Alberta Bigagli & il mostro sireno

di Angelo Australi

Testo letto in occasione dell’iniziativa fatta al Centro Sociale il Giardino per ricordare Alberta Bigagli 

 Figline Valdarno 20 ottobre 2018 

 

Alberta Bigagli è morta il 5 agosto del 2017. Mi diede la triste notizia Fiorella Falteri, non ricordo bene se l’undici o il dodici di agosto. Comunque ero appena rientrato da una vacanza siciliana fatta sotto un caldo soffocante, con la natura rovinata dagli incendi dolosi alimentati dal vento caldo di scirocco che veniva dall’Africa. Incendi giganteschi, il cui fumo a momenti oscurava il sole.

La mia amica Alberta! Pensai solo questo, dopo aver riattaccato il telefono.

Anzi, … l’amica “Zia Alberta”; così la chiamavo io, cosi la chiamava Sabrina, così la chiamavano Egle e Nilo (i nostri figli), da quando l’inverno e la primavera del 1988/1989, insieme facevamo dei laboratori di scrittura con gli alunni di alcune classi delle scuole elementari di Figline Valdarno, esperienza da lei fatta in precedenza alla scuola media Calamandrei di Firenze insieme a Franco Manescalchi e Filippo Nibbi, che aveva prodotto il libro “Il bello della cosa”. Dopo quegli incontri, dove i ragazzi si esprimevano in piena libertà fantasticando sulle trame dei loro racconti, lei si fermava da noi a pranzo. Nilo aveva un anno, Egle nove. Mangiava con noi anche mio padre, perché mia madre era morta a settembre del 1987, e poi c’era Sabrina. Per un periodo piuttosto lungo Alberta è stata davvero come una di famiglia, così soprattutto ad Egle veniva naturale chiamarla zia. Lavoravamo due giorni a settimana con quattro classi suddivise in due plessi scolastici della scuola primaria: seconda, terza, quarta e quinta. Il martedì al G. B. Del Puglia, mentre l’altra mattinata era dedicata alle classi del Martiri Cavicchi. Nella nostra cucina allungavamo la tavola per starci comodi in cinque, più Nilo sul seggiolone. Durante il pranzo parlavamo dei soliti problemi quotidiani, poi io e lei ci mettevamo a rielaborare il materiale trascritto dal lavoro di animatori nelle classi, con l’intenzione di pubblicare un libro: “Il Pien di forme”. Spesso Egle ci seguiva anche nelle varie conferenze che organizzava il Circolo Letterario Semmelweis. Un paio di volte l’ho portata a casa sua. A un certo punto Alberta, da quella piccola terrazza rialzata un tre scalini dal pavimento della cucina, le faceva vedere i tetti di Firenze, dove si ammiravano volare in cielo gli stessi uccelli che ritornano nel titolo del suo ultimo libro di poesie, uscito nel 2016.

Mi trovo pienamente d’accordo con il punto della premessa di Franco Manescalchi a “Corvi rondini e piccioni”, in cui scrive: “Insomma, senza calchi letterari, Alberta come poeta, è uno spettatore del mondo, e si sforza di non deformare la voce della vita che risuona dentro di lei, attraverso gli altri”.

Lei tenta, credo riuscendoci con un percorso di ricerca tutto suo, annullando il ruolo del poeta, di diventare in modo originale un semplice mediatore tra il lettore e la realtà evocata:

Io apro il rubinetto e l’acqua
manda odore di zolla e di erba marcia
non è la prima volta e sorrido.
Passano sul pavimento e lungo la parete
animaletti scuri e striscianti i quali
stranamente non danno paura.
Mi arrivano dei cigolii indecifrabili
e dopo trovo appena un po’ spostati
il tubo della stufa e qualcosa d’altro.
La mia casetta è divenuta permeabile
e trasparente ed abitata fuori norma.
Terra nell’aria e il mare accanto al fuoco
tutto è confuso e tutto è unitario.
Il tutto è consumazione e attesa.

Come vedete sono immagini semplici, che si possono tranquillamente ascoltare dal pizzicagnolo dove si fa spesa, o carpire, al volo, da una conversazione tenuta da estranei incrociati per strada.

