Sulle “origini” della violenza nella Storia

di Giorgio Mannacio

1.
La discussione intervenuta sulla figura di Ceronetti (qui), si è sviluppata in varie direzioni e ha dato anche l’occasione per digressioni di diverso contenuto e valore. Una di queste è costituita da un passo del politologo Carlo Galli, che trascrivo letteralmente. Certo, esso andrebbe letto nel più ampio contesto dell’articolo in cui è inserita, ma ai limitati fini che mi propongo può bastare questo stralcio:

“ …la costituzione della sovranità è uno dei processi più distruttivi della storia umana. Le sovranità degli stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni . Mai una sovranità è nata perchè qualcuno intorno ad un tavolo ha trasferito pacificamente ad un soggetto terzo il diritto di tassare , di formare un esercito ,di detenere il monopolio della violenza, individuare gli interessi strategici di una comunità “

2.
Queste affermazioni descrivono una situazione che è impossibile negare. La memoria delle vicende umane consegnata ai libri ( leggendari o reali ) ci parlano costantemente di guerre, distruzioni, crudeltà d’ogni tipo.
Ma non ci si può fermare a tale costatazione, quasi banale, parlando di processo distruttivo.
Penso che non si possa introdurre un discorso sulla violenza nella Storia trascurando il discorso preliminare sulle “origini”. Sì , di queste ( sia delle istituzioni politiche che dello stesso Universo ) poco o nulla sappiamo. Rispetto ad essa formuliamo delle ipotesi, delle quali dobbiamo vagliare la maggiore o minore attendibilità. In questo consiste il compito della ragione filosofica e/o scientifica. L’immagine di un gruppo di soggetti che decidono sugli oggetti descritti da Galli è incredibile. Se non altro bisogna porsi la domanda: perché fanno ciò che Galli afferma che facciano? Questo interrogativo ci riporta appunto “ alle origini “, salto indietro tanto più legittimo quanto più si rifletta sul carattere “ originario “ della violenza.

3.
Gli antichi saggi hanno dato una risposta. In un passo del Protagora ( Vd. Platone, «Opere complete» , in Biblioteca Universale Laterza, vol. 5 , pag. 82, 1982 ) la spiegazione dell’aggregazione di più uomini in organizzazioni stabili è individuata nelle “ necessità “ di difesa contro le calamità naturali ed i pericoli che la Natura presenta per gli uomini ( primitivi ). Non c’è niente di più ragionevole di tale spiegazione.
L’uomo solo è un uomo indifeso, debole al massimo grado, facile preda di ogni nemico.
E’ ovviamente una spiegazione delle “ origini “ e non mi fermerò certo ad essa. Ma se non si crea un collegamento tra una qualche ragione tutto diventa arbitrario. Si può pensare diversamente – con una certa dose di triste umorismo – ad una riunione di gentiluomini, intorno ad un the, che decide di fare un certo tipo di aggregazione. Essa – a questo punto – serve solo per lo svolgimento di una sorta di gioco di società. Entro il quadro originario, più credibile, che è stato proposto si possono iscrivere – senza particolari difficoltà – alcuni doveri che seguono ex necessitate e direi “ quasi oggettivamente “. Se il pericolo è diretto a più persone la difesa del gruppo discende dal pericolo diretto cumulativamente al gruppo. Arriverei a dire – forzando un poco il discorso ( ma solo a titolo di esempio) – che, se la costruzione di un manufatto serve a difendersi, la spesa relativa debba gravare sul gruppo. Da qui la legittimità di una tassazione dei singoli. Ecco una ragionevole spiegazione di un rudimento di sistema fiscale.
Vero è che il quadro originario si modifica continuamente per le più svariate ragioni che – senza arbitrarietà alcuna – possiamo ipotizzare. Ma ciò significa solo indagare – in relazione a tali mutevoli ragioni – il significato, il valore , le condizioni specifiche e i limiti delle variazioni del quadro originario. Questo significa indagare sulla storia di ogni possibile aggregazione originaria che si costituisca in Stato.
Aggiungo che la stabilizzazione della struttura originaria comporta alcune conseguenze che – ancora una volta senza alcuna arbitrarietà – possiamo ipotizzare anche alla luce dell’esame della storia dei singoli Stati esistiti ed esistenti. Possiamo parlare di “ identità “ senza per questo dare subito un significato negativo al termine così inteso.
Anche il linguaggio subisce – al pari della struttura originaria – modificazioni più o meno rapide.
Assistiamo – oggi – all’uso del neologismo ‘Stato sovranista’, termine che non significa nulla se non analizzato in relazione ad una concreta identità strutturale e culturale.
All’interno dell’aggregazione, ogni Stato stabile non può essere che “ sovranista “ nel senso che è la sua autorità “ a tenere in piedi la baracca “.
Sovranista può significare anche che lo Stato in questione non ammette altre aggregazioni stabili e tale atteggiamento può influenzare atteggiamenti concreti di “ non riconoscimento “ e di ostilità di vario tipo. In questa ipotesi il sentimento di identità – in sé del tutto legittimo – può dare luogo a fenomeni, non più di specificazione ma di “ esclusione “.
Infine il termine può essere assunto come sinonimo di “ imperialista “ e identificare la volontà di potenza totalizzante di uno Stato rispetto a tutti gli altri o ad alcuni di essi.
Quest’ultima figura non è giustificata da necessità per così dire oggettive e neppure dall’acquisita
“ identità nazionale “ ma da interessi particolari di varia natura che vanno individuati caso per caso.
E’ evidente la diversa valutazione politico-sociale che si deve dare a seconda delle tre accezioni che il termine “ sovranista “ può assumere.

4.
La mia ammirazione per gli antichi saggi non mi impedisce affatto di sottolineare alcune lacune del loro pensiero politico. Lacune – del resto – ampiamente “ giustificate “ dall’assetto politico-sociale dei tempi antichi. Ciò riconferma la continua evoluzione di esso. Platone – ad esempio – viene oggi giudicato “ nemico della società aperta “ ( vd Popper: «La società aperta e i suoi nemici» ), concetto inconcepibile in un certo tipo di società. La schiavitù – ad esempio – oggi praticata ancora DI FATTO – era ampiamente giustificata in passato.
Tuttavia il più acuto Aristotele, nell’indicare i tre possibili modi del governo della città ne descrive, per ciascuno, le degenerazioni, mostrando così di sapere che nessun governo della Città è perfetto e incorruttibile. Da ciò deriva – se non erro – una sorta di implicito riconoscimento delle azioni dirette a modificare un certo assetto di governo. Non traspare – tra le righe prudenti del filosofo – una legittimazione dell’azione violenta? Perché si dovrebbe subire una degenerazione di un sistema di governo in tesi corretto? Più esplicito di tutti il nostro Macchiavelli scrive senza esitazione la celeberrima frase ( vd. «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», Libro III ): “ Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che elli vi aveva conquistato “ e aggiunge ancor più esplicitamente ( avendo riguarda alla dinamica degli eventi politici ): “ E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto si mantiene per poco tempo “
5.
Ma ancor più di questi drammatici pensieri conta – una volta ancora – risalire nel tempo dell’origine e cioè allo stato ideale di equilibrio.
Tutti i comandamenti religiosi, morali e giuridici nell’assumere come precetto “ non uccidere” assumono come stato ideale della persona singola il minimum costituito dalla sopravvivenza. E’ il patrimonio fondamentale sul quale costruire la propria esistenza. Ma nessuna civiltà ha imposto di non rispondere alla violenza proveniente da altri e diretta a mettere fine alla vita con sacrificio del bene supremo di ciascuno.
Anche la difesa si esprime in una violenza più o meno intensa, ma tale violenza deve essere legittima. Questa condizione esprime quel tanto che basta a preservare lo stato in cui si trova l’aggredito prima dell’aggressione. C’è dunque nella “ economia universale “ un limite al principio di non uccidere.
Non sto cercando di proporre una sorta di visione organicistica dello Stato ( struttura della persona singola = struttura dello Stato ), che non ha senso e diventa quasi ridicola. I rapporti tra persona, come individuo, e Stato e quelli tra Stato e Stato son molto più complessi e intricati e complessi. Ma attraverso le analogie possono rinvenirsi in essi criteri di individuazione concreta di alcuni problemi e ipotesi di soluzione.
Se partiamo da una situazione ideale di un Stato pacificamente costituto e pacificamente agente nel contesto dei vari stati e nazioni esistenti, non credo si possa mettere in dubbio la legittimità di una reazione contro l’aggressione altrui. Si apre una guerra difensiva ma qui il nostro tranquillizzante ragionamento finisce, perché l’analogia con la legittima difesa individuale finisce sempre o quasi sempre nel gioco delle alleanze che complica il quadro statico di una reazione giusta.
All’interno della singola struttura statuale non esistono – se non in un modello ideale – situazioni di soddisfazione totale. Non c’è in alcuna organizzazione stabile uno stato d’ assenza di tensioni.
Quale atteggiamento culturale tenere ( giudizio di approvazione o riprovazione ) di fronte ai conflitti interni ( rivoluzioni; guerre civili ) ?
Molti di noi conoscono la risposta – reale o leggendaria poco conta – che Zhou Enlai, un alto funzionario del Partito Comunista Cinese ( o qualcosa di più ? Non ricordo bene) dette alla domanda: “ Secondo Lei la Rivoluzione francese è stato un bene o un male )?
Dalla risposta – “ E’ troppo presto per dirlo “ – sono ricavabili – a mio giudizio – due riflessioni. Cos’è la Storia se non una serie di vicende di vario contenuto? Le vicende non sono giudizi, ma solo fatti. Non esiste un giudizio della Storia ricavabile dalla mera successione di fatti.
Ma i fatti della storia non sono fatti naturali; sono fatti prodotti dagli uomini e dalle loro idee. A questo punto la perplessità manifestata dal Nostro segnala l’intervento del pensiero, della cultura. La Rivoluzione francese ha prodotto Napoleone? Ci possiamo fermare a questo punto? Quanto può durare la nostra perplessità? Può durare in eterno legittimando così ogni status quo? Rispetto a quell’evento per molti versi terribile come la Rivoluzione francese possiamo dimenticare libertè, egalitè, fraternitè ? Non è una triade venuta “ prima “ di
Napoleone? Io penso che la costatazione della continuità della violenza nella Storia non possa significare la sua ineluttabilità e non che ogni tipo di violenza sia da sopportare.

