“Il corvo” di Edgar Allan Poe

 

 

Versione di Alberto Mari con tre suoi disegni

 

Una volta, una tetra mezzanotte
mentre esausto meditavo,
su strani e maliosi volumi,
d’un obliato sapere, ero quasi
assopito, reclinando
il capo, quando, a un tratto,
s’udì battere piano, come
se qualcuno sommesso, bussasse
alla porta di camera mia.
“E’ qualche visitatore – mi dissi –
che picchia così alla mia porta,
solo questo e nulla più.”

Ah, chiaramente ricordo
un gelido dicembre
ed ogni tizzo morente,
tramava il suo spettro
intorno. Ansioso attendevo
il mattino, cercando invano
tra i libri, una tregua
al mio tormento,
tormento per la perduta
Lenore, rara e radiosa
fanciulla che tra gli angeli
ha nome Lenore e nome
tra noi non ha più.

Tra le purpuree
tende di seta,
un triste e fievole
fruscio, mi turbava,
colmandomi d’inaudite
paure, mai provate.
E per placare il mio cuore,
m’alzai ripetendo tra me:
“E’ qualcuno che chiede
d’entrare alla mia porta,
qualche attardato visitatore
che bussa alla porta
di camera mia,
solo questo e nulla più.”

Mi feci animo
e senza più esitare
dissi.:”Signore
o signora, vi chiedo
umilmente perdono,
ma m’ero assopito
e il vostro lieve tocco,
il vostro leggero bussar
alla porta di camera mia,
non è entrato nel mio sonno
e ha reso incerto il mio udito.”
E così spalancai la porta:
c’erano tenebre,
solo tenebre e nulla più.

Quell’oscurità profonda
scrutai, perplesso a lungo
e restai tremando incerto
sognando sogni
che mai avevo azzardato,
ma il silenzio era intatto
e l’aria immobile
non diede alcun segno.
E una sola parola
venne pronunciata,
una sola parola sussurrai:
“Lenore” e un’eco
ripetè piano:”Lenore”.
Solo questo e nulla più.

Arretrai nella mia stanza
con l’animo in subbuglio,
e ancora udii un lieve colpo,
un po’ più forte di prima.
” Di certo – mi dissi –
questa volta , di certo,
è alla finestra: guardiamo,
dunque, là fuori
per svelar il mistero.
Certo è il vento
e nulla più.”

Respinsi le imposte
e tra molteplici giochi
e batter d’ali, maestoso
entrò un Corvo

dei sacri giorni
d’un tempo.

Non fece alcun cenno,
non si fermò, né ristette,
alato gentiluomo
si posò sulla porta
di camera mia,
sul busto di Pallade,
in alto, sulla mia porta.
In silenzio e nulla più.

Poi quell’uccello d’ebano,
indusse i miei mesti
pensieri al sorriso,
per il suo portamento
così austero e il grave
contegno. “Giù è
la tua cresta rasa
– dissi – eppur
non sei certo
da poco, spettrale
Corvo, antico e tetro
qui giunto dalle
notturne rive. Dimmi
qual nobile nome
porti sulle plutonie
rive della Notte!”
Il Corvo rispose:
“Mai più!”

Sorpreso rimasi
nell’udir lo sgraziato
volatile, pronunciar
così chiare e recise
parole, anche se poco
senso e poca attinenza
avevano. Certo a nessuno
è mai capitato di avere
un simile uccello, in alto,
sulla porta della sua camera.
Bestia o uccello che sia
sul busto scolpito, in alto,
sulla porta della sua camera.
Con quel nome: “Mai più.”

Ma l’uccello solitario
sul placido busto,
proferì quell’unico motto,
come se tutto l’animo suo
si aprisse con quel solo,
unico motto. Non una parola,
nè un suono di più,
nè si mosse una sola piuma.

Ma quando in un soffio
appena mormorai:
“Altri amici son volati via,
verso il mattino, anche questo
se ne andrà, come le mie
speranze volate via.”
Il corvo disse:”Mai più.”

Stupito nell’udir nel silenzio
così precise parole.
“Senz’altro – mi dissi –
ripete le sole parole
che sa, apprese da qualche
sventurato padrone,
perseguitato da una
sciagura crudele,
fino a quando
i suoi canti ebbero
un sussulto funereo,
e la sua Speranza
ebbe un solo,
rintocco funereo: “Mai più.”

Nelle mie cupe fantasie
il Corvo ancor m’induceva
al sorriso, una soffice poltrona
spinsi di fronte all’uccello,
al busto e alla porta.
Affondando nel velluto legai
idea con idea, pensando
a che cosa quel lugubre
uccello d’un tempo,
quell’orrido, goffo, spettrale
uccello d’un tempo, intendesse
gracchiando:”Mai più.”

Immerso in tali pensieri,
non una parola più dissi
all’uccello, i cui occhi
di fiamma ardevano
nel mio cuore.
Rimuginavo
sul sentenzioso
“Mai più” e su altro
ancora, con la testa
adagiata sul cuscino
di velluto, fantasticavo,
sul viola velluto riflesso
dalla lampada, nel morbido
lembo di velluto viola
che la sua guancia
non premerà mai più.

Più intensa mi parve l’aria,
quasi fosse sparso
dell’incenso da soavi
Serafini tintinnanti sul tappeto.
“Miserabile, – dissi – Dio ti
manda dagli angeli il liquido
nepente, per lenire il ricordo
di lei, il liquido nepente
a sollievo del ricordo
di Lenore. Bevi, dunque,
questo liquido e dimentica
la tua perduta Lenore.”
Il Corvo disse: “Mai più.”

“Profeta – dissi – maligna
creatura, uccello o demonio,
ma pur sempre profeta!
Inviato dal Maligno o spinto
fin qui dalla bufera, derelitto
ma indomito ancora,
su questa terra deserta,
su questa dimora oppressa
dall’orrore, dimmi, ti supplico,
c’è un balsamo in Galaad,
dimmelo, se c’è, ti supplico!”
Il Corvo rispose: “Mai più.”

“Profeta, – dissi – maligna
creatura, uccello o demonio,
ma pur sempre profeta!
Per il cielo curvo su di noi,
per il Dio da noi adorato,
dìllo a quest’anima piena
di dolore, se mai nell’Eden
lontano potrà abbracciare
la santa fanciulla che tra gli angeli
ha nome Lenore, la preziosa
e rara fanciulla che tra gli angeli
ha nome Lenore.”
Il Corvo rispose: “Mai più!”

“Sia questo, demonio o uccello,
l’addio! – d’impeto balzai
in piedi – Va, ritorna nella bufera,
nelle plutonie rive della Notte!
Non resti una sola,
nera piuma in ricordo
della tua menzogna.
Lascia inviolata la mia solitudine,
lascia il busto sulla mia porta.

Togli il becco dal mio cuore
e la tua immagine sulla mia porta.”
Il Corvo disse:”Mai più.”

E il Corvo senza alcun battito
d’ali, posa ancora, posa
ancora, sul pallido busto
di Pallade sulla mia porta.
E i suoi occhi paion quelli
di un demone che sogna.
e la luce della lampada
ne riflette in terra l’ombra
fluttuante, e il mio cuore
da quell’ombra
non si leverà mai più!

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