Sulle mie “poeterie”

Tabea Nineo, Disegno 1990 circa

Riordinadiario 1977-1978

di Ennio Abate

1977

8 dicembre

Rilettura appunti 1975 (poesia/letteratura, quaderno arancione). Sono monologhi: avvio faticoso, genericità, impaccio nell’uso dei concetti. Solo verso la fine, sulla scorta di letture affannose (Fortini, Brecht e Montaldi), mi riesce di essere più preciso. Sono tentato dalle scorciatoie (occuparmi solo di poesia). Fatico a districarmi dai pregiudizi antiartistici dell’ambiente di AO. Parlo del problema arte-politica in modi poco documentati. I giudizi critici sono grezzi. È un limite della mia generazione? Dovuto al ribellismo degli anni passati? Noto però che anche chi ha continuato a fare poesia senza i miei/nostri sbandamenti ha visto rinsecchirsi la sua ricerca. (Cfr. Fortini quando parla di Pasolini in Questioni di frontiera). Vivevo la crisi della poesia abbandonandola?

12 dicembre

Il sentimento che ora fa da base (o da contorno) al mio impulso poetico mi pare quello del mattino e del risveglio: al mattino guardo fuori dalla finestra, verso la strada, che  non è ancora strada. O agli oggetti in casa, che non sono ancora oggetti.

19 dicembre

Lettura: Cirese, Verga e il mondo popolare. Si rivolge ai letterati-letterati. Anche se s’occupa di Verga, che in passato ho amato, m’interessa poco. La mia è la reazione irrilevante di uno tagliato fuori dal mondo letterario o un’acquisizione di un’altra posizione da cui pensare alla poesia? [Aggiunta 2001: quando titolai La poesia da lontano la mia riflessione su Poesie e realtà 1945 – 2000  di Majorino…]

25 dicembre

1.
Dopo aver scritto Favola natalizia. Importanza del dialogato. Trovare qualcuno che la reciti? L’uso del dialetto mi restituisce il tempo di quando ero ragazzo. Allora ero attentissimo alle parole che sentivo pronunciare dagli altri.

2.
Poesie degli ultimi 2-3 anni. C’è un intreccio decente fra fatti, dialogato e riflessione.
Mi pare di aver risolto nella pratica della scrittura certi problemi di espressione e di rapporto tra linguaggio ed esperienza, che a volte invece mi pongo in astratto come se si trattasse soprattutto di studiare, riflettere, fare chissà quante letture.

3.
Revisione delle vecchie poesie non pubblicate. Mi sento di lavorarci in due direzioni: – restauro (alcune le avevo incollate assieme in fretta e senza convinzione); – sviluppo dei temi enucleati. Per qualche poesia (ad es. Gabriella) ho tentato una riscrittura secondo la mia sensibilità d’adesso. Sono operazioni diverse dall’autocommento tentato anni fa. Allora puntavo soprattutto a ricordare le circostanze esterne in cui le avevo scritte.

27 dicembre

1.
Esercizio antinarcisistico: scavare non solo su quanto ho scritto io ma sulle poesie degli altri.

2.
Prendere contatto direttamente coi testi dei poeti che mi attraggono. Non tentare di incontrare quelli che sento comunque inaccessibili (Fortini).

3.
Majorino, Poesia e realtà 1945 – 1975:
“ chi scrive non può che scrivere stando in mezzo alla gente, non sopra o, comunque, staccato. Era già una delle indicazioni più suggestive di Saba… si consolida in casi come questi, di poeti che scrivono stando tra i proletari, e non per temporaneo transito, ma perché essi stessi proletari, come collocazione nel processo produttivo, come vita quotidiana, nel lavoro, nei rapporti usuali” (Vol I, pag. 129)

28 dicembre

1.
Cosa vuol dire “stare in mezzo alla gente” per un poeta? Vuol dire anche “guastarsi”. Non solo ridimensionare le proprie ambizioni di affermarsi come poeta, abbandonare la fiducia assoluta nella poesia, ma smarrirsi, persino ridursi al silenzio. Non è un processo del tutto negativo. Sia quando si riesce a seguire il proprio smarrirsi conservando una coscienza poetica sia quando ci si smarrisce e basta. Questo smarrimento della poesia oggi è un fatto storico non da evitare ma da vivere pienamente.