5.
I pensieri esposti non individuano soluzioni al problema. Come potrei? Ho pensato soltanto – attraverso una sorta di genealogia della violenza – di scorgerne le tappe e le condizioni concrete che ne condizionano la nascita. Da queste singole tappe ognuno di noi può ricavare effetti e su questi compiere le sue valutazioni. La catena della associazione cause- conseguenze è complessa. Penso che quello proposto sia dei tanti modi di valutare gli aspetti di questa catena.
Ma già l’attualità ci si presenta con aspetti profondamente diversi da ieri e ancora una volta dobbiamo fare i conti con essa.

21 settembre 2018.

POSTILLA.

A proposito dell’uomo primitivo immaginato come “ solo “, mi viene in mente un detto di La Bruyère posto come epigrafe ad un racconto di E. Poe («L’uomo della folla»). Lo confesso: mi sembra molto curioso postillare una riflessione politica con una citazione tratta un autore che più impolitico di come è stato il Nostro non potrebbe esistere.
Cosa dice il moralista francese? “ Ce grand malheur de ne pouvoir etre seul “. Non dovremmo forse ribaltare questo aforisma pensando a quanti sforzi abbiamo fatto per “ non essere soli “ ?
Lascio ai sognatori e ai moralisti il desiderio, che sembra un po’ regressivo, di essere soli nel mondo.
G.M

15 pensieri su “Sulle “origini” della violenza nella Storia

  1. Interessante e condivisibile è l’analisi di Giorgio Mannacio, salvo, forse – per me – in qualche piccolo risvolto però non influente nell’ambito del discorso affrontato. Cercare di porsi il problema delle origini è il senso proprio del cercare di andare alla radice, di sorvolare sulla superficie ed essere “radicali”. Insomma, cercare di toccare il fondo del discorso e da lì risalire poi alla superficie, che è il tema della violenza nella società umana di oggi.
    Alla radice c’è il tema della violenza nella società umana delle origini. Cosa vuol dire risalire alle origini? Se crediamo che la teoria evoluzionistica abbia qualche valore, l’origine sta nel farsi, nel corso di decenni di milioni di anni, della struttura biologia, psicofisica e sociale dell’uomo. La violenza di oggi è mediata da una lunghissima tradizione storica, ma la sua radice e il suo manifestarsi risente ancora della sua origine.
    L’uomo è un animale sociale, ciò vuol dire che è un animale che opera, agisce, vive, in gruppo. Non esiste, come per altri animali, il singolo individuo autosufficiente e nemmeno la singola coppia o singola famiglia. Esiste ed è sempre esistito fin dalle prima specie di umanoidi il gruppo, il branco. Questa è una caratteristica che condividiamo con altre specie animali e l’etologia può darci qualche utile elemento di confronto.
    Uno di questi sta nel fatto che nel branco i ruoli sono differenziati. Non c’è uguaglianza. Il mito dell’uguaglianza è un mito culturale e nelle società recenti (diciamo da appena qualche secolo, o al massimo dal sorgere del cristianesimo) può essere un obiettivo politico e giuridico, ma la natura non ammette, per l’uomo, uguaglianza. Non siamo un alveare di individui tutti perfettamente identici, o al massimo differenziati in due o tre categorie nettamente distinte. Siamo una società (anche al suo livello più antico e più semplice) di individui disuguali. Intendo dire: abbastanza uguali da appartenere alla stessa specie, ma entro questa uguaglianza di specie siamo poi abbastanza diversi da differenziare i singoli ruoli individuali.
    Del resto il concetto di uguaglianza è un concetto teoricamente non sostenibile, nel senso che l’uguaglianza rispetto all’elemento A significa per forza disuguaglianza rispetto agli elementi B, C, ecc., e viceversa. Già Aristotele, nella Politica, aveva messo in luce le aporie e contraddizioni del concetto di uguaglianza.
    Ma non tutte le diversità hanno lo stesso significato e valore. Ci sono diversità complementari e includenti, che creano rapporti di collaborazione e di amicizia, e diversità rivali ed escludenti, che creano antagonismi e violenza.
    Il confine fra le prime e le seconde è in parte biologico (non solo differenze di genere e fisiche in senso stretto, ma anche psicologiche e caratteriali) e in gran parte culturale e ha a che fare anche, ovviamente, e alle origine, forse, principalmente, con il controllo del territorio in cui si vive e con tutto ciò che comporta il rapporto fra biologia, società, cultura e ambiente (in sostanza, il problema della sopravvivenza, del miglioramento, del benessere).
    Inoltre, e ciò è di massima importanza, ci sono rivalità, e quindi violenze, interne al gruppo, e rivalità e violenze esterne al gruppo. Le prime, come si capisce dalla terminologia elementare, riguardano individui membri dello stesso gruppo, le secondo riguardano le relazioni fra gruppi distinti.
    Alle origini della violenza c’è comunque, sempre, una diversità che nel rapporto fra individui, o fra gruppi, o fra società più estese, si trasforma in competizione, in rivalità, in esclusione.
    Infatti la diversità agisce sia nel senso di creare rapporti di potere (individui leader, individui gregari ecc.), sia nel senso di creare desideri e aspettative diverse (gli individui leader sentiranno come naturale l’avere di più, esercitare il potere a proprio vantaggio, combattere con gli avversari che non si sottomettono). Ciascun individuo è, potenzialmente, in lotta con tutti gli altri e ogni “branco umano” lo è con tutti gli altri branchi. Si creano così instabili gerarchie che evolvono continuamente attraverso la violenza, non solo la violenza fisica (la guerra, ad esempio) ma anche quella che si manifesta in altre forme (attraverso le gerarchie sociali giuridicamente riconosciute o non riconosciute, attraverso i rapporti politici, economici, culturali e così via).
    Qui è necessario far riferimento a una teoria apparentemente paradossale ma storicamente assai vera: Le guerre dividono ma anche uniscono. Quando due popoli che non si conoscono entrano in rapporto per la prima volta in modo violento, con una guerra, per determinare una supremazia, alla fine della guerra, in genere, si conoscono meglio e cominciano rapporti che col tempo sviluppano meccanismi di unificazione. È il fenomeno che, per qualche aspetto, potremmo identificare nella cosiddetta globalizzazione. Ad esempio, l’attuale processo di unificazione europea sarebbe inconcepibile senza le due passate guerre mondiali. Come già alcune correnti di pensiero sostenevano negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la prospettiva auspicata di un’Europa unita non poteva non passare attraverso una guerra che eliminasse i fattori escludenti e rafforzasse quelli includenti. Ci sarebbe molto da obiettare su una teoria simile, ma di fatto, storicamente, i processi di progressiva globalizzazione sono tutti passati attraverso guerre vere e proprie o almeno attraverso dure competizioni economiche.
    I livelli del conflitto, dai branchi di uomini primitivi di cento mila anni fa alle società complesse di oggi, sono cambiati e hanno assunto forme che si esprimo attraverso la cultura, la politica, il diritto e quell’insieme di fattori che è il controllo sociale organizzato in Stato. Se vogliamo usare il termine di «regime politico» non nel senso di regime autoritario, ma in quello più tecnico e politologico di assetto complessivo di una società organizzata in una forma di statualità, si devono ricordare i suoi tre fattori di fondo: 1) La tradizione storica, culturale, religiosa, economica in cui la comunità si è venuta formando e di cui si nutre e in cui si riconosce. 2) L’ordinamento giuridico che ne regola i comportamenti (Costituzione, codici, prassi giuridiche e amministrative ecc.). 3) L’organizzazione della domanda politica e delle risposte, cioè l’organizzazione della vita politica (i partiti, i sindacati, le associazioni, i movimenti, i modi in cui si svolge il rapporto fra eletti ed elettori ecc.). Nessuno di questi tre aspetti è in sé autonomo e determinante. Basti vedere la storia di Stati (ad esempio gli Usa e il Messico) i quali, pur avendo una Costituzione per molti aspetti analoga, registrano un funzionamento, degli stessi istituti giuridici, completamente diverso. Infatti un “regime politico”, inteso come qui l’ho definito, è come un vestito che a uno può star bene a un altro, al contrario, sta male. Ciò spiega anche il perché certe riforme giuridiche o economiche imitate, per la loro validità, da uno stato estero, possono fallire miseramente se inserite in un contesto diverso e quindi con esigenze e reazioni diverse.
    La conclusione potrebbe essere che le differenze includenti e quelle escludenti e fonte di comportamenti violenti, attraversano in verticale tutte le società, dal livello più basso, che è l’individuo, al livello più alto, che è la competizione per il controllo dei poteri e delle risorse dello Stato, che poi vuol dire dell’intera società. Ma le attraversano anche orizzontalmente, sul piano della politica estera.
    Ciò che è auspicabile è che il cammino della collaborazione, maturato nel corso dei secoli, continui e si rafforzi e si stabilisca sempre più. Ma non si tratta del cammino impossibile, contraddittorio, vanamente utopistico dell’abolizione delle differenze (ogni tentativo fatto ha prodotto delle società distopiche, degli orrori); né del cammino dell’abolizione della violenza. Bensì si tratta del cammino virtuoso della gestione e della giuridicizzazione delle differenze e dei conflitti. La gestione comporta la sapienza politica, che deve mirare al bene comune ma anche preoccuparsi, se le scelte non sono ben fatte o prudenti o misurate nel tempo, della reazione degli individui, comunità, popoli che devono dare un corpo vivo a quel bene comune. E comporta quello sviluppo culturale (in termini di maggiore istruzione ma soprattutto in termini di evoluzione mentale, in senso antropologico) che porti gli individui, i gruppi, gli Stati ad affrontare i conflitti in forme giuridiche, a ridurre i motivi di scontro e a trasformare lo scontro fisico diretto in vertenza giuridica. E quindi a risolvere il confronto con una sentenza di un giudice terzo, a qualunque livello si ponga, o con un accordo fra le parti, mediato, o no, da una persona o un’istituzione competente ad agevolare l’accordo.
    Non credo che ci siano altre vie per diminuire, non per cancellare del tutto, la violenza, a qualunque livello si collochi. Dalla lite condominiale in cui un tizio, a un certo punto, stanco, a ragione o a torto, di sopportare il comportamento di qualche vicino, gli spara e l’ammazza, alla lite fra gruppi di Stati per la regolazione di grandi interessi geopolitici.
    Tenendo presente, però, che nella violenza c’è anche, oltre alla razionalità, sempre o spesso una dose di irrazionalità che difficilmente potrà mai essere eliminata.
    Applicando, a titolo di esempio, quanto ho detto fino a qui ad un problema attuale e molto serio, come quello dell’immigrazione extracomunitaria e, per lo più, clandestina, si può dire che ogni fenomeno di questo tipo presenta aspetti potenzialmente positivi e altri negativi. È necessaria dunque una sapiente gestione che valorizzi quelli positivi e riduca al minimo quelli negativi. Ciò comporta un impiego di risorse, di strategie di integrazione, di criteri di selezione, di obblighi giuridici imposti e lo svolgersi nel tempo, in un tempo adeguato, della politica di accoglienza definita. Se invece si pretende di affermare un principio teorico, giusto o sbagliato che sia, e di metterlo in pratica comunque e ad ogni costo, è chiaro che gli elementi positivi includenti appariranno piccola cosa mentre quelli negativi escludenti e fonte di reazioni violente appariranno il fattore principale. Senza una sapiente gestione il problema suscita e susciterà contrasti e violenze che oggi è difficile, se si continua così, pensare in via di diminuzione. E una corretta gestione non può consistere nel convincere decine di milioni di italiani che il problema non esiste, che è solo immaginario, oppure che gli aspetti positivi sono di gran lunga maggiori di quelli negativi, come certa propaganda della sinistra si limita a fare. Ma richiede un’effettiva gestione pratica che non metta mai i cittadini italiani nella condizione di giudicare negativamente la presenza degli immigrati stranieri. Mai, o almeno non in misura maggiore rispetto agli stessi italiani socialmente poco integrati.
    Anche in Germania il problema dell’immigrazione ha suscitato e suscita reazioni politiche e di altro tipo conflittuali, ma meno che in Italia. La differenza sta in tre cose: 1) in una gestione del problema molto più intelligente; 2) in un numero di immigrati inferiore (non in termini assoluti, che poco interessa al cittadino comune, ma in termini relativi e in rapporto al tempo e alle possibilità di integrazione); 3) in una maggiore selezione degli immigrati, accogliendo quelli ritenuti più facilmente integrabili e respingendo gli altri.
    La differenza concreta che ne deriva è poi questa: l’ultima volta che sono stato a Berlino, qualche anno fa, in una settimana di soggiorno non ho visto un solo mendicante extracomunitario (e tanto meno comunitario o tedesco) per il centro e la semiperiferia della città. Ho incontrato degli immigrati extracomunitari fra i dipendenti degli alberghi, dei bar, dei ristoranti, fra i taxisti, fra i piccoli commercianti e imprenditori di vari rami dei servizi, compresi librai. Ma non mendicanti.
    Qui in Italia, abbiamo i tanti casi analoghi alla situazione di Castel Volturno dove sembra che la mafia nigeriana comandi, i casi di degrado estremo o, come nel mio quartiere di Milano, dove non c’è particolare degrado, c’è però il fatto che, per fare cento metri di strada da casa al supermercato o da casa all’edicola incrocio quattro o cinque mendicanti, fissi, i quali ogni tanto cambiano perché i loro gestori litigano e si fanno la guerra per l’occupazione dei posti dove mendicare; dove al bar all’angolo stazionano ogni tanto vigili urbani e poliziotti che si fermano a bere un caffè e non guardano nemmeno i mendicanti, consci che tanto non ci possono fare niente; dove, se vai al vicino commissariato di polizia a porgere la denuncia perché qualcuno ti ha spaccato la finestra o la porta e ti è entrato in casa a rubare, il poliziotto di turno cerca di convincerti a non perdere tempo che tanto la denuncia è inutile, è solo un foglio di carta impacchettato e messo a dormire in cantina. E ti mostra la lunga fila d’attesa di persone che sono lì per pratiche più urgenti: permessi, passaporti, denunce per documenti rubati e/o smarriti ecc. E, sempre continuando a citare fatti concreti e veri, se un negoziante sorprende il ladro dentro il negozio, lo blocca e chiama la polizia, questa gli consiglia di presentare una denuncia contro ignoti e, dopo aver preso le generalità del ladro, lo rilascia. Il consiglio e il rilascio servono per evitare al negoziante, che non riuscisse a dimostrare che proprio quell’individuo è entrato per rubare e quindi a determinarne la condanna penale, una denuncia per sequestro di persona o comunque una causa per calunnia e per risarcimento di danni morali.
    C’è tutto un tessuto fittissimo, quotidiano, di mancanza di sapiente gestione dell’immigrazione che spiega, molto di più della battaglia culturale fra i principi e della propaganda politica generale, il perché il tema caldo dell’immigrazione favorisca le cosiddette destre e non le cosiddette sinistre. Dico cosiddette, perché per me le categorie destra e sinistra sono del tutto fuorvianti e non aiutano a capire la realtà.

