Appunti eretici sulla democrazia e il popolo

di Giorgio Mannacio

 

1.
Inizio con una giustificazione del titolo, che vuol essere un po’ dissacrante. L’eresia riguarda i concetti di popolo e democrazia più che mai inflazionati in questa triste stagione politica dell’Italia.
Sono convinto che rispetto a tali due termini occorra una certa chiarezza. Ciò eviterà – forse – di cadere preda di facili illusioni.

2.
Comincio da POPOLO. Tale termine può essere usato – ma impropriamente – come sinonimo di popolazione. Quest’ultimo termine rescinde da connessioni socio-politiche, delle quali intendo – invece – occuparmi e individua una massa di soggetti nella loro materialità quale risulta dall’addizione numerica dei singoli componenti. Anche quando si accompagna ad aggettivi specificativi esso conserva una valenza meramente statistica (popolazione italiana – ad esempio – non equivale a Popolo italiano ).
POPOLO è termine con valenze specifiche. Esso individua sì una massa di persone ma a tale dato di fatto si aggiunge un elemento o più elementi unificanti che danno alla massa una più o meno marcata identità. Esemplificando: popolo italiano contiene un richiamo ad un territorio comune, ad una lingua comunemente praticata, a determinate istituzioni, etc.
Con una certa acutezza – a mio giudizio – si è coniata, ad esempio, l’espressione “ popolo delle partite IVA “ alludendo ad una certa massa di persone che hanno interesse ad una soluzione di una questione comune relativa ad un certo tipo di tassazione piuttosto che ad un’altra. E’ altamente probabile che “ il popolo della partite IVA “ sceglierà di votare per quella formazione politica che assicura una regolamentazione del problema conforme alla volontà di quel “ popolo “. Per quanto unificata da elementi generalissimi come territorio, lingua, istituzioni comuni etc., la popolazione
( torno al termine statisticamente significativo ) ha, nel concreto della vita socio-economica, interessi diversificati aggregabili di volta in volta secondo la loro qualità.
Alcuni pensatori (ad esempio Massimo Cacciari ) osservano come il termine “popolo “ sia generico e vada analizzato in relazione agli interessi concreti e di vario tipo che portano ad unificare un certo numero di persone intorno ad un oggetto comune. Il suggerimento è certamente interessante ed utile. Aggiungo che se si parte dal presupposto che l’agire umano è determinato da un interesse e se gli interessi sono diversi a seconda dei gruppi di persone di un aggregato sociale significativamente permanente, si arriva alla conclusione che nella popolazione convivono “diversi “ popoli “ e tale affermazione – se si prende in esame il problema DEMOCRAZIA come governo del popolo – ha importanti conseguenze.
A latere è appena il caso di aggiungere che tale ricostruzione spiega, almeno in parte, la dinamicità delle società e la presenza permanente di una contrapposizione di interessi che ha diversi sbocchi a seconda della qualità degli interessi contrapposti, della loro intensità e della “ capacità del REGGITORE “ (uso di qui in poi tale termine che è di comodo largamente approssimativo come equivalente di struttura decisionale e organizzativa di uno Stato ) di mediare tra i vari “ popoli “ ovvero di assumerne solo taluni come propri.

3.
Ritengo che il termine DEMOCRAZIA descriva in modo corretto un certo tipo di governo della CITTA’.

Se una popolazione diventa “ popolo “ ( preso come unificante l’elemento della “convenzione democratica “ ) il potere di scegliere il governo della CITTA’ è del popolo. Così del resto si esprime l’art. 1 della Costituzione italiana che aggiunge qualcosa di più che per il momento si può mettere da parte.
Si arriva – dunque – a parlare di Stato ( in tal senso uso la parola CITTA’ ).
Il pensiero politico ha dato come presupposta la necessità dell’organizzazione Stato e si è mosso – piuttosto sul problema della titolarità del potere di guidarlo e sul modo di gestione di esso.
Tanto gli antichi che i moderni hanno descritto come possibili diverse forme di governo. Gli antichi hanno accompagnato alla descrizione di ciascun tipo con l’avvertenza che ognuno di essi ha in sé il “ pericolo della corruzione “ ( rispetto ad un modello ideale ). Tale modo di argomentare è il segno – comune anche a noi moderni – che non esiste un modo di governare assolutamente “ perfetto “. Quale che sia stato o sia il “ modello perfetto “, una cosa è certa: oggi il problema è molto più complesso che in passato. Oggi la “ cultura esistente “ non esclude alcun cittadino dai benefici dell’azione di governo e dunque è in base al principio di eguaglianza che va misurato il raggiungimento della perfezione di governo. E’ chiaro che parlo di cultura esistente come stadio di convinzione di un certo tipo di società e non di attuazione reale di tale principio.

4.
E’ opinione diffusa che la DEMOCRAZIA ( tralascio di parlare delle distinzioni interne a tale genere ) sia il miglior sistema di governo possibile o – se si vuole essere più realistici – il sistema meno cattivo. Ma i miei appunti vogliono segnalare quante difficoltà incontri tale opinione che – in determinati Stati – ha premesso il raggiungimento di alcuni risultati positivi. L’ affermata – in ipotesi – compresenza di diversi interessi contrapposti e – secondo cultura – di identico valore, comporta una prima difficoltà. Come scegliere l’interesse degno di tutela ( o di maggior tutela ) ?
Il mezzo tecnico del criterio della maggioranza è ragionevole nell’ambito della considerazione utilitaristica, poiché esso assicura un maggior consenso ma non garantisce sulla “ bontà intrinseca “ dell’oggetto del consenso. Certo è “ più comodo “ per chi governa assicurarsi il consenso dei più. Ma non è da escludere che tale consenso sia “ non bene indirizzato “. La scelta del “ popolo “ a favore di Barabba e a sfavore di Cristo appare meno leggendaria se si pensa – è mio ricordo infantile – alle masse plaudenti sotto il balcone di palazzo Venezia o alla gioventù tedesca inneggiante a Hitler.
Il minimo di discernimento che possiedo lo devo al fatto di aver ascoltato in famiglia discorsi critici su quelle epoche, ma questo è solo un ricordo cui non è seguito – stante l’età – alcun atteggiamento pratico. In questo senso i piccoli non sono popolo e sono innocenti.
Slogan del tipo : “ quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa “ ovvero “ vox populi, vox dei “ lasciano perplessi. Il dio castigatore dei malvagi deve ancora arrivare e si può quindi mettere in discussione che il suo rappresentante in terra ( in tesi: il POPOLO ) possa comportarsi diversamente.
Del resto “ Gott mit uns “ non ha mai sortito benefici effetti.
Si può dire: scegliamo “ i migliori “ a scapito del criterio maggioritario. Le obiezioni sono a portata di mano. La prima , capitale : chi sceglierà i migliori ? Chi garantisce che i migliori facciano le scelte migliori, quelle più idonee a soddisfare il popolo dei governati? La saggezza filosofica è diversa – molto probabilmente – dalla saggezza politica.

