Scrivere

di Arnaldo Éderle

Non concordo con la spiegazione  che  Éderle dà  in  questi versi del perché si scrive. Anche se continuassimo a scrivere su un “bianco foglio” di carta, “di sera di mattina e di pomeriggio”, tutto è mutato attorno a noi dal tempo degli amanuensi e dei poeti in attesa della “nera farfalla” che li illumini. Forse è il caso di discuterne. [ E. A.] 


Scrivere, scrivere, perché?
Vi si esprimono le nostre idee
i nostri turbamenti le nostre paure
i nostri entusiasmi i nostri scoppi
di gioia i nostri interni timori
le nostre conturbazioni,
i nostri lapsus i nostri fraintendimenti
i nostri errori.
Ma che cos’è scrivere? E’ prendere una penna
in mano o una matita e tracciare dei segni
convenzionali che tutti noi capiamo
e porgerli agli eventuali lettori perché
capiscano le nostre intenzioni e il nostro
specchio comunicativo, l’aria della terra
il cielo e tutto ciò che ci circonda,
come il volo degli uccelli o il zigzag
dei pesci, o il brulicare
degli infiniti moscerini sulla superficie
delle spiagge selvagge. Tutto ciò è scrivere.
Lo si fa di sera di mattina di pomeriggio
e tutto ciò si considera una gioia immensa
un fluire del nostro spirito sulla carta
come uno sgorgare del nostro mondo interiore
in superficie alla luce della vita, un gancio
che riunisce l’anima e la luce del giorno
o l’oscurità della notte.

Che cos’è la scrittura? Mi pare sia questo.
E questo è. Quando ci sediamo davanti al bianco
foglio, all’immensità del biancore, alla sua
disponibilità, al suo permesso di imbrattarla
di segni misteriosi, che non sono della
fantastica cabala, ma del nostro cuore,
del nostro cervello, ci sembra di rincorrere
qualcosa che ci corre davanti e che sembra
imprendibile. Ma poi la nostra cara mente
con un balzo l’afferra e la pone subito nella sua
casella vicino alla parola ch’era lì
ad aspettarla. Ecco cos’è scrivere: incasellare
una parola dietro l’altra, rifrangere
il pensiero, la luce diafana che si è affacciata
nel nostro casto cervello.
Se non è così, che cos’altro può essere?
Potrebbe essere anche la grande farfalla
che sorvola a poca distanza il nostro cranio
e che si posa silenziosa su quello dei
poeti, e lì deposita le sue fragili uova
come una madre speciale e poi le
guarda amorosa e aspetta finché le buone uova
si schiudano e rivelino la frase giusta
il verso che rivela la poesia, l’essenza
dello spirito umano, la frase che indica
il fulcro dell’intelligenza,
il tocco del fulmine, il calore dello
spirito, l’aria il tepore dell’anima
dentro l’involucro della parola.

Ecco cos’è la poesia, una farfalla nera o
variopinta che individua il cranio dei poeti
e lì si posa per partorire poesia,
nient’altro che poesia cioè l’essenza del
pensiero umano. Che cos’è se non questo?
E noi l’aspettiamo da un momento all’altro.
Ma poi arriva! e noi ne gioiamo come se
arrivasse un Dio dall’alto della sua reggia
e ce la porgesse su un piatto d’oro
condita con piccoli uccelli e grandi
luccichii, e la stendiamo sul nostro modesto
candore, e la veneriamo come la sua
figlia prediletta.

Cosa ci aspettiamo dalla vita se non questo?
A me sembra che tutto ciò sia molto
della bellezza esistente sulla nostra terra,
e di questo ci dobbiamo preoccupare! Della bellezza
che dobbiamo conservare a futura
memoria ed è lì per conservarsi, per essere
pronta a farsi leggere in qualunque istante
della nostra lunga vita, e confortare
le nostre malinconie i nostri inciampi
i nostri dubbi e le nostre incapacità.
E chi la legge si affiancherà a noi
che l’abbiamo prodotta, a noi che l’abbiamo amata
e distillata sul nostro bianco biancore
sulla nostra pagina come una grappa leggera,
digeribile in un batter d’occhio.
Chi prova questo finissimo distillato ne diverrà
amico per sempre e non ne sarà mai intossicato.
Il dubbio sulla salubrità di questo
dolce filtro potrà anche affacciarsi,
ma verrà subito smentito da quanto la poesia
porterà sulla sua bianca mensa, il suo fulgore
la sua bontà il suo aspetto tenero o forte
provvederà a garantirla e a propagare
il suo profumo in ogni angolo di vita,
e di morte dove i mortali finiranno il loro
viaggio terreno, la loro permanenza
sul margine dell’infinito, sulla festa
dell’eternità.

Che belli questi ultimi versi!
Si sono scritti da soli, merito della
nera farfalla della sua enorme capacità
forse involontaria di deporre sui nostri
cervelli foglie verdi e luccicanti
che illuminano le nostre pagine
e i nostri pensieri come raggi di sole
che riscaldano le fibre del nostro
cervello e il pulsare delle nostre dita
sul braccio della penna o del lapis.
Come si fa a non riconoscere il grande
miracolo della farfalla e delle sue
potenti uova?

Che sia una semplice banalità?
Io credo di no. Io credo che il mondo sia pieno
di queste enormi stranezze, e credo che sia
il mondo a giocare con queste grandi
improvvisate.
Questi imprevedibili regali.