    1. @ Aguzzi
      Il lungo commento di Aguzzi rafforza il mio scetticismo su questi ragionamenti sulle “origini” o sulle “radici”. Anche lui affastella dati e ragionamenti (sulle diversità « complementari e includenti» e quelle « rivali ed escludenti», i confini tra biologico e culturale, il controllo de territorio, le rivalità interne ed esterne al gruppo,etc.), che non mi pare ribaltino alcune semplici convinzioni *problematiche* che ci siamo fatti sul tema della violenza studiando un po’ di storia o guardando gli eventi di cui siamo contemporanei. ( E rimanderei alla discussione fra me e Luca Ferrieri a proposito di Kronštadt (qui: https://www.poliscritture.it/2018/08/26/trockij-kronstadt-e-la-violenza-politica/).

      Anche nei suoi confronti la mia critica è ormai senza animosità, perché conosco le sue posizioni. Che mi paiono riconducibili alla teoria evoluzionistica (« I livelli del conflitto, dai branchi di uomini primitivi di cento mila anni fa alle società complesse di oggi, sono cambiati e hanno assunto forme che si esprimo attraverso la cultura, la politica, il diritto e quell’insieme di fattori che è il controllo sociale organizzato in Stato») surrettiziamente trasferita dalle scienze della natura alle scienze storiche, sulla scia o l’eco del darwinismo sociale di Spencer, credo. Ma alcune obiezioni mi sento ancora di muoverle. Eccole:

      1. Aguzzi: « Esiste ed è sempre esistito fin dalle prima specie di umanoidi il gruppo, il branco». A parte la connotazione sottilmente svalutativa e decontesualizzata del termine ‘branco’, chi ci dice che gli uomini primitivi o preistorici ( delle “origini”) fossero di per sé particolarmente violenti per cui, studiandone le tracce, potremmo trarre fecondi suggerimenti per affrontare le violenze della storia e dell’oggi?
      In proposito capita a fagiolo e fa riflettere un commento di Pierluigi Fagan, che ho raccolto in questi giorni su FB e che ricopio interamente sottolienendo il passaggio riferibile al tema di cui qui discutiamo:

      Pierluigi Fagan Cristiana Fischer Veramente ho specificato che le gerarchie si sono manifestate in varie forme: di “una certa etnia, una certa anagrafe, un certo sesso”. Quanto a “gli studi antichi”, tendono a relativizzare il problema della divisione del lavoro, altro portato schematico dell’antropologia di Engels. la divisione del lavoro esisteva anche nelle società antichissime sebbene non fosse -pare- così pronunciato (le donne partecipavano alla caccia, gli uomini alla raccolta e per altro il pasto giornaliero era garantito dalla raccolta e dall’orticultura, se si aspettavano i maschi che tornavano dalla caccia grossa, stavano freschi … :-)) Il problema non è la divisione dei compiti (non solo del lavoro), il problema è farsi recludere in un solo compito o un solo lavoro o una sola specializzazione e dare prestigio a quella dell’altro. Perso l’intero, chi mai trova il vero? Oggi è uscito questo, tralascio i commenti specifici (quando trattano l’antichità profonda, diventano tutti “misteriosi”, mah …, le storie dell’origine sono il fondamento è sintomatico ci sia questa nebulosità voluta). Il Dryas recente è un però un bel problema perché questo cataclisma è registrato in vari modi nelle tracce passate. Ad esempio, con l’unica prova certa che gli antichi si facevano la guerra, il cimitero 117 nel nord Sudan. Solo che è del -11.700. Tutte le narrazioni su i paleolitici che s’ammazzavano da mane a sera, sono basate sul nulla ripieno di niente. C’era spazio, c’era relativa abbondanza, non c’era alcun motivo per ammazzarsi in gruppo. Sopratutto non ci sono le prove: i cadaveri. Poi però, proprio in quel periodo ecco apparire traccia dei primi conflitti ed è forse con quelli che s’afferma la forza maschile, che prende un altro significato. Non è a me che devi ricordare che di occhi ne abbiamo due …http://www.lastampa.it/2017/04/24/societa/la-fine-del-mondo-c-gia-stata-lo-svela-la-stele-dellavvoltoio-TOxijdfnnONWbSaHClP69K/pagina.html

      2. Aguzzi: « nel branco i ruoli sono differenziati. Non c’è uguaglianza.». D’accordo. Ma perché ridurre l’idea di eguaglianza che nella storia è diventata , come Aguzzi stesso riconosce, « obiettivo politico e giuridico», sottoposto dunque alle alterne e complicate vicende dei conflitti storici, a «mito», cioè a semplice sogno o credenza? Perché, insomma, non rimanere sul piano della storia, se, andando sul piano delle “origini”, aggiungiamo ben poco di nuovo?
      3. E perché ripetere o ricordare che « la natura non ammette, per l’uomo, uguaglianza. Non siamo un alveare di individui tutti perfettamente identici, o al massimo differenziati in due o tre categorie nettamente distinte», se non per insinuare che quella “legge” (immutabile?) in fondo in fondo vale anche per le cose umane e storiche? Certo, « siamo una società (anche al suo livello più antico e più semplice) di individui disuguali», ma per (o soprattutto) per ragioni di storia o di natura?