5.
Se il Popolo sceglie, il Reggitore è responsabile della qualità della scelta. Questa conclusione mi sembra inevitabile ma impone correzioni di tiro in varie direzioni.
Un primo rilievo è questo. Il rapporto tra Popolo e Reggitori è dialettico. Anche i Reggitori sono portatori di interessi e quindi possono entrare in collisione col Popolo. Ma i Reggitori hanno – per definizione – più poteri del Popolo . Questi poteri possono essere di vario tipo ( persuasivi: propaganda ) e coercitivi ( sui mezzi di comunicazione, sulle persone ).
Nelle democrazie definite illiberali – il cui sbocco può essere la dittatura – i Reggitori possono utilizzare il terrore e il Popolo sovrano diventa schiavo.
Ma la presenza reale di più Reggitori complica notevolmente le cose se si osserva come tra più Reggitori possono istaurarsi rapporti di conflitto o di accordo trasversali in vario modo rispetto al rapporto Reggitore – Cittadini .
Secondo rilievo. La scelta dei Reggitori dipende – in parte ( non so dire quanta ) – dal sistema di scelta. Se le regole di scelta sono ingiuste le scelte non possono essere giuste.
Il terzo rilievo si coglie all’interno dei valori stessi della nostra cultura socio-politica. Vi è un’aporia nel convincimento teorico che siamo tutti eguali ( con eguali diritti e doveri ) e il sistema che privilegia la maggioranza. Come trattiamo la minoranza che è composta da soggetti eguali a quelli che costituiscono la maggioranza? L’interrogativo deve tener conto di un punto. Vi sono “ interessi collettivi “ ( concettualmente diversi dalla sommatoria degli interessi dei singoli ) che non vengono considerati dalla maggioranza e il cui soddisfacimento interest rei publicae in modo eguale.
Nelle democrazie più mature si cerca di superare tale ostacoli con sistemi di bilanciamento degli interessi e dei poteri, bilanciamento affidato all’opera di istituzioni specifiche, che non possono però essere individuate e scelte attraverso il sistema maggioritario. Ma tale conclusione, ineccepibile dal punto di vista teorico, si scontra nei fatti con l’osservazione che la maggioranza finisce per influenzare anche la scelta delle istituzioni di controllo.

6.
Ciascuno di noi – sulla scorta di queste osservazioni e di altre – può formulare altre obbiezioni contro la democrazia e il governo del popolo. Se esse si ritengono insuperabili spetta a chi tali le ritiene, di elaborare sistemi diversi. Gli altri che credono che la democrazia – nella sua formulazione migliore – sia il sistema meno cattivo possibile dovrà prepararsi a impedire o limitare gli effetti negativi che il sistema necessariamente comporta.
Il presupposto è una buona società frutto di una buona scuola capace di dare una corretta conoscenza storica e spirito critico.

 

AVVERTENZA
Sono ben consapevole di aver adoperato spesso termini approssimativi rispetto ai complessi concetti che guidano i miei argomenti. L’ho fatto per non disperdere il nucleo essenziale del testo.
Ho sottolineato l’approssimazione con virgolettature, lettere maiuscole, incisi del tipo “ per così dire” ed altri stratagemmi. Spero che questi accorgimenti siano sufficienti ad evitare pericoli di fraintendimenti ed equivoci e a far cogliere in definitiva il senso reale ( non ovviamente indiscutibile ) dei miei appunti.

ottobre 2018

9 pensieri su “Appunti eretici sulla democrazia e il popolo

  1. A un lettore 5stelle non può sfuggire, fin dalle prime righe, che Giorgio Mannacio qui tenta, non una ricostruzione del significato di “Popolo” ma semmai una demolizione. Avrebbe funzionato ai tempi di “Avanti popolo alla riscossa”? Mah, davvero non saprei.
    Certo è che quando Berlusconi si appropriò del termine “Popolo” e “Libertà”, sottraendoli alla storica sinistra, nessuno aprì bocca…

    Popolo c’è quando si verificano sufficienti condizioni di unità politiche e culturali in una collettività di individui. Ma noi italiani siamo mai stati popolo?
    Me lo chiedevo anni fa, quando per la prima volta volli visitare l’entroterra germanico, non solo le principali città. In molti piccoli paesi notai quanto fosse evidente la loro unità di popolo: le case avevano tutte gli stessi fiori sul davanzale delle finestre, i giardinetti privati si somigliavano come gocce d’acqua, i salotti con appese le corna dell’alce; la domenica tutti alla chiesa, al bar se chiedevi un caffè eri costretto a sederti altrimenti non te lo davano: non capivano, non si fa così… Ecco, pensai, tu prova a fare una cosa diversa e vedrai che succede. Ecco perché Hitler riuscì a spedirli tutti in guerra: se ne convinci uno, poi li hai tutti in pugno. Grazie al cielo oggi non è più così, per quanto nelle province non ci giurerei. Vi è, come dire, un pensiero latente. Sono popolo.
    L’Italia non è solo divisa tra nord e sud, è anche un paese di province. Mi sembra più difficile parlare qui di popolo. A meno che non si dica di ricchi e poveri, di uguaglianza, ecc. E’ più semplice, anche se di per sé non fa “italiano”.

    In realtà non si coglie il centro attuale del dibattito che a mio parere andrebbe svolto sul tema di Popolo e Sistema. Cos’è un Sistema? Magari su questo interverrà più avanti. Faccio solo notale che oggi nessuno è più responsabile della rovina di qualcuno, come avveniva un tempo quando c’era “il padrone”; oggi se riesci a scavalcare la segreteria telefonica puoi al massimo comunicare con qualcuno che sta lì per svolgere un lavoro. Che ne sa, oltre ai regolamenti?

    Questo mi porta a considerare la “Democrazia” in senso diverso. Ho provato a votare leggi sulla Piattaforma Rousseau dei 5stelle; l’ho fatto da casa, comodamente, al computer. Se voglio posso anche proporre una legge, in caso ne sentissi la necessità… questa sarebbe la Democrazia diretta in chiave inizio del nuovo millennio. E’ solo l’inizio.

  2. un popolo eretico …. una democrazia eretica… uhm!
    Quando qualcuno inneggia al popolo per difenderlo da chicchessia ecc. è il momento propizio per fotterlo meglio!

  3. @ Lucio Tosi
    Caro Lucio Tosi, con la solita spregiudicata sottigliezza hai svolto sul mio testo alcune interessanti osservazioni. La mia non è una replica polemica ma una sorta di consenso condizionato. Hai ragione nel dire che i miei appunti sono una sorta di demolizione della nozione di Popolo. E’ vero, ma la demolizione è diretta verso la pretesa di fare della voce del Popolo la voce di dio o di altra divinità come vorrebbe Di Maio ( pro ecclesia sua ) . Nonostante il tono un po’ astratto il mio testo ha a che fare anche con l’attualità. Lo hai visto bene.
    Che il Popolo italiana non sia ….un popolo è rimpianto che condivido. Lo hanno affermato prima di noi due e di tanti altri come noi che: “…non siam popolo – perché siam divisi “ ( Inno di Mameli ) e , con stringente argomentazione, Leopardi nel sempre attuale Discorso sopra lo stato presente ( mia nota. 1824 ! ) dei costumi degli italiani.
    Lasciando da parte il problema delle cause di tale situazione – che secondo alcuni segnala una sorta di lombrosianesimo socio-politico di noi italiani – intendo, però, riaffermare con tutte le conseguenze che tale affermazione comporta, che all’interno di una stessa popolazione ci sono vari interessi e che questi
    “ muovono “ ciascun popolo in una certa direzione.
    Lo conferma la recentissima presa di pozione della popolazione di Melendugno contro o pro Tap. Prescindendo dal giudizio di merito sulle due diverse posizione, tale contrapposizione non conferma la presenza di “ due popoli “ ?
    Non ho approfondito il concetto di Sistema quale tu proponi e non so dirti se sia in opposizione con quello di Popolo o con esso si connetta in qualche modo.
    Non ti sarà certamente sfuggito che alla mia affermazione della “ responsabilità politica del Popolo “ – coerente con le premesse – ho aggiunto di sfuggita ma chiaramente – che essa finisce per configurarsi come una affermazione di principio, posti i “ paletti “ e le “ difficoltà “ che ad essa ho affiancato. Posso dirti – a chiarimento – che ho inteso riaffermare la responsabilità politica del Popolo in quanto tale per una sorta di polemica contro quelli che risolvono le politiche di certi Stati con qualche patologia dei reggitori o con la “ natura “ del Popolo stesso.
    Per il resto sono sostanzialmente d’accordo con te.
    La situazione attuale si caratterizza per una forte tendenza verso la democrazia diretta come dimostra l’intolleranza verso “ le istituzioni intermedie “ che vorrebbero essere l’antidoto contro il pericolo della dittatura della maggioranza.
    Nel fare il bilancio tra i due sistemi di democrazia non andrebbe dimenticato – a mio giudizio – l’apporto che ha dato la Corte costituzionale che è appunto uno degli strumenti di bilanciamento. Ho vissuto a lungo nelle istituzioni e posso dirti che “ a volte tale antidoto ha funzionato “.
    Più in generale si pone il problema se i modernissimi sistemi di comunicazione di massa accrescano o diminuiscano la “ conoscenza storico- critica “ necessaria – sempre a mio modesto giudizio – per la (ri)costruzione di una società più consapevole.
    Con un cordialissimo saluto.
    Giorgio Mannacio

  4. Le intenzioni dell’articolo di Giorgio Mannacio a me paiono più nobili di quel che i primi due commenti hanno colto. Né riducibili a una presa di posizione contigente sull’attuale governo o fase politica. Sono espresse chiaramente alla fine: presuppongono o hanno come scopo la fondazione (illuministica?) di «una buona società frutto di una buona scuola capace di dare una corretta conoscenza storica e spirito critico». E le prudenze espresse nell’Avvertenza finale non credo siano dovute del tutto a incertezze di giudizio o a una volontà di non scaldare animi che vengono già scaldati abbondantemente in giro da leaderdi partito e loro tifosi. Solo l’abito etico di Mannacio, credo.
    Certo dà l’impressione di prendere le cose troppo alla larga o a distanza. E di non affrontare la questione attuale del populismo. O meglio del rapporto di scontro ben poco dialettico che oggi è in atto tra i vari populismi e l’attuale assetto democratico in crisi. (Che Mayor chiama: « tema di Popolo e Sistema»). Questo sarebbe anche per me il tema da discutere. Magari per verificare quanto questi appunti di Mannacio – che a me non paiono affatto «eretici». ( Lo saranno, semmai, per i difensori dogmatici del sistema democratico che non ne riconoscono la crisi o la vogliono occultare) – aiutano o reggono di fronte ai discorsi che vanno per la maggiore (Laclau, sovranismi vari).
    Infatti, oltre a richiamare alcune questioni che possiamo chiamare scolastiche o risapute ( popolo /popolazione; interessi sociali diversi e contrapposti che la democrazia intende mediare) o comunque preliminari al discorso più attuale e di fondo, che ho appena richiamato, Mannacio
    richiama *verità* del pensiero politico definibili equilibrate, ma purtroppo un po’ vaghe nell’indicare un che fare sempre più urgente e ingsrbugliato.
    La democrazia sarebbe «il miglior sistema di governo possibile o – se si vuole essere più realistici – il sistema meno cattivo»? «Non esiste un modo di governare assolutamente “ perfetto»? «É in base al principio di eguaglianza che va misurato il raggiungimento della perfezione di governo»?
    Mannacio stesso rileva le «aporie» del sistema democratico. Ma noi abbiamo bisogno di risposte – avventurose, azzardate o realistiche e severe a seconda dei punti di vista – a queste domande secolari: come scegliere l’interesse degno di tutela ( o di maggior tutela ) ? scegliamo “ i migliori “ a scapito del criterio maggioritario. Le obiezioni sono a portata di mano. La prima , capitale : chi sceglierà i migliori ? come trattiamo la minoranza che è composta da soggetti eguali a quelli che costituiscono la maggioranza?
    Che non arrivano. E sulle quali non c’è consenso. Neppure nelle tavole rotonde o conferenze dei dotti o dei filosofi. E questo lascia un po’ delusi.
    E lascia politici e gruppi sociali ad arrangiarsi. E permette a Mayoor, che ormai è tutto calato nei panni di « un lettore 5stelle» un’operazione facile e contraddittoria: ergersi astrattamente a “tribuno” del concetto di Popolo, accusando Mannacio di voler procedere ad una sua «demolizione», chiedersi subito dopo dubbiosamente: « Ma noi italiani siamo mai stati popolo?» e finire con una esaltazione populistica e folkloristica delle comunità dell’«entroterra germanico» o, in gloria, con l’apologia del voto – iperdemocratico, “diverso”, da casa e comodamente al computer – sulla Piattaforma Rousseau.
    E, allora, noi che belli siamo, votiamo, votiamo? E tutta questione di regole?
    No. Vedo la crisi di *questa* democrazia, le difficoltà a delineare un progetto per uscirne, reticenza o troppa prudenza nella posizione di Mannacio e eccessivo entusiasmo fideistico in Mayoor.

  5. L’articolo di Giorgio Mannacio è molto interessante e vi si avverte la preparazione filosofica e giuridica. Concordo su diversi punti e discordo su altri, ma questo è meno importante della sollecitazione che ne viene a riflettere su temi sui quali si riflette da 2.500 anni e sui quali la confusione sembra aumentare, anziché diminuire, col tempo.
    Ma prima di iniziare il mio contributo “improvvisato”, ma con memoria di tante altre discussioni su questi stessi problemi, vorrei sottolineare che, a mio parere, la frase con cui Mannacio chiude l’articolo: «Il presupposto è una buona società frutto di una buona scuola capace di dare una corretta conoscenza storica e spirito critico» contiene un’affermazione molto diffusa, ed anche trattata in grossi libri di pedagogia, ma sostanzialmente errata. La scuola non è il presupposto di una buona società, ma, al contrario, è la buona società il presupposto di una buona scuola. Nella scuola si riflettono tutti i vizi e le virtù della società, come nell’uso di uno strumento si riflettono i vizi e le virtù dell’artigiano che lo usa. L’utopia di un’inversione del rapporto è sempre stata fallimentare. Ciò non toglie che la scuola, in qualche sua esperienza critica di contestazione dei vizi della società, non posa dare dei buoni contributi. Ma, come contributi “contro”, saranno sempre contributi di una minoranza che cerca di risalire la corrente e la cui effettiva capacità di influenzare la società rimane abbastanza limitata.
    Ciò premesso, passiamo ai tre concetti, concatenati fra loro, di popolo, stato, democrazia.
    1) Il termine “popolo” ha molti e imprecisi significati, come Mannacio giustamente osserva. Le due concezioni estreme, per così dire, mi sembrano quelle che:
    1.1.) da un lato, sottolineano che un popolo non è una realtà concreta, ma un astratto collettivo, perché di concreto ci sono solo gli individui. Quindi un popolo è una collettività formata da un certo numero di individui, i quali conservano le loro caratteristiche individuali. Allora si arriva a essere “popolo” quando gli individui concordano di darsi, o arrivano comunque a darsi per un processo storico, nell’ambito di quella collettività, una specie di principi regolativi (morali, politici, giuridici, di costume e cultura in senso lato) comuni riconosciuti da tutti. La collettività “popolo” diventa allora una “comunità”, che indica un legame più stretto. Ma, si badi bene, si tratta di una comunità di individui legati fra loro da uno spontaneo e libero patto di reciproco riconoscimento (con la sua tradizione e la sua capacità di riconferma ad ogni occasione), si tratta pertanto di una federazione di individui. Fra l’individuo e la comunità “popolo” ci sono, in posizioni intermedie, altre comunità, a partire dalla famiglia e via allargandosi al comune, alla provincia, alla regione (o a qualsiasi forma organizzativa che gli individui si danno nel loro processo storico). Ognuna di queste comunità è a sua volta una federazione di individui, per cui il “popolo” risulta essere una federazione di comunità. In questo contesto, il potere sovrano sale dal basso verso l’alto (ma i due termini indicano una gerarchia errata: potremmo meglio dire che si allarga dal singolo all’intero collettivo), restando radicato in mano agli individui, gli unici esseri concreti che costruiscono l’organizzazione sociale per i propri bisogni, al fine di vivere meglio. In questa concezione estrema, libertaria, i legami di subordinazione fra individui e organizzazioni via via più larghe deve rispettare il principio di non aggressione, perché la comunità non deve aggredire l’individuo, ma esistere per il suo bene; deve inoltre rispettare il diritto di sussidiarietà, cioè di distribuzione del potere. La comunità non deve intromettersi in ciò che l’individuo può fare da solo, ma deve svolgere solo quei compiti a essa delegati dagli individui e che richiedono una collaborazione comune a quel livello organizzativo. E così via via. Ogni livello organizzativo più esteso si deve occupare solo di ciò che i livelli organizzativi meno estesi non possono fare. Quindi, al vertice massimo, devono restare solo i poteri residui, solo quelli di svolgere i compiti che nessuno dei livelli comunitari più ristretti potrebbe svolgere in modo adeguato. La comunità, a qualsiasi livello organizzativo della sua articolazione, non deve avere propri scopi etici, una propria dottrina dei valori comuni, del bene comune ecc. Ma questi devono nascere dalle esigenze che, partendo dagli individui, vengo riconosciute via via come esigenze di portata più ampia da affrontare secondo gli ambiti di potere delegato dal basso. Ciò comporta che il “popolo”, unito rispetto a certi compiti, si suddivide in più “popoli” rispetto ad altri e, secondo il principio di fondo del legame federale, ogni cittadino è sovrano di se stesso, fino al confine a cui può estendersi la sovranità individuale, e compartecipe della sovranità delle comunità di cui è membro. Quindi avrà sempre il potere e la libertà di decidere per sé, ogni volta che la decisione riguarda lui solo, e di decidere insieme ad altri, ogni volta che la decisione riguarda in modo indivisibile più persone, fino al potere di decidere insieme a tutti gli altri membri del “popolo” sulle questioni più generali che riguardano tutti e che non possono essere altrimenti decise.
    1.2.) L’altra concezione estrema è quella di considerare il “popolo” un ente concreto dotato di propria vita, e gli individui che ne fanno parte considerati come individui che da quel corpo generale dipendono. In questo caso la sovranità che spetta al popolo è considerata indivisibile e unitaria e non sono i singoli individui a possedere la sovranità, ma questo ente collettivo dotato di vita propria. Il popolo è allora identificato con la nazione, con la patria, o con lo Stato ed esercita la propria sovranità solo nelle forme, sempre assai limitate, che la nazione, la patria o lo Stato, gli concede. Nei casi più estremi del totalitarismo, la sovranità del popolo si limita alla possibilità di approvare e applaudire i capi, o di ribellarsi e farsi incarcerare o esiliare o uccidere.
    1.3) La prima concezione estrema porta a una organizzazione politica di tipo federativo, con alla base gli individui come unici detentori della sovranità primaria. La seconda porta a una organizzazione politica di tipo statuale, in cui è in capo allo Stato che si concentrano tutti i poteri e le istituzioni politiche e sociali di livello inferiore ne usufruiranno solo nella misura il cui lo Stato delegherà loro compiti e poteri per attuarli.
    1.4) Fra le due concezioni estreme ce ne sono, in pratica, altre intermedie. Forme di Stato più o meno articolate in cui la distribuzione dei poteri sia più o meno diffusa e i poteri non concentrati ma bilanciati fra loro.
    *
    2) “Stato” è un concetto moderno che non corrisponde esattamente ad analoghi concetti precedenti. Lo Stato moderno non è la Polis greca, non è la Res publica romana, non è l’Impero, non è il governo come potere dinastico personale dei re di gran parte del mondo antico, non è il governo dell’assemblea degli anziani di tante popolazioni cosiddette primitive né quello dell’assemblea degli uomini liberi delle tribù germaniche premedievali. Lo Stato, in senso moderno il termine è usato per la prima volta da Machiavelli ma già presente nell’elaborazione di Federico II di Svevia, è quell’entità stabile, capace di autoconservarsi, che detiene un potere primario chiamato sovranità, che gli viene da Dio o dalla propria forza o da entrambi, per cui esercita la propria volontà, liberamente, senza legami e vincoli, se non quelli posti dalla natura e dalla geografia e dal “diritto delle genti” (prima forma di diritto internazionale), su un territorio, che è il territorio dello Stato, e su un popolo, che è l’insieme degli abitanti del territorio dello Stato. Ma questo popolo è poi giuridicamente distinto nel popolo vero e proprio dello Stato, sudditi e cittadini che siano, e nei semplici individui abitanti nel territorio ma a esso stranieri, o perché effettivamente stranieri provenienti da territori oltre confine, o perché membri di categorie a cui lo Stato non riconosce i diritti di cittadinanza.
    2.1) La forma “Stato” tende sempre a concentrare il potere e a riconoscersene come unico detentore. Non rivendica solo il monopolio della forza (polizia, esercito), ma anche quello della rappresentanza (bandiera, relazioni con l’estero, regolamentazione del commercio con l’estero), e dell’amministrazione (si attua un decentramento amministrativo, non di potere legislativo, non di sovranità).
    2.2) Lo Stato tende sempre alla massima concentrazione di potere e a considerare come cosa propria il territorio dello Stato, gli abitanti dello Stato, le attività economiche interne allo Stato, le finalità etiche e di ogni altro tipo dello Stato stesso e dei cittadini. Ne consegue anche che privilegia il rapporto diretto Stato – cittadino, con lo Stato che ordina e regolamenta la vita del cittadino, vedendo sfavorevolmente, e talvolta proibendole addirittura, le comunità intermedie. Queste, quando e nella misura in cui sussistono, perdono il carattere di comunità originarie di base, direi quasi di comunità fondate sul diritto naturale, e diventano associazione e organizzazioni previste e regolate dalla legge, costrette a vivere entro i limiti della legge.
    2.3) Con lo Stato moderno non vale il principio: il cittadino può fare ciò che vuole, salvo che non sia proibito dalla legge. Ma piuttosto il principio: il cittadino non può fare nulla, salvo che non sia autorizzato dalla legge. L’autorizzazione che cala dall’alto vince la libertà che nasce dal basso.
    2.4) Ma, si dice, lo Stato è necessario, tutti i popoli hanno uno Stato, non è possibile vivere senza stato ecc. Ciò è falso. Vero è che tutti i popoli, quando arrivano a un certo grado di organizzazione sociale, hanno la necessità di darsi una struttura di gestione dei poteri. Ma non necessariamente questa deve assumere la forma dello Stato moderno.
    2.5) La Polis greca, ad esempio, non era uno Stato come oggi lo intendiamo; il Comune medievale non era costituito in Stato; le federazioni di città e provincie presenti nell’Europa del Cinque e Seicento non erano organizzate in Stato. Gli Stati Uniti, al loro nascere, non sono organizzati in Stato ma in unione di Stati e il concetto di “unione” non era un sinonimo di Stato, bensì una consapevole scelta che nasceva proprio dal rifiuto dello Stato europeo e dalla volontà di dare vita a qualcosa di diverso, fondato sul patto federativo. In modo analogo hanno proceduto il Canada e l’Australia.
    2.6) Oggi il concetto di “Stato federale” maschera l’origine anti statuale delle federazioni nate dal basso. E troppo spesso la denominazione di Stato federale si applica a sproposito, cioè a Stati che hanno perduto gli originari caratteri della federazione. Sono i casi dell’Austria, il cui federalismo è relegato alla sola sfera amministrativa, ai casi dei tanti federalismi, da quello Russo a quelli Messicano e Brasiliano e Argentino, dove l’articolazione federale dipende interamente dallo Stato centrale e non conserva più quella sovranità originaria fondante della federazione. Riguarda anche gli Stati Uniti i quali, dal 1787 in poi, hanno approfittato di tutte le situazioni cosiddette di emergenza e di crisi per spostare il potere dagli Sati federati allo “Stato” federale, facendo di quest’ultimo il vero sovrano dell’intero territorio e dell’intero popolo, anche su molte questioni che in precedenza erano di competenza degli Stati federati.
    2.7) Basta fare un solo esempio, relativo agli Usa. Alle sue origini, il bilancio a livello dell’Unione federale era deciso dagli organi parlamentari degli Stati federati. Questi avevano, ognuno nel proprio ambito territoriale, il potere di imporre e riscuotere tasse, e una parte di queste risorse finanziare era versate nelle casse del governo federale, il quale, pertanto, dipendeva, per il suo bilancio, interamente dagli Stati federati, e non aveva il potere autonomo di imporre e riscuotere direttamente le tasse. Oggi, a distanza di circa 230 anni il rapporto si è capovolto e il bilancio federale è diventato autonomo, alimentato da un potere fiscale esercitato direttamente. Lo stesso graduale passaggio di poteri dagli Stati federati allo Stato federale (a questo punto si può davvero usare il termine Stato anziché quello di Unione) è avvenuto per la polizia, per l’esercito, per la regolamentazione di vasti campi della vita sociale, per cui la residua sovranità rimasta agli Stati federati ha praticamente svuotato gli originali rapporti di federazione. È un esempio lampante di come lo Stato tenda sempre ad accentrare i poteri, svuotando la nazione (i popoli, le comunità, gli individui) della loro originaria sovranità (che è dire: libertà di autogovernarsi).
    *
    3) Nell’ambito dello “Stato” non vi è pertanto nessuna possibilità di “democrazia”, se questa la si intende secondo uno slogan che non ha mai avuto realizzazione pratica. Lo slogan è questo: governo del popolo, con il popolo, per il popolo. Se la democrazia è questa, allora bisogna constatare che non è mai esistita.
    3.1) Ma la democrazia effettivamente esistente nel corso della storia non è mai stata il governo del popolo, con il popolo, per il popolo. Innanzitutto il termine democrazia ha storicamente avuto anche significati opposti, nati dal dare la preminenza all’uno o all’altro dei pretesi valori contenuti nel concetto di democrazia. Il suo significato etimologico ci rimanda alo scontro fra il “demos” e l’aristocrazia nell’antica Grecia. Significa la richiesta di maggior potere politico e la presenza nelle istituzioni che decidono di rappresentanti di categorie precedentemente escluse dal potere. Ma il “demos” non è il popolo, rassomiglia piuttosto a una articolazione amministrativa che raccoglie solo una minima parte della popolazione (intesa statisticamente), e non muove le sue rivendicazioni in base a principi politici, ma in base a interessi di categoria. Per cui le Polis democratiche non saranno quelle governate democraticamente, secondo il concetto odierno di democrazia, ma quelle governate secondo gli interessi economici e sociali del “demos”. Tanto che si avranno delle dittature democratiche. Perché il termine dittatura e il termine democrazia, alla loro origine, non sono necessariamente opposti. Questo tipo di democrazia come governo che difende gli interessi delle categorie di base non è morto con la fine del mondo antico, ma è presente anche oggi. La Rivoluzione francese rivendicò per sé il titolo di “vera democrazia” anche quando, nel periodo del terrore, massacrava tutti i sospetti e gli oppositori. Lo stesso avviene, sempre in nome della “vera democrazia” opposta alla falsa (che è sempre quella degli avversari) e della “democrazia sostanziale” (in opposizione a quella degli avversari accusata di essere solo vuota e formale), in ogni altra tornata rivoluzionaria, in Russia come a Cuba, nell’Italia fascista e in altre dittature di destra (anche il fascismo si presentava come “vera democrazia”, quella che nella sintonia fra il Duce e il popolo univa tutta la nazione ed esaltava i valori della patria; l’unanimità di intenti non era verificato con il voto ma con le adunate di piazza).
    3.2) Alla democrazia in senso sostanziale, fatta propria dai giacobini e da tutti i loro seguaci moderni (di destra e di sinistra) compete uno Stato nazionale unitario (e quando è plurinazionale viene gestito come se fosse uninazionale, a costo di fare piazza pulita delle nazionalità di minoranza riottose) che ha un proprio programma etico-politico da attuare, cioè da imporre anche con la forza al popolo.
    Il meccanismo formale della democrazia: le decisioni da prendere a maggioranza, subisce due tipi principali di deformazione.
    a) Da un lato il potere della maggioranza viene limitato riducendo le competenze sulle quali può decidere. Moltissime decisioni sono in realtà prese direttamente dal governo e dalla burocrazia, senza passare attraverso il consenso elettorale delle maggioranza. O addirittura prese da enti stranieri, da istituzioni europee e/o mondiali, come le agenzie dell’Onu, o da poteri economici e finanziari e tecnologici del tutto sottratti alla possibilità di controllo attraverso il voto. Così questa forma di democrazia si svuota sempre più.
    b) Per altro lato molte decisioni di competenza del singolo individuo, o della famiglia, che non dovrebbero interessare lo Stato o qualcuna delle sue articolazioni, vengono, per legge, sottratte agli individua e alle famiglie, come a qualsiasi altra comunità di base, e affidate al voto di maggioranza di un livello più alto, contravvenendo al principio di sussidiarietà. La democrazia, in questo modo, esercita una forma di abuso di potere che arriva fino alle forme più dittatoriali della rapina fiscale indiscriminata e dell’imposizione di capricci tecnici (come un certo tipo di valvole e di contatore per misurare il calore imposto obbligatoriamente a tutti i condomini, con imporre così una notevole spesa ai singoli condomini senza nessuna utilità collettiva, perseguendo solo un confuso scopo di educazione al risparmio di calore e quindi di energia). Un altro esempio: chi possiede un locale classificato al catasto come bottega artigiana paga lo stesso importo di Tares (tassa sui rifiuti solidi), sia che usi la bottega e produca rifiuti sia che non la usi e non produca rifiuti. Il principio di pagare in proporzione all’uso che si fa del servizio qui è del tutto saltato in aria e la tassa, da rimborso spesa di un servizio, è diventata una tassa di tipo patrimoniale sul possesso del locale. Queste distorsioni, qui esemplificate in due esempi praticissimi e quotidiani, riguarda anche valori di altro tipo, come ad esempio i rapporti tra i sessi, che lo Stato pretende di regolare per legge uguale per tutti con conseguenze morali, civili e patrimoniali che si differenziano da caso a caso. Mentre sarebbe più democratico che lo Stato non si facesse carico di compiti etici come proteggere certi tipi di relazione a danno di altre, e che lasciasse liberi gli individui di regolarsi come vogliono. Il preteso caos sociale che ne nascerebbe non sarebbe, in realtà, un caos, se non dal punto di vista dell’attuale legislazione, che dovrebbe essere radicalmente cambiata.
    3.3) Lo Stato democratico non è pertanto mai democratico, se si concepisce la democrazia come forma di governo che garantisce la libertà, perché comporta sempre una eccessiva limitazione della libertà. Questo eccesso di limitazione può essere piccolo o grande, e in proporzione possiamo avere una forma di governo democratico (liberaldemocrazia) a maglie più larghe, o a maglie più strette (democrazia giacobina) o a maglie strettissime (democrazia autoritaria) o a maglie del tutto chiuse (regimi autoritari, dittature, totalitarismi). E inoltre le diverse forme di democrazia possono essere più larghe su alcuni valori e più ristrette su altri, per cui le forme concrete presentano una casistica assai numerosa e diversificata.
    3.4) Mi pare giusta, in conclusione, l’affermazione che la democrazia tende sempre al totalitarismo, perché il potere tende sempre ad allargarsi. E il suo livello effettivo oscilla dunque lungo una linea che va dalle forme di governo più aperte alle forme di governo più chiuse. Non tutte le democrazie sono uguali né concedono gli stessi livelli di libertà, così come non tutti i regimi totalitari o quasi-totalitari chiudono ogni via alla libertà, con lo stesso accanimento o ferocia. Ma a tutti gli Stati è comune il carattere di gestione tendenzialmente autoritaria del potere, con le libertà democratiche sempre in pericolo, sempre aggredite (nei loro principi, nel loro valore civile, nella loro valenza sociale, nei loro interessi economici, ecc. ecc.).
    3.5) L’unica democrazia che potrebbe diminuire i suoi molteplici difetti è la democrazia federativa, organizzata in forme diverse dallo Stato moderno. Non Stato moderno, caratterizzato dall’accentramento dei poteri, ma altro stato, altra forma di governo, caratterizzata dalla sovranità degli individua e dalla diffusione dei poteri collettivi autonomi.
    3.6) La Svizzera ne è un esempio. Un pallido esempio, va aggiunto, perché si potrebbe fare di meglio. La Svizzera, in senso proprio, non è uno Stato, ma una confederazione di comunità, sebbene, per comodità del linguaggio internazionale, sia chiamata Stato anche lei. Anche in Svizzera c’è stato, ed è sempre in corso, un processo di accentramento dei poteri, che però, per fortuna, non è ancora giunto ai livelli esasperati come in Francia, Italia e altri Stati di analogo modello.
    3.7) Lo slogan riassuntivo potrebbe essere: dove c’è meno Stato, c’è più libertà e quindi più democrazia (nella concezione ideale che la identifica con la libertà e la sovranità popolare).
    *
    Potrei concludere affermando che la richiesta di maggiore democrazia dovrebbe sempre essere cambiata in richiesta di maggiore libertà, e fare poi la lista delle tante libertà possibili che ci mancano. Chiedere più democrazia è una richiesta confusa, non bene identificabile.

    1. «il potere sovrano sale dal basso verso l’alto (ma i due termini indicano una gerarchia errata: potremmo meglio dire che si allarga dal singolo all’intero collettivo), restando radicato in mano agli individui, gli unici esseri concreti che costruiscono l’organizzazione sociale per i propri bisogni, al fine di vivere meglio. » (Aguzzi)

      Com’è astratta e affidata ad un idealistico dover essere, che ignora del tutto o sottovaluta i reali impedimenti degli individui in una società capitalistica, questa visione!

      Se si vuole scavare a fondo nell’ambiguo e sfuggentge concetto di ‘popolo’, a me pare ancora ineludibile e mille volte più concreta la visione storico-atropologica fondata sulla lezione di Marx.
      Per i possibili collegamenti con questo post, anticipo qui tre brani di uno scritto di Jan Marie Vincent, che si può leggere interamente qui (https://francosenia.blogspot.com/2018/10/lanti-capitale.html?spref=fb&fbclid=IwAR0lr3mBJlXEPqlmJwHswhW0nkhBkWCWHY0AHkWGWsvdV69wNEOG4q01ADE) sto pubblicando a stralci su POLISCRTTURE FB in questi giorni:

      1.

      Gli individui che vengono catturati nelle reti della valorizzazione non possono spiegare ciò che avviene loro, le lacerazioni che devono superare accettando il simbolismo del capitale (l’incantamento della merce, l’accumulazione demiurgica e creatrice del capitale, il tempo pieno, i fantasmi della gestione). Il pensiero che vuole lasciarsi alle spalle il fortuito, il contingente, non ha apparentemente altra risorsa che quella di seguire le vie del capitale, quelle della sublimazione e della trasfigurazione, vale a dire la de-realizzazione. Per gli individui, il regno del capitale è di conseguenza il regno dello schizoide, di una vita che non viene vissuta (cfr. Adorno, Minima Moralia) nella misura in cui essa è frammentata, ripartita fra esigenze ed esperienze che sono incompatibili. Tutti i salariati sottomessi allo sfruttamento subiscono quotidianamente la sofferenza della violenza del capitale, la violenza della loro incorporazione nel capitale, violenza che viene esercitata sui loro corpi e sui loro spiriti nella formazione e nel consumo produttivo della loro forza lavorativa. Tuttavia, questa violenza onnipresente nel rapporto sociale viene costantemente negata, ridotta a dei vincoli oggettivi, vale a dire “economicizzati” e “naturalizzati” secondo delle linee di fuga verso una normalità impossibile. Il capitale aggressore riesce, in questo tour de force, a colpevolizzare l’aggredito, lo obbliga il più spesso possibile a rivolgere contro sé stesso e conto il suo entourage tutta o in parte la violenza che deve subire. Allo stesso tempo, colui che è assoggettato al capitale, inseguito continuamente dalla svalorizzazione (della sua forza lavoro o dei suoi beni) deve impegnarsi in una lotta per il riconoscimento sociale, vale a dire per la valorizzazione di sé stesso agli occhi degli altri e ai suoi propri occhi. Per alcuni, l’esito di questa lotta è apparentemente positivo e coronato dal successo, ma lascia un gusto amaro in quanto viene acquisito al costo di auto-mutilazione e di relazioni tese e degradanti con gli altri. Per la stragrande maggioranza, questa lotta, segnata da speranze e da ambizioni deluse, quindi da successive rinunce, è nei fatti fonte di umiliazioni senza fine. La cosa finisce nella rassegnazione e nella ricerca di sostituti di successi e di consolazioni più o meno illusorie. Per eliminare la sofferenza, gli individui che non riescono a vedere quel che fanno e quel che sono perché sono impegnati in delle soggettività dissociate, devono ricorrere a delle differente forme di evasioni e di sublimazione.

      2.
      Marx parla di classi come soggetti agenti, o come di attori collettivi che intervengono consciamente nei rapporti sociali. Per lui, le classi sono un complesso di processi e di movimenti sociali che non possono essere assimilati a delle entità stabili. Le classi non si riproducono mai in maniera identica poiché vengono continuamente ristrutturate dall’accumulazione e dalla circolazione del capitale. I mutamenti che avvengono nei rapporti fra capitale-merce, capitale-denaro, capitale industriale dislocano senza discontinuità i rapporti esistenti fra i diversi segmenti della borghesia e continui cambiamenti dei macchinari (tecnologie), imponendo inoltre delle rapide trasformazioni dei modi di gestione della forza lavoro e della sua riproduzione.Allo stesso modo, la classe dei salariati sfruttati (tutti quelli che producono del plus-lavoro) viene sottomessa a dei continui cambiamenti della sua composizione (gerarchia dei ruoli, qualifiche, modalità di formazione, modi di inserimento nel processo lavorativo ed in quello produttivo, ecc.) e viene ad essere assai frequentemente rimodellato attraverso le migrazioni ed il contributo di mobilità sociale (esodo rurale, ad esempio). Beninteso, le classi si confrontano e si scontrano, articolandosi le une rispetto alle altre in molteplici modi, condizionandosi a vicenda nei loro rapporti, ma bisogna stare attenti al fatto che questi cambiamenti si trovano sempre in una mediazione con il capitale, e trasmettono i movimenti del capitale, adattandosi ad essi. A rigore, non esiste nessuna uniformità di comportamenti all’interno della classi, perché la concorrenza fra gli individui ed i gruppi, piuttosto che l’eccezione, è la regola. Senza dubbio, ci sono, fra gli sfruttati ed i dominati, dei modi spontanei di resistenza allo sfruttamento (contro l’intensificazione del lavoro, contro il prolungamento della sua durata, contro l’abbassamento dei redditi, ecc.) che uniscono molti di loro, ma tutto questo rimane sporadico, intermittente, e non esclude che ci siano delle divisioni e delle opposizioni fra di loro, relative al modo di difendersi, o di ottenere il prezzo migliore per il lavoro.
      3.
      In quanto funzionari del capitale, i capitalisti trovano più facilmente la loro unità, poiché per loro è sufficiente piegarsi ai movimenti del capitale ed accompagnare le sue pressioni sulla forza lavoro per poterla incorporare come capitale variabile. Come dice Marx, non sono neppure costretti a capire quello che succede, dal momento che in fondo non devono fare altro che sorvegliare il profitto aziendale, il tasso d’interesse e le fluttuazioni sul mercato del lavoro. L’irrazionalità di tutto quel che avviene alla superficie del processi economici non li infastidisce più di tanto, dal momento che tale irrazionalità non è un ostacolo al mantenimento e alla riproduzione del capitale. Per gli sfruttati, al contrario, gli effetti devastanti della dinamica del capitale, il loro carattere di solito incomprensibile a partire dalla forma salario (visto come prezzo del lavoro), in opposizione alle altre forme di reddito (reddito di capitale e rendita fondiaria) creano una situazione di «incertezza ontologica» difficile da sopportare (cfr. Adorno, Einleitung in die Soziologie, p. 130). Questo spiega le numerose oscillazioni fra instabilità e rigidità esistenziale: non si sa a quale santo votarsi oppure, al contrario, ci aggrappiamo a delle identità e a delle certezze obbligate. Tutto questo, naturalmente, si riflette sui modi di aggregazione e di solidarietà, e sulle forme dell’azione collettiva. A dover agire contro il dispositivo del capitale, sono degli individui scombussolati dalla concorrenza e segnati dall’isolamento. Quotidianamente, vengono sovente messi in atto i mezzi per essere solidali contro la repressione padronale, contro la malattia e gli incidenti, ma quando si tratta di forgiare degli strumenti per intervenire collettivamente in quelli che sono dei campi più ampi ed in maniera duratura, hanno la tendenza a costruire delle organizzazioni esterne rispetto a loro stessi. Molto spesso cercano sicurezza contro tutto ciò che è detestabile, ed un minimo conforto contro i sentimenti di impotenza che periodicamente li assalgono. Si proiettano in quelli che sono dei miti millenari, o storie che raccontano la fine del capitale, e danno una fiducia più o meno a cieca a delle figure carismatiche e a delle potenti organizzazioni burocratiche, sia a livello politico che a livello sindacale. In un simile contesto, si riesce senza dubbio ad avere una vita intensa (associazioni mutualiste, associazioni culturali, circoli ricreativi, ecc.) che in parte attenua gli effetti della burocratizzazione delle organizzazioni di massa. Ma, a ben vedere, tutto ciò fondamentalmente non modifica il rapporto di delega che gli sfruttati hanno con le organizzazioni che dovrebbero rappresentarli, né cambia le forme di vita dominate dai movimenti della valorizzazione. Ecco perché, a suo modo, il mondo dell’organizzazione è per loro un mondo insoddisfacente e fuorviante, che può portare alla rassegnazione e allo sgomento.
      E’ vero che, senza queste istituzioni, molte battaglie non avrebbero potuto essere combattute, e Marx, nei suoi testi contro gli anarchici, non si stanca di ripetere che i miglioramenti ottenuti in materia di durata del lavoro, di aumenti salariali, hanno degli effetti positivi per la vita dei lavoratori e diminuiscono la pressione che il capitale esercita su di loro. Senza lotte e senza organizzazioni, i lavoratori salariali sarebbero degli individui ancora più isolati, e sarebbe dannoso adottare un atteggiamento di tutto o niente (ad esempio, rifiutando di intervenire sul campo della legislazione del lavoro).

  6. …ma io resto concreto e realistico e confermo il mio primo intervento, e dopo quanto avete scritto, ancor di più mi convinco che alla fine nella realtà cioè cronaca (il fatto e non intorno al fatto) – e non storia che è puro romanzo che simula il reale cronachistico senza mai esserlo.
    grazie G. R.

  7. @ a tutti.

    Accolgo volentieri le osservazioni di tutti. Mi danno un aiuto e mi fanno ritornare sui miei pensieri non più solo ma “ in compagnia. “.
    Forse ha ragione Aguzzi il quale di fonte ad una mia affermazione un po’ perentoria contrappone la sua che dice: è la buona società che fa la buona scuola . Dico “ forse “ non per insistere polemicamente su un mio punto di vista ma solo per precisare le tappe del mio ragionamento. Come anche Ennio sa sono un po’ ossessionato dalla ricerca dell’Origine, entità che definisco “ incolore “. Cosa significa questa espressione ? Significa che – nell’esaminare lo svolgimento dei fenomeni – dò prevalentemente risalto a fattori esterni rispetto al nucleo originario.
    Ragionando così mi sono detto che tra i fattori esterni stanno alcune strutture non innate ma formate ed acquisite. Avrei – forse – dovuto riflettere anche sui ruoli di altre formazioni sociali. In ogni caso rifletterà su quanto a scritto da Aguzzi .
    Ha ragione Ennio quando osserva che prendo le cose un po’ da lontano.
    Accostandomi ,rispondo anche ad una “ confessione “ di Luca Tosi circa una sua scelta elettorale.
    Non posso nascondere più di tanto di conservare una vena di
    “ illuminismo”. Colpa dei geni, del tipo di educazione, della mia esperienza professionale: Forse un po’ di tutto questo. Questa vena mi conduce ad accostarmi ai problemi con prudente razionalità che non sempre basta a risolverli.
    Non posso nascondere più di tanto la forte diffidenza che nutro verso i movimenti che definisco per comodità come “ moderni populisti “.
    Questa diffidenza non può investire radicalmente il principio che la sovranità appartiene al popolo ma solo la pretesa di identificare il popolo “ con il “ proprio popolo “. La minoranza e il dissenso che è connaturale
    All’esistenza di essa non sono “ un male in sé “. Per questo e seguendo la mia “ vena illuministica “ credo alla necessità di strumenti che creino un certo equilibrio nell’esercizio del potere.
    Mi rendo conto che la proposta “ illuministica “ come richiamo alla razionalità non è sufficiente perché “ la ragione “ non esaurisce il compito dei Reggitore. A monte sta – credo – la giustizia che esige la (ri)fondazione di valori di umanità.
    E’ duro calle scalare queste due cime, soprattutto la seconda.

  8. SEGNALAZIONE DA POLISCRITTURE FB

    AL VOLO/DEMOCRAZIA

    La parola democrazia. C’è una sostanziale differenza tra il modo in cui la concepirono gli antichi e il nostro?

    La differenza essenziale è che per gli antichi la democrazia era un concetto di cui diffidare o comunque da prendere con le pinze, mentre per noi sembra essere immediatamente positivo. L’ambiguità del termine viene dal fatto che esso designa due cose distinte: da una parte un principio filosofico-politico, cioè la sovranità popolare, dall’altra una tecnica di governo, che nel nostro tempo ha assunto la forma di quel sistema mediatico-elettoralistico che ha svuotato di ogni senso il primo. Il vero problema non è oggi la sovranità, ma il governo, non il re, ma il ministro, non la legge, ma la polizia. Se la democrazia greca si fondava su una politicizzazione della cittadinanza, quella attuale si fonda su una progressiva spoliticizzazione dei cittadini. Una società fatta di telecamere e di dispositivi di sicurezza non può essere democratica.

    (Intervista a Giorgio Agamben
    di Antonio Gnoli
    «Robinson – la Repubblica»
    28 ottobre 2018https://www.quodlibet.it/recensione/3310)

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