Franco Fortini imbarcato sull’Arca della NOE?

a cura di Ennio Abate

Pubblico lo scambio polemico che ho avuto negli ultimi giorni con Giorgio Linguaglossa a proposito di un suo articolo  su Franco Fortini. Non è una chiacchierata estiva. [E.A.]

 

UN COMMENTO AD UN ARTICOLO SU FRANCO FORTINI DI GIORGIO LINGUAGLOSSA (Giorgio Linguaglossa)
(Qui: https://lombradelleparole.wordpress.com/…/franco-fortini-1…/)

Questo di G. Linguaglossa a me pare un omaggio a Franco Fortini troppo distratto, strumentale e in fondo falso. Per varie ragioni:
– è discutibile che la fine del Novecento, sia pur solo «italiano» coincida col 1994, «anno di pubblicazione di “Composita solvantur” di Franco Fortini». Altri (Cortellessa in «Parola plurale», 2005) con buone ragioni indicò come data simbolica il 1975, anno del Nobel a Montale, della morte di Pasolini e dell’uscita de Il pubblico della poesia (18); ma forse l’incubazione del “postmodernismo” andrebbe indagata in processi sotterranei persino antecedenti più che fissata in una data precisa;
– Franco Fortini non fu affatto «poeta «storico»» (che vuol dire?) né tutto «ancorato storicamente nel Novecento». Fu ben piantato sia nei fermenti politici (socialisti, comunisti, sessantottini) e culturali del Novecento (oprattutto europei: Proust, Sartre, Lukács) ma anche nell’Ottocento (Carducci, Marx) e oltre: fondamentali in lui erano i rimandi alla Bibbia, alla classicità, a Dante.
– Può essere anche giusto sostenere che in «Composita solvantur» il manierismo delle «canzonette» è «sia una strategia di difesa […] che di offesa, rappresenta un monito e un richiamo»; e dire persino che fu «un ripiegamento a posizioni stilisticamente minori». A patto, però, di precisare quale sia tale monito o richiamo. Non si può ridurre l’intento testamentario di questa ultima raccolta fortiniana ad una semplice volontà di « sferrare un nuovo attacco (stilistico)». Fortini non è *mai* autore che si limiti allo *stile* (come fa invece Linguaglossa). «Composita solvatur» non si riduce alle sue «canzonette» [del Golfo] con il loro « tono ironico e lirico» e la «cadenza da ballatetta». Centrale è il monito severissimo e non certo ironicamente postmoderno del «Proteggete le nostre verità». Le quali, inoltre, non riguardano soltanto le verità della poesia. E il messaggio di Fortini non è stato di sicuro indirizzato ai soli poeti. Né ammette – pur nel ripiegamento – la « insopprimibilità dei rapporti di produzione», riconoscimento che s’insinua invece proprio nell’interpretazione forzata (e in tal senso strumentale) di Linguaglossa, troppo desideroso di confermare che « il declino del soggetto «forte» trascina con sé anche la possibilità eventuale che si possa ancora scrivere poesia sulla base di un soggetto «forte». È davvero paradossale che persino il titolo (dialettico) della raccolta (Composita solvantur) venga usato a favore di una interpretazione antimarxista e antifortiniana. (Come se – aggiungerei – i rivoluzionari o gli scrittori favorevoli alla rivoluzione socialista e al comunismo, come fu Fortini, potessero farla sempre, in qualsiasi momento, questa rivoluzione. Come se non ci fossero tempi bui, in cui si resta rivoluzionari (sì, nelle intenzioni!) senza per questo svendersi ai vincitori (reali o presunti) e senza adottare il linguaggio dei vincitori.)
In realtà l’articolo mi pare voglia riappropriarsi di una parte ( la più accettabile per i letterati e poeti che si muovono attorno a «L’Ombra delle parole») del discorso inscindibilmente politico/letterario/poetico di Fortini; e presentarlo come un epigono di una storia finita ( ma la globalizzazione è finita?) che non ha più nulla da dire o rimproverare ai nuovi veri pionieri, che sarebbero quelli della rivoluzione – ovviamente obbligarotoriamente ed esclusivamente – stilistica auspicata dalla (per me) Scolastica NOE.

Giorgio Linguaglossa

14 agosto 2018

La storicità debole nella quale oggi ci troviamo

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.»

Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.

Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di fare una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte» pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo ha bene illustrato il pezzo di Lucio Mayoor Tosi citato all’inizio.

Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò comporta una presa di consapevolezza che quella metafisica non è più utilizzabile, che dobbiamo andare al fondo della crisi di quella metafisica per poterla abbandonare nella sua interezza. Soltanto abbandonandola in piena consapevolezza possiamo alleggerirci e andare oltre, oltre il novecento. Noi possiamo soltanto raccogliere quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, ma con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con queste «cose» che noi dobbiamo edificare.

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura di modelli, di costrittività, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori devalutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi, dimenticare.

Dobbiamo intendere la Tradizione come distinzione  di Tradition e Ueberlieferung (trasmissione). La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore. A mio avviso, è qualcosa di più di un «guasto», qualcosa di diverso: siamo entrati tutti in un «nuovo orizzonte di eventi», in una condizione di «storicità indebolita», di «consapevolezza indebolita», di un ulteriore «indebolimento dell’essere». Con le parole di Heidegger: «ciò di cui non ne resta più nulla», in cui, nella scia di un pensiero post-metafisico, non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto. La «distruzione della ontologia» è già stata compiuta nel novecento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo. Ciò che resta della metafisica come destino si è già compiuto. «Che cosa pensiamo, allora, quando ri-memoriamo l’essere? Possiamo pensare l’essere solo come gewesen, solo come non (più) presente»,1 ciò che è latente ma che dalla latenza ci chiama e ci ri-chiama al nostro essere-qui, adesso. Da qui, da questa consapevolezza, è nata la «nuova ontologia estetica».

“Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto.” (Giorgio Linguaglossa)

Gentile Giorgio Linguaglossa,
sebbene lei abbia glissato sul mio commento critico (qui: https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/2174782372773256/) e vi accenni ora parzialmente senza nominarmi («Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento»), voglio ancora intervenire sul tema Fortini, da lei trattato qui: https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/05/franco-fortini-1917-1994-lultimo-poeta-storico-del-novecento-analisi-di-una-sezione-di-composita-solvantur-sette-canzonette-1994-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-lettura-nostalgico-utop/.

Sarà anche vero che molti giovani o giovanissimi abbiano oggi ««minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione». Non credo però che ciò possa dirsi per me, per lei e molti collaboratori de L’Ombra. Forse rispetto a Fortini, Pasolini, Sereni o a tanti altri, anche noi – oggi sessantenni-settantenni venuti dopo di loro – abbiamo tutti «minore consapevolezza storica», ma quella acquisita è stata sufficiente per *scegliere* sia nel corso della seconda metà del Novecento che in questi primi decenni del XXI secolo. Ed, infatti, abbiamo scelto.

Io vorrei soltanto insistere sul fatto che, pur in un contesto storico molto mutato, le *scelte* correnti (di poeti, critici, letterati, ecc.) dipendono ancora in buona parte dalle *tradizioni*, comunque contrapposte del Novecento, malgrado i si dice sulla possibilità di essere «né di destra né di sinistra» , le effettive e non trascurabili «zone grige», sempre presenti anche nei momenti storici di altissima conflittualità, e le pretese di «andare oltre, oltre il novecento».

No, la “saldatura” in un certo senso con le tradizioni (non *la* tradizione) del Novecento c’è ancora. Ed, infatti, la vostra «nuova ontologia estetica», pur pretendendo di essere « un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte»» e pur cogliendo la discontinuità con il passato (rilevante o totale? questo è un punto dubbio e rimasto in sospeso, malgrado l’intenso dibattito su modernità, postmodernità o ipermodernità, condotto in anni recenti da Ceserani, Luperini, Donnarumma…), è, a conti fatti, ben ancorata alla tradizione filosofica heideggeriana, che si è imposta anche in Italia a partire dagli anni Ottanta. Molti di voi o hanno sostituito Heidegger con Marx (se prima un po’ di marxismo l’avevano masticato tra gli anni Sessanta e Settanta) o hanno continuato ad “abitare” il linguaggio heideggeriano (basta vedere la frequenza di certi riferimenti: Vattimo ad esempio…) avvolti dalla nascita (culturale) nelle sue “ombre”.