2.
Ho alternativamente sopra-sotto/valutato lo sforzo di scrivere che feci attorno ai vent’anni. Il tragitto compiuto (grosso modo in due tappe: da Salerno al ’68; dal ’68 al ’75) è contorto. Ma ci sono elementi positivi di continuità. Non esiste nel mio caso un periodo tutto poetico e uno tutto politico, anche se ho sentito grosse lacerazioni tra i due periodi.

3.
Mi chiedo (mi potrebbero chiedere): perché tutto questo lavorio su 100 fogli scampati alle vicende della mia giovinezza? cosa pensi di ricavarne? non è meglio disfarsene, ripartire da zero? No. Mi do il compito di riunificare il mio percorso; e perciò tutte le tracce potrebbero servire. Ad es. certi commenti alle poesie di allora hanno un nucleo narrativo che potrei sviluppare. [Nota 2003: Cfr. poi Reliquario di gioventù in Samizdat Colognom n. 5, sett. 2002 – sett. 2003 con una nota-commento di Michele Ranchetti]

4.
Ma che te ne fai di queste poesie-tracce (o tracce di poesie), spesso appunti difficili da decifrare? Cosa le distingue o le rende più interessanti di altre tracce (un ricordo, un appunto senza intenzione poetica)?

5.
Sulle poesie ‘62-’64 scritte tra SA a MI. Forte il segno di una “coda” d’adolescenza vissuta in forte isolamento e incapace di stabilire un rapporto che non fosse tutto emozionale con quelli con cui studiavo (a SA) e con cui lavorai poi come impiegato a MI. Sono ossessive.

29 dicembre

1.
Preparando Poesia della crisi lunga. Sono partito da uno scheletro di pensieri di vita quotidiana che mi premevano (avere o no rapporto con i compagni di Cologno che fanno il giornaletto Leggere Cologno). Poi ho aggiunto “carne poetica”. A metà lavoro mi sono accorto della contraddizione di parlare come se essi, che mi sono diventati sempre più distanti, fossero gli unici e veri miei interlocutori. Ho scelto allora la forma del monologo, senza più preoccuparmi delle eventuali critiche di apoliticità o asocialità.

1978

2 gennaio

Lettura. Roversi, I diecimila cavalli. Bellissimo l’intreccio del dialogo fra i due amanti che si separano e la descrizione dell’intervento della polizia contro i manifestanti. E poi parla con passione dei meridionali e con rabbia della polizia. Accorcia il romanzo veristico, lo stravolge. È un lavoro da scrittore maturo. Non cerca spiccioli.

5 gennaio

1.
Fortini. “Alcune delle più preziose informazioni sulle tendenze politiche per entro la nostra repubblica si leggono in versi” (Fortini, Saggi italiani, De Donato Bari 1974,  pag. 140)

2.
“Eluard… in queste prime persone plurali” (Fortini, idem, pag. 142)

6 gennaio

1.
Attento anche alla scelta di stare sempre sott’acqua, in ombra.

2.
Perché invadere gente che incontri/
di discorsi secolari/
dei nostri discorsi/
carta assorbente del discorso Secolare/
ciascuno – solitario o assieme…..

3.
Leggo l’attenta critica di Fortini ai romanzi di Pavese, che io divorai fra ’60 e ’64. Che rapporto unilaterale e chiuso ebbi con quei suoi scritti! Con chi potevo discuterne? Il mio allora era solo un solitario innamoramento per uno scrittore che mi “prendeva”.  Non pensavo neppure a leggere le opinioni critiche su  di lui. Perché ero fuori da qualsiasi giro letterario? Forse. Ma tutti i rapporti di allora (della giovinezza), anche nella vita quotidiana, erano esclusivi (e attraversati da timori e gelosie inespressi).