Secondo me la poesia di Alberta si manifesta nel quotidiano con tutta la forza del reale e la trasparenza del sogno, in una fusione tra vita, quindi realtà, e mistero, … e apparizione. Non so quanto tutto questo porti ad una dimensione surreale, ma quasi sicuramente è dimostrazione di un bisogno di fede quasi epico. In questa sua capacità di spiegare cosa sia la vita, a volte rappresentata con immagini che s’incontrano come dei frammenti di luce, ci fa sentire totalmente presi, ma anche persi, … spaesati. Non a caso spesso nei suoi versi accenna a San Francesco, il più grande scarnificatore della storia dell’umanità, colui che ha tolto ogni forma di sovrastruttura ideologica, pur di aderire all’essenziale.

Lui Francesco è riuscito a combinare
un appuntamento con gli uccelli
a loro parla e si fa rispondere.
Intendiamoci ha avuto una fortuna
un pappagallo o due dall’interno del gruppo
fanno da interpreti e tutto scorre.
Il cippettio è soave. E’ soave la voce
estremamente maschile e tutta vibrazioni
su una corda fonda di Francesco.
I lupi i solitari lupi che lontano vedono
si mostrano gelosi. Mandano un mediatore
pensando che il suo muso affilato e le sue
orecchie appuntite siano segno di grazia
e possano piacere. Lo mandano ad annusare
quell’uomo un po’ strano vestito di un
saio quasi nero e grezzo e forse posato
sopra un corpo nudo. Il lupo per non fare
troppa paura evita l’ululato ed emette
solo un mugugno. E lui Francesco
ci capisce dentro. Simpatizzano e
corre una stretta fatta di zampa e di mano.
Hanno ambedue gli occhi acuti appassionati.
Completamente felici e infelici.

L’accento lirico, se c’è, in questa come in altre sue poesie, viene subito privato di ogni accessorio, sotto la spinta della ricerca della verità. Che poi non si trova mai, ma va sempre posta come obiettivo esistenziale, per avere la visione d’insieme in quell’orizzonte di riferimento, al tempo stesso speculativo e reale.

Questo suo ultimo lavoro poetico è coerentemente collegato a tutta la ricerca da lei perseguita dall’uscita del primo libro di prose/poetiche “L’amore e altro”, pubblicato per l’editore Vallecchi nel 1975 con una bellissima prefazione di Carlo Betocchi.

Ho conosciuto Alberta nel 1986, quando inviò in lettura il suo libro di poesie “L’arca di Noè”, che era uscito nelle edizioni Gazebo a maggio di quello stesso anno. Il libro l’ho ricevuto insieme ad una lettera che chiedeva un giudizio. La lettera è datata solo settembre 1986, ma nel libro ho segnato a lapis 15 settembre. Per questo sono sicuro di non sbagliarmi sulla data di arrivo. Le risposi che la sua poesia mi colpiva soprattutto per l’aderenza ai toni bassi del linguaggio con una semplicità espressiva sempre tenuta in tensione dalla visione d’insieme. Qualcosa di epico, come ho tentato di argomentare in precedenza. Lo ricordo benissimo, mi aveva avvicinato molto alla sua immaginazione poetica quella prima parte della nota in cui Alberta spiega che:

Scrivere poesie, fiabe o prose liriche. Scriverle a mano e a macchina e più tardi, a volte, stamparle. Ma anche solo chiacchierare, aggressivamente, con negli occhi, che pure sorridono e ridono, una richiesta drammatica. “Ascoltami, che dopo io ti ascolto. Non sfuggirmi”. Toccarsi, è stabilito da sempre che sia difficile, mandarsi lettere è passato di moda. Diciamoci, allora, il maggior numero possibile di quelle cose che passano dentro, a miliardi, senza mai uscire. Cose che graffiano e feriscono, perché appunto prigioniere, prigioniere innocenti, prigioniere della paura”.

E più oltre:

… Occorre il coraggio esistenziale di dare alle proprie esperienze i loro nomi, il coraggio teatrale di fare emergere le immagini suggerite dalla vita in atto”.

Dopo uno scambio epistolare nel quale le inviai in lettura il libro di racconti “Spartaco e Cannabis”, pubblicato nel 1985 sempre con Gazebo, Alberta è venuta a trovarmi. Ricordo ancora la sua difficoltà nel parcheggiare la Y10 rossa su Via Roma, una strada molto transitata e a quei tempi piena di semafori. E’ allora che mi ha fatto dono de “L’amore e altro”, così da apprezzarne i suoi ascendenti campaniani. In questi primi incontri, parlando è emerso il suo lavoro sul linguaggio espressivo che raccoglieva dei testi trascritti fedelmente conversando con i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico di San Salvi e gli ospiti delle Case di Riposo di Prato e di Montedomini. L’Ospedale psichiatrico di San Salvi e Montedonini si trovano nella città di Firenze. Si era laureata in psicopedagogia mentre lavorava come centralinista alla SIP. Studente lavoratrice, insomma. La sua ricerca sulla parola nasce per dar voce ai fatti anche atroci che possono capitare nella vita di un individuo, farli uscire allo scoperto in tutta la loro drammaticità perché sboccino come un fiore sulle paure del pensiero dominante, nascoste nell’indifferenza di una società ossessionata dal consumare ciò che si produce. Per oltre trent’anni ha perseguito in questa sua indagine frequentando carceri, ospedali, case di riposo, e anche costituendo gruppi di linguaggio espressivo tra persone comuni, con una costanza che lascia stupefatti. Quando ci siamo conosciuti era da poco andata in pensione, poteva così dedicarsi pienamente a questi due filoni della sua ricerca: la poesia e, diciamo così, per semplificare, la memorialistica. Lei mi ha spedito parte del materiale, corredato dai disegni dei pazienti della Tinaia, una struttura costituita all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di San Salvi per far esprimere alcuni pazienti attraverso la pittura. Ho subito sentito che i nostri principi ispiratori di una ricerca sul linguaggio erano molto simili. Più volte mi aveva spiegato il suo metodo di lavoro con gli ospiti di queste strutture, quel “tu parli io scrivo” dimostrava quanto Alberta fosse disponibile ad annullarsi nel dialogo come poeta per lasciare alla realtà la possibilità di esprimersi senza l’ausilio di sovrastrutture descrittive o mediate da un’idea di bellezza da raggiungere. La bellezza era lì, incisa nella semplicità di quel dialogare, dove anche le immagini più ordinarie di una banalità quotidiana mantenevano una originale purezza espressiva.

Anch’io, dopo aver pubblicato “Roscio” nel 1980, e superata la sbornia di una sperimentazione letteraria dove scimmiottavo la tecnica dei grandi scrittori del Novecento, in quegli anni cercavo di arrivare a qualcosa di analogo, o almeno sentivo il bisogno di scarnificare il lessico fino a ridurlo a poche centinaia di parole che avessero un’aderenza ai significati di un bisogno quotidiano in cui si esprimevano le persone semplici con le quali mantenevo un rapporto. Anch’io cominciavo a sentire il bisogno di esprimersi in letteratura cercando di scoprire il punto originario dal quale sono partito per amarla, là dove si nasconde l’unico pensiero esistenziale del perché un giorno, chissà per quale arcana ragione, si è trovato la determinazione per mettersi a scrivere.

Nel materiale che Alberta mi aveva inviato c’erano le conversazioni di Armando e Marcella, già alla prima lettura rimasi colpito da questa capacità di estraneazione dal contesto quotidiano dove i dialoghi tra padre e figlia, nel conflitto dei ruoli, dalla più bassa semplicità espressiva toccavano corde che vibravano in una realtà concreta. I dialoghi erano conflittuali, spesso colmi di cattiveria, di rancore, di rimpianto, ma così vestiti di ironia comunicavano una gioia espressiva vigorosa, potente. Alberta, senza aggiungere niente di suo – senza fare quindi letteratura – riusciva a trasmetterne tutta l’autenticità. Era come chiudere un cerchio che nasceva dalla vita per tornarci attraverso una mediazione surreale del linguaggio sapientemente fissato sulla pagina come testimonianza, come esperienza universale.  Erano i tralci di una conversazione che chissà quante volte avevo ascoltato di sfuggita, sostando al bar, in un negozio, dal barbiere o nella sala d’attesa dell’ambulatorio di un medico di base. Conversazioni che non andavano da nessuna parte, eppure, nonostante l’ovvietà di un’origine colloquiale, le sentivo portatrici di un messaggio speculativo che ampliava l’orizzonte di percezione del reale. Era un mondo che viaggiava su una linea dove incontrava la sua poesia. Pur mantenendo dei forti elementi esistenziali, sembrava superata ogni forma di dicotomia in cui si stava impantanando la letteratura di fine millennio, preoccupata solo di arrivare a un prodotto che desse visibilità all’autore.

