La felicità un po’ guascona degli zingari

Una nota su Claudio Lolli

 di Lorenzo Pinardi 

Persi le forze mie persi l’ingegno
che la morte m’è venuta a visitare. 
[Lamento per la morte di Pasolini]

Nell’introduzione ad un suo concerto, registrato nel novembre del 2000 presso la chiesa di San Lorenzo a San Vito al Tagliamento, Giovanna Marini rievoca un bellissimo ricordo. Nel febbraio del 1958 cominciò a suonare la chitarra classica nei salotti dell’intellighenzia romana e durante una di queste serate culturali, in una abitazione nei paraggi di Piazza di Spagna, mentre si prodigava nell’esecuzione di Bach attirò l’attenzione di un giovane con un bellissimo sorriso e la testa leggermente inclinata nell’ascolto.
A un tratto il giovane chiese: «Ma non smetterai mai?».
Giovanna Marini, un po’ piccata, rispose: «No, è il mio lavoro, posso continuare tutta la notte se serve!».
Il giovane di rimbalzo: «… e se tu cantassi qualche cosa?»
«Eccolo là, sempre» pensò Giovanna Marini «in queste riunioni intellettuali, mentre io suono Bach, arriva uno e mi dice: “Ci canti Casetta di Trastevere?”».
Giovanna Marini non gli rispose e continuò a suonare quando a un tratto il giovane si mise a cantare:
«Si saveis ches fantazinis ce che son penseirs d’amor».
«Bravo» disse al giovane Giovanna Marini «sei anche intonato, molto bene: da quale libro hai preso questa canzone?».
Il giovane pensò e poi con un bel sorriso disse: «Ma le canzoni non si trovano sui libri».
Giovanna Marini replicò: «Ah no? Allora senti questa» e dopo aver intonato una lauda disse: «Ti piace?».
«Sì» rispose il giovane.
«Questa viene da un libro: da Dario di Cortona 1315. Hai visto?».
Il giovane sospirò e sorrise poi finalmente disse: «Sì, ma prima di stare nel libro questa veniva cantata nelle strade e nelle piazze perché è cultura orale».
«Cultura orale?».
Giovanna Marini si sentì spiazzata dalla considerazione del giovane.
Nella rievocazione del suo ricordo precisa simpaticamente che la costosa formazione culturale che aveva sin lì ricevuto, in un convento di monache, si prefiggeva di fornire agli allievi una totale e completa ignoranza però priva di un qualsiasi complesso d’inferiorità. I due proseguirono per tutta la serata un’appassionata conversazione che sarebbe poi proseguita negli anni successivi: si tratta del primo incontro della chitarrista romana con Pier Paolo Pasolini.

Claudio Lolli aveva una ammirazione profonda per Giovanna Marini. Questa stima era ricambiata e in una intervista, racchiusa negli atti del convegno “Piazza bella piazza” avvenuto a Perugia il 2 giugno del 2000 per la celebrazione dei trent’anni del disco “Ho visto anche degli zingari felici”, precisa il senso del proprio lavoro artistico dicendo che per certi versi il suo è stato un tentativo di conciliare la canzone d’autore tradizionale con la canzone più strettamente politica: «Allora io ho cercato un po’ di mescolare queste due dimensioni in una canzone che avesse una sua dignità e valenza politica, senza però la sloganistica. Può essere anche un’operazione conservatrice questa, eh… un’operazione di “destra”… un po’ snob: “nobilitare” la canzone politica che non ne ha bisogno, oppure politicizzare la canzone lirica». (Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di Claudio Lolli, Terni, Luciano Vanni editore, 2006, p.79).
«Le undici le volte che l’ho visto / gli vidi in faccia la mia gioventù» con questi versi Giovanna Marini racconta il suo legame con Pasolini nel bellissimo testo Lamento per la morte di Pasolini scritto nel dicembre del 1975. In parte anche per molti ascoltatori di Claudio Lolli è andata allo stesso modo. Le canzoni del cantautore bolognese rappresentano la narrazione e la memoria di un’intera generazione. Ovviamente non si tratta solamente di questo.
Marina, la moglie di Claudio Lolli, in un articolo del 18 agosto apparso su “Repubblica”, ha precisato che: «È vero, per tanti è rimasto il cantautore degli Zingari felici, ma è assurdo bloccarlo in quella fotografia di così tanti anni fa. È stato anche molto altro».
Una delle cose che colpiscono di più in Claudio Lolli è proprio il fatto di avvertire in maniera potente la presenza della poesia. Sono molte le interviste o i testi in cui il cantautore bolognese riflette e cerca di definire il senso e il valore della parola poetica.
Lascia abbastanza impressionati la lettura di una splendida prefazione scritta nel 2004 per il volume di versi di un poeta rumeno, Tudor Arghezi, curato da Marco Dotti per i tipi di Stampa Alternativa.
Qui si ritrova, con largo anticipo, già il titolo del suo ultimo lavoro discografico, Il Grande freddo, e si comprende che è proprio attraverso la parola poetica che “restiamo umani” perché: «fuori dalla casa della poesia il Mondo è davvero finito, la collera è non detta, l’amore è abitudine e il Grande Freddo si diverte ad arruolare eserciti indifferenti e analfabeti».
Il traduttore italiano del poeta rumeno Arghezi è il premio Nobel Salvatore Quasimodo che, in una nota al testo, rivendica il fatto di aver tradotto “senza conoscere una parola di rumeno” e di aver comunque lasciata intatta la qualità poetica dell’originale. Meglio una traduzione con una quindicina di errori che un lavoro vuotamente accademico simile a un elenco da dizionario.
Claudio Lolli sottolinea sagacemente che Salvatore Quasimodo in questo lavoro di traduzione si è comportato come un ladro, come un frequentatore abusivo di quella casa di piaceri che è la poesia. La storia è molto antica, si tratta di rubare il fuoco agli dei per donarlo agli uomini: «La sensazione è molto piacevole. Come essere un ladro gentiluomo che entra furtivamente, nottetempo, in una vecchia villa disabitata, un po’ fuori mano: la trova forse appena polverata, ma le luci, come per magia, sono accese e sono luci d’epoca, fioche e calde, che illuminano una superba collezione di opere d’arte, che il ladro (ladro di sguardi), avido, contempla.
È proprio con la leggerezza e la felicità un po’ guascona del ladro gentiluomo che ho violato le parole luminose delle poesie […]»

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