmiottarne il progetto.

    Vedi, in proposito, l’appello dell’ex ministro Calenda alla rottamazione del marchio, da sostituire con un Fronte Repubblicano che si presenta come un clone de la République En Marche. Si tratterebbe di una forza politica ultraliberista e ultraeuropeista, che mirerebbe a raccogliere le diaspore di socialdemocratici e forzisti per guidarle a una battaglia senza esclusione di colpi contro i <>. La linea di Calenda converge con quella illustrata in una recente intervista al Corriere della Sera da un versipelle di rango come Cohn-Bendit – ex leader sessantottino, ex presidente del gruppo Verde a Strasburgo, oggi consigliere di Macron – il quale chiama a sua volta al frontismo europeista contro la <> (per citare l’elegante terminologia del suo nuovo mentore e padrone) nazionalista. E gli antirenziani? È probabile che cerchino di rifondare (anche se è noto che la parola morta malissimo, come testimonia la parabola di Rifondazione Comunista), presumibilmente in associazione con LEU, un simulacro di socialdemocrazia, cui non è difficile diagnosticare un ruolo politico del tutto marginale.

    Ma lo spirito di scissione non aleggia solo fra le fila delle <> convertite all’ideologia liberale e liberista: riguarda anche le sinistre radicali, divise fra europeismo critico e progetti che si propongono di riconquistare quella sovranità popolare e nazionale che considerano irrinunciabile presupposto di ogni battaglia per il socialismo e la democrazia (vedi, in tal senso, il movimento di Mélenchon in Francia e un’ampia componente di Podemos in Spagna, mentre anche da noi stanno faticosamente maturando analoghi progetti). Assai interessante, in tal senso, un articolo di Diana Johnstone che spiega come la divaricazione appena descritta attraversi anche la Linke tedesca.

    La polarizzazione contrappone Sarah Wagenknecht e Oskar Lafontaine da un lato e Katja Kipping dall’altro. I primi sono punto di riferimento d’una sinistra nazional popolare che si propone di promuovere politiche sociali nel contesto dello stato nazione, la seconda – in sintonia con le Tesi di Negri e Hardt – sostiene la prospettiva di un globalismo di sinistra, dando per anacronistico e superato il ruolo dello stato nazione. Così si delinea un primo campo che – al pari della maggioranza delle sinistre radicali nostrane – persegue oltre ogni prova contraria l’illusorio obiettivo di una riforma della Ue, difende la linea <> dell’illimitata apertura ai flussi migratori, e un secondo campo che – in sintonia con le tesi di intellettuali come Wolfgang Streeck – considera la Ue come irriformabile e antidemocratica, denuncia come irrealistica l’idea di poter competere con il capitalismo sul terreno globale, sostiene che le istituzioni democratiche e le politiche egualitarie di ridistribuzione del reddito possono esistere solo nella cornice dello stato nazione e, infine, distinguono fra accoglienza di rifugiati politici e profughi di guerra e migrazione di massa che, ove non regolata, agisce come un’arma nelle mani dei padroni per scatenare la guerra fra poveri, abbassare i salari e minare le fondamenta del welfare, oltre a degradare le condizioni di vita nei quartieri popolari.

    Per ora, queste due anime della sinistra anticapitalista sembrano ancora convivere, sia pure fra crescenti contraddizioni, ma le differenze sono di radicalità e natura tali che finiranno inevitabilmente per sfociare in un divorzio (evento che potrebbe trovare espressione simbolica già nelle prossime elezioni europee, con la presentazione di liste in competizione reciproca).

    (26 giugno 2018)

    Commento:

    Beniamino Gaudio scrive:
    27 giugno 2018 alle 06:27

    gentile signor Formenti,
    non si può che essere d’accordo con il Suo post. Soprattutto, ma non solo, sul fatto che le due anime sinistre da Lei delineate, entrambe realmente esistenti e fondate su motivi sensati, sono profondamente e radicalmente diverse, aggiungerei inconciliabili, aggiungerei ognuna inaccettabile all’altra. Non si tratta, quindi, soltanto di divorzio in vista di future competizioni elettorali (che non mi interessano più di tanto).
    Prenda me, per esempio. Calabrese, 55 anni, ho perso il lavoro durante la crisi. La mia famiglia, completata da una figlia di 11 anni, è mantenuta da mia moglie, che seppur precaria ancora lavora. A questo mondo non sono proprietario di alcunché (per l‘appartamento in cui viviamo paghiamo un affitto). Non ho un conto in banca. Alle elezioni la mia famiglia preferibilmente non vota.
    Non avrei alcun motivo per non stare dalla parte del populismo di sinistra. Ed invece, pur considerando nel mio piccolo la UE come antidemocratica, non riesco ad appassionarmi al nazional popolare ed allo stato nazione. Anzi, politicamente ne dubito fortemente. Resto sempre dell’idea che il globalismo di sinistra, cosmopolita, transnazionale, inclusivo e plurale, sia l’unica strada percorribile, seppure non in linea con i tempi, faticosa da spiegare, incerta ed irta di ostacoli. Probabilmente perdente, come è probabilmente perdente anche il populismo di sinistra, alla conquista di una sovranità popolare e nazionale di sinistra che io non capisco cosa significhi e che il capitalismo mai permetterà di realizzare, come la prima ipotesi del resto. Irrealistico, quindi, esattamente come la prima ipotesi. L’unica sovranità vincente potrà essere, alla fine, quella di destra, vincente sulle elites liberali, visto che per il capitalismo Franza opp Spagna uguali sono. Ma questa mi sembra una sterile consolazione. E poi il nuovo nazismo, ma già soltanto razzismo e xenofobia, per un pò di tempo, non avrebbero neanche molti oppositori e le condizioni di vita di tutti peggiorerebbero e non è vero che tanto peggio tanto meglio …
    Difendere delle idee perdenti è questo il triste dramma di questo frangente, che vede, in verità, una contrastata ed animata discussione fra due ipotesi, da Lei discusse, entrambe spuntate ed inefficaci.
    Riguardo ai flussi migratori, infine, scegliere chi può entrare opp non entrare in un posto sarà realistico ma non fa per me. E poi le guerre fra poveri, le minacce al welfare, il degrado delle condizioni di vita nei quartieri non sono per nulla conseguenza esclusiva delle migrazioni ma sono dovute a diversi altri motivi, in maniera molto evidente, e riflettono un clima sociale e culturale anch’esso non prodotto dalle migrazioni. Sarò probabilmente condizionato dal fatto di vivere in Calabria, dove la popolazione è scesa fino a circa un milione e novecentomila abitanti, dove la maggior parte dei piccoli comuni è in crollo demografico ed in spopolamento, dove ci sono distese di terre non coltivate, di case vuote e serrate, dove in molti siamo poveri e quindi non c’è tutto questo reddito opp queste posizioni elitarie da difendere, dove le razze sono contaminate (i calabresi sono alti, bassi, biondi, scuri perché dominati nella storia da tanti). Questo non significa che razzismo e xenofobia non esistono anche qui. Significa che questa regione, volendo e con una macchina organizzativa ben funzionante e votata a questo obiettivo, potrebbe ospitare fino a 250.000/300.000 migranti. È volontà politica non farlo. Non posso quindi che, realisticamente, stare dalla parte dell’accoglienza e difenderla. Contro ogni esercitazione militare antimigrante.
    La saluto, con la certezza che saremo sempre ostili, assieme, ad ogni forma di governo della finanza. È invece inutile, fra di noi, alcun tipo di astio o di livore per i motivi sopra accennati (le sconfitte in prospettiva), seppure ci muoviamo su strade diverse ma che possono sempre essere rispettose l’una dell’altra

  6. SEGNALAZIONE

    Le macerie della sinistra, tra sovranisti e neoliberisti
    di Bruno Montesano
    http://gliasinirivista.org/2018/06/le-macerie-della-sinistra-nazionalismo-neoliberismo/

    Stralcio:

