Piccola Réclame antistragista

 

di Franco Tagliafierro

Pubblico questa recensione-saggio di Franco Tagliafierro avvertendo i lettori che richiede un certo impegno. É analitica e abbastanza lunga.  Si legge, però, bene. Come un romanzo, anche perché Franco, che di romanzi ne ha scritto cinque (vado a memoria), ha alleggerito con la maschera dell’ironia una  materia criminale tremenda e inquietante. Alcune domande  però  s’impongono e le anticipo. Di fronte alla “macchina corruttiva statale-mafiosa”, che  appare quasi onnipotente,  è ancora possibile non  cedere allo sgomento e  pensarla politicamente? Di fronte a  vicende, che  si svolgono nelle zone oscure delle istituzioni statali e al di  fuori della vita sociale percepibile dalla gente comune, possiamo soltanto  sperare nell’intelligenza e nel coraggio di individui onesti ma eccezionali? Sono essi gli unici in grado di  contrastare i corrotti  e  mostrare almeno per qualche attimo una verità,  che inevitabilmente tornerà ad essere occultata e dimenticata? [E. A.]

Nel 2018 è uscito presso PiperFIRST un libro intitolato La repubblica delle stragi – 1978/1994 Il patto di sangue tra Stato, mafia, P2 ed eversione nera, a cura di Salvatore Borsellino. Il titolo è già una sinossi. È già un j’accuse. Perciò io,

acquirente deluso da tanti libri sull’argomento ma non da questo, cerco di fargli un po’ di réclame. In Internet c’è sempre qualcuno che istiga il suo aleatorio pubblico a leggere il libro che gli è piaciuto, e in genere lo fa senza impiegare più parole di quante ne usino Amazon & Concorrenti, ma c’è anche chi ne usa migliaia, come in questo caso, per cui le leggeranno tutte, o quasi, soltanto coloro che vorrebbero essere in prima linea nella lotta contro la mafia, ma non possono, e chi non si spazientisce se gli viene intrattenuta la mente con le schifezze del passato anziché con le chicche del presente. Questo libro, stando alle statistiche non truccate, lo compreranno in pochi, gli stessi, suppongo, che a suo tempo comprarono Cose di Cosa Nostra di Giovanni Falcone, un classico da collocare a fianco dei libri di Sciascia, e La Repubblica delle stragi impunite di Ferdinando Imposimato, un vademecum che uno presta volentieri quando non dubita che glielo restituiscano. Quei pochi lo sanno già come si verificarono le stragi dal 1978 al 1994, nonché quelle dal 1969 al 1977, sia che le abbiano vissute, sia che il loro DNA contrario al vivere come bruti li abbia indotti a interpretarle col senno di poi. Chi, avendole vissute, vorrà rievocarle tramite un ripasso per sommi capi in polemica con la fatuità delle reti sociali, non proverà più l’antica rabbia impotente che gli cresceva in petto di strage in strage, di assassinio in assassinio, ma nausea. Coloro che non sanno né come né perché si verificarono quelle morti all’ingrosso sono tanti, milioni: troppi, secondo i parenti delle vittime. Si devono aggiungere quelli che non vogliono più saperne, cioè le moltitudini trasversali la cui filosofia napoletana del “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdàmmece ‘o ppassato” è assurta a patrimonio orale dell’umanità (senza nulla togliere alla “Arte del pizzaiuolo italiano” iscritta nel 2017 nella Lista del patrimonio immateriale dell’Unesco). I giovani, sia i millennials (nati tra il 1982 e il 1997), sia quelli della Generazione Z (nati tra il 1998 e il 2010), si rifiutano di sapere. Il disinteresse è un muro di gomma che resiste anche alla pubblicità subliminale. Se un giovane vuole essere la scimmia che si tappa occhi e orecchie, la Costituzione non glielo può impedire.

Gli autori di questo libro curato dal fratello del giudice martire Paolo Borsellino, non si limitano ai propri doveri privati, assumono anche quegli “altri doveri” di cui parlava Vittorini, quelli che, se li assolvi, ti fanno stare in armonia con la coscienza. In questo caso gli altri doveri li hanno spinti a investigare e a divulgare ciò che i governi nascondono sotto il termine omissis. Elegante marchingegno filologico, questo omissis, spudoratamente ubiquo. Hanno distinto gli omissis che concernevano il governo da quelli che applicavano la foglia di fico ai partiti, gli omissis sussiegosi della magistratura da quelli che davano lustro alle gesta inique dei servizi segreti. Per integrare la solerzia degli omissis i presidenti del Consiglio sono soliti apporre il Segreto di Stato. Il quale, ai sensi della legge 124/2007, può essere rimosso dopo trent’anni, in teoria. In pratica no, in virtù dei decreti applicativi della stessa legge. Quando il serpente si morde la coda, il cerchio si chiude e non se ne esce.

Questo libro, sebbene abbia ottenuto in Internet il massimo dei voti, cinque stelle, da parte di anonimi e di pseudonimi, sebbene abbia radunato e continui a radunare gli ascoltatori di precetto nelle presentazioni che se ne sono fatte e si faranno in molte città d’Italia senza indulgere a tartufesche carità di patria, e sebbene abbia messo nomi e cognomi e narrazioni al posto dei vuoti mentali provocati dalle cronache, è pur sempre un’opera destinata alla stessa rassegnazione delle lapidi commemorative.

E allora dice bene Marco Travaglio, autore della prefazione, quando tira in ballo sé stesso e i lettori simili a lui: “Girata l’ultima pagina, a tutti noi lettori viene una gran voglia di prendere una copia de La repubblica delle stragi e di regalarla ai procuratori della Repubblica competenti, perché raccolgano e sviluppino i preziosi e documentati spunti che contiene. Ogni capitolo fa i nomi dei possibili mandanti e di altri eventuali complici dei crimini che hanno visto condannare soltanto gli esecutori materiali. Mandanti, complici ed esecutori equamente distribuiti fra criminali professionisti (terroristi extraparlamentari, uomini di Cosa nostra, di ‘ndrangheta e di camorra) e killer, suggeritori, consulenti e depistatori di Stato”. Travaglio avrebbe fatto un bel colpo da maestro di cerimonie se ci avesse fornito gli indirizzi di casa dei procuratori in questione, così, almeno, oltre a compiere un gesto civico di cui il nostro Ego avrebbe potuto compiacersi per un paio di settimane, avremmo incrementato le vendite del libro (scherzo; ma alzerei una mano chiusa a pugno nostalgico se qualcuno, a causa del presente articolo, comprasse il libro e se ne inorgoglisse in giro). I sette autori hanno fatto davvero un buon lavoro, peccato che le loro biobibliografie non siano state redatte con quella sobrietà icastica senza la quale non resta traccia nella memoria, ma “raccontate” con uno stile che – nonostante la excusatio dell’affettuoso biobibliografo – risulta solo stucchevole. Hanno fatto un buon lavoro, ma non bisogna aspettarsi che la loro sia una verità problematicamente scoperta e lapalissianamente messa in mostra. Tutt’altro. Ai lettori si richiede la volontà di riflettere e l’intelligenza di dedurre. Altrimenti vivranno in beota compagnia delle menzogne riguardanti gli anni dal 1969 a oggi assimilate per sentito dire, ignorando che “nessun altro Paese dell’Occidente ha conosciuto un sistema di potere così intriso di devianza criminale e così avvezzo all’uso dello stragismo, del terrorismo e dell’omicidio politico” (Travaglio); ignorando che nessun altro Paese ha conosciuto una connivenza secolare così riuscita tra una organizzazione mafiosa e lo Stato; che nessun altro Paese ha conosciuto una guerra a base di attentati così belluina tra una organizzazione mafiosa e lo Stato; che nessun altro Paese ha conosciuto una trattativa tra lo Stato e quella stessa organizzazione mafiosa per giungere a una pace che la lasciasse padrona del campo e più tracotante di prima. E allora chi, chi ha sempre fatto in modo che la mafia fosse inestirpabile? Se si vuole entrare nella logica di quella connivenza e di quella guerra bisogna risalire al 1979, quando ci fu una “compenetrazione reciproca” tra la massoneria d’assalto (P2, e non solo) e cosche ambiziose di Cosa Nostra ammesse nel giro finanziario internazionale grazie alla gestione planetaria di alcuni settori del narcotraffico.

I capitoli di questo libro sono persuasivi dal punto di vista storiografico perché basati su tutti i riscontri giudiziari accessibili, e a volte sono anche avvincenti perché imbastiti secondo criteri simili a quelli dei romanzi gialli. Non è raro che il lettore si identifichi con gli autori in quanto detective, e ciò dipende dalla loro minuziosità nella ricognizione dei fatti e dal tratteggio rapido dei personaggi. Un capitolo particolarmente poliziesco è quello intitolato: L’estate dell’Addaura, del poliziotto assassinato e delle menti raffinatissime. Cominciamo da queste ultime: sono le menti “che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi”: così si espresse il giudice martire Giovanni Falcone dopo il fallimento dell’attentato che doveva uccidere lui e altra gente in costume da bagno nei pressi della villa sul mare che aveva affittato per l’estate nella frazione palermitana di Addaura. Chi avrebbe mai immaginato che esistessero “centri occulti di potere” con solo qualche collegamento con i vertici di Cosa Nostra, con interessi diversi da quelli di Cosa nostra, ma autonomamente impegnati a fare un favore a Cosa Nostra togliendo di mezzo il giudice che voleva debellare la mafia? Dentro la cassetta metallica contenuta nella sacca che giaceva su uno scoglio antistante alla villa c’erano cinquantotto cartucce di esplosivo. Colui che doveva farle detonare non assolse il compito perché distolto dalla improvvisa apparizione di alcuni poliziotti. Uno di questi verrà assassinato due mesi dopo (assassinata anche la moglie che era con lui), e ciò consentirà di ricostruire la dinamica preparatoria dell’attentato, così complessa, così arzigogolata, che alla fine si intravede “una realtà che si fa beffe dell’immaginazione”. E come se non bastasse, compare con la sua raccapricciante “faccia da mostro” (ossia deturpata) un misterioso ex agente di polizia regolarmente ingaggiato ogni volta che c’era bisogno di un “sicario per affari che dovevano restare molto riservati”. Insomma, era cosa buona e giusta essere convinti che la mafia avesse intenzione di eliminare il giudice Falcone che aveva rivoluzionato il modo di combatterla; però, come mai dietro ogni attentato di mafia dal 1989 in poi ci sono sempre servizi segreti, polizia, carabinieri, magistrati esperti nel doppiogioco, massoni della loggia P2? Gli autori di questo capitolo, Federica Fabbretti e Fabio Repici, meritano un elogio particolare perché hanno avuto la pazienza di seguire tutte le tracce che portavano alla identificazione dell’assassino del poliziotto delle quali si avvarrà la procura di Palermo che nel 2017 ha avocato a sé l’inchiesta. Il padre del poliziotto assassinato non si taglierà più né barba né capelli finché l’inchiesta non avrà individuato l’assassino. Ma il tempo non si lascia rallentare dalla giustizia, ora lui è bianco per antico pelo, maestosamente biblico, iconografico, i media si occupano pittorescamente di lui, così sorvolano meglio sulla inchiesta.

Un altro capitolo che esige dal lettore una attenzione puntigliosa e in un certo senso gli fa condividere gli stupori e il disappunto di chi è impegnato nelle indagini, è quello intitolato Il filo rosso delle stragi: la Uno bianca e la Falange Armata, redatto da Antonella Beccaria e Giovanni Spinosa: “Per sette anni e mezzo, dal 19 giugno 1987 al 21 ottobre 1994, la ‘strage a rate’ chiamata Uno bianca ha insanguinato le strade di Bologna, della Romagna e della provincia di Pesaro. La contabilità dei processi racconta di 82 delitti, 22 persone uccise e oltre 100 ferite”. Il 21 novembre 1994 entrano in scena i mandati di cattura: per primo viene arrestato il giovane capofamiglia del gruppo dei rapinatori assassini, che è Roberto Savi, poliziotto delle volanti della questura di Bologna; per secondo, Fabio, suo fratello, un camionista che abitava in un paesino del riminese; terzo, Alberto, altro fratello, agente di polizia in servizio a Rimini. I tre, a bordo di una automobile Fiat Uno bianca (sempre Uno e sempre bianca, perché ne rubavano una per ogni impresa), nella prima fase della loro esuberante attività attaccano guardie giurate che difendono i furgoni blindati con dentro gli incassi delle Coop; nella seconda fase le loro azioni hanno solo un fine terroristico: colpiscono cittadini inermi, carabinieri, nomadi, chi capita; nella terza fase rapinano solo banche e avviano un commercio di armi con i Paesi dell’Est. Nei sette anni di crimini, l’11 aprile 1990 è una data storica: la “leggenda” della inafferrabile Uno bianca si muta in “Falange Armata Carceraria”, una denominazione dalla quale si dovrebbe dedurre l’esistenza di un neonato gruppuscolo di terroristi deciso a creare un fronte di lotta all’interno delle carceri. La Falange Armata annuncia il suo ingresso nella guerriglia, la Uno bianca inizia la sua seconda fase, quella di terrorismo senza fini di lucro. E cosa accade? Accade che la Falange Armata trascura le carceri e comincia a sponsorizzare i delitti della Uno bianca, dopodiché allarga il suo campo di azione uscendo dal territorio della Emilia-Romagna battuto dai tre fratelli Savi e ammazzando gente in altre regioni. La Falange Armata si sente così sicura che nessuno scoprirà mai i suoi componenti, né i suoi covi, che si permette certe finezze umanistiche come quella di inviare alla procura di Rimini, che sta indagando sui delitti della Uno bianca, il seguente messaggio: “Dite al dottor Sapio [pubblico ministero] di leggere La lettera rubata di Edgar Allan Poe. Gli farà bene, eviterà di sbagliare ancora“. Come accade nel racconto di Allan Poe, che la lettera tanto cercata non si è mai mossa da dove è sempre stata, così il dottor Sapio farebbe bene a guardare vicino a sé, perché uno degli assassini che cerca si trova proprio lì. Ma la Lettera Rubata è letteratura, non un confidente che si guadagna le dosi di eroina con le sue soffiate, quindi non viene presa sul serio. Il messaggio sarà interpretato solo nel 1994, dopo l’arresto di Alberto Savi, il poliziotto in servizio a Rimini, sotto gli occhi della procura.

Il primo delitto rivendicato dalla Falange Armata fu l’uccisione, nell’aprile del 1990, di Umberto Mormile, un educatore del carcere di Opera. Narrano la sua storia la sorella Nunzia e il fratello Stefano nel capitolo intitolato: Milano, l’autoparco delle mafie in via Oreste Salomone e l’omicidio di Umberto Mormile. Un capitolo in cui l’intrico delle estorsioni piratesche, la diversificazione delle forze e il gran numero dei malavitosi evocati sconsigliano qualunque tentativo di dare conto sommariamente di una vicenda che è esemplare per capire come la magistratura inquirente e giudicante, nello scontro con la poliedricità del crimine, sia costretta a mostrare la propria inadeguatezza. L’autoparco di via Oreste Salomone “è stato uno degli snodi del più pericoloso cartello criminale operante negli ultimi tre decenni a Milano e in Lombardia”, un cartello che si è giovato della partecipazione di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, dei servizi segreti, di vari funzionari della polizia e della amministrazione penitenziaria, di agenti sparsi della CIA: tutti tesi a conquistarsi, mediante il narcotraffico e crimini di supporto, quelle ricchezze esagerate che permettono di esercitare il potere di vita e di morte. L’educatore carcerario Mormile aveva avuto il torto di essere al corrente delle irriferibili collusioni tra servizi segreti e mafie. Dopo la rivendicazione del suo omicidio, le imprese della Falange divennero sempre più efficienti nell’impaurire e nel ricattare uomini politici e istituzioni. Tardi si giungerà a scoprire che la Falange Armata altro non era che un flatus vocis, che una coppia ben assortita di sostantivo e attributo, che un nome d’arte, a cui non corrispondeva alcuna realtà oggettiva di falangisti in armi, bensì una strategia. Semplicemente una strategia. Per terrorizzare la popolazione e destabilizzare lo Stato. Il nome, che evocava organizzazione interna e potenza di fuoco, era scaturito dalla spremitura delle meningi dei servizi segreti. Cosa Nostra lo aveva adottato con entusiasmo e ne aveva fatto la sua firma.

Nel capitolo Alle radici del “golpe separatista” Antonella Beccaria traccia la sinopia di un groviglio così esemplarmente riuscito per coinvolgimento di fili e misteriosità di nodi, che nessuna pittura, ossia nessuna narrazione esplicitante, potrebbe rendere ragione della miscela esplosiva costituita da mafia, massoneria, servizi segreti italiani, servizi segreti stranieri, governi aventi l’onorevole Giulio Andreotti come nume tutelare, finanzieri vaticani, finanzieri USA, militari NATO. Mancava il KGB, forse. Il “golpe separatista” era quello che voleva mettere a segno il banchiere Michele Sindona con la complicità del venerabile massone Licio Gelli seguito dalla sua lista di uomini altrettanto venerabili come (per non fare di ogni mala erba un fascio) il capo di Stato maggiore della Difesa, il comandante generale della Guardia di finanza, i dodici generali dei carabinieri, i cinque della Guardia di finanza, i quattro dell’aeronautica e gli otto ammiragli. Lo scopo era quello di far sì che la dilagante mafia si arricchisse smisuratamente con il traffico di droga e di armi, esercitasse un oculato controllo sulla politica per le questioni di suo interesse e godesse di una sostanziale impunità.

Il capitolo La strage della stazione di Bologna: i legami inconfessabili avrà comportato per i due autori, Antonella Beccaria e Giovanni Spinosa, una fatica delle più disperanti, ma anche, a puzzle completato, o perlomeno senza troppi buchi neri, una delle più gratificanti, perché l’investigazione è venuta a capo sia del depistaggio predisposto prima che l’attentato venisse messo in cantiere, sia del depistaggio realizzato dopo che l’attentato aveva prodotto ottantacinque morti (2 agosto 1980), e sia del quadro d’insieme affollato di criminali di contorno che appartenevano al SISDE, al SISMI, alla DIGOS, ai NAR, a Ordine Nuovo, al cosiddetto “Noto Servizio”, alla P2 e ad alcune logge ad essa collegate. I due autori ci ricordano che stragi e depistaggi hanno sempre costituito nel nostro Paese un binomio inscindibile, ma i depistaggi sull’inchiesta per la bomba alla stazione di Bologna “vincono il primo premio per numero, varietà e coinvolgimento di personaggi e apparati”. “Vincono il primo premio” è una espressione stravagante in un contesto di scrupolosa serietà espositiva, ma evidentemente gli autori, arrivati al massimo della sazietà e della repulsione, avevano bisogno di equiparare la banalità dei depistaggi italiani, non alla ovvia banalità del male, ma a quella delle gare sportive, delle lotterie e delle mostre canine. In quella occasione, SISMI, SISDE e P2 percorsero come probi rigattieri l’Italia da nord a sud in cerca di terroristi ed esplosivi esteri da comprare a prezzi da amatore per poi ammucchiarli dinanzi agli uffici degli inquirenti, allo scopo di creare piste internazionali più credibili delle autoctone, finché non trovarono un ordigno mediatico a scoppio emotivo, e lo chiamarono “terrore sui treni”. Intanto confermavano nella opinione pubblica la certezza che esistessero, oltre i normali servizi segreti che badavano alla sicurezza esterna e alla tranquillità interna del Paese, altri servizi segreti, separatisi da quelli istituzionali per perseguire una politica diversa da quella praticata dal governo della Repubblica. A questi altri era stato imposto l’araldico nome di “servizi segreti deviati”. Nome di facile assimilazione dato che tutti sappiamo in che consista la devianza, comportamento suscettibile di sanzioni, sì, ma comunque meno perturbante di quello criminale e, tutto sommato, tollerabile. Però, domanda, i non deviati seguitavano a esistere, o si erano congedati in massa? In ogni caso, anche dando per certo che non si erano congedati né suicidati in massa, ora chi aveva il coltello dalla parte del manico erano i deviati. Ma davvero l’Italia poteva permettersi due organismi di intelligence, con quello che costano? Gli agenti dei nuovi servizi erano stati arruolati e addestrati dallo Stato come quelli dei vecchi? Erano sul libro paga dello Stato come gli altri? O, visto che sbrigavano lavori sporchi, erano pagati dai centri occulti di potere di cui parlava Falcone? E, tanto per curiosità, dove erano le loro sedi?

Quello che non mi sarei aspettato è che anche gli autori di questo libro attribuissero ai servizi segreti la definizione di “deviati”, che negli Anni di Piombo diventò un tormentone per i lavoratori impegnati nelle lotte sindacali, per i ceti medi impegnati nella difesa del vivere borghesemente, e per le categorie nell’ambito delle quali si sceglieva qualcuno da gambizzare o da uccidere. Quel “deviati” somministrò alle coscienze dei cittadini di normale adattamento alle modernità della patria la convinzione che esistesse una struttura di intelligence diversa e in contrasto con quella legalmente costituita. Quanti, fra gli adulti di quegli anni, possono dire di non aver mai creduto, allora, che esistessero i servizi segreti deviati? Chi scrive oggi di ciò che accadde tra il 1969 e il 1994 non può permettersi di cadere nelle vecchie trappole, non può esimersi dal fare chiarezza anche sulla tecnica di disinformazione dello Stato, oltre che su quella delle stragi. Dire che in un Paese hanno operato per anni dei “servizi segreti deviati” è un errore dell’intelletto, perché significa dire che vi si era formato un nuovo organismo, ovviamente abusivo, concorrente dei servizi segreti di sempre; un organismo che non dipendeva dal governo, che non rendeva conto a nessuno della sua politica. Ammesso che in un Paese si crei un organismo del genere, che cosa deve fare lo Stato, cioè il governo? Semplice: deve perseguirlo penalmente così come persegue ogni individuo o ogni ente che commetta un reato. I mezzi non gli mancano. Per neutralizzarlo, una compagnia di “teste di cuoio” basta e avanza. Se non lo neutralizza, significa che approva il suo operato, quindi che è suo complice. Se lo Stato si rende complice di chi commette delitti, è a tutti gli effetti un soggetto criminale. Di conseguenza gli uomini che rappresentano lo Stato, che hanno responsabilità di governo, sono dei criminali a tutti gli effetti.

Non esistevano servizi segreti deviati. Esistevano i servizi segreti di sempre. Ripeterlo finché non entri nell’inconscio collettivo. Non era autonomo rispetto a loro neppure quello chiamato Anello o “Il Noto Servizio” che voleva far credere di esserlo perché era stato creato durante la Seconda guerra mondiale dal fascistissimo generale Roatta e subito adibito ai ruoli di bassa macelleria. È seriamente immaginabile una guerra tra due apparati di intelligence appartenenti allo stesso Stato? Ogni Stato si serve di varie branche di servizi segreti (militari, civili, miste), ma il comando è unico, e spetta al capo del governo. Non di rado lo esercita agli ordini di strutture extranazionali. E qui siamo alla resa dei conti: nel caso italiano, e non solo, tali strutture erano la CIA o la NATO. I capi del governo che si succedevano in Italia, quale più quale meno supinamente, ubbidivano – come ormai tutti sanno – alle disposizioni della CIA e della NATO, le quali avevano bisogno di una Italia affetta da instabilità cronica, e dalla psicosi del colpo di Stato imminente, per usarla come l’arma europea più adeguata alla loro Guerra Fredda contro il comunismo. Il comunismo europeo, si intende. In ogni caso, il comando era unico. C’erano sì i vari generali, i vari direttori dell’Ufficio Affari Riservati con ansia di protagonismo, che si prendevano qualche libertà marginale, ma erano pur sempre degli esecutori. Il supercomando ordinava terrorismo nero, e loro glielo servivano caldo; ordinava terrorismo rosso, e loro glielo servivano a temperatura ambiente. I vari capi del governo ubbidivano perché non c’era alternativa. Per questo gli si possono anche riconoscere le attenuanti generiche. La panzana dei servizi segreti deviati era un’offesa alla intelligenza degli italiani adulti di allora. La incassammo per anni senza fiatare, come tanti cornuti e mazziati.

Oggi basta navigare un po’ in Internet per scoprire che allora, presso la stampa estera, “servizi segreti deviati” era una figura retorica a uso esclusivo della credulità italica. È da tanto che Aldo Giannuli, lo storico più accreditato in materia di intelligence, va ripetendo che in Italia, così come in tutti i Paesi non da operetta e in tutte le repubbliche non delle banane, i servizi segreti hanno sempre operato e operano come un unico organismo, pur suddiviso in settori a seconda dei campi di azione, agli ordini del capo del governo, o di una autorità superiore. Ripeterlo è come sfondare sempre la stessa porta aperta, però almeno non si alimenta la sopravvivenza delle vecchie idiozie, bastano le nuove. Dunque, se in un Paese esiste solo il servizio segreto legittimamente costituito, e si scopre che questo si rende responsabile di crimini, è ovvio che lo Stato ha scelto di delinquere, ossia che gli organi con responsabilità di governo hanno scelto di delinquere.

Cosa che è sempre accaduta e accade dovunque viga una dittatura militare, o fascista, o nazista, o stalinista. Durante il periodo delle stragi lo Stato italiano era gestito dal cosiddetto “criptogoverno”, cioè da un potere che dietro la facciata operava criminalmente. Ciò significa che durante il periodo delle stragi lo Stato italiano cessò di essere uno Stato di diritto. Questo è quanto.

La popolazione, a parte la stragrande maggioranza dotata di mentalità acritica, voleva sentirsi dire che sì, c’erano dei servizi segreti che progettavano attentati, che ne proteggevano gli esecutori, che costruivano prove false per far condannare gli innocenti, ma erano soltanto una piccola frazione dell’insieme. L’insieme era costituito da persone che eseguivano onestamente i loro compiti istituzionali, che non si macchiavano di misfatti orribili, che non mandavano dei balordi a collocare bombe, che rientravano nella tipologia degli “Italiani brava gente”. Chi credeva nei doppi servizi non voleva sentirsi dire che si ingannava. Però, intendiamoci, in quegli anni la brava gente, sebbene acritica, esisteva davvero – è sempre esistita, esiste, esisterà – ed era quella che sopportava la ricaduta angosciante degli attentati terroristici neri e rossi, degli attentati di Cosa Nostra, della penetrazione di questa e delle altre mafie negli enti locali e nazionali. La brava gente esisteva davvero, e costituiva – insieme alle forze di polizia che, esclusi i vertici, la difendevano giorno per giorno; insieme alla magistratura che, esclusi i vertici, la liberava, se non dal terrorismo, almeno da qualcuno dei suoi manovali (che subito venivano rimpiazzati) – la vera società civile. La quale sperava che passasse “la nottata”.

Il capitolo La strage di Capaci a firma di Peppino Lo Bianco, dopo tre righe dedicate a definire l’attentato che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e quasi tutti gli uomini della scorta, come una non autentica “strage di mafia”, ha un avvio pregevolmente letterario oltre che sintetico a priori: “Nel film Blow up di Antonioni, con successivi ingrandimenti di una foto, spunta in mezzo alla vegetazione l’arma del delitto. Accade lo stesso per la stagione delle stragi cosiddette di mafia, dove le immagini compiute negli anni, con opportuni ‘ingrandimenti’, mostrano connessioni insospettabili e inconfessabili”. Non si poteva dire meglio. Della strage di Capaci si ricorda che più di cinquecento chili di esplosivo fecero saltare in aria l’automobile del giudice e quella della sua scorta assieme a cento metri di autostrada. Era indispensabile tanto esplosivo? Era imprescindibile rovinare tanta autostrada? Lo Bianco risponde esaustivamente a tutti gli interrogativi tecnici. Per quanto riguarda il fattore umano rivela anche dettagli a sorpresa: la genesi della strage risale all’autunno del 1990, “quando nel carcere inglese di Full Sutton, nello Yorkshire, nord della Gran Bretagna, il boss Franco Di Carlo di Altofonte, allora vicino a Totò Riina, riceve due strane visite, a distanza di sei mesi l’una dall’altra. Lo vanno a trovare due delegazioni di servizi segreti, la prima su invito del suo compagno di detenzione, il palestinese Nizar Hindawi, un terrorista collegato ai servizi segreti siriani: sono tre uomini, ‘forse siriani, palestinesi, uno era italiano’, che gli chiedono una mano per uccidere Falcone. Lui li mette in contatto con suo cugino, Nino Gioè, morto suicida nel ’93 in una cella di Rebibbia, che gli rivela che ‘questi hanno mezza Italia nelle mani’. E Gioè sarà proprio uno dei protagonisti della strage”. Il giallo della preparazione dell’attentato si fa più coinvolgente e più intelligibile quando, “tre giorni dopo il ‘botto’, tra l’asfalto dilaniato, gli agenti della ‘scientifica’ trovarono un foglietto di carta a quadretti: sul lato destro superiore era scritto: ‘Guasto n. 2 portare assistenza’. Nella parte centrale: ‘0337-806133 GUS, via in Selci, 26 Roma’ e sotto ‘Via Pacinotti’. L’indirizzo, (via Inselci) era quello del SISDE di Roma”. Quello del SISDE di Roma! Tutto qui.

Il 5 novembre 2018 è cominciato, presso il tribunale di Caltanissetta, il processo a carico del dottor Mario Bò, dirigente di polizia, di Michele Ribaudo, ispettore di polizia, e di Fabrizio Mattei, all’epoca agente scelto, accusati di “calunnia in concorso”, perché elaborarono una tale rete di menzogne in relazione alla strage di via D’Amelio che riuscirono, esibendo le confessioni fittizie di alcuni falsi pentiti (Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura, Francesco Andriotta) e sfruttando la sospetta negligenza di alcuni magistrati, a far condannare all’ergastolo sette innocenti. Ben sette innocenti! Erano tre normali segugi della polizia, non dei liberi battitori con licenza di cambiare la verità effettiva delle cose, quindi ricevevano ordini dall’alto. E questo “alto” era il capo della squadra mobile di Palermo, ex agente del SISDE, il cui nome era Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 dopo aver ottenuto, guarda caso, varie promozioni fino a essere nominato nel 1999 questore di Roma e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica. I tre imputati, quindi, non hanno nessuno che possa assumersi la responsabilità del loro comportamento. Se La Barbera fosse vivo dovrebbe rivelare da quale superiore gerarchico avesse ricevuto l’ordine di creare a tutti i costi dei falsi colpevoli della uccisione di Borsellino. Accusò un bel numero di boss mafiosi, credibili come implicati nella strage di via D’Amelio, ma in realtà estranei al fatto. Aveva ricevuto l’ordine di far emergere come verità processuale (la più gradita alla opinione pubblica) che quella di Borsellino era stata una strage esclusivamente di mafia, e non una strage con la determinante partecipazione dello Stato. In questo processo contro i tre calunniatori molti avevano diritto a costituirsi parte civile, oltre ai famigliari di Borsellino, e così si sono fatti avanti anche i mafiosi condannati ingiustamente all’ergastolo che esigono dallo Stato un risarcimento di cinquanta milioni. Chi non aveva diritto a costituirsi parte civile era il ministero dell’Interno, o meglio, in linea di cavillo e di salvaguardia della ipocrisia, il diritto sì, lo aveva, ma aveva anche il dovere etico di evitare il sublime paradosso di un ministero dell’Interno di oggi il quale chiede un risarcimento per il “danno di immagine” che ha subito il sé stesso di ieri dai tre calunniatori, che erano suoi dipendenti, quindi esecutori dei suoi ordini. Vuole cioè disfarsi del ruolo di “responsabile civile” che gli competeva per i reati all’epoca commessi dai suoi dipendenti e acquistare al volo quello di “parte lesa”. E come tale vuole essere indennizzato con sessanta milioni! Questo non è humour noir, dico a chi legge, è solo ciò che sta accadendo nel tribunale di Caltanissetta. Ammesso che i tre vengano condannati, dove li prenderanno i sessanta milioni? A rigore glieli dovrebbe “prestare” il ministero dell’Interno. Nella udienza del 3 dicembre 2018 Lucia Borsellino ha rivelato che pochi giorni dopo l’uccisione di suo padre si scoprì che nella casa di campagna, dove il padre aveva una stanza per lavorare anche quando era in ferie, erano entrati degli ignoti, che avevano messo a soqquadro solo quella stanza. Cercavano qualcosa di preciso? Chi li aveva mandati? Nell’udienza del 6 dicembre 2018 è stato ascoltato Salvatore Candura, uno dei finti pentiti creati per depistare, il quale ha ribadito che le confessioni gli venivano “suggerite” dal futuro questore Arnaldo La Barbera. Nelle prossime udienze verranno ascoltati altri testi per giungere – se lo Stato non si opporrà – a radiografare quello che è stato definito, dai giudici del Borsellino Quater, “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Il processo è seguito, udienza per udienza, da Radio Radicale: https://www.radioradicale.it/scheda/559497/processo-a-mario-bo-ed-altri-depistaggio-inchiesta-strage-via-damelio.

Insieme al processo contro i tre che calunniavano signorotti mafiosi per dovere d’ufficio, è attualmente in corso, in primo grado, il quinto “Processo Borsellino” a carico del ricercatissimo latitante Matteo Messina Denaro imputato come mandante delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Il capitolo La strage di via d’Amelio, redatto da Federica Fabbretti e da Fabio Repici, ricostruisce tutta la vicenda dalle ore 16:58 del 19 luglio 1992, cioè dalla esplosione che uccise il giudice e la sua scorta, alla conclusione del “Borsellino Quater”, il 20 aprile 2017, con la condanna all’ergastolo, per concorso in strage, di Salvatore Madonia e Vittorio Tutino. Nel capitolo si racconta inoltre, con tutti i dettagli, la sparizione nel nulla eterno della famosa agenda rossa di Borsellino, nonché l’attività telecomandata del nucleo investigativo “Falcone-Borsellino” guidato da La Barbera, e soprattutto il cinico sbatacchiamento della coscienza del pentito Vincenzo Scarantino affinché confessasse, ritrattasse, riconfessasse, si rimangiasse tutto e ripetesse a pappagallo ciò che gli avevano inoculato, in modo che la responsabilità della strage ricadesse tutta su Cosa Nostra. I sette innocenti furono scagionati anni dopo da Gaspare Spatuzza, un pentito non adulterato. Ma tuttora mancano troppi riscontri di colpevolezza, mancano le analisi della presunta faciloneria dei magistrati nell’accogliere le menzogne accattivanti, manca soprattutto il “Pentito di Stato” che faccia quadrare i conti svelando qualche elemento di irrefutabile pura verità. Questo auspicato Pentito di Stato deciso a vuotare il sacco su tutte le stragi e tutti i terrorismi dal 1969 a oggi, non è indispensabile che sia un alto grado dei servizi segreti, o dei carabinieri, o della polizia: basterebbe un archivista che abbia preso nota di tutte le trame, una specie di micro-emulo della WikiLeaks transnazionale. Ma chi è stato in rapporto con questi organismi sa che la sua sorte è prenotata nel caso riveli ciò che “non si deve dire”. Ripercorrendo le cronache degli Anni di Piombo e quelli della guerra tra la mafia e lo Stato, si trova un numero tutt’altro che trascurabile di collassi cardiocircolatori immotivati, di incidenti stradali inspiegabili, di suicidi senza capo né coda, tutti a carico di persone che erano al corrente di ciò che non dovevano sapere o che avevano appena cominciato a dire l’indicibile. Un eventuale Pentito di Stato diventerebbe subito un divo mediatico, la qual cosa costringerebbe gli storici ad aggiornare i loro libri appiattiti sulle versioni ufficiali.

A questo punto chi ne sa abbastanza per non accantonare la curiosità, può attingere altre rivelazioni dal capitolo intitolato Le trattative fra Cosa nostra e lo Stato, trattative che durarono fino al 1994, cioè fino a quando il nuovo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, fece capire che ormai potevano estinguersi. Doveva continuare solo quella che intratteneva lui mediante Marcello Dell’Utri, suo fedele consigliori. Quando era soltanto un imprenditore riusciva a stare in sintonia con la mafia versando nelle sue casse il “pizzo” che gli avevano imposto (250 milioni di lire ogni sei mesi). Ora che gestiva il potere politico poteva giovare anche politicamente alla mafia. Tutta l’Italia poteva essere mafiosa alla luce del sole.

La continuazione del discorso sulle trattative si trova nel libro intitolato Il patto sporco. Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista (settembre 2018, Chiarelettere ed.). Ne sono autori Nino Di Matteo, protagonista del processo in quanto pubblico ministero, e Saverio Lodato, giornalista intervistatore specializzato in mafia, antimafia e Sicilia. La prima parte si basa sulla lunga intervista a Di Matteo grazie alla quale lui ha modo di raccontare la sua formazione professionale, la sua vita sempre più a rischio e la sua lotta per privare la giustizia di alcuni vecchi tabù. La seconda parte è costituita da un esauriente resoconto, scritto dallo stesso Di Matteo, della trattativa Stato-Mafia come è stata ricostruita dalla Corte d’Assise di Palermo nel processo a carico di mafiosi e funzionari dello Stato che si è concluso, dopo cinque anni, nel 2018. La terza parte raccoglie gli articoli scritti da Saverio Lodato quando il processo era in corso e già pubblicati nel volume Avanti Mafia! Perché le mafie hanno vinto, a cura della Associazione culturale Falcone e Borsellino (Corsiero Editore 2018).

Il libro, non so se per patriottica concessione degli autori e dell’editore o per altruistica pirateria anonima, lo si può scaricare gratis dalla rete cliccando su:

https//libri.me/il-patto-sporco-il-processo-stato-mafia.

Wikipedia è altrettanto generosa e mette a disposizione in rete una cronistoria della trattativa tra Stato italiano e Cosa nostra:

https//it.wikipedia.org/…/Trattativa_tra_Stato_italiano_e_Cosa_nostra.

E poi c’è il preziosissimo Archivio Antimafia che contiene molti documenti sottratti alla congiura del silenzio o alla voracità del tritacarte maneggiato con disinvoltura dai centri di comando di alcune istituzioni compromesse:

www.archivioantimafia.org/trattativa.php.

Tali documenti ci consentono di sospendere l’incredulità: sono verbali delle udienze, registrazioni delle telefonate, sentenze, decreti di rinvio a giudizio, memorie di pentiti, ecc. Questa disponibilità di dati e di narrazioni è il fiore all’occhiello di quel giornalismo antisistema on line che, non potendo fare nulla contro le infatuazioni della ignoranza relative al presente, cerca almeno di ridurre quelle relative al passato.

Se si tiene conto della presentazione politicamente corretta che ha avuto luogo in una sala di Montecitorio e di quelle che si sono celebrate in alcune librerie aperte al disinganno storiografico; se si considerano le interviste agli autori realizzate dai media non ostili alla diffusione di qualche pedagogica verità, questo libro non dovrebbe avere bisogno della réclame minimalista di un lettore qualsiasi. E invece sì, tutto fa brodo, perché “i giornali italiani nella stragrande maggioranza dei casi hanno fatto calare il silenzio su questo processo” dice Saverio Lodato quando lo intervista Joseph M. Benoit, un collega di La voce di New York: “Se gli italiani lo avessero conosciuto, se fossero stati informati durante il suo svolgimento […] probabilmente questo libro non avrebbe avuto modo di esistere”.

L’intervista di Saverio Lodato al pubblico ministero Nino Di Matteo si realizza a cose fatte: il 20 aprile 2018 la Corte d’Assise di Palermo ha emesso la sentenza, il 19 luglio ne ha depositato le motivazioni che sono contenute in 5252 pagine. Scaricare per credere:

www.giurisprudenzapenale.com/2018/07/20/trattativa-mafia-depositate-le-motivazioni.

Rinunciando alla laboriosità del riassunto per filo e per segno, vediamo di piluccare qualche dettaglio rattristante dal primo processo della storia giudiziaria italiana basato sulla incriminazione congiunta di mafiosi e funzionari dello Stato. Di Matteo ricorda che nel 2001 una intercettazione rivelò che Giuseppe Guttadauro, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, parlando con un capo di pari livello, aveva detto: “Ma a noi chi ce lo faceva fare di uccidere dalla Chiesa, sono altri che ce lo hanno chiesto”. Erano passati diciannove anni dalla uccisione del generale, la trattativa si era conclusa con la scalata al potere di Berlusconi, eppure a qualche “uomo d’onore” non andava giù che Cosa Nostra si fosse abbassata al ruolo di killer per conto terzi. Non gli andava giù che avesse accettato un do ut des indegno di una organizzazione ormai inserita nelle competizioni internazionali della droga, delle armi e della finanza. Chi erano questi altri? Chi erano quegli ineffabili addetti ai lavori che aggiunsero una nuova infamia alla storia politica italiana chiedendo la morte del generale? Omissis.

Di Matteo ricorda anche che Salvatore Riina, “quando si trovava negli spazi esterni del suo carcere, confidava a Lorusso [trafficante di stupefacenti, ma più noto come ‘badante di Riina’] ciò che non avrebbe mai confessato se avesse avuto anche il semplice sospetto di essere intercettato. […] E parlava anche della Trattativa. Diceva che era stato «cercato» dallo Stato e che, a quel punto, «io al governo dovevo vendere i morti». Chi si era presa la briga di cercare Totò Riina, alias U Curtu, alias La Belva? Chi era il capo del governo che avrebbe dovuto acquistare i morti da Riina? La risposta a questa ultima domanda si trova pure in Wikipedia.

I vertici di Cosa Nostra avevano dichiarato guerra allo Stato dopo che il cosiddetto maxiprocesso aveva dimostrato che anche loro erano passibili di ergastolo; lo Stato li aveva supplicati di cessare le ostilità; i vertici avevano giocato al rialzo; lo Stato cominciò a calare le brache; Cosa Nostra seguitò a compiere stragi terroristiche, a vendere morti, sempre assistita dai poteri occulti. E così ottenne la non proroga dei 334 decreti applicativi del 41-bis, cioè la fine del carcere duro, per gli appartenenti alla criminalità organizzata.

Perché non ci fossero dubbi circa la consapevolezza, da parte delle più alte cariche dello Stato, del movente delle stragi attuate nel 1993 a Firenze, Roma e Milano, bisognò aspettare fino al 28 ottobre 2014, quando si ottenne la escussione di un teste speciale, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che all’epoca delle stragi era presidente della Camera. Napolitano disse che lo Stato si era reso conto subito che Cosa Nostra aveva adottato la strategia del ricatto. Ossia, ammise di conoscere ciò che le più alte cariche dello Stato non potevano assolutamente ignorare. “Non era poco, non era scontato che lo dicesse” commenta Di Matteo. Infatti il presidente della Repubblica in un primo tempo aveva tentato di sottrarsi alle domande del pubblico ministero, ma quel giorno l’autonomia del “terzo potere” impersonata dai giudici della Corte d’Assise di Palermo prevalse sulla ragione di Stato e sulla reticenza dell’uomo, probabilmente pentito delle sue telefonate con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino che cercava di essere aiutato da lui a dimostrare di non aver saputo mai niente della Trattativa. Pentito al punto da chiedere e ottenere che fossero distrutte le registrazioni delle sue telefonate. Di Matteo aveva ascoltato quelle registrazioni, le custodì nella memoria. Bastava ciò che Napolitano aveva “confessato”. Era la conferma che lo Stato aveva interagito con la mafia fin da subito. Napolitano sapeva delle “consulenze” fornite a Cosa Nostra dalle “menti raffinatissime”? Omissis.

La fermezza di Di Matteo dinanzi alle alte cariche non passò inosservata, e forse questo fu il motivo inconfessabile per cui fu convocato a Roma nell’ottobre 2016, in pieno processo, affinché accettasse il trasferimento alla – da lui un tempo ambita – procura nazionale antimafia. Promoveatur ut amoveatur. La solita prassi grossolana, anche meschina, ma funziona. Motivo sbandierato della promozione? Lui era ormai il bersaglio di così persistenti minacce di morte che proteggerlo era diventato un problema di Stato. Gli occultatori perenni delle infamie della politica volevano assegnare al malleabile di turno il compito di sostenere, si fa per dire, l’accusa contro i vertici della mafia e i rappresentanti dello Stato responsabili della Trattativa. Di Matteo rifiutò. Il processo andò avanti, lui e la famiglia blindati a tempo pieno, pronunciò la requisitoria per due intere udienze. La Corte d’Assise di Palermo emise una sentenza che “avrebbe segnato il cammino dell’antimafia negli anni a venire”. Sì, negli anni a venire, perché ne restano ancora tante di infamie insabbiate. Chissà se questa sentenza di primo grado riuscirà a non farsi demolire dalle successive. Dagli anni Settanta a oggi quante sentenze di primo grado sono state disattese, eluse, umiliate, vilipese! Come se i giudici di prima istanza fossero dei giustizialisti per partito preso, capaci solo di seminare vizi di forma nelle loro sentenze, vizi che fortunatamente qualche occhiuta corte di cassazione individuava, assolvendo la quasi totalità dei criminali illustri che le capitavano a tiro. Eppure è da questa sentenza che “deve ripartire tutto”, dice Di Matteo, per giungere alla “individuazione di quei soggetti esterni a Cosa Nostra ma complici delle belve mafiose, che idearono, organizzarono ed eseguirono quei delitti”.

Ecco che siamo arrivati finalmente alla verità che questo libro si proponeva di farci conoscere: ancora non sono stati individuati i soggetti esterni a Cosa Nostra che si resero responsabili di quei delitti. Nella rete della sentenza da poco resa pubblica sono rimasti impigliati, fra gli esterni a Cosa Nostra, solo i pesci piccoli: alcuni ufficiali dei carabinieri. Quindi bisogna ripartire da zero.

Corrado Staiano, sul «Corriere della sera», commenta: “Per fortuna esistono ancora i libri. Ne è appena uscito uno che fa rabbrividire”. Rabbrividire? E perché? Perché Di Matteo ha evocato un momento della sua venticinquennale contrapposizione alla superbia della mafia in questi termini: “Vito Galatolo, guardandomi fisso negli occhi, mi disse: ‘Lei deve stare attento, perché noi siamo molto avanti’. E me lo ripeté: ‘siamo molto avanti. Abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini, i suoi movimenti a Palermo, e abbiamo pensato anche a un piano alternativo’. […] Gli feci una sola domanda: ‘Ma perché?’. […] E spiegò: ‘Ce lo hanno chiesto’ ”.

Ancora? Ebbene sì! Un’altra infamia da aggiungere al curriculum.

Ricapitoliamo: Cosa Nostra uccise il generale dalla Chiesa perché “altri” glielo avevano chiesto; uccise Falcone per fare un favore al Sisde, ricordate il foglietto con l’indirizzo del Sisde di Roma al quale rivolgersi in caso di problemi tecnici; uccise Borsellino per dare modo al dirigente della Mobile Arnaldo La Barbera di impossessarsi della sua “agenda rossa” nella quale erano annotati chissà quanti nomi di criminali di Stato; si preparava a uccidere Di Matteo perché glielo avevano chiesto. Più servizievole di così si muore.

Per la precisione, il tritolo preparato per Di Matteo proveniva dalla Calabria, fornitrice la ‘Ndrangheta, duecento chili. Galatolo disse che “per acquistarlo lui stesso ed altri mafiosi si erano tassati, famiglia per famiglia, per centinaia di migliaia di euro”, (per la precisione: la colletta ammontò a seicentomila euro). I pesci piccoli che trattarono più o meno direttamente con i vertici mafiosi erano alcuni ufficiali dei carabinieri del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale): se era stata una idea loro, chi li aveva autorizzati? Se non era stata una idea loro, chi glielo aveva ordinato? L’allora colonnello Mario Mori e l’allora generale di brigata Antonio Subranni sono stati condannati a dodici anni di reclusione, l’allora capitano Giuseppe De Donno a otto anni. Condanne eque, perché la Corte non poteva non tenere conto del fatto che erano solo degli intermediari, degli strumenti del loro alto comando, a sua volta strumento di chissà quali altissimi strateghi. È vero che “non parlare nemmeno sotto tortura” è un modo di dire spiritoso, ma è illimitatamente credibile che costoro non parlerebbero nemmeno sotto tortura psicologica. Non sono dei pentiti di Stato, né lo diventeranno in seguito a offerte di sconti di pena. Probabilmente elaboreranno una propria epica basata sulla considerazione che, senza la trattativa condotta da loro, chissà la mafia quante altre stragi avrebbe perpetrato. Una considerazione di tutto rispetto (senonché, dice Di Matteo, “la trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò”: affermazione convalidata (suppongo, perché ancora non l’ho letto) dal libro intitolato Padrini fondatori (sottotitolo: La sentenza sulla trattativa Stato-Mafia che battezzò col sangue la Seconda Repubblica) di Marco Lillo e Marco Travaglio uscito il 6 dicembre 2018: oggi è il 7). Probabilmente sorvoleranno sul fatto che prima della loro entrata in campo c’erano già stati degli inammissibili scambi di favori tra i servizi segreti e Cosa Nostra. E sorvoleranno anche sul fatto che mentre era in corso la trattativa nella quale si giocavano l’anima, i servizi segreti avevano prodotto altri depistaggi e altri misteri. Naturalmente anche loro agli ordini del solito alto comando, a sua volta dipendente dal comando dei comandi.