È, dunque, solo in base a questa vostra *scelta* (spero consapevole) a favore del filosofo autodefinitosi «post-metafisico» ma ben piantato nei conflitti del Novecento e dalla parte nazista, come dimostrano le nuove ricerche sulla sua opera e in particolare sui suoi «quaderni neri» (https://www.ibs.it/heidegger-ebrei-quaderni-neri-libro-donatella-di-cesare/e/9788833927367?gclid=EAIaIQobChMIjMD7gszu3AIVBEPTCh2YCADvEAAYASAAEgK0T_D_BwE) ) che si possono sentire i classici dell’Ottocento e del Novecento «sempre più lontani, estranei». O collocare genericamente, superficialmente ed enfaticamente (sempre secondo me) l’opera di pensatori come Marx (o quella di un Fortini) entro «un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori devalutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi, dimenticare».

Ognuno, dunque, ha fatto le sue scelte. Ed io, senza salire su alcuna cattedra, con quel commento e questa precisazione, mi permetto solo di dare un consiglio: se siete heideggeriani e vi trovate a vostro agio nella «rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto», lasciate perdere Fortini (e, tra l’altro, anche Alfonso Beradinelli, che tra i pochi meriti, ha avuto almeno quello di aver sempre preso le distanze da Heidegger e ironizzato sulla “ombrosità” del suo linguaggio). Tutto qua.

  • caro Ennio Abate,

    che ti devo dire, grazie del «consiglio» che ci dai (in verità, non ho capito bene che cosa ci vuoi consigliare, forse di non utilizzare le categorie heideggeriane e di riprendere quelle di Marx?). Che dire?, tu ci metti tutti nel sacco «heideggeriano» (secondo te siamo tutti heideggeriani) e lo getti nel fiume perché ti dichiari marxista ortodosso… io non capisco: dovremmo abbandonare le categorie di Heidegger? Tutte? E per quale motivo? (se è lecito). Poi scrivi: «lasciate perdere Fortini», come dire qualcosa che non vorresti profferire; ma, insomma, i tuoi retropensieri non mi interessano. Andiamo avanti. Tu riprendi una mia categoria: «la rinegoziazione» con il passato, la tradizione, e ci passi sopra con grande leggerezza. Io ritengo di aver fatto un discorso che non si può liquidare con una battuta di spirito, come tu fai. Tu dici di non voler salire «in cattedra» e poi sali sul podio, e da lì ci sciorini «consigli» e investiture: Sì Marx, no Heidegger, sì Fortini, ma non per voi; no Vattimo perché troppo a destra, sì Donnarumma, sì Luperini, sì Ceserani perché più a sinistra, un po’ più ortodossi. Beh, io, caro Ennio, insieme ad alcuni poeti italiani di indubbio valore, a questo giochetto (questo sì, questo no) non posso starci (non ci stiamo), non ci sto, (non ci stiamo) io faccio un discorso serio (facciamo un discorso serio), non battute di spirito, dico delle cose credo importanti quando spiego che la poesia italiana è ferma da cinquanta anni ad una poesia «dell’informazione», ma tu (mi spiace dirtelo) su questa cosa ci passi sopra con una ruspa (mi sembri un pentastellato!), non ti avvedi (non vuoi o forse non sai) delle problematiche importanti che ci sono sotto alcune parolette (ci sono centinaia di post dove abbiamo approfondito le problematiche), ti sfugge completamente il concetto di «rinegoziazione», di «informazione», getti alle ortiche la «nuova ontologia estetica» perché la parola ti fa venire l’orticaria, ti lasci prendere all’amo dalla fobia per gli «heideggeriani» (quali noi siamo?), sei terrorizzato che qualcuno possa dare della poesia di Fortini una lettura che tu non ritieni ortodossa, o meglio che tu ritieni «superficiale» e eretica. Insomma, io il gioco degli aggettivi applicativi, il gioco degli avverbi per liquidare dei ragionamenti, questo gioco lo trovo stucchevole e mi annoia. Tutto qui.

    • Poco gentile Giorgio Linguaglossa,
      la sua replica al mio «consiglio» sembra quella di un buttafuori, tuttavia la ringrazio per avermi finalmente chiamato per nome e cognome. Intervengo un’ultima volta. Per darle modo di correggere (se l’onestà intellettuale ha ancora senso oggi) i suoi troppi travisamenti della mia posizione e aiutare i lettori de L’Ombra a valutare meglio il nocciolo critico di questa nostra polemica.
      Brevemente e schematicamente:

      1.
      «ti dichiari marxista ortodosso».