    Il voto delle comunali ci restituisce un paese che continua nella sua discesa a destra. La sinistra si dibatte tra prosecuzione della linea neoliberale e ripensamenti nazionalisti. Intellettuali e movimenti politici radicali non sono esenti da ciò. Così, mentre i “sovranisti” di sinistra di Senso Comune si perdono in richiami alla patria e in tentativi maldestri di risemantizzare il linguaggio del nuovo tempo populista, il governo giallo-verde porta sempre più in là la provocazione xenofoba, negando fattualmente ogni possibilità di dare un senso altro a idee e pratiche proprie della destra peggiore. Sulla pagina Facebook di questo collettivo alfiere del populismo di sinistra, animato da diversi ricercatori universitari – spesso ance molto bravi -, recentemente è uscito un fotomontaggio caricaturale di una prima pagina di Repubblica, con cui si sostiene che il progetto dei liberal cosmopoliti sarebbe quello di svendere il paese a potenze straniere – come se le élite nazionali fossero invece una garanzia -, di sostituire diritti sociali con diritti civili – perché evidentemente si crede che i lavoratori siano tutti maschi eterosessuali bianchi – e di favorire la perdita e la sostituzione della cittadinanza nazionale con quella europea – identificata con la sottomissione diretta al potere delle odiate élite finanziarie e di Bruxelles. Nel frattempo, alcuni vecchi esponenti della sinistra e del centrosinistra riemergono dalle macerie con nuovi vessilli. Da ultimi Freccero, che dal situazionismo è passato al nazionalismo di sinistra con grande disinvoltura (sublimemente dileggiato da Alessandro dal Lago sul manifesto) e Lannuti, approdato dalla difesa dei consumatori contro il potere delle banche al cospirazionismo della destra radicale accusando le Ong di essere al soldo di Soros e del progetto di sostituzione di popolo, il c.d. Piano Kalergi di cui parlano oltre ai vari neofascisti e al pessimo Fusaro, anche alcuni grillini. Similmente, tra gli economisti il tema dell’euro ha creato gravi fratture e riassestamenti: l’economista Bagnai dal manifesto è arrivato alla Lega, che lo ha premiato con la presidenza della Commissione Finanza al Senato, e per le critiche rivolte alla moneta unica ha attirato le simpatie e il consenso di molti altri economisti “di sinistra”- a dire il vero da tempo piuttosto nazionalisti-, come Sergio Cesaratto o Stefano Fassina di LEU. Questi ultimi, in nome del contrasto dell’euro, sono disposti a chiudere un occhio sulla flat tax, arrivando all’assurdo logico per cui l’esito dell’avversione alle politiche antipopolari di Bruxelles è quello di politiche ancora più antipopolari ma determinate in sovrana autonomia.

    1. La Costituzione ci ha messo al riparo da spinte totalitarie. Ma non dalla destra. Questo ha fatto sì che l’azione di governo si riduca a “semplice” operatività: di destra, di sinistra… la destra ha definito gli ultimi provvedimenti in tema di lavoro “da vecchio PCI”. Dunque, come la mettiamo? Ma soprattutto, che vogliamo fare?

  7. … Be’ io una posizione l’ho presa nel 2013, quando pensai che il M5s fosse il volto nuovo e INEDITO della sinistra. E un forte argine al fascismo. Lo penso ancora. Ma io sono un ottimista, penso sempre che le cose che si aggiustano e migliorano nel tempo.
    Vedo un cambio di mentalità (che non è cambio di casacca) e un progressivo tramonto delle ideologie. Teniamoci stretti a questa Costituzione, i tempi sono difficili.

  8. SEGNALAZIONE

    Il “decreto dignità è di sinistra”. Sicuro?
    di Roberto Ciccarelli
    https://ilmanifesto.it/storia/il-decreto-dignita-e-di-sinistra-sicuro/

    Stralci:

    1.
    E’ ideologico tutto il dibattito generato dalla reazione isterica delle principali organizzazioni datoriali, Confindustria in testa,contro il decreto dignità. Come mai le imprese – le uniche beneficiare delle riforme del mercato del lavoro in questi anni – reagiscono a palle incatenate contro una proposta che non modifica l’orientamento ideologico dei provvedimenti presi da Berlusconi, Monti e dai governi del Pd?

    Sono come tossicodipendenti: abituate alla dose massiccia di precarietà, ne chiedono sempre di più. O, perlomeno, di mantenerla stabile: 36 mesi di durata, 5 rinnovi, senza obbligo dell’assunzione al termine della via crucis.

    Esiste anche una spiegazione sistemica. L’ha illustrata Bruno Anastasia che dirige l’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro, in occasione della discussione parlamentare – poi fallita – generata dalla proposta nata all’interno del Pd di diminuire i rinnovi e la durata dei contratti a termine presentata nella scorsa legislatura. Proposta poi ripresa da Di Maio in quella attuale. I contratti a termine servono anche a sostituire i posti fissi, facendo ruotare nel corso del tempo diversi lavoratori sulla medesima posizione.