23 pensieri su “Scrivere

  1. La breve nota di Ennio premessa a “Scrivere” è doppiamente polemica, sia con il riassumere il lungo discorso di Ederle (che mette in campo per spiegare la poesia attori e processi diversi) in un atto soggettivo e intenzionale, e cioè perchè uno decide di scrivere (“la spiegazione che Ederle dà in questi versi del perchè si scrive”); sia con il richiamo ai nostri tempi, diversi da quello degli amanuensi e dei poeti in attesa della nera farfalla: il che farebbe dell’atto di scrivere di nuovo una intenzione, più o meno politicamente consapevole, o corretta, o indifferente o estranea, o nemica.
    Invece Ederle illustra una teoria della ispirazione poetica corredata di fonti extraumane, di valori del bene e del bello, di piacere e comunione umana.
    Scrivere è “tracciare dei segni/convenzionali che tutti noi capiamo”: l’intersoggettività propria dei segni viene esplicitata dalla poesia dato che con essa arriva a espressione “l’aria della terra/il cielo e tutto ciò che ci circonda”.
    La poesia è gioia perchè il mondo interiore sgorga in superficie alla luce della vita, non siamo gli stupidi, insensati, ed orribili bestioni di Vico, ma la nostra anima si aggancia al mondo: “Mi pare sia questo./“E questo è.”
    E comincia a ragionarci sopra: “qualcosa che ci corre davanti e che sembra/imprendibile”, la scrittura quindi ha il suo oggetto fuori di sé, imprendibile; poi c’è la cara mente che l’afferra (lo?, il “qualcosa” che corre davanti?) e, terzo passaggio, la accosta (la cosa afferrata?) “vicino alla parola ch’era lì/ad aspettarla”, il serbatoio di linguaggio di cui l’umanità dispone – nel tempo, in successione.
    La successione di parole è rifrazione, in fisica si chiama rifrazione la deviazione che raggi luminosi generalmente subiscono nel passare dall’uno all’altro di due mezzi trasparenti diversi: il pensiero (luce diafana) nella corposità sui generis delle parole.
    Il pensiero è grande farfalla, le parole sono buone uova che si schiudono:
    “… e rivelino la frase giusta
    il verso che rivela la poesia, l’essenza
    dello spirito umano, la frase che indica
    il fulcro dell’intelligenza,
    il tocco del fulmine, il calore dello
    spirito, l’aria il tepore dell’anima
    dentro l’involucro della parola.”
    Anche la poesia più incarnata nel presente e nell’orrore non mostra l’essenza del pensiero umano? Non viene da un fuori non del tutto volontario, non dà gioia l’atto creativo in quanto tale, anche se gioia amara e relativa a una situazione crudele, non ha una *sua* bellezza, non è memoria, consolazione in quanto comunanza? Non può danneggiare, accompagna tutti fino al margine della vita, nel viaggio terreno che è “margine dell’infinito” e “festa dell’eternità”: in una visione a-religiosa è fede nell’umanità.
    Questo il grande miracolo della poesia, possibile
    “Che sia una semplice banalità?
    Io credo di no. Io credo che il mondo sia pieno
    di queste enormi stranezze, e credo che sia
    il mondo a giocare con queste grandi
    improvvisate.
    Questi imprevedibili regali.”
    Il mondo, un atto di fiducia, è più grande dei nostri pensati fino ad ora.

  2. …secondo me, il modo di intendere lo scrivere e il poetare da parte di A. Ederle, così come viene descritto in questa poesia, disegna una sorta di circonferenza che parte da un punto, se stesso, e ritorna al medesimo punto, se stesso…In essa stanno racchiusi i “miracoli” della farfalla nera ispiratrice, della parola generata, del mondo fantasmagorico che ne deriva…ma l’altro e la realtà oltre ne sembrano esclusi. Non a caso il poeta parla di “specchio comunicativo”, come di un ente- parola che si riflette continuamente, inventando, come un mago, nuove forme e immagini…

  3. Bello,cara Cristiana, il tuo lungo commento al mio poemetto, spero che Ennio lo legga,
    vedremo cosa risponde. Questo è il mio modo di intendere la poesia. Non posso farci niente. Certo è un modo di spiegarlo ai poeti, ma anche ai lettori in generale. Non posso
    farci niente, ripeto. Sono contento che tu lo apprezzi. D’altra parte i poeti sono fatti così,
    e la nera farfalla è sempre lì da secoli ad ispirarne le loro conclusioni. Un abbraccio, cara
    Cristiana, e un grazie per l tua costate assistenza. Ti saluto. A risentirci presto. Sto un po’
    meglio. Grazie e a presto. Arnaldo

  4. Grazie Annamaria, Il tuo commento è davvero esauriente. “Come di un ente-parola
    che si riflette continuamente, inventando, come un mago, nuove forme e immagini.
    Grazie ancora e arrivederci. Arnaldo Ederle

  5. Caro Arnaldo,
    nell’annunciarti la pubblicazione su Poliscritture di quest’altro tuo poemetto ti ho scritto: «Ma stavolta con una mia frecciata!». Ed è il caso di chiarire sia questa battuta sia il perché in questi anni io abbia pubblicato su Poliscritture oltre 60 post di tuoi versi.
    In passato, agli inizi della nostra conoscenza, che risale a quella che avevamo in comune con Gianmario Lucini, ho cercato di commentare criticamente i tuoi versi (https://www.poliscritture.it/2015/09/09/andava-rovistando-useg-2/#comment-21793). Poi, di fronte alla tua posizione di sostanziale riserbo e rifiuto di entrare in merito a qualsiasi obiezione critica (da non confondere – spero – con la mera polemica o l’antipatia), che ancora oggi ribadisci scrivendo: «Questo è il mio modo di intendere la poesia. Non posso farci niente.», mi sono arreso.