4.
Con alle spalle studi liceali (non eccelsi) e poche letture da autodidatta (Pavese, Lawrence, Proust e Joyce e altri autori, proposti dagli appena nati Oscar della Mondatori insomma) precipitai, spostandomi a MI, ai bordi della condizione proletaria. Crisi della mia timida – non ne parlavo con nessuno – “vocazione” poetica. Gli autori che lessi da giovane erano legati ai terremoti sociali del loro tempo, ma quando capitai io in uno di questi terremoti, mi accorsi che non potevo portarmeli appresso nel vortice della militanza. Smisi semplicemente di leggerli. Li sostituii con letture di storia, di economia, di marxismo.

5.
Da verificare. Mi avvicino di più al “sociale” in cui vivo mediante la ricerca poetica o con quel che mi resta dell’esperienza  di militanza politica fatta tra ‘67-’75?

6.
Dopo aver confrontato le opinioni di Fortini (Saggi italiani) e di Raboni (Poesia anni ’60, pag. 206) sulla metrica. Lo scarso armamentario che gli studi liceali mi diedero in questo  campo è del tutto sepolto oggi. Lo studio della metrica non mi attrae. È per me tradizione perduta. Nei confronti di questi studi oscillo fra ossequio e rifiuto. Fortini riesce ad occuparsi contemporaneamente di cottimo e di metrica senza smarrire la collocazione (personale, sociale e storica) da cui si parla. Io no. Mi restano delle domande più elementari: perché certe “cose” si scrivono in versi e non nella prosa? lo si fa soltanto perché si cerca un pubblico diverso da quello che frequentiamo (di poeti, letterati) oppure per stabilire un altro rapporto (più profondo) con gli altri (poeti e non)? Una poesia non è un intervento politico. Il poeta non è un giornalista. Non bisogna caricare lo scrivere in versi di compiti che esulano da questa pratica. Esercitandola significa staccarsi inesorabilmente dal rapporto possibile con la classe operaia o presentarsi nelle lotte con la propria faccia (che può essere anche di poeta) e con il proprio (minimo) potere?

7.
Metrica, traduzioni, critica, letture. Potrebbero essere la ginnastica quotidiana per preparare lo scatto poetico.Se però vivessi in un ambiente di letterati. Da giovane, ma anche adesso, questa ginnastica la potevo e posso fare solo partendo dal vissuto quotidiano, dalle letture disordinate che riesco a fare negli intervalli strappati al lavoro e alle faccende quitidiane; e, per non perdere il filo che tesso, rileggendomi periodicamente le note del diario. A volte penso di fare il poeta-intervistatore per non perdere il contatto con chi mi sta attorno. Ma all’atto pratico spesso l’intervistatore prevale sul poeta: il contatto diretto con una certa realtà sociale mi distrae dalla poesia e mi  impone forme più prosaiche e dirette. Lo scarto tra poesia e prosa per me è molto netto.

8.
Tradurre equivale a scrivere o leggere per risonanza. Mi fa uscire dal guscio a cui più sono abituato o costretto: il rapporto con il “mio” passato (o il “mio” quotidiano). La lettura di scritti altrui mi spinge a una scrittura più “socializzata”. E però spesso non vado oltre la scelta di citazioni o articoli da usare come pro-memoria. La mia capacità di commento ai testi è limitata. Ipotesi di lavoro: lettura-traduzione di alcuni classici studiati al liceo; accostamento a testi di stranieri in originale, vietandomi di ricorrere alle traduzioni già fatte. E per il dialetto?

9.
Fortini, Traduzione e rifacimento (Saggi italiani, pag. 332). Mette in luce (fuori dalle illusioni nazional-popolari) la tensione esistente tra l’italiano subalterno di cui ci siamo impossessati a fatica e il «metalinguaggio della cultura dominante». Altro che sentirsi “privilegiati” per essere arrivati alla lingua nazionale! Cosa vuoi che si emozionino o siano attratti da una poesia che nasca dalla condizione di subordinati quelli che operano in quel metalinguaggio. Case editrici, università, editoria scolastica. Che può fare un guastatore solitario di fronte ai Golia culturali?

10.
Nella possibile Lettera a Fortini evitare ogni tono da complice.

QUI*

11.
Evitare d’imbarcarmi nel tentativo di redigere un bollettino-rivista a Cologno se i partecipanti hanno scarsa attenzione ai problemi di come e cosa scrivere.

12 gennaio

1.
Sono passato (e ci sono conseguenze) attraverso il rifiuto della poesia. Ne ho ricavato solo insofferenza per quelli che oggi ne scrivono e scetticismo?

2.
I cataloghi delle case editrici e le recensioni sui giornali. Sollecitazioni disordinate. Do un’attenzione spropositata ad alcuni autori e  ne trascuro tanti altri. Le mie scelte non partono da un problema. Non  ho un panorama generale della produzione poetica contemporanea.

3.
Tessa (Cfr. Fortini, Poeti del ‘900, pag 110). L’attenzione all’“orrido, al putrefatto” nasce per Fortini sempre da un pessimismo conservatore e non esclusivamente dalle cose. Penso ad es. al mio cattolicesimo giovanile. Non vi sono condannato. È possibile riordinare altrimenti quel vissuto e portare alla luce aspetti allora soffocati. [“l’introduzione di nuovi contenuti già di per sé comportava un’alterazione dei significati, quand’anche il sistema dei significanti potesse sembrare immutato”, Fortini, I poeti del ‘900,  pag. 119)

4.
Trasformazioni della mia scrittura. Dopo il ’68 ho continuato a scrivere. Non più poesie, ma volantini, documenti, appunti. Un impoverimento? Un impratichirsi di altri generi? È cambiata anche la gente che frequento. Sono, sbandando, cambiato con loro. Ma è un demerito rispetto a quanti hanno  potuto o saputo controllare più di me la trasformazione della realtà?  E se se ne fossero semplicemente distanziati o addirittura l’avessero sorvolata? C’è un’enfasi sospetta nelle autocritiche che sento sui limiti del periodo di militanza. Scegliendo  ora Fortini al posto di Lenin so che non si superano automaticamente. Tornare a studiare letteratura non equivale a cancellare i problemi politici. L’antitesi letteratura-politica spinge a passare da un campo all’altro come se fossero separati. Al posto del ritorno alla letteratura io voglio tentare un rendiconto della mia contorta formazione culturale e non farmi ingabbiare in uno dei suoi segmenti.

5.
Pavese. Elementi anticonformistici ed epici pur dentro un tessuto decadente (Fortini, Idem, pag. 120). Mi predisposero alla rottura con SA, ma erano inadeguati ad affrontare i problemi che incontrai a MI. Continuai per un po’ a sentire Pavese, soprattutto quello del diario, come un complice, uno che aveva lo stesso problema di cui soffrivo io (la donna “che fa male”). Poco afferrai allora del suo lavoro di traduttore e collaboratore Einaudi (un preciso lavoro) o di “compagno” (a SA e poi a MI fin quasi alla vigilia del ‘68 non avevo vera attenzione alle cose politiche). Pavese fu (con Joyce, Proust e la pittura moderna tra fine e inizi del Novecento) una delle reliquie dei miei studi interrotti. Con il ’68 e il rifiuto della letteratura, la sua immagine svanì. Ricordo il fastidio che ebbi leggendo un passo contro i meridionali nei suoi diari, che ancora avevo acquistato appena usciti attorno al ’65-’66. (Ed era uno dei primi libri che ricompravo, dopo aver svenduto quelli che  ero riuscito a ricomprare a MI su una bancarella di piazza Durante) un po’ per rabbia e un po’ per difficoltà economiche).

6.
Montale. Non mi permette immedesimazioni. È così medio-alto borghese. Esorta Arsenio, il suo doppio «ad affrontare il temporale, ossia (simbolicamente) un’esistenza meno protetta e più audace». Ma quanto protetta era la mia esistenza a SA? E che tipo di “temporale” ho affrontato venendo a MI? La SA della mia infanzia e adolescenza non era più città fascista, ma democristiana. I fascisti sconfitti operavano in ombra. Certo anche la mia poesia ‘61-’62 tende all’uso di simboli…

14 gennaio

1.
Dario Bellezza. Concitazione che non riesco più a condividere. La Roma degli artisti, il “letto”, la “vita peccatrice”. Sui 17-18 anni avrò avuto (forse) spinte simili. Mi chiedo quali sconvolgimenti si sono prodotti in lui rispetto ad altre vite e quali parametri servirebbero per intenderlo. Mi procura angoscia: m’avvicina a qualcosa di rimosso. Mi succede anche di fronte a quelli dell’Autonomia.

2.
Spatola. «Assunzione di un punto di vista cosmogonico, originario, smisurato. Dal quale la storia tende ad apparire […] come pura vicenda biologica» (Fortini, Idem, pagg. 23-24). Tentazioni simili mentre scrivevo Poesia della crisi lunga. Mi chiedo quali possano essere i punti d’incastro fra la realtà-linguaggio di questi poeti e la realtà-linguaggio mia (dei miei studenti, dei compagni che frequento). Droga, violenza, omosessualità: sono esperienze da cui mi sono “preservato”, che ho vissuto da spettatore esterno, ma non tanto da smarrire un fondo comune che mi lega a quanti vivono in queste realtà.

3.
Fare poesia continuando a stare con quelli che non ne scrivono (o lo fanno di nascosto, da dilettanti, ecc.) Pensare a intervistare alcuni poeti clandestini e no?

4.
A MI non ero, non potevo essere contemporaneo del Gruppo ’63 né partecipe in alcun modo delle tante altre iniziative letterarie in corso nei primi anni ‘60, quando io ero appena arrivato. Avvenivanosu un altro piano rispetto a quello in cui mi trovavo io prima come impiegato, poi come disoccupato e poi come studente-lavoratore. Forse, se fossi rimasto a SA e avessi continuato l’università, ci sarebbero state delle occasioni di attrazione e avvicinamento verso queste esperienze rimaste distanti. Eppure non avevo sentito distanza nei confronti del realismo e poi del neorealismo, che mi avevano attratto attraverso la lettura di Verga, Pavese e anche dei racconti di Domenico Rea, che leggevo su Il Mattino comprato da mio padre tra 1956 e 1960. Un mio racconto, che ho perduto ma che avevo scritto attorno ai 18 anni a Salerno e mandato ad un concorso (indetto da “Noi donne”?), trattava secondo moduli neorealistici la crisi di un adolescente in rotta con la famiglia. L’avanguardia artistica mi aveva invece raggiunto attraverso le riproduzioni della pittura moderna: le cartoline che trovai alla Scuola di ceramica frequentata  di sera mentre finivo il liceo. Ma anche attraverso la passione di uno studente del liceo artistico divenuto allora mio amico, Giovanni Pesce di Mercato San Severino. Avevo pure acquistato l’Ulisse di Joyce nella sua prima edizione della Medusa Mondadori, ma letto solo in parte e in fretta prima di partire per MI. (Senza dimenticare, assime a tanti Oscar Mondadori, la lettura di quasi tutta la Recherche. Che però, come l’Ulisse, fu lettura di accumulo, di assorbimento ingordo delle proposte che mi arrivano da quella che poi solo dopo il ’68 imparai  a chiamare industria culturale di massa. Leggevo senza  alcun orientamento.

5.
Che pensare dell’esaltazione e del lavorio che in ambienti letterari si fa attorno al folle, all’assurdo, al gioco? Dalla mia collocazione mi appare un fenomeno per raffinati. Mi ritraggo, me ne disinteresso.

6.
Avanguardisti e tradizionalisti. I primi mi suggestionano, mi sconcertano, ma mi fanno restare passivo. Verso i secondi ho un atteggiamento più attivo.

7.
Scrittura e militanza. Nella mia esperienza si sono scisse e escluse. Poteva andare diversamente?

8.
Sanguineti. Riassumendo quel che ho capito: – il linguaggio è sempre ideologia, cioè stravolgimento della realtà; quindi critica del linguaggio “naturale”, mimetico, realistico; – ma il linguaggio, privo di corrispondenza con la realtà, nuvola che non lascia indovinare la materia da cui emerge, irrazionale, non per questo diventa inutile; – il linguaggio-ideologia (usato nella consapevolezza di quanta ideologia contiene) serve a spiare meglio la realtà: il conflitto di classe, che agita anche il linguaggio e lo rende veicolo di miti.

9.
La poesia nasce da una particolare sensibilità storico-linguistica (orgoglio dannunziano, vergogna gozzaniana) costruitasi attraverso le pratiche secolari dei poeti ed è accompagnata anche da una particolare miopia e censura. Cadute le speranze di una rivoluzione sociale, l’antipoesia resta all’interno (spesso ai margini , bassi o alti) di questa pratica secolare, non fuori; è una variante della tradizione (G. Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p. 21). Forse la vera negazione della poesia la fa chi la ignora. (Poeti, antipoeti, non poeti).

15 gennaio

1.
Che differenza c’è fra il rifiuto della poesia grezzo dei ‘68ttini e quello culturalmente ipernutrito di Sanguineti?

2.
A volte la preferenza per un poeta è preferenza (non dichiarata, non consapevole) per il corrispettivo politico implicito nell’opera di quel poeta. Si apprezza Montale e si accoglie anche la filosofia del Corriere della Sera, l’ideologia liberale, il fascino per lo stile di vita della media borghesia. Come si fa a trovare interessante Balestrini, se non lo colleghi all’area dell’Autonomia? O ad aver stima di Fortini senza riversarla anche un po’ su il manifesto? Ogni scrittore ha il suo alone politico, che magari non cogli subito. (Pavese aveva quello “comunista”, ma io, quando lo leggevo a SA, non lo coglievo). Anche se sto a Cologno, non tutte le vacche mi paiono oggi nere. Non posso fingere una ricerca come se non avessi ora nessun punto fermo. La mia incertezza-simpatia verso l’avanguardia cede di fronte a Fortini.

3.
Cos’è la storia di cui parla Sanguineti dalla sponda (esplorata però) della cultura psicanalitica? Come per Eliot, un «immenso panorama di futilità e anarchia» (Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p. 38)

4.
Dada, surrealismo, psicanalisi. Campi da attraversare, in parte un po’ assaggiati. I novissimi, che stanno invecchiando in mezzo a noi, l’hanno fatto. C’è oggi uno smarrimento storico [della storia] simile a quello degli anni ‘50-’60? Forse soprattutto per i giovani. Noi non lo viviamo nei termini in cui essi lo vivono.

5.
Sanguineti sta al sublime del primo Montale e del primo Pasolini come Gozzano a D’Annunzio. Contro il sublime-aristocratico borghesizzato (ma anche contro il neorealismo) gioca la “semplicità” medio-piccolo borghese.
«In Sanguineti c’è sempre questa medesima celebrazione di una vita prosaicamente mediocre, modulata sui toni di un realismo piccolo borghese tragico e onesto [?], virile e squallido al contempo, che, ormai frustrata ogni tensione eversiva e crollata ogni illusione, non offre alternative se non la rinuncia» ( Sica, Idem, pag. 55). A questo mi-ci stiamo avviando?
“Quotidiano e fin troppo realistico elenco di oggetti, figure, forme che, svuotati di ogni valore, sono costipati in uno spazio letterario in cui ogni pretesa logica a formulare gerarchie e dislivelli viene radicalmente negata… citazione caotica e sgangherata di segni… il caos della realtà (Sica, Idem, pag. 73).
Caos reale o rappresentazione caotica per paura della realtà? Sica parla della letteratura come «paradiso artificiale e asettico di una cultura in perpetua ritirata dalla realtà» (pag.73). Letteratura da letteratura: «Il giuoco del Satyricon non è che un’operazione di riscrittura». Come mettere il naso fuori dalla finestra dei mass-media, allora?
Sempre su Sanguineti: «È evidente che l’eliminazione [dall’Antologia dei poeti del ‘900] di tutto il filone “realistico” [anche dialettale] o, per così dire, impegnato ha un significato preciso» (Quaderni Piacentini n. 39, p. 224 [?])

12 agosto

1.
Prima di rivolgerti a un critico esperto come Fortini, decifrati. Non posso chiedere ad altri di decifrarmi. Pubblicare non dev’essere per me una rivincita (su chi?) né un darmi in pasto. Conservare nel cassetto le poesie è stato segno di prudenza e non solo di timidezza. La prudenza di allora serve ancora oggi. Dall’esterno altri ostacoli si sono aggiunti nel frattempo: prima c’era il purismo del militante; oggi il bisogno di poesia è così facilmente incoraggiato, da far temere operazioni losche. E poi i rapporti che ho con gli altri poeti restano fragili. Non voglio arruolarmi nei poeti di movimento. Sono senza partito sia in politica che in arte. Nel frattempo quanti anni sono passati e quanti danni derivati dall’oscurità e dall’isolamento devo rimediare! Forse nella lotta col tempo sarò sconfitto. Resta però la rottura del ’68. Non  devo perderla di vista.

2.
Poesie ‘62-’63. Non c’è nostalgia dell’infanzia, ma voglia di capire alcuni nodi (famiglia, donne) che mi hanno ossessionato. Le scrissi in preda a un’ansia violenta di farmi adulto, di andare all’assalto di una città ignota, di innamorarmi, di avere amici. “Aggredivo” la realtà da cui mi sentivo separato.

16 ottobre

Poesie ‘77-’78. Rileggo con commozione il dattiloscritto. Scrivendo poesie così intessute del quotidiano e del sociale in cui soffrivo normalmente, ho afferrato qualcosa che mi premeva (e opprimeva). Ho anche bruciato le residue velleità di essere poeta-letterato. Essere uno dei tanti che scrivono mi va bene.

25 ottobre

Due appunti sulla redazione del 1975 delle mie poesie ‘62-64.

1.
Ho trasformato Venere paesana in Lady Chatterly. Non ci siamo. A un’immagine assorbita culturalmente e non vissuta ne sostituisco una altrettanto culturale. E poco importa che siano immagini classiche o vitalistiche (lawrenciane o pavesiane). Da letteratura a letteratura. Qual è il reale trascurato in questa mia operazione?

2.
Poesia intitolata Appuntamenti. Tento di far emergere il singolo avvenimento e i personaggi prima trattati in modo impersonale (la ragazza, l’immigrato). Redazione proposta: la ragazza/ (credo in dio non ai preti)/ ha ricevuto/ la stretta serale/ e ritorna nel buio/ a labbra stanche/ ma decide lo sguardo/ e il suo passo/ Le scarpette rosse/ si piegano sicure/ consumate/ sfiabate/ Io intasco quel tramonto:/ ho una ragione/ di un centinaio di passi/ per la mia disperazione.

25 novembre

1.
Raboni, Poesie degli anni sessanta. Stimolato dall’Antologia dei Quaderni piacentini, ho riletto quanto dice su Roversi e altri poeti. Ne ho parlato a Grandinetti, anche lui schivo ma tenace scrittore di poesie. Entrambi non vogliamo rivolgerci ai “personaggi” (Fortini, ad es.) per il timore di essere scambiati per “arrampicatori”. Lui poi all’industria culturale non ci vuole neppure pensare.

2.
Volontà di riprendere la poesia. Senza struggimenti e immedesimazioni, mi ripeto. Ho in questi anni accostato poeti “grandi” e “difficili”. Ma un lettore di poesia si costruisce solo sui “grandi”? Fare attenzione ad una base poetica “popolare”, narrativa.

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