    Al netto della distinzione tra lavori realmente temporanei (commessi in un negozio con apertura solo stagionale, la stagione turistica ecc.), si è affermato un uso strutturale di questo contratto nelle circa 60 mila imprese. In questa platea ben 10 mila risultano produrre posti di lavoro a termine per tutto l’anno che corrispondono a circa 40 mila unità di lavoro a tempo pieno equivalenti (dati del 2016). E, sorpresa, chi sono i maggiori utilizzatori di questi contratti? Le aziende riconducibili alla pubblica amministrazione, impossibilitate ad attivare rapporti di lavoro a tempo indeterminato a causa del blocco del turn-over e dell’austerità a cui è stato sottoposto il bilancio dello stato. La scuola ne è ancora un esempio, per non parlare della sanità.

    Sono posti fissi “Invisibili”, che costano infinitamente meno del contratto a tempo indeterminato, garantiscono inoltre un effetto statistico positivo sui dati dell’occupazione e soddisfano politicamente la maggioranza di turno che ha la possibilità di dimostrare che “l’economia va bene”, c’è “occupazione”. Diminuire durata e rinnovi dei contratti a termine potrebbe incidere in minima parte sul loro totale, anzi potrebbe persino aumentarlo.E’ dunque molto probabile che non produrrà occupazione “stabile”. Anzi sarà sempre più “invisibile”. L’eventuale ripristino dei voucher, di cui si parla senza grande chiarezza nel governo Lega-Cinque Stelle, oppure l’invenzione di altre forme di lavoro occasionale servirà a mantenere il primato dei contratti a termine e a rafforzare il ricorso combinato con altre forme di precariato ultra-occasionale.

    E’ l’effetto di quello che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha chiamato casualizzazione del rapporto di lavoro. Il lavoro esiste in funzione dell’occasionalità dei cicli economici sempre più brevi in base ai quali l’impresa determina il suo fabbisogno di forza lavoro pagata sempre di meno. Se esiste un motivo che spiega la reazione delle imprese -e di quasi tutte le opposizioni a Di Maio: Forza Italia e Pd in testa, che sostengono le loro ragioni – è la necessità di intensificare la *casualizzazione del mercato del lavoro* e rafforzare la velocità del turn over dei precari sui posti di lavoro esistenti senza creare di nuovi. Prospettiva complicata, quest’ultima, perché ci troviamo nel periodo discendente di una debole crescita senza occupazione fissa (jobless recovery)

    2.
    Lo stesso effetto ottico, su una parte non trascurabile della “sinistra” (e per motivi opposti sulle imprese e i “democratici”) sarà prodotto dal “reddito di cittadinanza” di cui si aspettano, da un giorno all’altro, maggiori dettagli da parte di DI Maio. Contro la feroce propaganda ideologica sostenuta da tutti i partiti avversari e da molte istituzioni internazionali – l’Ocse in testa – Di Maio ha ragione a sostenere che questo “reddito minimo condizionato alla formazione professionale e al reinserimento lavorativo obbligatorio” non è una misura “assistenzialistica”, ma al contrario una misura neoliberista di “attivazione” del precario, del disoccupato e del povero. Chi riceverà un sostegno decrescente, commisurato al reddito disponibile, temporaneamente definito, riservato solo agli italiani e non agli stranieri residenti che lavorano e possono finire disoccupati, dovrà partecipare al mercato e sintonizzarsi sull’imperativo che lo comanda:

    i”Obiettivo del reddito di cittadinanza non è dare soldi a qualcuno per starsene sul divano – ha spiegato il vicepremier e ministro del Lavoro – ma è dire con franchezza: hai perso il lavoro, il tuo settore è finito o si è trasformato, ora ti è richiesto un percorso per riqualificarti ed essere reinserito in nuovi settori. Ma mentre ti formi e lo Stato investe su di te, ti do un reddito e in cambio dai al tuo sindaco ogni settimana 8 ore lavorative gratuite di pubblica utilità”
    La riforma dei centri per l’impiego, la creazione in Italia di un sistema delle “politiche attive del lavoro” – sempre che siano possibili – è finalizzata a “non restare seduti sul divano”. Con una categoria che rende meglio l’idea: alla mobilitazione totale della forza lavoro. Come nella prima guerra mondiale, ma in tutt’altro contesto. Oggi la guerra è obbligare l’individuo a dare il suo piccolo contributo alla “crescita” anche ricorrendo a “otto ore di lavoro gratis”.

    E questo sempre in nome del “lavoro”. Ecco come funzionerà il nuovo sistema del lavoro gratuito.