      No, è lei che mi etichetta così. Pur in una situazione molto cambiata, io non mi disfo della lezione del *marxismo critico* di Fortini, Cases, Adorno ed altri; e ragiono nel solco di pensatori marxisti niente affatto ortodossi che hanno tenuto presente la «crisi del marxismo» (da Rossanda a Revelli, La Grassa, Preve, Negri, Finelli, Kurz, ecc.);
      2.
      «Sì Marx, no Heidegger, sì Fortini, ma non per voi; no Vattimo perché troppo a destra».

      No, non sono così dogmatico come lei mi dipinge. I pensatori non sono intercambiabili o sovrapponibili. È evidente a chiunque che Marx o Fortini non si conciliano con Heidegger o Vattimo; e, anche se volessimo avere un atteggiamento eclettico (mai disprezzabile a priori), bisogna tener conto delle *differenze* tra loro, per non ingurgitare o somministrare ad altri minestroni indigeribili.

      3.
      « sì Donnarumma, sì Luperini, sì Ceserani perché più a sinistra, un po’ più ortodossi».

      No. Ancora una volta l’ortodossia non c’entra con questi critici. Li ho nominati esclusivamente in riferimento al dibattito su modernità, postmodernità, ipermodernità; e per sottolineare la *problematicità* delle loro analisi e conclusioni abbastanza diverse da quelle che lei predica. (Tra l’altro, negli ultimi anni, il modernismo, su cui lei insiste positivamente, l’ha rivalutato lo stesso Luperini).

      4.
      « fobia per gli «heideggeriani».

      Ancora no. È un dato di fatto che nei suoi numerosi interventi su L’Ombra lei si richiama e parafrasa in continuazione (spesso scolasticamente, se posso dirle il mio parere) testi di Heidegger. E non mi pare che aver definito la sua posizione come heideggeriana sia un insulto. Né ho chiesto di « abbandonare le categorie di Heidegger». Ho parlato di *scelte*: «Ognuno, dunque, ha fatto le sue scelte». Le sue, che non mi turbano né demonizzo, mi sento di avversarle; come faccio, quando capita, con vari amici heideggeriani o simpatizzanti di Heidegger; e, del resto, chiarire le distanze con i propri interlocutori, è un atto doveroso e preliminare al confronto. Cosa ha poi da temere dalla mia supposta “fobia”, se tre quarti del mondo accademico e para-accademico hanno promosso o subìto la “rinascita heideggeriana”? Dovrebbe stare tranquillo: è in ottima e fin troppo numerosa compagnia.

      5.
      « sei terrorizzato che qualcuno possa dare della poesia di Fortini una lettura che tu non ritieni ortodossa».

      No. Non sono l’esecutore testamentario di nessuno. Di Fortini mi sono occupato spesso in questi anni, anche insieme ad altri; e i miei interventi su Poliscritture dimostrano a sufficienza che l’ho fatto al di fuori di qualsiasi logica di ortodossia. Dunque, il mio ««lasciate perdere Fortini» era consiglio ironico. Come dire: ma se avete trovato il vostro Nume (Heidegger), non fate finta ogni tanto di occuparvi anche di Fortini, che sta su un’altra sponda. Perché inevitabilmente lei lo *scotomizza* (per usare un parolone anch’io). E questo gliel’ho argomentato ed esemplificato:

      « Fortini non è *mai* autore che si limiti allo *stile* (come fa invece Linguaglossa). «Composita solvatur» non si riduce alle sue «canzonette» [del Golfo] con il loro « tono ironico e lirico» e la «cadenza da ballatetta». Centrale è il monito severissimo e non certo ironicamente postmoderno del «Proteggete le nostre verità». Le quali, inoltre, non riguardano soltanto le verità della poesia. E il messaggio di Fortini non è stato di sicuro indirizzato ai soli poeti. Né ammette – pur nel ripiegamento – la « insopprimibilità dei rapporti di produzione», riconoscimento che s’insinua invece proprio nell’interpretazione forzata (e in tal senso strumentale) di Linguaglossa, troppo desideroso di confermare che « il declino del soggetto «forte» trascina con sé anche la possibilità eventuale che si possa ancora scrivere poesia sulla base di un soggetto «forte». È davvero paradossale che persino il titolo (dialettico) della raccolta (Composita solvantur) venga usato a favore di una interpretazione antimarxista e antifortiniana».

      «Retropensieri»? Nessuno. Semmai un certo fastidio nasce da un *pensiero*, da me espresso e non lasciato in nessun retrobottega, quando vedo che lei tende – appunto – a ridurre Fortini a “precursore” (un po’ cieco) della nuova “alba Noetica” e a confinarlo nel «relittuario» del Novecento.

      6.
      «getti alle ortiche la «nuova ontologia estetica» perché la parola ti fa venire l’orticaria».

      No. Negli ultimi anni ho letto di tanto in tanto alcuni delle « centinaia di post » che L’Ombra ha dedicato alla NOE. Ne avevo anche selezionato e mi ero ripromesso di approfondirne il contenuto per intervenire ed esprimere un mio dissenso ragionato. Non ci sono riuscito. E né le sue reazioni né quelle dei suoi silenti sodali, appena mi affaccio su L’Ombra per commentare, sono incoraggianti. Tengo però a chiarire che, in questa situazione caotica (in poesia e nella vita sociale e politica) a me tutti quelli che navigano a vista anche su gommoni o carrette del mare stanno bene; e che non sono mai intervenuto per dire: “Non salite sull’Arca di NOE”. Le mie riserve, semmai, nascono dal vedere accolte in essa solo alcune limitate specie di “animali poetici”. O dal notare l’ossequio e la lode convenzionale dei commentatori di fronte a qualsiasi brano che lei pubblica. O dal cogliere un certo “spirito di gruppo inter nos”, che si autoalimenta con reciproci incensamenti. E devo dirle che mi lascia di stucco, specie se ripenso alla idiosicrasia per il *fare gruppo* che lei esprimeva ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia e della nostra breve e infelice collaborazione. Insomma, depurato il vostro un linguaggio da una terminologia spesso inutilmente oscura e sacralizzante e dalla spocchietta che vi spinge ad autoinvestirvi del titolo di iniziatori della « nuova poesia italiana» o a definire banali tutti gli altri discorsi che oggi si tentano in poesia, anche a voi lunga vita. E buona navigazione nell’ ombra delle parole.

4 pensieri su “Franco Fortini imbarcato sull’Arca della NOE?

  1. Gentile Ennio Abate, due domande soltanto, non mi attendo risposte:

    1- Chi erediterà questo mondo?

    2- Dove passerai l’eternità?

    Gino Rago

    1. @ Rago

      Contro i cattivi auspici delle tue due domande mi hanno suggerito un gesto scaramantico. Sbagliano?

      1. Gentile Ennio Abate, i Suoi amici La hanno consigliato male, le due domande non sono peregrine… Le argomento il perché sulla sintetica risposta che ho pubblicato su L’Ombra delle Parole, l’unica Rivista Letteraria che frequento con assiduità sempre nello spirito di totale, libero, incondizionato di servizio dei poeti e della poesia altrui. E poi ho quell che oggi stride come antica e superata in questi tempi di banderuole: la fedeltà, la fedeltà ai luoghi e alle persone. E mi creda, sono fedelissimo a Giorgio Linguaglossa, e non da ora. Ed egli è fedele a me.

        Gino Rago

        Ora mi sorride l’idea di giocare un poco insieme, Gentile Ennio Abate,
        con codeste
        meditazioni scherzose, ma non tanto, sulla critica letteraria contemporanea.

        Dialogo immaginario tra Avenarius e il Signor Pistorius

        Avenarius e il Signor Pistorius non dialogano da tantissimo tempo.
        Poi, rompendo gli indugi, decidono di incontrarsi in uno dei tantissimi venerdì della città , di quelli nei quali l’amico parla dell’ultimo libro dell’amica/o e l’amica del più recente libro dell’amico/a.

        Alla fine di uno di questi incontri, defilandosi elegantemente, Avenarius
        chiede al Signor Pistorius: “Ma è questa udita stasera quella che si dice
        esegesi della poesia contemporanea? Quella che più diffusamente viene
        detta critica letteraria?”

        Il Signor Pistorius, dopo un lieve sbandamento, risponde: “Devi
        saperlo, in nome della nostra solida amicizia devi saperlo: non sono
        guarito da quel male, da quella patologia che da sempre mi perseguita…”
        “Quale, per la precisione, a quale patologia ti riferisci ?” chiede
        allarmato e quasi in apnea Avenarius.

        “L’etimomania. E’ terribile, credimi”, soggiunge il Signor Pistorius.
        Avenarius prima tace e poi lo incalza: “A che proposito confessi questo
        male?” E il Signor Pistorius laconico risponde: ” A proposito di ciò che si dice “critica letteraria… Vedi, tutto nasce dall’orzo o dal grano o dal riso.
        Dai cereali che vanno chicco a chicco. Bisogna, dopo il raccolto, “ripulirli” come dice sempre un mio amico poeta di Campobasso, “dalla pula”.

        Bisogna selezionarli, sceglierli, vagliarli, per separare i chicchi buoni
        da quelli marci. E, soprattutto, per separare quelli ottimi da destinare
        alla semina da quelli buoni destinati a farsi cibo quotidiano.
        E’ il primo “vaglio critico”, con un vaglio appunto o un setaccio o un crivello. E’ il primo gesto di separazione e di giudizio.

        Sbagliare questo primo gesto può mettere in pericolo la sopravvivenza
        di una famiglia o di un intero villaggio…E i contadini furono i primi
        accorti critici…” Avenarius ascolta, intuisce, ma non è ancora sicuro.
        Poi chiede al Signor Pistorius: “E’ bello e saggio ciò che dici. Ma parlavamo prima di critica letteraria…”

        E il Signor Pistorius con un filo di voce, come un fiato sottile
        suggerisce: “La critica è proprio questo. E’ proprio quest’arte di
        scegliere, di dare giudizi, di giudicare. E vale, credimi, con i chicchi di
        grano come anche in altri casi e in altri campi, come quelli politici,
        quelli giudiziari, quelli pratici. Ma soprattutto vale in campo estetico…”
        “Ma allora…” cerca di ribattere Avenarius.

        “Perdonami, il viaggio mi ha stancato. Se hai voglia di ascoltarmi e non ti annoio possiamo continuare un’altra volta…”

        Gino Rago

  2. @ Gino Rago

    VALE COME RISPOSTA A QUESTO SUO INTERVENTO QUANTO HO APPENA SCRITTO SU “L’OMBRA DELLE PAROLE”:

    gino rago
    21 agosto 2018 alle 19:07

    Gentile Abate,
    mi sono limitato a invitarLa semplicemente a un esercizio di ermeneutica sui 6 testi poetici compresi nella miniantologia che ho proposto: conosco assai bene l’ermeneutica linguaglossiana, mentre della Sua, mi creda, non so nulla, né conosco il Suo fare poetico.

    Per le due domande che Le ho rivolto:

    1- Chi erediterà questo mondo?
    2- Dove passerai l’eternità?

    è appena il caso di ricordarLe che la prima è una delle colonne portanti della ricerca poetica di Ewa Lipska, mentre la seconda sostiene grande parte della esperienza poetica di Z. Herbert.

    Ennio Abate
    21 agosto 2018 alle 22:44

    Gentile Rago,
    non mi sono riaffacciato su L’Ombra per confrontare le mie conoscenze ermeneutiche con le sue o con quelle di Linguaglossa o per vedere chi ce l’ha più lunghe e sofisticate. Né per essere sottoposto a indovinelli sui versi di poeti stimabili. Sono qui per un tema che a me sta a cuore: la figura e l’opera di Fortini. Ho detto la mia, contraddetto quella di Linguaglossa. E aspetto ancora eventuali repliche da lui o da altri solerti commentatori de L’Ombra.
    Lei, invece, mena il can per l’aia e parla d’altro.
    Se poi la sua sull’argomento l’avesse già detta, visto che si riduce a ritenere che io sia mosso da ” pregiudizi stroncatori,[…] inclinazioni esaltative” , che le mie critiche non siano ” sostenute da solide basi che potremmo dire di critica letteraria” o che abbia “il gusto di avversare, prendendo sé medesimi come riferimento, in una visione abatecentrica”, per me non ci sono le condizioni per nessun dialogo. Stia bene.

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