In quei giorni a cavallo le festività natalizie del 1986, il Sindaco di Figline Valdarno, Patrizio Nocentini, cercava di stimolarmi a creare un’associazione per movimentare il clima culturale del paese. Nei primi mesi del 1987 infatti è nato il Circolo Letterario Semmelweis, al quale subito aderì anche Alberta Bigagli.

Armando e Marcella”, non solo è diventato un libro, ma ha fatto nascere un’iniziativa che si chiama “La parola come segno di identità” e una collana editoriale ad essa legata. Ci ha fatto apprezzare al Premio diaristico di Pieve Santo Stefano, conoscere Saverio Tutino e aprire una forma di collaborazione con L’Archivio dei Diari, inserire il nostro territorio in uno dei movimenti più interessanti, almeno secondo il mio punto di vista, nei quali si è sviluppato il linguaggio scritto degli ultimi decenni, per uscire da certe logiche del mercato editoriale con qualcosa – se non nuovo – che si facesse sentire come autenticamente onesto.

Ricordo ancora il clima che si respirava realizzando la prima edizione di “Armando e Marcella”. Testi da me battuti a macchina, impaginati da Gabriele Bonechi, riprodotti con l’enorme fotocopiatrice degli uffici comunali di Figline Valdarno messaci a disposizione dal sindaco, e rilegati insieme alla copertina in cartoncino color carta zucchero da Francesco Cioni, titolare della Tipografia Sartimagi. Per uno o due pomeriggi un gruppo di dieci persone s’impossessò festosamente degli spazi comunali per realizzare quella tiratura fuori commercio di duecento copie. Quattro anni dopo, a maggio del 1991, fu stampata una nuova edizione che aveva la premessa di Franco Manescalchi.

Il 9 maggio del 1987, con il titolo “Il mostro sireno”, sottotitolato la parola come segno di identità, la presentazione di “Armando e Marcella” alla Biblioteca Comunale di Figline Valdarno, segnò l’esordio sulla scena culturale valdarnese del Circolo Letterario Semmelweis. La sala della biblioteca comunale Marsilio Ficino, allora immensa, era stracolma di persone. Tra i relatori, a parlare di linguaggio espressivo, c’era Saverio Tutino, Giovanni Garancini, direttore della rivista milanese Abiti & Lavoro, io e Alberta. L’ispirazione per dare un titolo all’incontro mi venne grazie al disegno di un mostro a due teste fatto da uno dei pazienti che frequentava la Tinaia, che Alberta mi aveva portato insieme ad altri in un inserto per esporli alla biblioteca nel giorno in cui si svolgeva la conferenza. Il mostro Sireno, un corpo unico che ha due teste. Andando per metafore questo oggi mi fa pensare al lavoro di Alberta: le due teste sono la poesia e la ricerca sul linguaggio espressivo dei non addetti ai lavori, sostenute da un corpo dove si nascondono gli organi che consentono di vivere: intestino, fegato, polmoni, … e soprattutto il cuore.

Le iniziative nei primi anni di vita del Circolo Letterario Semmelweis si sono succedute ad un ritmo vertiginoso che, a guardarlo a distanza di trent’anni, devo dire fa paura. Le pubblicazioni, il convegno sulle riviste di letteratura, Inventario.  La presentazione del libro di Eugenio Centini “Dolore e sogno”, curato da me dopo la sua morte avvenuta a gennaio del 1988. Il bellissimo libro di sentenze poetiche di Gabriella Bertini, “Al canto della civetta”, curato con passione da Alberta. I laboratori di scrittura creativa nelle scuole. La promozione del jazz italiano. A parte il Circolo Letterario Semmelweis, dal 1989 per due anni ho diretto il periodico di cultura valdarnese MicroMacro e gestito lo spazio culturale del Centro Informagiovani, e anche qui Alberta è sempre stata presente e attiva in molti incontri. Le mostre di Art-Brut dei pazienti della Tinaia, fatte al Circolo Rinascita e presso il salone delle Misericordia di Figline Valdarno, e nel paese di Greve in Chianti. Una raccolta di testimonianze degli ospiti della Casa di Riposo Lodovico Martelli di Figline Valdarno, dove su mio stimolo Alberta e Paola Brembilla hanno confezionato un libro stampato a spese del Partito Democratico della Sinistra del paese: “Voglia di raccontare”. “Onde di terra – il paesaggio nella letteratura toscana del Novecento”, convegno protrattosi su più edizioni dal 1999 al 2001. Anche se non trovo il coraggio per farlo, sento che dovrei rileggere la folta corrispondenza intercorsa tra di noi in tutti questi anni.

Poco prima della sua morte, tra maggio e giugno del 2017 ci siamo incontrati spesso alla Casa di Dante, dove l’associazione fiorentina “Pianeta Poesia” un martedì al mese organizza i suoi incontri letterari. Alberta stava male, non parlava più bene, ma riusciva ad esprimere ancora la sua voglia di vivere con i sorrisi e degli sguardi caldi, fissi su di te.

LXIII

Io vi perdono come disse ai mafiosi
la moglie di quel carabiniere
che fu affrontato e ucciso
ma dovete inginocchiarvi.
Intendo dire agli amici che
tutti dovete fortemente amarmi
poiché la protezione non mi basta.
Ascoltarmi dovete e attentamente
come io già vecchia vi ascolto.
Non il commercio fra di noi
che un tempo si chiamò borghese
ma gli occhi negli occhi con me.
E le parole perle della voce
da fermare pesare ed offrire
agli angeli di vita passanti.

Ho due immagini di lei fissate nella memoria.

Una è del giugno 2017, proprio a Montedomini, dove un sabato mattina ero andato con Sabrina a vedere “ARTOUR – O – MUST Museo Temporaneo”, una mostra d’arte contemporanea allestita in diversi spazi fiorentini, tra i quali c’era anche l’antico guardaroba della Casa di Riposo, qui stavano esposte due opere di Nilo, in forma di libro d’artista. Erano circa le dieci e trenta del mattino e ancora la mostra non aveva aperto al pubblico. Incrociammo per puro caso Alberta e Fiorella Falteri che andavano alla riunione di un’associazione con sede all’interno di quell’immenso complesso. Parlammo per un po’ con Fiorella, poi Alberta quasi la sgridò perché dovevano presentarsi puntuali alla riunione. Mentre si allontanava sorrisi, in quella fragilità ritrovavo il suo senso del dovere verso gli impegni presi, una delle caratteristiche principali della sua forza d’animo.

… Be’, l’altra immagine è nella mia testa dall’uscita di “Armando e Marcella”, in quella prima edizione così nata per gioco alla fotocopiatrice del comune. La dedica che ha fatto sul libro:

Ad Angelo, sceso dal cielo della sua arte per diventarmi amico”.

Alberta maggio 1987.

Alberta è passata sulla terra per dare una testimonianza, questo il suo rapporto con la vita e con la morte: non paura, ma consapevolezza del limite umano. Un po’ come si conclude la sua premessa al mio libro “Vittoria e altre storie di volo”, pubblicato nel 2014 dall’Editore Pezzini di Viareggio. Riferendosi al racconto “E’ caduta la neve”, dove il personaggio, dopo avere assistito all’esumazione delle ossa della madre, guidando l’auto preso dai suoi pensieri, in un cielo tutto grigio raggiunge dei colli dove fiocca la neve, lei puntualmente scrive:

Angelo vedete, mi induce a confessarmi. Perché, come lui sottolinea con citazioni, nella mescolanza del tutto può divenire libero ed usare il tocco, lo strumento, la leva del linguaggio espressivo e comunicante, il linguaggio della poesia. Ed ora la visione totale, anche della neve che cade, può entrare nel nulla. Se è dentro di me, di lui, di noi, certamente non muore.

 

Nota

Le poesie sono tratte dal libro Rondini corvi e piccioni.

A onor di cronaca, oltre al mio intervento hanno stimolato le persone presenti all’iniziativa:

Guido Olmastroni, in rappresentanza dell’Associazione “Il Giardino”;

Fiorella Falteri, amica intima di Alberta e Presidente dell’Associazione “Trust Alberta Bigagli onlus”;

Giuseppe Baldassarre, critico letterario e membro di “Pianeta Poesia”;

le testimonianze di Filippo Nibbi (poeta), Loris Sandrucci (poeta, pittore) e Mirko Tinagli (presidente del CLS);

Patrizia Benini e Maria Gabrielli, attiviste del “Gruppo di lettura del Giardino”, hanno letto poesie di Alberta Bigagli, tratte dal libro oggetto della conferenza;

Riccardo Semplici ci ha assistito per la parte tecnica nella proiezione dei video: “Le Origini” e “Una vita di poesia”, regia di Valerio Nardoni, riprese di Daniela Sandid.

Per chi vuole approfondire su Alberta Bigagli, consiglio di visitare il sito www.albertabigagli.it

8 pensieri su “Alberta Bigagli & il mostro sireno

  1. “…tutto è confuso e tutto è unitario”, trovo molto bello questo verso di Alberta Bigagli che sa riportare la realtà tutta in una dimensione di normalità, quotidianità, semplicità. A questo solitamente arriva, credo, chi non fa distinzioni gerarchiche tra umanità, cultura e natura. Nulla ai suoi occhi è straordinario e, nello stesso tempo, ogni cosa lo è: Francesco non compie alcun “miracolo” parlando agli uccelli o fraternizzando con un lupo, è il mondo animale che gli viene incontro, c’è un’alleanza tra loro. Così per ciò o chi l’essere umano in genere rifiuta, relega, di cui ha paura oppure ignora perchè il suo tempo “è scaduto, e non vuole mostrare in pubblico, come “il mostro sireno” o il vecchio dell’Ospizio…no, proprio loro sono da raccontare o da ascoltare raccontare, così da levarli dall’oblio, da riportarli alla normalità delle esperienze vissute. Angelo Austrli ci offre di Alberta Bigagli una bella presentazione, umana e artistica, e un ricordo personale, “la zia”…grazie

    1. Cara Annamaria Locatelli,
      hai colpito nel segno: in Alberta spariscono quelle due linee che proseguono parallele senza mai incontrarsi, tanto care alla cultura contemporanea, lei confonde il tutto in un moto sussultorio dove le stesse si incrociano e si allontanano, così com’è la vita.
      E’ un mio personale giudizio, non sono molto avvezzo a darlo sui poeti e sulla poesia, essendo narratore, ma questa sua esperienza poetica credo sia una delle più originali proposte degli ultimi decenni.

  2. Inserisco con piacere una poesia di Loris Sandrucci, scritta per Alberta Bigagli. Lui lavora con la macchina da scrivere, fa circolare le poesie in fotocopia.

    angelo

    RICORDI

    Non son’ombre i barbaglianti echi
    di ricordi; forse musica
    note, quasi colori, e l’animo
    pitturato di tristezza
    aspetta una cornice di luce.
    Ha galoppato il tempo, sono zoccoli sul cuore
    ma fa ancora sorridere il ritorno muto
    del Mostro Sireno la luminosa presenza
    della dolce Alberta come,
    sorgente d’amore.
    Amore scaldante, fiamma donata
    a noi tutti, come vorremmo
    riprender per mano quel nostro cammino
    negli infiniti sentieri della fantasia.
    Libertà demmo a momenti e ogni animo
    si nutrì di sogni, si rinnovella il passo
    l’aire si riaccende tendi ancor la vela
    fai cigolare l’ancora ora prigioniera dei flutti
    raccogli a similar di fiori
    mazzi di Arcobaleni da posar leggeri
    in un vaso di rugiada;
    catturato vento scintillanti aliti
    è canzone nel Sole il Semmelweis!

    Loris Sandrucci

  3. …sarebbe bello riconoscerci tutti nelle “foglie di un albero immenso”…stesso tronco, stesse radici

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