    La giornata tipo del precario

    Allora, mettiamo sul tavolo gli elementi conosciuti – per lo più annunci, in realtà – della politica del governo sull’occupazione. Di base abbiamo un precario. Lui passa la vita tra un contratto a termine e un altro. Quando non lo possiede può ricorrere a forme alternative come il lavoro in somministrazione (al momento non sembra avrà restrizione), il lavoro a chiamata, ovvero le altre forme che sono letteralmente esplose in questi anni, in particolare dopo l’abolizione dei voucher.

    Quando il lavoratore povero avrà esaurito il numero dei rinnovi, avrà perso il lavoro, non sarà più in grado di ricorrere al serbatoio del lavoro nero né ai contatti familiari o amicali attraverso i quali passa la vera ricerca del lavoro in Italia, allora sarà costretto a ricorrere al “reddito di cittadinanza”. Sarà così obbligato a lavorare gratis otto ore a settimana per la durata del sussidio; recarsi più volte al mese ai colloqui obbligatori al centro per l’impiego, frequentare corsi di formazioni considerati necessari per “riqualificarlo”, alimentare il business della formazione (indignati contro quello “dell’accoglienza”, presto di indignerete per quello sul “reddito di cittadinanza”?) con i risultati che già si vedono nel caso Almaviva: un flop.

    Diciassette miliardi di euro all’anno, più due per la “riforma” dei centri per l’impiego, porteranno allo stesso fallimento. Attenzione: non è certo meglio il “reddito di inclusione”, il “ReI” per cui cattolici e piddini si stanno stracciando le vesti chiedendo a DI Maio di rifinanziarlo e trasformarlo nel suo “reddito di cittadinanza”. Sono modelli, leggermente diversi, di una stessa politica: quella del workfare, un sistema autoritario che obbliga il precario a partecipare al mercato per la durata necessaria alla produzione di un effetto statistico sull’occupazione generale. L’intento in questo caso è politico. Il precario è il materiale umano necessario per dimostrare che si sta facendo qualcosa di “dignitoso” per i “poveri”.

    3.
    Sono purtroppo sempre più convinto che non basterà attendere la creazione dell’immane sistema burocratico delle politiche attive per i precari, né il fallimento sostanziale di queste politiche nella cosmetica battaglia contro la “povertà”, per dimostrare che quella del “reddito di cittadinanza” – prospettato dai Cinque Stelle – è una pista creata per comprare tempo e dilazionare la crisi del sistema.

    La “sinistra” – sempre che abbia senso questa espressione – resterà prigioniera del sistema discorsivo del “populismo”. E lo sarà ancora di più rispetto alla modesta “riforma” dei contratti a termine. Ma questa è una bazzecola. Non abbiamo ancora idea di cosa accadrà, a livello di propaganda, quando partiranno i primi decreti sul “reddito”. Basterà rubricare i provvedimenti nella casella di “populismo di sinistra” per neutralizzare la critica, coprire a sinistra un governo razzista, occultare la realtà e neutralizzare la critica al capitalismo di cui tutte queste misure sono il lassativo.

    4.
    Sta qui l’opportunità politica di parlare di reddito di base, ovvero una misura incondizionata, sganciata dall’obbligo del lavoro a tutti i costi, finalizzata allo sviluppo delle capacità dell’individuo di condurre una vita autonoma (progetto di grande ambizione filosofica e sociale). Tale misura taglia corto: impedisce di creare una nuova burocrazia della disoccupazione e del precariato; è l’antitesi all’immane spostamento di ricchezza che provocherà la “Flat Tax”; è il sostegno a una drastica diminuzione del supermarket dei contratti precari di cui l’Italia detiene il record mondiale. La liberazione della forza lavoro non può che essere accompagnata dalla liberazione dal lavoro precario, mentre il sostegno al lavoratore povero nei periodi di non lavoro dev’essere individuale, senza termine di tempo e riservato a tutti i residenti, dunque anche agli stranieri.

    Un’aspirazione, più che una politica effettiva. Certo, al momento è così. E non sarà facile trasformarla. La passività, la disperazione individuale, le trappole discorsive del “populismo” (di destra e di sinistra, né di destra né di sinistra ecc.) costituiscono un formidabile apparato di cattura e di morfinizzazione della politica. Difficile superarlo, oggi.

    Ma questo potrebbe essere un modo per uscire dal modo di fare politica che si regge sulla logica del capovolgimento dell’opposto: quella di chi sostiene di agire formalmente per la dignità delle persone e materialmente rafforza le condizioni del loro (auto)sfruttamento.

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