      4. Anche Aguzzi ad un certo punto mi pare che accantoni il discorso sulle “origini” e scarti verso Aristotele, che «nella Politica, aveva messo in luce le aporie e contraddizioni del concetto di uguaglianza» . E va bene. Ma, essendo passati o tornati sul piano storico, di storia antica, è così certo Aguzzi che «alle origini della violenza» « c’è comunque, sempre, una diversità»?
      È, dunque, la diversità l’unica causa dei comportamenti umani violenti? Non pare, se lui stesso aggiunge che « la diversità agisce sia nel senso di creare rapporti di potere (individui leader, individui gregari ecc.), sia nel senso di creare desideri e aspettative diverse». Anche se non specifica meglio tali desideri e aspettative diverse.

      5. L’affermazione: « l’attuale processo di unificazione europea sarebbe inconcepibile senza le due passate guerre mondiali» mi pare derivi da un ragionamento “monocausale”; e finisce per attribuire alla guerra – eterogenesi dei fini? – una funzione paradossalmente positiva e in fin dei conti auspicabile. (Non era, del resto, già infelicemente dichiarata da Hegel, se non sbaglio, “igiene dei popoli”? Io troverei in questa considerazione una qualche analogia (o vedrei persino un calco) con la concezione religiosa agostiniana e luterana del peccato ( “Pecca fortiter” etc.) che predispone alla via della “salvezza”.

      6. Aguzzi: « di fatto, storicamente, i processi di progressiva globalizzazione sono tutti passati attraverso guerre vere e proprie o almeno attraverso dure competizioni economiche». Può darsi. Ma – ripeto – per ragioni di natura o per ragioni storiche?

      7. Aguzzi: «Ciò che è auspicabile è che il cammino della collaborazione, maturato nel corso dei secoli, continui e si rafforzi e si stabilisca sempre più. Ma non si tratta del cammino impossibile, contraddittorio, vanamente utopistico dell’abolizione delle differenze (ogni tentativo fatto ha prodotto delle società distopiche, degli orrori); né del cammino dell’abolizione della violenza». Ecco, ci siamo: evoluzionismo sì, rivoluzione no o mai più. Questa mi pare la sua conclusione astrattamente ottimistica. Specie per quel richiamo al buon governo e alla «la sapienza politica, che deve mirare al bene comune ma anche preoccuparsi, se le scelte non sono ben fatte o prudenti o misurate nel tempo, della reazione degli individui, comunità, popoli che devono dare un corpo vivo a quel bene comune».

      8. Del tutto in disaccordo resto sul definire *razionale* la soluzione da lui auspicata per il problema dell’immigrazione, problema che egli butta sul tavolo alla fine del suo intervento prevalentemente “filosofico” per ribadire la bontà della posizione di chiusura o dei “ragionevoli” flussi regolati. Qui scade in un atteggiamento,che non esito a definire “propagandistico”, specie quando fa appello al quasi egemone senso comune salviniano-pentastellato del «né di destra né di sinistra” e del “prima gli italiani” con il richiamo alle sue negative esperienze quotidiane del contatto coi migranti nel suo quartiere. Ma è tema su cui polemizzare in altra occasione. Ammesso, visto che ormai i fronti sono nettamente delineati e contrapposti, che ancora serva.

      1. @ Ennio
        «ma per (o soprattutto) ragioni di storia o di natura?». Le ragioni di storia e di natura sono sempre unite e indivisibili. Cambiano solo le proporzioni. Siamo esseri naturali che hanno una storia e la nostra storia è anche la storia della nostra natura. L’approccio evoluzionistico è l’unico che ci permetta di sperare in un futuro migliore. In caso diverso dovremmo dire che, mutate le forme esteriori, tutto rimane sempre uguale. E io credo che i problemi, di qualunque tipo, abbiano un fondo in parte “sempre uguale” e in parte “mutevole”, soggetto al cambiamento storico. Ma “sempre uguale” non vuol dire “sempre identico”, perché, ad esempio, la paura di restare senza abitazione (senza “rifugio”) in una città come Milano, ha qualcosa di uguale alla paura di restare senza rifugio in un luogo e tempo dove l’abitazione era nelle grotte o nelle capanne di materiale vegetale, ma anche qualcosa di molto diverso nei suoi modi di manifestarsi.
        Inoltre, per me, dire evoluzione non vuol dire salire, in un progresso continuo e inarrestabile, pur con i suoi momenti di crisi, ma vuol dire seguire una linea di continuo cambiamento che può anche comportare cadute e catastrofi. Tante specie di ominidi si sono estinte. Sembra che solo l’homo sapiens ce l’abbia fatta (per ora). Il “progresso” non è assicurato. L’evoluzione nel senso di cambiamento secondo modalità specifiche che l’uomo controlla solo in piccola parte sì, è assicurata, ma il progresso no. Il matrimonio fra evoluzione e progresso è una costruzione culturale moderna (entrata in crisi negli ultimi 70/80 anni), e tu citi Spencer a ragione. Ma la mia concezione di evoluzione è diversa. Il cambiamento, secondo me, per trasformarsi in progresso, ha bisogno di un consapevole intervento continuo e volontario dell’uomo, ha bisogno di una sua specifica cultura (ideologia) del progresso e di una sapiente capacità di metterla in pratica. L’evoluzione / cambiamento è un dato di fatto; l’evoluzione / progresso è un dato costruito.
        Qui subentra la sapienza politica, che però non può contrastare – pena il fallimento e la più catastrofica eterogenesi dei fini – con l’elemento naturale della storia, che riguarda tanti fattori e fra questi il tempo necessario perché un cambiamento sia positivamente gestito.
        La rivoluzione, anche nei casi migliori, si è storicamente sempre rivelato un mezzo che accelera i tempi oltre il loro possibile tanto da suscitare reazioni che, da auspicato cambiamento positivo, lo trasformano in cambiamento negativo. È l’intera scenografia storica di una rivoluzione, qualunque rivoluzione, che colloca i rapporti fra gli elementi inter-reagenti in posizioni sfasate. Ciò vale soprattutto per le “vere” rivoluzioni: quelle che vogliono cambiare tutto, in una palingenesi sociale (e anche “naturale”, altrimenti perché parlare di “uomo nuovo” in senso lato?), imponendo con la forza alla natura (naturale e storica) degli uomini e delle società una costruzione teorica, per principi presi. Ma in una certa misura vale anche per quelle rivoluzione che in realtà sono guerre nazionali, guerre di liberazione o guerre interne per ripristinare un assetto di potere (diritti, libertà ecc.) già esistente e poi mutato da un diverso assetto di potere. Sempre, ripeto sempre, in tutti i casi, anche in quelli in cui la rivoluzione ha avuto effetti positivi e condivisibili, insieme a questi ci sono stati effetti negativi, perché la violenza scatenata non è mai controllabile completamente e una certa quota di effetti indesiderabili, di eterogenesi dei fini, c’è sempre.
        Si tratta di evitare che questa quota arrivi quasi al cento per cento.
        Locke, a suo tempo, ha esaminato correttamente i casi in cui una rivoluzione è giustificata e quelli in cui non è giustificata. In sintesi non è giustificata quando le prospettive previste come risultato della rivoluzione, correttamente analizzate, peggiorano la qualità della vita o la migliorano di troppo poco a paragone dei sacrifici e dei lutti che la rivoluzione richiede, oppure quando la rivoluzione attua, con sacrifici e distruzioni, un processo di trasformazione che, magari con qualche anno in più, sarebbe comunque avvenuto e in forme più miti.
        Si tratta, in sostanza, del calcolo fra danni e utilità. Ma un rivoluzionario in preda ai fumi del fanatismo e dell’utopia non è mai capace di fare questo calcolo né vuole farlo. Egli preferisce l’azzardo, l’affermazione dei principi per quanto astratti siano, la trasformazione degli individui in mezzi sacrificabili. Nell’agire del rivoluzionario (tipo Robespierre, tipo Lenin) c’è sempre una grossa componente irrazionale, razionalizzata solo superficialmente e così mascherata, in cui sentimenti come l’ira, la rabbia, l’odio, il rancore, l’ambizione ecc. hanno un ruolo notevole, tanto da far sbagliare grossolanamente i calcoli e portare fuori strada. A volte l’errore di calcolo impedisce la conquista del potere, altre volte (come, appunto, nel caso di Robespierre e Lenin) non lo impedisce, anzi contribuisce alla vittoria, ma poi il potere conquistato non porta alla realizzazione degli ideali in nome dei quasi si è agito, ma a risultati molto diversi.
        Che piaccia o no, nessuna rivoluzione realizzata troppo in fretta ha dato risultati positivi nell’immediato e quasi mai nemmeno nel tempo più lungo, salvo quelli, opinabili e non calcolabili, di avere accelerato certe tendenze di cambiamento che si sarebbero comunque affermate anche senza rivoluzione.
        Una rivoluzione, in senso stretto, non è una scelta politica, perché fare politica significa gestire ciò che è possibile gestire, con le mediazioni e i compromessi necessari perché la situazione non si sfasci e degeneri. È una scelta antipolitica. Si sceglie il principio astratto e la sua più immediata attuazione, rifiutando le mediazioni e i compromessi, provocando la rottura e lo scontro. La politica è evoluzione e giuridicizzazione dei rapporti sociali, la rivoluzione è rottura e salto, trasforma le relazioni in conflitto violento affidato alla prova di forza. La politica è un risparmio di risorse e un loro uso sapiente; la rivoluzione è l’uso azzardato: tutto in un colpo, o la vittoria o la sconfitta, senza vie di mezzo.
        Come diceva Locke, solo nei casi estremi, veramente estremi, quando ogni altra soluzione è impossibile, può giustificarsi l’uso della violenza rivoluzionaria, e solo per il tempo necessario a tornare al confronto politico. La rivoluzione dovrebbe ripristinare il confronto politico dove questo è reso impossibile da un potere dittatoriale, non instaurare un potere dittatoriale e abolire il confronto politico.
        Sapienza e politica richiedono anche, spesso, che si preferisca il danno minore a quello maggiore che deriverebbe dall’applicazione forzata di un principio che si crede giusto. Anche quando il danno minore appare frutto di un’ingiustizia, è meglio di un danno maggiore che nasca da una pretesa o reale giustizia.
        Il richiamo alla sapienza politica in relazione al problema dell’immigrazione vuole richiamare la necessità di scegliere la via gestibile, la via che non porti allo sfascio sociale, alla divisione e allo scontro non controllabile fra chi afferma una linea e chi un’altra. Anche se la linea dell’accoglienza a tutti fosse moralmente la più giusta (cosa che io non credo), di fronte alle conseguenze negative che provoca dovrebbe essere mitigata da una realizzazione più prudente, per evitare le reazioni contrarie, imprevedibili e prevedibili, che fuoriescono dal confronto politico e si trasformano in degrado della convivenza civile.