    Ho continuato a tenere aperta la rubrica Zibaldone/Poesia e a pubblicare testi di amici o di giovani, che chiedevano ospitalità sul sito di Poliscritture. Senza, però, tentare più con te un vero dialogo; e rinunciando pure a sviluppare il discorso sui «moltinpoesia», che non è andato avanti come speravo.

    E tuttavia, «amicus Arnaldi sed magis amica veritas», ogni tanto mi torna la tentazione di criticare i modi in cui oggi molti (te compreso) fanno poesia o ne discutono. E ora cedo alla tentazione e uso questo tuo poemetto come pretesto per una mia riflessione critica. Ma sia chiaro che parlo soprattutto ad altri.E non faccio alcuna pressione su di te per convincerti ad alcunché.

    Ecco per punti:

    1.
    Lo scrivere non si può ridurre alla scrittura poetica. Poliscritture, non a caso, è nata per raccoglie vari generi di scritture e non privilegia quella poetica o sedicente tale.

    2.
    Scrivere non è riducibile alla semplice operazione del «prendere una penna
    in mano o una matita e tracciare dei segni convenzionali che tutti noi capiamo
    e porgerli agli eventuali lettori perché capiscano le nostre intenzioni».

    (Quest’operazione viene fatta da secoli. È ancora oggi ripetuta da milioni di uomini e donne nel mondo per i motivi più vari, ma si è andata complicando dalla rivoluzione industriale in poi (anche con l’uso di macchine da scrivere e ora del PC, che l’hanno tra l’altro meccanizzata, confomizzata, velocizzata con effetti – positivi e/o negativi – comunque non trascurabili). L’habitat e il contesto storico, in cui quest’operazione viene ripetuta, sono mutati. Quindi è mutata « l’aria della terra il cielo e tutto ciò che ci circonda, come il volo degli uccelli o il zigzag dei pesci, o il brulicare degli infiniti moscerini sulla superficie delle spiagge selvagge». Il nostro tempo è – ripeto – diverso da quello degli amanuensi e, se questa consapevolezza storica entra nella scrittura, ha effetti non presenti se manca o non viene considerata.)

    3.
    Certo, si scriverà ancora « di sera di mattina di pomeriggio» ( ma perché non anche di notte, come faceva Kafka?). Certo, nello scrivere c’è e forse ancora ci sarà (per alcuni) «una gioia immensa» – non m’importa se vera o illusoria – e molti o pochi saranno convinti – non m’importa se a torto o a ragione – che il loro scrivere è (o è metaforicamente paragonabile) a « un fluire del nostro spirito sulla carta come uno sgorgare del nostro mondo interiore in superficie alla luce della vita». O a « un gancio che riunisce l’anima e la luce del giorno o l’oscurità della notte». O a un « rincorrere qualcosa che ci corre davanti e che sembra imprendibile.». O all’attesa della « grande farfalla che sorvola a poca distanza il nostro cranio e che si posa silenziosa su quello dei poeti, e lì deposita le sue fragili uova come una madre speciale».

    4.
    Ma non tutti – io di sicuro no – oggi se la sentono di dire che la poesia sia «l’essenza del pensiero umano». Protesterebbero gli scienziati, i filosofi, i medici, eccetera. E io sto con quanti – giustamente a mio parere – resteranno scettici a sentire un poeta che gli dica: « Cosa ci aspettiamo dalla vita se non questo?». O di fronte alla domanda «Come si fa a non riconoscere il grande miracolo della farfalla e delle sue potenti uova? », risponderanno: Scusi, io questo miracolo (della poesia) non lo sento. Per me la poesia non ha niente di più miracoloso di una scoperta scientifica, di un amore o di una comunicazione o di un’amicizia ben riuscite.

    5.
    La scrittura poetica non è riducibile alla lirica, e cioè alla “scrittura (poetica) allo specchio”, dove « si esprimono le nostre idee i nostri turbamenti le nostre paure i nostri entusiasmi i nostri scoppi di gioia i nostri interni timori le nostre conturbazioni, i nostri lapsus i nostri fraintendimenti i nostri errori». Esistono ed esisteranno anche scritture poetiche non fatte (o s’illudono di non essere fatte?) davanti allo specchio. Nella tradizione italiana esiste la funzione Dante e la funzione Petrarca. E poi all’interno della scrittura lirica o “ allo specchio” abbiamo mille variazioni (non equivalenti) e complicazioni, che la spingono oltre lo specchio.

    6.
    La scrittura lirica (o “allo specchio”) pretende troppo spesso di rivelare «l’essenza/ dello spirito umano». Può essere credenza o fede sincera di chi scrive ma non può essere accettata come verità provata e indiscutibile da chi questa fede non ha o non professa.

    7.
    Non è vero che qualsiasi tipo di poesia non farebbe altro che confermare/ rivelare «l’essenza/ dello spirito umano». C’è un altro tipo di poesia, quella « più incarnata nel presente e nell’orrore» (della storia) che mette in discussione proprio questa «essenza».