Nella terza parte del libro Saverio Lodato dà la caccia a tutti gli stratagemmi sotterranei volti a impedire la continuazione del processo. L’articolo Quarant’anni di Stato-Mafia e Mafia-Stato è un esempio di giornalismo storiografico da proporre a coloro che aspirino a essere considerati persone da bene, e che si ribellino ai manovratori dello Stato che vogliono addomesticarli al non capire. È anche uno sfogo che può fungere da legato testamentario, visto che c’è carenza di maestri, di qualsiasi pensiero, che tramite la tempestività del dissenso e della critica sappiano indicare il modo di reagire alla infantilizzazione dei cervelli indotta dalla “cultura” di regime. Lodato racconta che fin dall’inizio del processo si crearono guerre di magistrati contro magistrati, di giornalisti contro magistrati, di esponenti politici contro magistrati, di negazionisti della trattativa contro i magistrati che la stavano sviscerando. Per storicizzare il fenomeno precisa che “la favoletta della mafia contrapposta allo Stato (e viceversa) che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa, andrebbe sostituita da ben altra narrazione: sono sempre esistiti, in Italia lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato. E mai come in questo momento le due entità sono diventate simbiotiche”.

Per dare a ciascuno il suo, lasciatemi citare quello che scrisse Napoleone Colajanni, garibaldino quindicenne e poi deputato del partito repubblicano, nel suo libro intitolato Nel Regno della Mafia, pubblicato centodiciotto anni fa: “Per combattere e distrurre il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della Mafia”.

Lodato, nel dicembre 2014, per esprimere tutta la rabbia che le compassione per i tremori altrui può racchiudere in sé, ma senza dimenticare che “lo stile è l’uomo”, scrisse un mesto articolo intitolato Il Nuovo Anno di un condannato a morte, nel quale si rammaricava che le quattro autorità più alte della Repubblica: Giorgio Napolitano, Pietro Grasso, Laura Boldrini, Matteo Renzi, non avessero sentito il dovere di rivolgere un pensiero, di telefonare un augurio per l’Anno Nuovo, al pubblico ministero del processo in corso sulla trattativa tra Stato e Mafia, cioè a Nino Di Matteo, per il quale era stato predisposto un attentato che non avrebbe avuto nulla da invidiare a quello di Paolo Borsellino.

Il trapanese Matteo Messina Denaro, il capo di Cosa Nostra, “ha chiesto alla mafia palermitana di uccidere Di Matteo, ma a Messina Denaro chi è che glielo ha chiesto?” Ci risiamo. La ruota delle morti on demand ha ripreso a girare. Fortunatamente l’Anno Nuovo temuto da Lodato non si è aggiunto alla trafila degli anni orribili d’Italia. Chissà se Di Matteo, ora che è sostituto procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, è ancora un condannato a morte a cui Cosa Nostra dovrà provvedere per conto terzi. Chissà se è in corso una nuova trattativa.

 

 

 

07/12/2018

2 pensieri su “Piccola Réclame antistragista

  1. 1) «scrisse Napoleone Colajanni, garibaldino quindicenne e poi deputato del partito repubblicano, nel suo libro intitolato Nel Regno della Mafia, pubblicato centodiciotto anni fa: “Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della Mafia”.
    2) «Dunque, se in un Paese esiste solo il servizio segreto legittimamente costituito, e si scopre che questo si rende responsabile di crimini, è ovvio che lo Stato ha scelto di delinquere, ossia che gli organi con responsabilità di governo hanno scelto di delinquere».
    3) «Cosa che è sempre accaduta e accade dovunque viga una dittatura militare, o fascista, o nazista, o stalinista. Durante il periodo delle stragi lo Stato italiano era gestito dal cosiddetto “criptogoverno”, cioè da un potere che dietro la facciata operava criminalmente. Ciò significa che durante il periodo delle stragi lo Stato italiano cessò di essere uno Stato di diritto. Questo è quanto».
    *
    Più che recensione, l’articolo di Franco Tagliaferro è un riassunto del libro. E mi va benissimo così. Sulle stragi in Italia sono usciti centinaia di libri, a partire da molto prima del 1978. Basti ricordare la strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e molto più indietro la strage del teatro Diana, sempre a Milano, del 23 marzo 1921. Ma la letteratura stragista è antica quanto l’invenzione della scrittura e le stragi fanno parte della storia. Ed è una storia in cui lo Stato, o il potere statuale sotto qualunque forma costituito, ha sempre svolto un ruolo attivo.
    Ora di complicità con la cosiddetta criminalità comune e organizzata, ora di contrasto, ma per motivi di concorrenza e non per eliminare la criminalità stessa. In realtà lo Stato è sempre stato la principale organizzazione criminale, e i peggiori e maggiori crimini, tipo le guerre, le imprese coloniali ecc. ecc., sono opera dello Stato.
    Mi si dirà: sono cose diverse. Sì, diverse. Ma non è pensabile, e la storia lo dimostra, che chi manda al macello milioni di persone in nome di interessi eticamente insostenibili abbia timore a compiere anche delitti “comuni”, come uccidere e far uccidere chi gli dà fastidio.
    Quando scende a questo livello lo Stato cessa di essere uno Stato di diritto? Sì e no. Sì, perché la legalità è offesa e da parte di chi la dovrebbe difendere. No, perché la legalità del diritto statuale non è una legalità “neutra” e tantomeno “giusta”; il suo scopo principale è la difesa dello Stato e dei padroni dello Stato, non la difesa dei cittadini.
    Ma lo Stato, mi si dirà ancora, compie anche opera “necessaria” di difesa e di amministrazione ed è pertanto indispensabile. La compie, è vero, ma nell’ambito di una logica in cui la difesa dello Stato (cioè la difesa degli interessi delle persone che controllano lo Stato come apparato), prevale su quella della difesa dei cittadini (cioè dello Stato come comunità di cittadini). In sostanza si comporta come ogni mafia, ogni organizzazione criminale che controlla un determinato territorio: impone dei “servizi” sulla base dei quali fonda la sua pretesa, sostenuta dalla violenza, di riscuotere tangenti.
    Gran parte degli importi fiscali pagati dagli italiani non corrispondono a un rimborso di servizi pubblici, e nemmeno a una redistribuzione di reddito a fini egualitari, ma costituiscono una vera e propria rapina i cui proventi vengono ripartiti con criteri politici e clientelari creando grosse sacche di privilegio.
    Questa attività eticamente e politicamente criminale, ma formalmente legale in base al diritto positivo, non ha un confine nella legge, giusta o ingiusta che sia, ma per la sua stessa natura, per i suoi conflitti interni, per la concorrenza fra gruppi e correnti, per l’avidità dei molti, per la spregiudicatezza, per il modo in cui si seleziona la classe politica (la tendenza a delinquere è normalmente una caratteristica favorevole alla carriera politica; in molti casi è addirittura una caratteristica necessaria), oltrepassa quel confine e dalla criminalità legale passa a quella illegale. Ovviamente non tutti compiono questo passo, ma questo passo fa parte della politica, quando la politica è centrata sul potere e sull’organizzazione del potere; e ogni politico vive a stretto contatto con la possibilità e la necessità di delinquere, o almeno ne soffre la pressione e ne è complice, se non altro, con la propria contiguità e col silenzio.
    La politica in Italia (ma direi nel mondo, quando si parla di politica come corsa al potere e per la gestione degli apparati dello Stato) ha sempre a che fare con la propria delinquenza, a diversi livelli, che, in scala, dal meno grave al più grave, possiamo riassumere in questi punti:
    1) Politici personalmente onesti, che non compiono illegalità, ma che, per necessità di partito, di gruppo, di carriera o per altro diventano complici approvando leggi e provvedimenti ingiusti, pur essendo consapevoli di questa ingiustizia. Il primo livello è pertanto il contrasto fra la propria onestà e ciò che la politica chiede di fare. Non è ammessa l’obiezione di coscienza: o si esce dal giro o ci si piega.
    2) Politici personalmente onesti, ma che compiono azioni illegali per necessità di partito, di gruppo, di carriera o per altro. Si pensi alla diffusa, da sempre, pratica del finanziamento illegale dei partiti e della politica in genere, comune a tutti – dico tutti, senza distinzioni – i partiti e i movimenti politici che abbiano avuto un qualche peso nella storia d’Italia a livello istituzionale. Dal finanziamento illegale ad altre forme di illegalità, come la concessione di permessi edilizi non conformi alla legge, la manipolazione di provvedimenti amministrativi per favorire interessi illegittimi e così via.
    3) Politici personalmente a cavallo fra onestà e disonestà, cioè disposti ad azioni disoneste considerate però minori e giustificate, ai propri occhi, da ragioni di vario tipo, a volte anche da rapporti di amicizia. La lista delle illegalità che un uomo di potere può compiere illudendo se stesso di mantenersi onesto è lunghissima: va dalle infrazioni amministrative, dagli abusi di potere, dalle rivelazioni di notizie riservate, dalle raccomandazioni a forme anche più gravi di illegalità, fra cui la mancata denuncia di azioni illegali, la protezione di persone incriminate ecc. ecc. La storia italiana ci offre esempi abbondanti di tutte le fattispecie illecite e delittuose previste dai codici.
    4) Politici disonesti che, per favorire la propria carriera e il proprio successo / potere, si fanno complici di organizzazioni criminali, pur non essendo direttamente colpevoli delle azioni criminali di queste organizzazioni.
    5) Politici disonesti che, per favorire la propria carriera e il proprio successo / potere, non si limitano a forme di complicità con organizzazioni criminali, ma collaborano in modo più stretto con queste, rendendosi direttamente colpevoli, a volte come mandanti o suggeritori, di azioni criminali.
    6) Politici disonesti che fanno parte integrante di organizzazioni criminali (mafia ecc.), collaborano e si rendono direttamente colpevoli delle loro azioni che contribuiscono a determinare nel momento della decisione e talvolta anche in quello dell’esecuzione e spesso in quello successivo per garantire immunità al colpevoli.
    *
    «Cosa che è sempre accaduta e accade dovunque viga una dittatura militare, o fascista, o nazista, o stalinista». Sì, è così. Ma è doveroso aggiungere all’elenco dei tipi di Stato anche lo Stato democratico. Stati come l’Italia, come la Francia, come gli Usa non fanno eccezione. Certamente il livello di criminalità dello Stato italiano non è lo stesso della dittatura nazista, tanto per fare un esempio. Ma al diverso livello quantitativo e qualitativo sottostà, comunque, un’analogia di comportamenti che trova il suo punto di partenza nelle logiche di gestione del potere e nelle forme centralizzate, statuali, del potere stesso.
    Pertanto la richiesta di “più Stato” per combattere la mafia è un assurdo logico, perché più Stato può solo significare più mafia. Magari, apparentemente, la mafia esterna allo Stato può anche diminuire, solo però se viene assorbita dallo Stato stesso e integrata al suo interno.
    Una caratteristica di certe dittatura sta proprio nell’estrema efficienza nel combattere la delinquenza “comune” (la delinquenza privata, dei singoli individui o dei piccoli gruppi). Ciò avviene quando uno Stato forte non ammette concorrenti e quindi non ammette complicità esterne. In questi casi (nazismo, stalinismo) tutta la delinquenza è direttamente espressione dello Stato e azione dello Stato e formalmente legalizzata.
    Legalizzata in forme pubbliche o in forme nascoste e segrete. Gli 007 con licenza di uccidere sono sempre esistiti e nessuno Stato vi ha mai rinunciato. Così come nessuno Stato ha mai rinunciato ai servizi segreti “deviati”, comoda etichetta giustificativa retrospettivamente per prendere le distanze dalle azioni sporche che lo Stato stesso ha ordinato.
    Ovviamente, dicendo che lo Stato stesso le ha ordinate, non intendo dire che tutti gli uomini e le donne dell’apparato statale ne sono stati colpevoli e consapevoli allo stesso modo. Anzi, spesso, certe decisioni sono prese entro una cerchia molto ristretta di persone, entro una nicchia particolare del multiforme apparato statale. Ma ciò non toglie che siano decisioni dello Stato e non, come viene detto in migliaia di film e telefilm americani e d’altri Paesi e in migliaia di cronache della realtà politico-criminale, decisioni di singoli o di piccoli gruppi “impazziti” che agiscono dall’interno, ma contro lo Stato e la sua logica.
    La logica dello Stato è quella di potenziare se stesso, in tutti i modi, anche nelle forme più criminali.
    Questa logica non ha mai una valida contrapposizione all’interno dello Stato stesso, ma può capitare che ne abbia nell’ambito dell’opinione pubblica e di singoli uomini e spezzoni dello Stato, magari in quel momento all’opposizione e in concorrenza con chi gestisce più direttamente il potere. O che ne abbia nella coscienza di singoli uomini i quali, in certe circostanze, riescono, siano politici o siano magistrati, ad agire contro la criminalità anche quando è criminalità di Stato.
    La forza effettiva di queste forze “contro” dipende da tutta una serie di circostanze, delle quali le più determinanti sono il livello di centralizzazione del potere (più il potere è centralizzato e più difficile sarà il sorgere delle forze contro la gestione criminale del potere), la forza dell’opinione pubblica (il vero e unico cane da guardia che può ostacolare il potere, ma talvolta però – fascismo e nazismo insegnano – lo possono anche appoggiare), l’autonomia effettiva di apparati dello Stato (innanzitutto della magistratura) e della stampa (in particolare del giornalismo investigativo).
    Tutte queste dinamiche intrinseche al potere e alla lotta per il potere sono la trama effettiva di molte stragi, di crimini di mafia, di uccisioni di testimoni e di giornalisti, ma anche di attività formalmente legali, come gestione di imprese commerciali, di finanziamento di partiti, di giornali e di altri mezzi di comunicazione, di distribuzione di appalti, di attività lobbistiche ecc.
    Conoscere le cronache reali, i singoli avvenimenti, i nomi e i cognomi, le personali responsabilità è utile e tutti i libri che ce ne svelano qualcosa sono benvenuti. Ma non bisogna dimenticare mai il ruolo centrale dello Stato e tantomeno illudersi che “più Stato” possa risolvere il problema. Il problema non è di quelli che ammettono una soluzione netta, ma solo un’approssimazione. Cioè non la eliminazione ma una diminuzione dei livelli della criminalità. E ciò richiede meno Stato e più libertà e responsabilità dei cittadini nella gestione di se stessi, della società civile e della cosa pubblica.

  2. Il mio destinatario più ambito, tra i tanti inutilmente ipotetici, era qualcuno che non avesse mai letto nulla di specifico sulla mafia e sulle sue connessioni con lo Stato italiano, e che, trovandosi sotto gli occhi un‘articolessa sull’argomento, approfittasse dell’occasione per farsi una idea meno generica di quelle assorbite in automatico dai media.
    Questo mio destinatario di elezione ovviamente non avrebbe mai preso in mano i libri da me reclamizzati, per cui ho pensato di facilitargli l’informazione abbondando in citazioni dai testi e in notizie correlate, evitando ovviamente le analisi a largo raggio.
    L’intenzione di intrattenere questo mio destinatario di fantasia con una esposizione non superficiale, ma pur sempre di stampo giornalistico nonostante la sua prolissità, l’ho avuta, lo ammetto. Il che significa che ho ritenuto necessario prescindere da una trattazione dottrinaria della politica nella sua essenza e nella sua prassi.
    Il professor Luciano Aguzzi ha preso lo spunto da alcune mie frasi per oltrepassare la ristretta fenomenologia dell’articolo e illustrare ciò che ogni cittadino pensante dovrebbe sapere, per cui gliene sono grato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *