Jurij Živago, la morte e il vento…

di Michele Nigro

Può un’unica sequenza contenere il “dna” di un intero film (e addirittura del romanzo da cui trae origine)? Presuntuosamente rispondo di . Le inquadrature volute dal regista, la colonna sonora che rinforza la drammaticità speranzosa del momento, le scene che narrano senza l’ausilio di dialoghi il processo evolutivo di un’anima acerba: si ha la fortuna di assistere all’incipit di una nuova poetica…

La scena a cui mi riferisco è quella in cui il piccolo Jurij Andrèevič Živago partecipa ai funerali della madre, nel film di David Lean Il dottor Živago (1965).

Alte montagne innevate fanno da sfondo al movimento microscopico di un piccolo corteo funebre: come a voler mettere subito in chiaro che la grande Madre Russia è testimone silenziosa e paziente della vita “insignificante” dei suoi figli, dei loro moti esistenziali e politici; la spiritualità naturalistica di Pasternak – anche nel film – prende immediatamente il sopravvento: non importa quali siano le intenzioni sociali, culturali, politiche, religiose dell’essere umano, ci sarà sempre una grande anima taciturna testimone della storia dell’umanità, un’anima superiore alle ideologie, ai sistemi economici, alle rivoluzioni, alle debolezze della carne, ai capricci sentimentali… Solo una sensibilità poetica può percepirla intorno alle cose, ai fatti della vita; solo un poeta può prendere parte alla storia senza lasciarsi intrappolare in essa in maniera definitiva.

Il mondo degli adulti visto dal basso, ad altezza di bambino; l’inesorabilità della morte, una fossa scavata nel terreno, un coro straziante che accompagna la salma e la bellezza intatta di una madre morta: questo è il biglietto da visita che la nuova vita presenta al piccolo Jurij.

Ma quella vita crudele mai prevarrà: mentre la bara ancora scoperta della madre viene adagiata in terra e il prete ortodosso comincia la sua austera predica funebre, già lo sguardo di Jurij segue ben altri sentieri eterei e impercettibili ai presenti. Vita artificiosa, castello di vanità, – ricorda il prete la caducità del passaggio terreno – involucri distrutti e spiriti che abbandonano la materialità, crete che si sfaldano, corpi morti muti e insensibili: tutto quello che con severità il dogma religioso ripete da secoli, Jurij lo avverte nell’aria, lo sa pur essendo solo un bambino. Lo spirito che ha lasciato l’involucro sfaldato è già nel vento che agita le cime degli alberi del cimitero; chi ha bisogno di spiegazioni religiose quando ha in sé tutti gli strumenti poetici per capire ciò che non può essere spiegato? Chi ha bisogno di religioni quando ha la poesia?

La realtà torna per un istante a prevalere: se un attimo prima Jurij era incuriosito dalle foglie secche spinte dal vento sul volto immobile della madre, ora c’è il coperchio di una bara da inchiodare che scende inesorabile a interrompere l’ultimo contatto visivo, il rumore insopportabile e irreversibile del martello sui chiodi che entrano nel legno, la praticità frettolosa degli addetti alla tumulazione, il pianto in sottofondo delle prefiche, le lunghe lenzuola attorcigliate per calare la bara nel fosso, subito ricoperta dalla terra con un lavoro di pala. Non si torna più indietro, l’eternità è “cominciata”: quel corpo tanto amato non sarà mai più visibile in questa vita; se si è credenti non si può che sperare in un “incontro” nell’aldilà, forse non con sembianze umane, come le ricordavamo tramite occhi terreni. Gli “spiriti” informi non ricondurranno ad alcun segno identificativo; dimoreranno lì dove non c’è bisogno di personalizzare, di dare un nome e cognome alle cose per paura di confonderle. Nel dubbio, sarà meglio affidarsi alla fantasia, all’immaginazione che crea, a una poiesis ad uso e consumo del dolore esistenziale da gestire: al piccolo Jurij (o forse solo al regista) basterà immaginare il volto della madre nell’oscurità, il suo profilo immobile, con sopra il coperchio della bara e alcuni metri di terra. Chi è morto non soffre di claustrofobia, la bellezza di quella giovane donna è ormai affidata alla terra, al disfacimento; le preoccupazioni che inseguono i vivi non la raggiungono più.

Ma Jurij non vuole e non può rimanere legato a quell’immagine claustrofobica: alza lentamente lo sguardo dalla tomba della madre e riprende a seguire il vento, le foglie sparse nell’aria da questo, i rami agitati che sono vivi come braccia tese indicanti la via da seguire. La madre non è già più lì sotto, è nell’aria, nel vento che rianima pur strappando vite. Come può essere il vento di una rivoluzione che distrugge vecchi schemi e ne propone di nuovi. In questo caso la morte ha vinto, come accade da migliaia di anni, ma la vita continua, e continua con una fame diversa, riscoperta grazie al dolore; Jurij sa di essere ancora vivo e decide di seguire il vento (non quello della rivoluzione, bensì quello decisamente più interessante dell’esistenza), di seguire la vita lontano da lì, da quel luogo di morte. La madre è una di quelle foglie strappate dall’albero dell’esistenza e portata via chissà dove. In un’unica scena vi è un insegnamento di vita: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie…” (G. Ungaretti). Lezione numero uno: siamo foglie in attesa di cadere, non importa se in guerra o in pace, ma nel frattempo viviamo a piene mani. Ed è così che, forse, il piccolo Jurij viene iniziato alla poesia, alla trasformazione del dolore (o della gioia) in immagini potenti e vive che più tardi diverranno parola, amore per la parola e amore per la vita. Guai se un poeta dà vita a una poesia che trae origine solo dall’artificiosità dell’immaginazione e non anche (per non dire soprattutto) dall’esperienza vissuta. Jurij Živago è Boris Pasternak; Boris Pasternak è Jurij Živago.

Tutto il resto è trama, è storia dell’umanità insoddisfatta e del singolo individuo irrequieto: fatti, movimenti, pulsioni, reazioni ideologiche alle condizioni materiali, piccole speranze amorose per salvarsi dai cicli storici… Jurij è libero: lo si capisce dalla sequenza filmica appena commentata. Non lo fermano né la morte, né la storia degli uomini; non lo ferma l’amore a cui aggiunge – spiritualmente insaziabile – nuovi amori, né la necessaria rivoluzione dei suoi tempi. Essendo il poeta, per definizione, fuori dal tempo inteso come asfittico meccanismo storico da cui non farsi stritolare.

In una scena successiva, il dottor Živago chiede, forse ingenuamente, a un partigiano rosso: “Dov’è il fronte?” E si sente rispondere, come da manuale del perfetto rivoluzionario: “… il fronte è dovunque sono i nemici della rivoluzione […] e dovunque ci sia un borghese incallito, un insegnante infido o un poeta dubbio che si crogioli nella sua vita privata…!”. L’individualismo è morto insieme a Dio, non c’è spazio per la personalità poetica non asservita alla propaganda, e quindi libera da ogni schematizzazione ideologica, che Jurij – come abbiamo visto – riesce a conquistare in tenera età.

Personaggio non dichiarato della scena analizzata è il vento. Il vento come colonna sonora di un’esistenza al suo esordio, che prende e porta via gli animi inquieti, quelli che bruciano di passione, che si ritrovano a vivere più amori perché una vita e un solo amore non bastano. Farà scrivere Pasternak al suo Jurij Živago:

Io ero morto già e, ancora viva, tu.
E il vento, con i suoi gemiti di pianto,
fa tremare il bosco fino alla dacia.
E non per proprio conto ognuno
ma tutti quanti insieme gli alberi
nella loro sconfinata quantità
come armature di velieri oscillano
sulla superficie mossa di una baia.
E non per prepotenza, credi,
o per chissà quale furore vano
ma nell’ansia di trovare le parole
di un canto per cullare te. *

* Il vento tratta da “La notte bianca – Le poesie di Živago”

Boris Pasternak,

traduzione di Paolo Ruffilli – ed. Biblioteca dei Leoni (2016)

Michele Nigro©2018

8 pensieri su “Jurij Živago, la morte e il vento…

  1. Paolo Ruffilli che traduce dal russo? Non conosce la lingua russa.
    La prego di citare un grande slavista la prossima volta; adesso : Pietro Zveteremich, traduttore del romanzo di Pasternàk; riporto la sua traduzione de “Il vento” :
    ———————————–
    Io sono già morto e tu vivi ancora.
    E il vento, con gemiti e pianto,
    fa oscillare il bosco e la dača.
    E non per proprio conto ogni pino,
    ma tutti insieme gli alberi
    nella loro distesa sconfinata,
    come armature di velieri
    sulla superficie d’una baia.
    E non per tracotanza
    o per vano furore,
    ma per trovare nell’angoscia le parole
    d’un canto di culla per te.

    (da Poesie di J. Živago – Einaudi 1957, p. 614)
    ——————————————————————
    ora metta a confronto le due traduzioni:
    quella imitata/copiata di Ruffilli e quella originale di Zveteremich – Grazie dell’attenzione
    Antonio Sagredo

  2. Molto acuto e controcorrente, anche se in apparenza marginale rispetto alo scritto di Michele Nigro sulla scena del film, questo confronto tra due traduzioni di uno stesso testo che ha proposto Antonio Sagredo.

    Un’osservazione del genere mi è capitato di fare su LE PAROLE E LE COSE l’altro ieri. L’ho espressa in questo commento ( non pubblicato e credo censurato):

    Pubblicare queste poesie adolescenziali ( La collaborazione di Fabrizio Bajec, http://www.leparoleelecose.it/?p=34383) subito dopo i versi di Osip Mandel’štam ( L’opera in versi, http://www.leparoleelecose.it/?p=34366) è schizofrenia o semplice superficialità.
    Ma LPLC che fate? I passacarte delle case editrici?

    1. Infatti caro Ennio, la traduzione non è mai marginale e può determinare l’esito di un’intera tesi. Vorrei solo sottolineare che non sono al soldo della casa editrice Biblioteca dei Leoni, alla cui collana Poesia diretta da Paolo Ruffilli appartiene il volume “incriminato” da cui ho avuto l’ardire di scegliere “Il vento”, e che la scelta “scellerata” è dovuta solo ed esclusivamente alla mia pigra “superficialità”.

  3. Caro Michele [Nigro),
    pubblico senz’altro il tuo saggio con in testa il video della scena del film che ho trovato su You Tube, perché ben scritto e tocca problemi (il mondo visto dall’ottica di un bambino; il rapporto tra ideologie, storia e poesia o religione e poesia) per me sfuggenti e irrisolti.
    Ad essi mi pare che tu dia risposte alle quali non mi riesco a rassegnare: «Chi ha bisogno di religioni quando ha la poesia?», «decide di seguire il vento (non quello della rivoluzione, bensì quello decisamente più interessante dell’esistenza)», «Essendo il poeta, per definizione, fuori dal tempo inteso come asfittico meccanismo storico da cui non farsi stritolare».
    Resto dell’idea (fortiniana) che la poesia possa finire per essere (spesso, non sempre) la «sporca religione dei poeti», che esistenza e storia non possano (o debbano) essere così rigidamente gerarchizzate (a favore della prima o della seconda), che nessuno – mi arrischio a dire neanche il poeta geniale – possa davvero essere fuori dal tempo (storico).

    1. Caro Ennio, grazie ancora una volta per l’ospitalità su Poliscritture che ritengo luogo culturale speciale. Le mie risposte alle domande aperte (anzi “apertissime”) a cui tu fai riferimento, sono risposte estemporanee, di passaggio, e se ho dato l’impressione di possedere verità stabili o certezze personali, me ne scuso.
      Mi permetto solo di aggiungere che questa religione DEVE essere sporca proprio per la commistione necessaria tra esistenza e storia a cui tu giustamente facevi riferimento. Lo sguardo fuori dalla storia a cui mi riferisco io, invece, è uno sguardo interiore, intimo, una pausa vitale dai tumulti che il poeta non può non concedersi. Pur essendo, come il personaggio Zivago, immerso fino alla vita (o persino fino al collo) nella Storia.

  4. …eppure proprio la bellissima poesia”il vento” di Pasternak sembra indicare nella natura”…la grande anima taciturna testimone della storia dell’umanità…” (Michele Nigro), nella veste del vento, la grande forza collettiva: “…E non per proprio conto ogni pino,/ ma tutti insieme gli alberi/ nella loro distesa sconfinata…) e capacità consolatoria nei confronti di ciascun essere vivente”…per trovare nell’angoscia le parole/ d’un canto di culla per te”. Il poeta non sembra trascurare nessuno dei due poli. Forse anche il vento di una rivoluzione pur disattesa

    1. E infatti non li trascura: fa in modo che l’uno influenzi l’altro. Altrimenti le parole del poeta sarebbero vuote, o sospese senza la terra della storia sotto i piedi.
      Ma non si può neanche sottovalutare l’individualità (oserei dire l’individualismo) del personaggio Zivago nell’economia della rivoluzione che fa da sfondo al romanzo. Un’individualità difesa con discrezione, ma pur sempre difesa, mi arrischio a dire. Il vento può essere forza collettiva o compagno di fuga, dipende!

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