    8. Non è escluso, però, che la scrittura lirica (o “allo specchio”) possa arrivare allo stesso punto a cui arriva la poesia « più incarnata nel presente e nell’orrore» (della storia). (Penso a Kafka o a Celan o a Mandel’štam). Cioè – si potrebbe dire – ad Oriente per via di Ponente. Ma Oriente e Ponente non diventano per questo una medesima cosa.

  6. Tutta questa scrittura allo specchio (per ben 5 volte!) non c’è nella poesia di Ederle, c’è invece il triangolo intenzioni-lingua-altri (“tracciare dei segni/ convenzionali che tutti noi capiamo/ e porgerli agli eventuali lettori perché/ capiscano le nostre intenzioni e il nostro
    specchio comunicativo”), lo specchio cioè è la lingua in cui comunichiamo e nella quale siamo compresi, medici, astronomi, poeti e carrozzieri.

  7. Grazie Ennio, grazie per la tua ampia difesa della modernità. Ma non mi sembra che la mia poesia sia un codazzo degli amanuensi. Io scrivo di cose lontane, forse, dalla politica, questo è vero. Ma non mi pare che il non tirarla in ballo ad ogni verso permetta di chiamarmi retrogado. Cristiana Fischer attribuisce allo “specchio” la funzione di lingua e mi pare appropriato. Io certamente non sono un politologo e non lo sarò mai.Non sono familiare con questa specie [di] scienza. Sono soltanto un poeta, e le cose che intendo trasferire sul foglio bianco sono la scienza di imbrigliare sulla pagina il sentimento interiore che la farfalla mi porge con le sue uova. Ho scritto tanto dei problemi degli uomini, buoni e cattivi, e questo mi pare di saperlo fare. Non so se tu intenda “politica” anche questo, ma evidentemente no. Hai letto il commento della Fischer? Mi sembra esauriente nei miei confronti. Ad ogni modo grazie del tuo sempre interessante commento. Intanto, ti abbraccio. Arnaldo

  8. @ Arnaldo

    Chiarezza innanzitutto. Non ho detto né che la tua poesia “sia un codazzo degli amanuensi” (o sia ferma all’epoca degli amanuensi) né ti ho dato del “retrogrado” né ti ho suggerito di parlare di “cose politiche”.

    Ho, infatti, richiamato la figura medievale degli amanuensi soltanto per precisare che “Il nostro tempo è – ripeto – diverso da quello degli amanuensi e, se questa consapevolezza storica entra nella scrittura, ha effetti non presenti se manca o non viene considerata”. Semmai la mia critica è questa: tu trascuri la dimensione storica ( e non solo quella politica) dell’esperienza umana, che ha mutato l’esperienzadi milioni di esseri viventi mutando, dalla rivoluzione industriale in poi, l’habitat in cui vivono.

    Significa forse che sei “retrogrado”? Non credo: usi il PC, la TV, il cellulare e tante altre macchine chelo sviluppo tecnologico ha messo a disposizione almeno per una parte dell’umanità. Però è vero che nel tuo “specchio” (la lingua) non si sente la presenza dei nuovi drammi che stiamo vivendo. Non ti accorgi, per fare un esempio che « l’aria della terra il cielo e tutto ciò che ci circonda, come il volo degli uccelli o il zigzag dei pesci, o il brulicare degli infiniti moscerini sulla superficie delle spiagge selvagge» sono sottoposti ad una sofferenza impensabile (ai tempi degli amanuensi). Entra tutto ciò nella tua poesia?

    E non è che, se diventassi «politologo», questa sofferenza, questa dimensione catastrofica del nostro tempo, ti risulterebbe di sicuro evidente. (Figurati! Non lo è neppure ai politici, vedi Trump, ad es.). Perciò, mai tidirei: fatti politico, scrivi poesia civile come Gianmario. Né ti ho suggerito di passare dalla «funzione Petrarca» (lirica) alla «funzione Dante», come se intendessi lap rima inferiore alla seconda. Anzi, ho sottolineato – ti prego di fare attenzione – che anche «la scrittura lirica (o “allo specchio”) possa arrivare allo stesso punto a cui arriva la poesia « più incarnata nel presente e nell’orrore» (della storia). (Penso a Kafka o a Celan o a Mandel’štam). Cioè – si potrebbe dire – ad Oriente per via di Ponente. Ma Oriente e Ponente non diventano per questo una medesima cosa.».

    Tu ti dichiari «solo poeta». E sta bene. Però anche i poeti che ho appena nominato, pur essendo solo poeti, hanno toccato quell’”orrore” (storico per me). Altri, sempre poeti, se ne sono tenuti alla larga. E la differenza non è di poco conto. Lascio a te e alla tua coscienza approfondire questo aspetto dell’essere (in vari modi) poeti.

    Vengo alla questione dello «specchio» (o «lingua in cui comunchiamo»).
    Ha detto bene, secondo me, Annamaria Locatelli: la tua poesia è « una sorta di circonferenza che parte da un punto, se stesso, e ritorna al medesimo punto, se stesso»; è « “specchio comunicativo”, come di un ente- parola che si riflette continuamente, inventando, come un mago, nuove forme e immagini». Ma io insistito a precisare: « Esistono ed esisteranno anche scritture poetiche non fatte (o che s’illudono di non essere fatte?) davanti allo specchio». Presentare il tipo di scrittura poetica “allo specchio” come l’unica poesia possibile, come la Poesia, è un inganno e un autoinganno. È una limitazione della ricerca poetica.

    Fischer nega questo carattere della tua poesia: « Tutta questa scrittura allo specchio (per ben 5 volte!) non c’è nella poesia di Ederle». Ma allora come faresti tu ad «imbrigliare sulla pagina il sentimento interiore»? Solo “specchiando” il tuo te stesso interiore, solo usando un linguaggio-specchio di tale interiorità (invece che un linguaggio- specchio dell’esteriorità o della oggettività)viene fuori la tua poesia. E del resto tu stesso lo rivendichi: nello scrivere « si esprimono le nostre idee i nostri turbamenti le nostre paure i nostri entusiasmi i nostri scoppi di gioia i nostri interni timori le nostre conturbazioni, i nostri lapsus i nostri fraintendimenti i nostri errori».

    Ma è sicuro che siano «nostri» e non solo tuoi? Se, come ricordava Fortini, « la poesia lirica[è] quel genere di poesia nella quale l’autore “finge” l’assenza di pubblico, finge di parlare o di scrivere per se o tutt’al più per un “tu” o per un “voi”, come destinatari immaginari o reali», tu sei in questa tradizione. Ti metti, cioè, quando scrivi di fronte allo “specchio dell’interiorità” invece che a quello della “esteriorità”.
    E non è possibile confondere l’uno con l’altro. Non è possibile parlare di un unico «specchio cioè [..] la lingua in cui comunichiamo e nella quale siamo compresi, medici, astronomi, poeti e carrozzieri» (Fischer). Dobbiamo dire che siamo di fronte ad un linguaggio che è un mosaico di tanti linguaggi diversi e persino incomprensibili l’uno all’altro (ocontinuamente da “tradurre”).

    Di conseguenza lo stesso «triangolo intenzioni-lingua-altri» è diverso (per dimensioni, angoli ecc, si potrebbe dire) quando è adottato da un poeta lirico o da un poeta epico o da un filosofo o da un fisico o da un carrozziere. E, sì, bisogna dirlo: «l’intenzione [può essere] più o meno politicamente consapevole, o corretta, o indifferente o estranea, o nemica» quando, passando per la «lingua» (le mille variazioni che la lingua ha accumulato in secoli di esperienza umana) arriva agli «altri» ( i famosi e anch’essi diversissimi e poso conosciuti “lettori”).

    Tu – scrive Fischer – illustreresti «una teoria della ispirazione poetica corredata di fonti extraumane, di valori del bene e del bello, di piacere e comunione umana». Oppure: « La poesia è gioia perché il mondo interiore sgorga in superficie alla luce della vita». O ancora: « la scrittura quindi ha il suo oggetto fuori di sé, imprendibile». O infine: « Il pensiero è grande farfalla, le parole sono buone uova che si schiudono».

    Sono tutte proposizioni che mostrano affinità profonda (spiritualista l’ho definita) tra la tua poesia e la concezione della poesia che ha Fischer. E ne ho preso da tempo atto. Ma, col massimo rispetto, devo aggiungere che è una visione che mi è distante; e che, quando assume certe forme ambigue o “misteriche” o “essenzialistiche”, mi sento di contrastare, proprio perché « indifferente o estranea, o nemica» al mio modo di vedere la poesia e il mondo e gli «altri» a cui la poesia si rivolge.

  9. Non ha certo bisogno di essere difeso da me, Ederle, quindi dico in prima persona: insisto nel considerare il linguaggio come l’unico medio in cui possiamo riconoscerci, e quindi anche combatterci e organizzare di ammazzarci. Lo specchio è invece il tipico rapporto *duale* tra sé e un sé alterizzato, è Narciso, ma il linguaggio non è MAI Narciso, il linguaggio è per essenza di tutti, non a caso il cristianesimo ne fa il Verbo.
    Ammetto pure che alcune “prove di linguaggio” (le dico prove dato che tradiscono la sostanza comune del linguaggio stesso) sono narcisistiche, sono “allo specchio”, infatti spesso gli altri si guardano dal perderci il tempo sopra, e questo accade anche a certe scritture politicissime… Sono meno disposta ad accettare che persone in generale consapevoli di stare al mondo cadano in questa falsificazione narcisistica del linguaggio. Resterebbe quindi solo una scelta: che chi “’finge’ l’assenza di pubblico, finge di parlare o di scrivere per se o tutt’al più per un ‘tu’ o per un ‘voi’, come destinatari immaginari o reali” sia in realtà un crudele e consapevole disinteressato agli altri nonché traditore del linguaggio.
    Se, come non può che essere, il linguaggio è “un mosaico di tanti linguaggi diversi e persino incomprensibili l’uno all’altro (o continuamente da ‘tradurre’)” dò per scontato che, come Celan, chi scrive contribuisca comunque dal suo punto di avvistamento al mosaico, anche se qualcuno può non essere interessato a *tradurlo*. Insomma, voglio essere più com-prensiva che escludente (traditori e sfaccendati a parte).
    Quanto alla impostazione spiritualistica, come ho già avuto modo di dire proprio a Ennio, considero la vasta area degli spiritualismi un patrimonio comune e diffuso nel tempo e nello spazio, trovo perciò ultralecito impiegare quei parametri per esprimere idee generali (tradotti poi con il modernismo, come tutti sanno, in idee laicissime ma ugualmente “teologiche”). Perché, e mi piace sottolinearlo, fin che i concetti laici non abbiano perso le loro meccaniche di origine teologica, sono semanticamente meno profondi della loro versione teologica. Ma questo vale per me, non posso dirlo per Ederle.

  10. …penso che lo scrivere corrisponda sempre ad una forte esigenza o intento da parte di chi scrive, ma il destinatario e la sua modalità di essere nei confronti di chi scrive può variare moltissimo. Si scrive di sè, per sè, per una sola persona, intorno ad una sola persona, per pochi e intorno a pochi, per molti intorno a molti, per tutti, intorno a tutti…Perciò il linguaggio scritto, con i suoi segni, non sempre ha un intento comunicativo assoluto, anzi spesso è travisante, nel senso che, consapevolmente o meno, non vuol raggiungere tutti. Trovo che la scrittura di A. Ederle si muova intorno all’esigenza di scrivere di sè ed è rivolta ai lettori buoni ascoltatori, non ad interlocutori. Lo sforzo poetico dell’autore è di portare alla luce il cerchio magico del suo mondo interiore…In questo mondo sono presenti lati oscuri che si traducono in trame enigmatiche, a volte “eretiche” che l’autore disseppellisce da profondi recessi…E’ quando la sua poesia si fa più interessante. A volte l’autore esprime in versi sofferenze personali intense che assumono un valore umano universale…Altre volte ancora la sua poesia si muove in una pura direzione lirica a descrivere emozioni ed immagini suscitate dalla musica, dalla poesia, dall’arte…Altrettanto forti sono i sentimenti di idiosincrasia manifestati…la visione del mondo del poeta arriva a separare l’umanità in buoni e in cattivi, ma non a comprendere nessuna lotta o conflitto reale o situazione concreta altra da sè…Mi ha spesso interessato questo autore, anche se penso che la scrittura e la poesia (almeno quella che preferisco) debba muoversi in una raggiera comunicativa e di intenti più ampia e comprensiva…Comunque l’esigenza di scrivere resta insopprimibile

  11. Approfondisco ancora questa mia riflessione – giuro: non premeditata – sugli spunti offerti dal testo di Ederle e dai commenti “antagonisti” di Fischer:
    1.
    Ma insomma la lingua in cui comunichiamo (e quindi anche la lingua poetica) è o no specchio specchio di qualcosa? ( d’interiore, di esteriore, di un misto?).
    2.
    «Tutta questa scrittura allo specchio (per ben 5 volte!) non c’è nella poesia di Ederle» verrebbe a dire che Ederle o i poeti in genere non rischiano mai il narcisismo, che sarebbe invece difetto o pratica solo di « alcune “prove di linguaggio”» (quali?), comprese – rieccola! – « certe scritture politicissime». Solo queste meschinelle «tradiscono la sostanza comune del linguaggio stesso»? Mentre, in genere, stiamo in mezzo a « persone in generale consapevoli di stare al mondo» che figurati se cadono mai «in questa falsificazione narcisistica del linguaggio».
    3.
    Altrimenti dovremmo concludere che tutta la tradizione lirica ( quella che, secondo Fortini,
    « “’finge’ l’assenza di pubblico, finge di parlare o di scrivere per sé o tutt’al più per un ‘tu’ o per un ‘voi’, come destinatari immaginari o reali”») sarebbe composta da una schiera di persone crudeli, disinteressate agli altri e disposte a tradire il linguaggio ( anzi il Verbo, per Fischer). Ipotesi troppo sconvolgente.
    4.
    Invece di una visione conflittuale dei linguaggi ( tutti, compreso quello poetico!). Fischer preferisce una visione irenica, pacificata, ecumenica: tutti quelli che scrivono (poesia), compreso Celan (!) contribuiscono dal loro «punto di avvistamento» al mosaico dei tanti linguaggi diversi. Meno male che esclude « traditori e sfaccendati » ( e quindii mentitori, artefici di fake news o di poesie fake). Pochi o tanti, non si sa.
    5.
    A me pare che oggi (e non solo in poesia, basta stare un po’ sui social) sia cresciuta enormemente questa fascia di « traditori e sfaccendati » del linguaggio. E mi permetto di pensare che a contribuire ad ingrossarla sia anche « la vasta area degli spiritualismi» ( anche femministi).
    6.
    Certo, lo spiritualismo o gli spiritualismi rappresentano « un patrimonio comune e diffuso nel tempo e nello spazio». Ma in esso c’è di tutto: esoterismi nazi e eresie utopistiche. E non credo sia affatto «ultralecito» attingervi in maniera indifferenziata, senza distinguere il loglio dal grano, grazie ad un pensiero forte. (Per me di ascendenza marxista).
    Mai privilegerei – anche solo in poesia – questi spiritualismi con la giustificazione che « fin che i concetti laici non abbiano perso le loro meccaniche di origine teologica, sono semanticamente meno profondi della loro versione teologica». Magari mettendo al posto dello Spirito Santo, « una farfalla nera o/ variopinta che individua il cranio dei poeti/ e lì si posa per partorire poesia».

  12. In effetti il giudice sta all’ingresso dell’inferno, giudica e manda secondo che avvinghia: antagonista e ecumenica -a parte la contraddizione interna- in quale cerchione finisco stavolta? Dell’eredità teologica la terra come inferno non è una parte che condivido, la vita in terra è anche altro (vero è però che questi sono tempi di catastrofe, come si
    scriveva recentemente in LPLC). Non so se è sventatezza cogliere lumini di speranza ove è possibile, o forse è ignavia (irenismo ecumenico, spiritualismo esoterico e perfino femminista), o forse grossolana reazione biologica per sopravvivere, preferisco comunque non guardare solo l’abisso.

  13. L’antagonismo della Fischer sta nel paragonare a Minosse uno come me che critica gli stereotipi nel fare poesia (e della riflessione sulla poesia).
    L’ecumenismo riguarda la sua visione a-conflittuale della scrittura ( e della scrittura poetica).
    Benissimo cogliere”lumini di speranza ove è possibile”. Lo faccio anche io. Senza però giustificare- come lei fece tempo fa – Minniti che ha insegnato a Salvini come si fa a spegnerli.

    1. Nel tuo criticare gli stereotipi nel fare poesia, Ennio, ho non da oggi sottolineato una componente di giudizio morale. Ma la morale è una brutta bestia, pone sempre qualcuno sopra la melée e intende che gli altri siano da correggere (con rimbrotti, o battute, o sospetti… ma non è letteratura). Sicuramente tutti a volte facciamo i giudici, ma questo non giustifica il fatto di farlo.
      Il rapporto tra morale e politica ha varie declinazioni, quella religiosa, quella comunista, quella liberale (il male-fascismo). Si invoca la ragione che discerna tra le posizioni politiche, ma, di nuovo: secondo quale criterio?
      Più che irenista e ecumenica mi classificherei volentieri tra gli scettici, i lumini di speranza li trovo diffusi qua e là come fanno in questi giorni le lucciole nel bosco.
      La situazione mondiale appare a molti catastrofica e malvagia come mai, però risulta poco credibile poter riattualizzare i grandi disegni salvifici del passato.
      In questo senso riconfermo che una soluzione politica della questione migranti, come affrontata da Minniti, mi sembra una strada sensata. Immagino anche che il link che sotto allego potrà suscitare ulteriore disappunto, dato che espone considerazioni solo politiche e non morali, ma la morale finora ha prodotto ancora più danni, sia in termini di morti tra i migranti che di disastro “morale” nel paese.
      http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2018/7/4/CAOS-MIGRANTI-Tutte-le-domande-a-cui-l-Europa-non-risponde/828782/#.WzzSGNbyBDE.facebook

      1. “ho non da oggi sottolineato una componente di giudizio morale. Ma la morale è una brutta bestia, pone sempre qualcuno sopra la melée e intende che gli altri siano da correggere (con rimbrotti, o battute, o sospetti… ma non è letteratura”. ( Fischer)

        Lascio a chi vuole la letteratura o la politica au-dessus de la mêlée (o scettica). In tempi di letteratura grama e di politica ancor più grama, si conbattono due morali: quella dei signori e quella dei servi*. La mia è la seconda.

        *
        A un giovane che me ne chiedeva ho consigliato di scegliersi una morale di subordinato, di servo; come credo di aver fatto io. Con quel tanto di equivoco e magari di ripugnante (come l’invidia, il rancore, l’intenzione di dominare umiliandosi) che ogni morale di servo comporta. La ragione di quel consiglio? Anzitutto che una morale di servo è, da noi, meno immaginaria di una da signore; almeno per chi viva alla periferia dell’Impero. Basta riflettere all’impegno che i nostri signori e i loro delegati mettono a persuaderci che, via, siamo anche noi ormai parte del mondo dei signori. Il che, in una certa misura, è vero. Sganarello, infatti, mangia, dorme e beve molto meglio del cavallante, del contadino o del poveraccio per il quale il suo padrone stanzia (in Molière), per la lotta contro la fame nel mondo e «per amor dell’umanità», una certa cifra «purché bestemmi il Signore» cioè la propria cultura e verità. Che dico, Sganarello fruisce anche della cultura e delle agevolazioni tariffarie di Don Giovanni e deve buona parte della propria astuzia alla conoscenza degli splendori mondani cui partecipa indirettamente. Eppure, di un servo non ci si può mai fidare; e questa è grande superiorità, la cui rinuncia non consiglio a nessuno.
        C’è qualcosa che tuttavia il servo non possiede: l’ironia e la leggerezza. Il servo ha solo riso e sarcasmo; sempre, in qualche misura, plebei. Nulla di più doloroso dell’apostolo della leggerezza, Nietzsche, incapace di danza, e condannato alla più tremenda serietà. Eppure – contro l’opinione corrente – dubito che l’ironia e la leggerezza siano davvero sempre supreme virtù (o privilegi signorili). Sono virtù; ma secondarie. Esse infatti non possono essere praticate se non in gruppo, fra pari.
        Insomma, la morale del servo è anche quella che ti consiglia insistenza e petulanza, offerta di spiegarsi meglio e di porgere scuse. («Si spieghi meglio!». «…Disposto … disposto sempre all’ubbidienza».) Docenti, moralisti, pedagoghi, preti, psicanalisti, funzionari di partito, d’ogni sorta addetti alla manutenzione delle anime, tutti costoro – dei quali certo faccio parte – sono perpetuamente esposti al disprezzo signorile degli spiritosi libertini ma sfuggono tuttavia di mano a questi ultimi perché la loro verifica è sempre altrove, è qualcosa che è sempre un oltre, metafisico o storico, un dover essere, un «verrà un giorno …». Mentre lo spiritoso libertino ha tutto interiorizzato; ha o crede di avere tutti in sé i propri diavoli e angeli; è costretto all’ateismo (<<pèntiti!», «no!») e all'autoinganno dello stoicismo. Don Giovanni non può essere «serio come il piacere». «Sarò serio come il piacere» è locuzione di Baudelaire; l'altro infelice apologeta dell'ironia e della leggerezza, grande anche per la sua incapacità di essere ironico e leggero.
        Il giovane se n'è andato, com'è giusto, scuotendo il capo. Spero di avergli lasciato, almeno, una spina fastidiosa. Nella loro pressoché integrale ignoranza del nostro passato e al di là dell'abisso profondissimo, quasi insuperabile, di quest'ultimo decennio, ho la certezza, non per fede ma per ragione, che si stiano formando anche nel nostro paese – e forse proprio attraverso una maggiore frequentazione del mondo dei padroni – delle minoranze che possono assumere deliberatamente una morale di servi per uscirne nella sola direzione capace di fondare, come sempre è stato, una aristocrazia vera; facendosi cioè disinteressati e, al bisogno, sacrificali difensori dei più, delle folle accecate. Il loro primo moto sarà, anzi già è, di seppellire sotto lo scherno le false aristocrazie, straccione o snob, che si riproducono nella nostra cultura nazionale.

        ( F. Fortini, Avere ragione, pagg. 102-103 in Insistenze , Garzanti, Milano 1985

          1. In assenza di rivoluzione ai servi la “superiorità morale” del servo e ai sedicenti non-servi ( o scettici) la superiorità morale del padrone.
            E’ un contrasto non un’equivalenza.

  14. …benissimo cogliere “lumini di speranza”, cercare di conservarli e accenderne altri, forse è tutto quello che oggi possiamo fare per contrastare i semi dell’odio che attecchiscono, trovando un terreno velenoso, cioè fertile, e si sviluppano in selve di arpie e di draghi. Tra queste ombre fitte e incendi distruttivi, è difficile distinguere i lumini, soprattutto se non abbiamo una fiaccola dentro di noi…La distruttività e l’auto-distruttività di tale situazione mi spaventa…non vediamoci tutti mostri

  15. E’ indubbio che realtà esterna – sociale e politica – e realtà interna, individuale e soggettiva, sono correlate. Una dipende dall’altra e viceversa.
    Compito della politica dovrebbe essere quello di comprendere il disagio, se non il dramma, che certe scelte decisionali possono comportare nella vita degli individui. Badando a se stesso, l’individuo dovrebbe impegnarsi in modo responsabile per la propria e altrui felicità. Invece siamo qui a lamentarci in modo univoco verso un sistema di regole che pare nessuno abbia deciso, e che nel tempo sempre più ci appare distante e disumano…
    I poeti che scelgono di chiudersi nell’io, spesso lo fanno per compiacersi, darsi speranza e ottimismo, pregare, filosofare, amarsi, piangere… il resto non sembra avere volto, il resto appare come realtà insormontabile. Pare troppo per un solo individuo. Del resto non si ha colpa, la società consumistica ci ha riempito di giocattoli e desideri, e adesso che manca lavoro, ne scopriamo il prezzo.
    Un gran lavoro tocca ai poeti. E non li aiuta il fatto di dover scrivere ogni volta su una pagina bianca, mai scritta… Ma almeno Arnaldo Éderle si dona un “Scrivere”, non uno “Scrivo”. Usa il verbo all’infinito. E già questo, rispetto a tanta poesia di non-ancora-poeti, io lo considero un passo avanti.

  16. Contrapporre i servi ai padroni è un tema colto, e infatti letterariamente viene affrontato. I poveri, piuttosto, ancora più diffusi, qui e dappertutto…

    1. Eh, già! I servi invece sono incolti e amano i padroni o sono all’unisono con loro. E poi i poveri non sono servi. E poi si diffondono come i funghi dopo un temporale. Che rigoglio naturale la vita!

      1. Non credo che hai colto: contrapporre i servi ai padroni, come nel pezzo di Fortini, chiama in campo due figure proprie della cultura: seicentesca nel caso di Sganarello, e una società signorile (non ne so abbastanza del rapporto con la commedia antica). I poveri sono una figura più generalizzabile e antica, collegata sempre al conflitto sociale, fin dal giubileo: “Presso gli antichi Ebrei, anno dichiarato santo, (detto anno del yōbēl, «del capro», perché la festività era annunciata dal suono di un corno di capro) che cadeva ogni 50 anni e nel quale la legge mosaica prescriveva che la terra, di cui Dio era l’unico padrone, non fosse coltivata e ritornasse all’antico proprietario e gli schiavi riavessero la libertà”, http://www.treccani.it/enciclopedia/giubileo/. Più adeguata la figura dei poveri a questa epoca di debito generalizzato, di migrazioni per sopravvivere o vivere meglio, di impoverimento crescente in quantità e estensione. Direi collegati, i poveri, alla moltitudine negriana. Che poi le lotte siano un rigoglio naturale, be’, magari si potrebbe sperare.

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