        1. Nota: il termine “rivoluzione” qui da me usato sta nel senso di “rivoluzione violenta”. Tutt’altro discorso richiederebbe l’uso del termine “rivoluzione” in altri contesti e soprattutto in quelli dove si accompagna alla qualifica di “non violenta”. In genere il termine “rivoluzione”, usato senza altre specificazioni, nell’uso politico e storiografico comporta almeno tre elementi di fondo:
          1) Un programma radicale di trasformazioni sociali che cambi i rapporti di potere fra i ceti sociali.
          2) Un’accelerazione nel tempo di tali trasformazioni (la rapidità è carattere essenziale di una rivoluzione).
          3) L’uso della forza e della violenza per imprimere al processo la rapidità voluta e imporlo a chi non è d’accordo.
          Se manca uno di questi tre elementi allora o non si usa il termine “rivoluzione” o lo si usa in altra delle sue tante accezioni semantiche.

  2. @ Luciano Aguzzi

    La ringrazio – prima di tutto – per l’attenzione dedicata al mio breve testo che è stato l’occasione di un discorso con me stesso sul tema della violenza. Ma la ringrazio – di più – perché lei ha osservato – opportunamente – come dal mio monotema si sviluppino una serie di problemi ( eguaglianza, struttura complessa delle aggregazioni umane, patti tra gli Stati, migrazioni… ) di grande attualità. Ed ha – infine – a ragione segnalato la necessità di affrontarli alla luce dei diversi campi del sapere che incontriamo quotidianamente nella nostra esperienza umana. Cordiali saluti. Giorgio Mannacio

  3. @ Mannacio

    Trovo nell’articolo di Mannacio affermazioni condivisibili o dubbiosamente aperte persino a sviluppi”rivoluzionari”, come quella in difesa del valore della Rivoluzione Francese malgrado il successivo dispotismo napoleonico. E concordo sulla proposta di metodo della sua ricerca: «Ho pensato soltanto – attraverso una sorta di genealogia della violenza – di scorgerne le tappe e le condizioni concrete che ne condizionano la nascita. Da queste singole tappe ognuno di noi può ricavare effetti e su questi compiere le sue valutazioni». Però ho alcune critiche/obiezioni da fare:

    1. Vogliamo parlare delle “origini”, termine da Mannacio opportunamente virgolettato perché riferibile a esperienze avvolte da un alone di oscurità e incertezza, che le avvicinano, credo, al mito? Oppure delle posizione degli «antichi saggi» (Protagora, Aristotele)?
    Ho l’impressione che i suoi ragionamenti ( ma anche un po’ quelli di Aguzzi) scivolino in questa seconda direzione. Mentre le interrogazioni sulle *origini*, per quel che poco che ne so ( e mi riferisco, ad esempio, agli studi/ipotesi pur discutibili di Freud sull’ orda primordiale in «Totem e tabù»: http://www.homolaicus.com/teorici/freud/freud3.htm), ci mostrano dati molto problematici e che, a mio parere, non permettono di ritrovare in esse «uno stato ideale delle cose», come Mannacio pensa. Questo, invece, è la premessa dei ragionamenti e delle indicazioni etico/politiche di un Protagora o di un Aristotele.

    2. Apparirò banale o eccessivamente semplificatore, e però chiedo: ma bisogna risalire proprio alle “origini” per capire che «nessuna civiltà ha imposto di non rispondere alla violenza proveniente da altri e diretta a mettere fine alla vita con sacrificio del bene supremo di ciascuno»? Certamente, «c’è […] nella “ economia universale “ un limite al principio di non uccidere». (Come, aggiungerei, nella Costituzione Italiana è affermato il principio del ripudio della guerra). Ma il problema irrisolto, pesante e sul quale il pensiero dovrebbe ancor oggi affannarsi resta immediatamente *teorico-politico*; e riguarda il perché non si riesce a far rispettare – e da secoli! – tale principio. Non mi pare – insisto – che le indagini sulle “origini” abbiano aiutato finora a dare qualche risposta più valida di quelle tentate dal pensiero moderno.

    3.
    Esistono “trabocchetti” del pensiero idealistico (o di quello che ragiona a partire da ««uno stato ideale delle cose». E a me pare che in uno di quest Mannacio caschi, quando afferma: « Se partiamo da una situazione ideale di un Stato pacificamente costituto e pacificamente agente nel contesto dei vari stati e nazioni esistenti, non credo si possa mettere in dubbio la legittimità di una reazione contro l’aggressione altrui».
    Senza enfatizzare la mia critica, a me pare che la storia non mostri esempi di Stati *costituiti pacificamente* (se non, forse, del tutto secondari e ininfluenti) e tantomeno pacificamente agenti « nel contesto dei vari stati e nazioni esistenti».

  4. SEGNALAZIONE

    Di questo interessante numero del 2015 della rivista «Jura Gentium» fondata da Danilo Zolo (recentemente scomparso: https://www.poliscritture.it/2018/08/17/in-morte-di-danilo-zolo/) mi ero accorto il 2 aprile del 2017 e avevo cominciato a leggerlo e a prendere appunti. Poi altri temi e impegni mi hanno distratto. Lo segnalo a chi ha interesse ad approfondire il tema della violenza al di là del risaputo o delle convinzioni già acquisite. Il PDF può essere scaricato gratuitamente al link indicato. [E. A.]

    Violenza e civilité. Riflessioni a partire da Étienne Balibar a cura di Ilaria Possenti, Federico Oliveri e Marie-Claire Caloz-Tschopp
    http://www.juragentium.org/Centro_Jura_Gentium/la_Rivista_files/JG_2015_Balibar.pdf

    *
    Stralcio da «Per una fenomenologia della crudeltà. Una conversazione con Étienne Balibar Étienne Balibar, Cécile Lavergne e Pierre Sauvêtre» ( inizia da pag. 36):

    Lei distingue tre tipi di uso politico della violenza: la “non-violenza”, la “controviolenza” e l’“anti-violenza”. Mentre i primi due si inscrivono in tradizioni filosofiche e pratiche che mostrano, a suo avviso, vari limiti, l’anti-violenza sarebbe la sola capace di trattare, di civilizzare le forme dell’estrema violenza. Potrebbe spiegare i rapporti tra queste diverse nozioni?

    É. BALIBAR: Con l’ipotesi dell’anti-violenza cerco di tematizzare tutto ciò che sfugge all’antitesi tradizionale tra non-violenza e contro-violenza, sia che la si guardi dal punto di vista di una fenomenologia del potere, sia che la si guardi dal punto di vista di una fenomenologia della rivoluzione. In genere crediamo di sapere cosa voglia dire non-violenza, ma le cose sono molto più complesse di quanto sembra. Il fatto che, nella tradizione politica di cui siamo eredi, la non-violenza includa sia la descrizione dello Stato di diritto (evidentemente chi ritiene, come Benjamin, che il diritto non appartenga all’ordine della violenza, autorizza questa lettura), sia delle forme di contestazione dell’ordine sociale o degli ordini ricevuti che siimpegnano ad auto-limitare i propri mezzi, è già sufficiente a mostrare che l’idea di nonviolenza non ha in sé nulla di semplice. Per quanto riguarda la contro-violenza, le cose non sono affatto più facili. Così nella tradizione marxista, per Lenin o Mao, l’eredità della Rivoluzione francese è cruciale nel definire il modello della pratica politica rivoluzionaria, come sottolineato per altro da Žižek, che assume proprio tale modello. Ne consegue che abbiamo, in questo caso, una logica rivoluzionaria inscritta nell’orizzonte generale della problematica della sovranità. Ecco perché si possono ritrovare delle formulazioni simili, se non identiche, nei grandi teorici della sovranità come Bodin, Hobbes o Schmitt, e nei grandi teorici portavoce della rivoluzione come Robespierre, Lenin o Mao, senza che ciò significhi che io li consideri interscambiabili. Il punto però è che la grande formula medievale in base a cui “il sovrano non è tenuto a obbedire alle leggi” (princeps legibus solutus est), non potendo in caso contrario neanche enunciarle, si ritrova in una forma quasi identica nella definizione teologico-politica della sovranità di Schmitt, per cui “il sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”, e nei passaggi di Lenin sulla dittatura del proletariato come processo con cui una classe distrugge il potere dell’altra, o meglio ne elimina storicamente un’altra, ponendosi al di sopra delle leggi. Da parte sua, Lenin riprende questo principio attraverso un rovesciamento di prospettiva, che oppone al monopolio della violenza legittima propria dello Stato quello che io chiamo un “monopolio di classe della violenza storicamente decisiva”. In entrambi i casi – sovranità statale e rivoluzione – abbiamo a che fare con due diverse idee di contro-violenza. Nel caso della sovranità statale si tratta di una controviolenza preventiva: ecco perché, del resto, essa si adatta così naturalmente ad assumere le forme della normalità giuridica, ma sempre con la precisazione che, quando si ha a che fare con dei “bastardi” [salopards] che non vogliono rispettare la legge, si dovrà pur utilizzare la forza. Nel caso della rivoluzione, si tratta di una violenza che non è primaria, ma che reagisce a una violenza strutturale e che, in quanto tale, è per necessità obbligata ad essere violenta (con la possibile variante che complica ulteriormente il quadro, come avviene in Benjamin, di una violenza divina che, pur senza essere primaria, è tuttavia creatrice e originaria). Il problema politico della civilité non si pone, dunque, se non nel momento in cui si prende atto della preesistenza di una condizione di violenza (ossia quando si suppone che violenza e contro-violenza facciano parte non dei mezzi contingenti della politica, ma delle condizioni permanenti e strutturali della sua esistenza); e, contemporaneamente, si prende atto del fatto che la violenza non è uno strumento neutro o neutralizzabile (non è che non si possa fare a meno della violenza – non sto dicendo questo, minimamente – ma è che non si possano calcolare in anticipo i limiti di utilizzo della violenza). È per questo che trovo interessante Žižek, benché egli abbia una posizione opposta alla mia. Si potrebbe credere che Žižek si accontenti di ripetere una tradizione rivoluzionaria che legittima l’utilizzo della violenza appellandosi all’ineluttabilità delle sue condizioni e all’assolutezza dei suoi fini, ovvero al fatto che, nel momento stesso in cui si mira a niente di meno che all’emancipazione degli esseri umani, e non ci si fanno illusioni sul carattere intrinsecamente violento dell’ordine sociale al quale ci si contrappone, non solo il ricorso alla violenza è legittimo ma le esitazioni, le precauzioni, le messe in guardia sono proprie di un comportamento filisteo… In realtà Žižek fa qualche cosa di più: ripete questa tradizione proprio nel momento in cui essa è squalificata, a causa delle conseguenze disastrose del suo utilizzo, e si spinge fino a suggerire che il rivoluzionario non è soltanto colui che fa uso della violenza, ma è colui che assume deliberatamente una posizione di incertezza assoluta rispetto agli effetti provocati dalla violenza politica, caratterizzata come il “reale” lacaniano. Non si tratta, dunque, solo dell’idea che non si possa fare diversamente, ma anche dell’idea che l’iniziativa rivoluzionaria debba assumere il rischio della catastrofe.

    1. Il brano riferito è dotto e accademico e richiede una certa specializzazione per seguirlo perché anziché parlare direttamente parla per citazioni e per chiamata in causa di altri attori del discorso, un po’ come fanno certi testi legislativi i cui articoli non dicono ciò che prescrivono, ma rimandano alle prescrizioni di altri articoli di altre leggi.
      Ma lasciando perdere questo metodo di procedere, colgo alcune frasi e ne approfitto per ribadire alcune idee per me scontate.
      1) «sia che la si guardi dal punto di vista di una fenomenologia del potere, sia che la si guardi dal punto di vista di una fenomenologia della rivoluzione». La violenza rientra nella fenomenologia del potere di cui fa parte anche la fenomenologia della rivoluzione. Ogni ulteriore specificazione, utile in termini analitici (violenza, contro-violenza, antiviolenza, non violenza), fa sempre e comunque parte della fenomenologia del potere. La violenza è potere, il potere è violenza. Non esiste l’uso della violenza contro il potere, ma casomai contro un assetto di potere per l’affermazione di un altro assetto di potere che finirà per rivelarsi assai simile al primo.
      2) «logica rivoluzionaria inscritta nell’orizzonte generale della problematica della sovranità». La sovranità è potere e violenza, sempre. Per diminuirne il livello, occorre restituire la sovranità agli individui, e ciò si chiama restituire la libertà individuale. Aumentare la libertà / sovranità dei singoli individui per diminuire quella oppressiva dello Stato. L’unica rivoluzione che può dare buoni frutti è una rivoluzione non violenta che diminuisca ogni tipo di sovranità affidata a enti collettivi come lo Stato e che la riporti nella disponibilità degli individui.
      3) «quando si suppone che violenza e contro-violenza facciano parte non dei mezzi contingenti della politica, ma delle condizioni permanenti e strutturali della sua esistenza». Sì, violenza e contro-violenza (intesa come “violenza contro un altro tipo di violenza”) sono condizioni permanenti del confronto e dello scontro politico. Ma c’è una differenza di fondo fra la violenza contenuta in un ambito giuridico e quella esercitata direttamente sul fisico e sui beni delle persone. Vanno rafforzate le garanzie e gli strumenti di difesa politica e giuridica nell’ambito di uno stato di diritto (qui uso “stato” con la minuscola, nel senso di situazione, condizione, e non nel senso di Stato come apparato che detiene il monopolio della legge e della violenza). Consapevoli che non è possibile cancellare ogni tipo di violenza dai rapporti interpersonali, ma che è possibile ridurne gli effetti negativi in quanto distruttivi e irreversibili. Ad esempio, essere derubati legalmente di un proprio diritto di proprietà (o di altro tipo) è una cosa, essere derubati previa bastonatura o uccisione è un’altra.
      4) «carattere intrinsecamente violento dell’ordine sociale al quale ci si contrappone». Ogni ordine sociale è intrinsecamente violento. Si tratta di non aumentare, ma di diminuire, tale carattere violento e non vedo come sia possibile farlo se non restituendo agli individui il pieno godimento del loro diritto naturale alla libertà, eliminando o almeno attenuando tutti gli elementi dell’«ordine sociale» non fondati sulla libera volontà degli individui. Opporsi a un ordine sociale violento / a un potere costituito, in nome di un altro potere da costituire, significa solo prepararsi a subire un nuovo ordine sociale violento, un nuovo potere costituito.
      5) «il rivoluzionario non è soltanto colui che fa uso della violenza, ma è colui che assume deliberatamente una posizione di incertezza assoluta rispetto agli effetti provocati dalla violenza politica, caratterizzata come il “reale” lacaniano. Non si tratta, dunque, solo dell’idea che non si possa fare diversamente, ma anche dell’idea che l’iniziativa rivoluzionaria debba assumere il rischio della catastrofe». Credo che nessuna persona con la testa sulle spalle e responsabile delle proprie azioni possa assumersi il rischio della catastrofe. La lotta per un cambiamento sociale che migliori le condizioni di esistenza delle persone non può mai essere, né deve mai essere, un azzardo. L’azzardo appartiene all’avventura, e quindi anche alla politica e alla rivoluzione come avventura. Per qualcuno ciò può avere un fascino romantico, ma non porta quasi mai a buoni risultati.

  5. Giorgio Mannacio usa la finzione del richiamo all’origine quasi per eternizzare il doppio carattere di ogni società umana: sovranità e violenza. E’ un’idea favolosa dell’origine, se lo stesso Mannacio rimanda al fatto che non si può conoscere né l’origine delle istituzioni politiche né quella dell’Universo, quindi le appaia nell’umana ricerca. Accostamento appropriato se, anche nella Creazione biblica, la apparizione dell’uomo comporta da subito conflitto e violenza, con la caduta prima, e con l’uccisione fra fratelli poi.

    Le origini comunque non prevedono, né per Mannacio né per Aguzzi, una società in cui abbia rilievo il sesso delle sue componenti. Sul poter considerare il senso di questa assenza dialogavo infatti con Fagan nel suo post. Fagan scrive ad un certo punto: “Quanto agli studi antichi, quello che emerge sono due cose: la prima è che se non li chiama sfruttati e sfruttatori, ma dominati e dominanti (lo sfruttamento consegue), *allora questo assetto si chiama gerarchia* (c.vo mio) ed è un problema che c’è dalla nascita delle società complesse seimila anni fa se non di più. Il c.d. capitalismo è l’ennesima variante di un assetto che si è manifestato con dominanti di una certa etnia, una certa anagrafe, un certo sesso, re o aristocratici, generali o militari, sacerdoti o officianti di qualche credenza religiosa. La struttura è longeva, la versione ricchi vs poveri o possessori mezzi di produzione vs dipendenti o rentier vs lavoratori ne è una variante.” Per concludere poi così: “all’origine, sembra … che questa gerarchia non si formi per imposizione e violenza di pochi su molti ma per auto-organizzazione dei sistemi complessi”.
    Trovavo piuttosto interessante la sua nota che la gerarchia dominati-dominanti si formi originariamente (cioè dove storicamente la appuriamo) per autorganizzazione e non per originari violenza e conflitto.
    Questo richiamava la favoleggiata cultura matriarcale senza gerarchie né guerre, anche se i miti greci relativi alle stagioni ma, risalendo, al più generale ciclo di nascita e morte -Persefone/Proserpina sono dee dell’Averno-, fissano il tema violenza alla morte naturale e non solo a quella sociale e politica.
    Per questo aggiungevo a quanto scriveva Fagan che “l’attenzione a come si formi la gerarchia manca sempre di considerare in modo specifico il fatto della differenza dei sessi, quindi il fatto della separazione di funzioni e l’organizzazione della primaria divisione del ‘lavoro’ (ma è giusto chiamare così generazione e allevamento?) con lo sviluppo conseguente di diverse capacità e attitudini. Il corredo di immagini fornito da Gimbutas apre un mondo in cui la differenza femminile si mostrava e operava a livello immaginario e probabilmente ideologicamente organizzativo. Mi chiedo come si possa tornare a rilevare le forme di ‘auto-organizzazione dei sistemi complessi’ ragionando sempre su metà mondo e mantenendo cieco un occhio”.
    A cui Fagan rispondeva col testo citato sopra da Abate.

    Se Mannacio si rifa alla necessità di difendersi dai pericoli della natura come oggetto condiviso dall’eventuale accordo tra i gentiluomini intenti a bere il thè (allusione ai Due trattati sul governo di John Locke?), proprio la sovranità e la conseguente organizzazione, da cui non mancano conflitto e violenza, risulta per altro mancante anche della parte femminile (oltre che di altre “parti” che siano in condizioni di estraneità, avversità o inferiorità).
    In verità le donne sono in quella condizione come escluse ma interne alla situazione sovrana: nel senso che la vita, il corpo, la nascita e la morte -la porta di casa, insomma- non fanno parte della vita pubblica.
    Di fatto gli studi di filosofia politica sulla sovranità, in questi anni, si rivolgono proprio alle tematiche della nuda vita e del corpo.
    Di questo spostamento del pensiero teorico politico il femminismo è stato senz’altro l’avvio, e continua ad esserne l’accompagnatore, anche quando la filosofia politica maschile è convinta di procedere sul suo solo binario.

  6. @ Cristina Fischer
    «Le origini comunque non prevedono, né per Mannacio né per Aguzzi, una società in cui abbia rilievo il sesso delle sue componenti».
    Non è esatto. Scrivevo nel mio primo commento: «Ci sono diversità complementari e includenti, che creano rapporti di collaborazione e di amicizia, e diversità rivali ed escludenti, che creano antagonismi e violenza. Il confine fra le prime e le seconde è in parte biologico (non solo differenze di genere e fisiche in senso stretto, ma anche psicologiche e caratteriali) e in gran parte culturale e ha a che fare anche, ovviamente, e alle origine, forse, principalmente, con il controllo del territorio in cui si vive e con tutto ciò che comporta il rapporto fra biologia, società, cultura e ambiente (in sostanza, il problema della sopravvivenza, del miglioramento, del benessere)».
    La differenza di genere è esplicitamente citata e posta come una delle differenze biologiche (da cui conseguono poi altre differenze di vario tipo). Si può aggiungere per meglio articolare il punto che la differenza crea, nel corso dei rapporti fra diversi, una differenza di potere. Ciò avviene sia a livello della singola coppia, sia nel complesso dell’organizzazione sociale. Non esiste mai, neppure nella coppia donna-uomo più affiatata e innamorata, una perfetta parità di potere. Nei casi migliori vi è una alternanza di supremazia, cioè in certe cose l’uomo riconosce la superiorità della donna e in altre è la donna a riconoscere quella dell’uomo, e in questa alternanza, ma solo “nella media”, si può avere una parità di potere. Questa parità indica uno dei casi migliori di complementarità della differenza. Ma nella maggior parte dei casi il potere di uno dei membri della coppia è superiore, permanentemente superiore, a quello dell’altro. Ciò, in molti casi, non crea particolari problemi, perché la persona meno dotata di potere riconosce e vive come giusta questa sua minorità (e questa è un’altra forma di complementarità, di differenza che include). In molti altri casi invece la differenza non porta a una parità “nella media” né a un riconoscimento reciproco del rapporto più potere / meno potere, ma al conflitto.
    Nel matriarcato, di cui storicamente si conosce poco, va distinto l’elemento della trasmissione ereditaria in linea femminile, che non sempre comporta un effettivo potere femminile, dall’effettivo esercizio del potere da parte delle donne. In questo secondo caso il matriarcato è sempre accompagnato da un ruolo della donna preminente sull’uomo, non solo a livello della gestione dei rapporti familiari e sessuali, ma spesso anche a livello economico e persino militare.
    La differenza di genere che crea diversità di potere nella coppia donna/uomo lo crea anche nell’ambito dei ruoli sociali. Credo che, anche in una società complessa e numerosa come quella di uno Stato moderno, formato – poniamo – da dieci milioni di famiglie, se nella maggioranza delle famiglie fosse la donna ad avere più potere, anche a livello politico ed economico sarebbe la donna ad avere più potere. Fra i due fenomeni esiste un evidente collegamento. Man mano che il potere della donna aumenta in seno alla famiglia, aumenta anche in seno alla società. E ciò lo si è visto nel corso degli ultimi centocinquant’anni e soprattutto negli ultimi cinquanta, anni in cui l’emancipazione femminile, nel costume e nel diritto, ha fatto passi da gigante. Ciò ha comportato un vistoso aumento di donne presenti in attività prima considerate esclusivamente maschili. Certo, non siamo ancora alla parità, ma per un fenomeno di questo tipo centocinquant’anni di storia sono pochi per rovesciare una precedente pratica storica millenaria.
    Quando questo processo sarà ancora più sviluppato, la famiglia tradizionale, già oggi spesso in crisi, cesserà di esistere; e aumenteranno quelle trasformazioni di costume, cui conseguono modifiche nell’ambito del diritto, a cui abbiamo assistito e continueremo ad assistere (diritto di voto alle donne, pieno diritto alla proprietà e alla gestione dei propri beni, divorzio, aborto, riconoscimento delle famiglie omosessuali, possibilità di dare ai figli il cognome delle madri, ammissione a tutti i concorsi pubblici, compresi quelli militari, parità di salario a parità di lavoro in molte situazioni [ma non in tutte, per ora]: ecco alcune tappe di un percorso che continua e di cui non possiamo prevedere gli sviluppi più lontani).
    Non credo che si arriverà a una forma di matriarcato, ma piuttosto ad una parità di diritti sul piano giuridico e formale e a un’alternanza continua di parità /superiorità / inferiorità nelle specifiche micro-situazioni concrete.
    Va aggiunto che in molte situazioni in cui il maggior potere è in mano di donne, questo fatto non crea minore abuso di potere, ma semplicemente un uso del potere femminile analogo a quello maschile.
    Il potere ha la sua logica corruttiva e le donne non ne sono esenti. Come sempre, quando un corpo sociale si pone all’opposizione e sviluppa forme di organizzazione contro il potere costituito, sembra anche sviluppare forme organizzative alternative al potere, che poi si rivelano solo forme diverse di potere pronto a costituirsi in “potere” tout court.
    Se si vuole abbattere il potere costituito è necessario abbattere la costituzione di potere.

  7. Gentile Luciano Aguzzi, probabilmente io ho esperienze e idee sulla coppia donna-uomo diverse dalle sue, infatti non apprezzo idee di parità, né credo che costituirà un valore l’equilibrarsi di poteri tra maschi e femmine in futuro.
    In verità nemmeno ricordare le varie differenze esistenti nei gruppi sociali tocca l’argomento affrontato da Mannacio, cioè il nesso storico tra sovranità e violenza, così costante da apparire quasi naturale, e perciò ipoteticamente, e miticamente, originario.
    Riportavo perciò la osservazione di Pierluigi Fagan, che sarebbe stata la delega e non la forza ad aver prodotto la gerarchia, e sottolineavo che su “quel” tema avevo partecipato alla conversazione con Fagan.
    Egli però si riferiva a tempi ben più lontani di quelli in cui pensavano Platone e Aristotele, forse, si crede o si favoleggia, tempi di una creduta civiltà matriarcale, secondo me favoleggiata, come si favoleggia di invasori indoeuropei che l’avrebbero distrutta, ecc.
    Invece proprio sul nesso -indubitabile- storicamente accertato tra sovranità e violenza, facevo presente che la parte femminile, cittadina tanto quanto i cittadini maschi, era esclusa dal governo politico, anche se aveva riservate cerimonie miti e cultura proprie.
    La stessa separazione tra pubblico e privato è all’origine del contrattualismo, ed è mantenuta nella teoria politica fino a Foucault, Irigaray… e le tante (e i tanti) che oggi focalizzano proprio su questo.

  8. @ Tutti gli interlocutori.

    1.
    E.A ha la bontà di darmi atto che ho virgolettato pour cause il termine “ origine “ ed ho parlato di “ genealogia “ . Posti questi riconoscimenti di un metodo da me adottato sono rimasto un po’ sorpreso ( ma solo come “ aspirante loico “ ) di alcune sue osservazioni ( vd, sub 2 ).
    Era chiaro – o forse non mi sono spiegato bene – che il termine origine deve essere letto come “ ipotesi “ da cui partire per dare una spiegazione ad alcuni fenomeni. Tutte le ipotesi sono fantasiose nel senso che con la fantasia – meglio l’immaginazione – si può ovviare ad una conoscenza vera attraverso una c congettura plausibile, “ falsificabile “ nel linguaggio di Popper.
    Era fantasia o congettura plausibile la struttura atomistica proposta da Democrito ( ignorato da Platone, suo contemporaneo, questo sì per MOTIVI IDEOLOGICI ) ?
    Quella da me proposta sull’origine delle aggregazioni sociali che possono diventare Stati è una della tante e a me pare – pronto a cambiare idea – la più plausibile allo stato delle nostre conoscenze. Perché l’uomo solo avrebbe dovuto scegliere la via dell’aggregazione? Ecco il senso di richiamarsi all’origine punto di partenza – come ipotesi – di sviluppi ulteriori. Dire che l’uomo è un animale politico è prendere atto di una realtà millenaria ma non spiega perché è tale ( è nato così o lo è diventato ? ) Ho parlato poi di genealogia – termine che E.A mostra di prezzare ( e lo ringrazio ) – proprio per sostenere – a torto o a ragione ma con coerenza, mi pare – che quella origine è la causa degli sviluppi successivi sui quali interferiscono ulteriori fattori. La paura degli animali feroci era soltanto l’indicazione esemplificativa di tutte le difficoltà e paure che possono giustificare una coesione difensiva.

    2.
    Mi hanno sorpreso alcune osservazioni di E.A.. Egli osserva – in primo luogo – che io sarei caduto ( o starei per cadere ) – in un trabocchetto ideologico. E perché ? Lo porto in un campo che gli è congeniale , un campo dominato dalla figura di Karl Marx.
    In un testo abbastanza recente edito da Feltrinelli ( Marx- Antologia – Capitalismo. Istruzioni per l’uso ,2007 ) i due curatori (Donaggio e Kammerer ) ricordano come il pensatore di Treviri , nel porsi la domanda sulla causa della circostanza “ curiosa” che mostra da un lato di un mucchio di compratori che posseggono terra, macchine, materie prime etc… e dall’altra un gruppo di venditori che non altro hanno da vendere se non la forza-lavoro abbia proposto – a fronte della terminologia degli economisti che parlano di “ accumulazione primitiva o originaria – la ben più dura espressione di “ espropriazione primitiva “. Se le parole hanno un senso bisogna concludere che ci si è trovati – in un certo momento della Storia ad una vera espropriazione che ha portato taluno o un gruppo essere padroni esclusivi dei beni originari di produzione ( sostanzialmente : la terra )
    Non ho nulla contro tale ricostruzione che trovo – anzi – singolarmente simile al mio modestissimo disegno dell’ origine “. Anch’io –date le premesse da cui sono partito ( l’origine ) – non posso immaginare se non una comunione dei beni . Dunque – dice il Nostro – alcuni sono stati espropriati a danno di altri. Ma anche Marx si rifà , esplicitamente, ad una situazione originaria o primitiva che dir si voglia. Dalla situazione originaria e primitiva si passa attraverso l’espropriazione originaria alla “ proprietà esclusiva “. L’espropriazione è dunque individuata come “ causa “ dell’accumulazione in capo al capitalista. Marx adotta – sul punto – un metodo corretto che distingue cause e conseguenze. La sua ricostruzione di una espropriazione originaria o primitiva è del tutto compatibile con lo “ stato delle cose “ perché anche oggi sono storicamente verificabili situazioni di espropriazione. Perché escludere che ciò che avviene oggi non possa essersi verificato anche nel remoto passato delle “ origini “ ? Marx delinea dunque un percorso storico nel quale si sono modificati molti fattori e – dunque – molti aspetti delle conseguenze, ma il quadro è segnato ancora una volta dall’origine. Cosa c’è di diverso dalla mia ipotesi ? Anch’io nel mio testo accenno in modo sufficientemente chiaro alla modificazione dei rapporti tra soggetti e soggetti, tra soggetti e Stato, tra Stato e Stato. Cosa significavano questi accenni se non la rilevanza storicamente accertabile di fattori diversi e sempre mutevoli.? Posso essere cascato in altri trabocchetti ma non in quello dell’ideologia. E se ci sono cascato ho trovato una buona compagnia.
    Un problema resta però aperto. Se non si può confondere la causa violenta ( espropriazione primitiva ) con l’effetto accumulazione a favore di pochi e a danno di altri ( i venditori della forza lavoro) resta l’interrogativo perché vi sia stata tra i “ comunisti “ ( l’aggregazione sociale primitiva ) un soggetto o un gruppo più feroce, più astuto, iù abile del restante gruppo.
    Si può rispondere in questo modo: il “ capitale “ è buono se condiviso ma diventa “ cattivo “ se Diventa “ proprietà “ di un gruppo più ristretto. Questa affermazione – che appare moralmente condivisibile – implica un ulteriore problema. Posto che i beni necessari per vivere non sono cattivi in sé è solo la ingiusta divisione che li rende cattivi. Si torna all’uomo e alle sue azioni. . Dobbiamo risalire al Serpente e alla Mela ? Qui forse si arriva al Mito. Da tempo sto ridimensionando l’attendibilità di alcune tesi freudiane così come non ho mai creduto che le dittature si spieghino con la megalomania ( Mussolini ) o la psicopatologia ( Hitler; a Stalin non so quale carattere attribuire ) e dunque i richiami alle orde e agli impulsi non mi riguardano ma se tutto o quasi tutto si tiene nella dialettica della condizione umana un piccolo spazio ai Geni bisogna pur darlo.

    3.
    E.A scrive testualmente : “ Senza enfatizzare la mia critica a me pare che la storia non mostri esempi di stati costituiti pacificamente….”
    Il discorso introdotto con queste parole è estraneo al mio testo . Esso introduce il problema – teoricamente diverso – del “ come “ e non del “perché “ si sia arrivati alla formazione del gruppo originario. Può darsi che anche questo si sia formato violentemente. E’ una ipotesi che determina una sequenza di effetti diversa da quella da me trattata ( nascita dell’aggregazione ) .
    Certo non voglio nascondermi dietro un dito: la mia ipotesi presuppone una “ iniziale armonia “ Indispensabile per il primo benefico effetto generale( non essere soli di fronte al Pericolo, quale esso sia ). Ma anche Marx mostra di ipotizzarlo se – saltando al momento successivo all’origine – descrive questo come violenza. Per il poco che so di Marx mi sembra che egli si astenesse dal rimpiangere “ le origini “, ma questo è davvero un altro discorso.
    Lo Stato è un “ male comunque “ solo perché è SEMPRE costituito con la violenza ? Non appartengo ai posteri cui spetta …l’ardua sentenza.

    4.
    All’amica Cristiana Fischer voglio dire che parlando di uomo ho inteso parlare di essere umano e che ritengo il singolo essere come necessariamente “ duale “ (femmina / maschio ). Nel profondissimo canto citato da Donaggio e Kammerer ( vd . sopra ) si dice: “ Dove erano i nobili quando ADAMO ZAPPAVA la terra ed EVA filava ?
    2 ottobre 2018.

  9. @ Mannacio

    1.
    Non suoni presunzione o rifiuto di dialogo, ma per me non ha senso ribattere ancora in dettaglio, perché ho l’impressione che le tue ulteriori puntualizzazioni sulle “origini” abbiano aggirato la mia banale ma semplice obiezione fatta al punto 2 del mio commento (https://www.poliscritture.it/2018/09/29/sulle-origini-della-violenza-nella-storia/#comment-84959): che senso ha risalire proprio alle “origini” (siano esse quelle del mito o dei filosofi antichi) se si porta a casa quello che un sapere storico “comune” ha già acquisito sulla violenza nelle vicende umane?

    2.
    « Da tempo sto ridimensionando l’attendibilità di alcune tesi freudiane così come non ho mai creduto che le dittature si spieghino con la megalomania ( Mussolini ) o la psicopatologia ( Hitler; a Stalin non so quale carattere attribuire ) e dunque i richiami alle orde e agli impulsi non mi riguardano»

    Ho detto che le tesi sull’orda primitiva di Freud sono oggi controverse e discutibili, ma non le trascurerei. Perché possono sempre tener desta una ricerca più vigile ed esigente sul passato.
    Ho appena finito di leggere un bel saggio di Mario Pezzella su Sebald, l’autore di «Austerlitz» (http://tysm.org/linverso-unombra-sebald-trauma-storico/), e riporto questi due stralci che hanno a che fare con la nostra riflessione:

    1.
    Il trauma può appartenere a un passato remoto o addirittura all’eredità impersonale arcaica dell’umanità, come Freud ipotizza a proposito dell’omicidio del padre originario e delle sue ricorrenze nella storia: “In una qualche recente esperienza…compaiono impressioni che sono così analoghe al rimosso da poterlo risvegliare. Allora il recente si rinforza dell’energia latente del rimosso e il rimosso giunge a operare dietro al recente con il suo aiuto…è però di un’importanza decisiva il risveglio della traccia mnestica dimenticata a mezzo di una recente ripetizione reale dell’evento”. Anche a non voler credere letteralmente all’evento-omicidio del Padre originario, esso esprime tuttavia miticamente la percezione della violenza presente da sempre nella storia e l’eredità che comunque –da vittime o da carnefici- ne portiamo dentro di noi. Chi di noi non porta tracce –sensibilmente trasmesse dalla sua costellazione familiare di generazione in generazione- di violenze commesse e subite in epoche passate? Un ordine simbolico efficace non annulla certamente questa eredità, ma consente di contenerla e di elaborarla nella coscienza; il suo crollo espone al dilagare illimitato degli impulsi disgreganti.
    Nel comportamento magico-mimetico dell’identificazione con l’aggressore, la vittima –anche qualora non abbia compiuto atti effettivamente condannabili- si sente a posteriori emotivamente colpevole come l’aggressore e responsabile della morte o del dolore dei suoi compagni; resta valido anche in questo caso ciò che Ferenczi sosteneva a proposito dei traumi infantili: “…L’introiezione entra in gioco nel momento in cui il bambino o la bambina prendono su di sé la malvagità di colui che attacca, interiorizzando e rimodellando gli eventi penosi realmente accaduti come se ne fossero la causa”.

    2.
    In realtà la nostra storia attuale, ma anche il suo inconscio collettivo, è indelebilmente segnato dall’accumulazione primitiva che ha dato origine allo sviluppo dell’industria moderna. Questa origine rimossa di violenza e di sangue, riscoperta da Marx nel Capitale, è il trauma impensato che tende a insistere nella catena mimetica della violenza, e nel suo continuo, progressivo incremento. Si tratta sì di una ripetizione, che tuttavia conosce a ogni giro un aumento di intensità distruttiva e si sviluppa secondo le leggi di una coazione a ripetere, che i buoni propositi umanistici non riescono ad arrestare: “Il capitale accumulato nel XVIII e XIX secolo mediante svariate forme di economia schiavistica…continua tutt’oggi a circolare, frutta interessi semplici e composti, cresce e si moltiplica producendo costantemente nuova ricchezza motu proprio”. Neppure l’arte è esente da questa origine oscura, se è vero, nota un personaggio di Sebald, che i maggiori musei olandesi e inglesi nascono grazie al finanziamento delle fondazioni legate alle dinastie dello zucchero e sicuramente complici delle spoliazioni e delle forme di sfruttamento inumano diffuse dagli Occidentali nel resto del mondo. A questo processo si accompagna in Europa il dilagare della proprietà privata e “la limitazione via via più radicale dei diritti comuni”, fino al punto che di questi si era perso perfino il concetto, prima che venisse riscoperto in tempi recenti e se ne facesse la storia.

  10. @ Ennio Abate
    Se si disconosce il valore METODOLOGICO del richiamo all ” origine ” non ho nulla da aggiungere. Tutto quello che dici si iscrive benissimo nel quadro complesso da te tracciato, come del resto era ricavabile dal mio testo. Un cordiale saluto. Giorgio.

  11. @ Mannacio

    Non è che io disconosca per pregiudizio ” il valore METODOLOGICO del richiamo all ” origine ” “. Chiedo di verificare i risultati e se essi aggiungono o meno qualcosa di importante alle cose che la storia ci insegna sulla violenza dei singoli o delle società.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *