Laboratorio italiano

 

di Giorgio Mannacio

1.
M’intrometto, prendendo spunto dal “ poema “ a due mani Lucini – Passannanti (qui) ma anche dalla poesia di Sagredo (qui) per osservare che di ben altra attualità e valenza è l’esame della situazione politica italiana. Vero laboratorio (in negativo ) su concetti fondanti della politica.
Quale che sia il giudizio di merito sull’attuale Governo – il mio è totalmente negativo – mi sembra più importante cercare di enucleare nelle caratteristiche di esso e nel suo modo di occuparsi della cosa pubblica alcuni tratti significativi per una discussione di tipo generale.

2.
Rispetto a Salvini si parla di Fascismo, formula approssimativa coerente con l’uso improprio del linguaggio che sembra dominare ogni campo delle nostre esperienze. Quando si fa riferimento ad un movimento storicamente determinato in ogni sua componente ( cause ed effetti ) ogni paragone tra oggi e ieri diventa erroneo e – al limite – addirittura fuorviante.
Se parlo – rispetto alla diarchia Salvini – Di Maio- solo del primo ciò faccio per una precisa ragione.
E’ chiaro a tutti – anche ai meno avvertiti osservatori – che la gestione della politica italiana nell’attuale momento è appannaggio esclusivo del capo della Lega. Sua la visione di come dovrebbe essere l’Italia nel prossimo futuro; sua la coerente strategia a tale visione predisposta; suo – anche negli epifenomeni quotidiani – l’esercizio del potere. Si potrebbe dire che anche la joint venture con il M. 5 Stelle è una degli strumenti che sta utilizzando per conservare la propria supremazia assoluta. L’ordine pubblico e la sicurezza sono o sono stati i suoi trampolini di lancio ma una volta nello spazio Salvini si sta accaparrando altri spazi e tra questi quello centrale dell’economia. Ha azzerato l’unica opposizione teoricamente esistente che è quella del M.5 Stelle attirato nel trabocchetto della condivisione di potere che non può essere praticata da uomini come Di Maio, privi di ogni capacità politica.Si aggiunga che quella che per comodità si chiama “ sinistra “ non ha – da parte sua – neppur tentato di intercettare quei deboli segnali di “ socialità “ che in tale movimento sembravano o sembrano sopravvivere. L’inconsistenza culturale e politica del M.5 Stelle si manifesta – e non a caso – anche nel linguaggio. Di Maio – come Salvini ma non con la coerenza di costui – rifiuta il soccorso degli organismi di mediazione che nelle democrazie liberali ( uso sempre termini che consentono un discorso in qualche modo comune ) consentono un certo controllo all’indiscriminato ricorso alla volontà popolare. Posto che l’intelligenza politica si presume, come l’innocenza, fino a prova contraria, si può anche pensare che che Salvini e Di Maio litighino fino al momento di impossessarsi del bottino ( il potere ) e che quindi Di Maio non meriti una valutazione diversa da quella che manifesto per Salvini: rispetto a quest’ultimo non sa giocare bene le sue carte .

3.
Dato che Salvini ha ricevuto dal popolo maggior numero di consensi rispetto a quelli ricevuti da altri partiti ( a parte il M.5 Stelle ) si dice che la Lega governa ( assieme al M.5 Stelle ) democraticamente.
Questa affermazione – teoricamente corretta – va letta nella duplice connessione con le prassi applicative di essa e con le scelte di valore che in nome di essa vengono compiute.
Avverto subito che con l’espressione “ scelte di valore “ non intendo riferirmi a vaghe concezioni giusnaturalistiche ( molto spesso soggettive ) ma a prese di posizione oggettivamente definite dai patti fondativi di una certa comunità politico-sociale (esemplificativamente: le Costituzioni nazionali ).
Osservo subito che già nella terminologia in uso il linguaggio di Salvini rivela l’assoluto disprezzo per la minoranza. Quando il capo politico della Lega dice di parlare in nome di 60 milioni di Italiani ( in pratica: l’intera popolazione d’Italia ) non compie un errore ma opera una scelta politica. Posto che i suoi elettori NON SONO 60 milioni ma molti, molti di meno l’espressione significa questo: il numero risultante dalla sottrazione dai 60 milioni del numero dei miei elettori non conta nulla o meglio il numero dei miei elettori si identica con la totalità della popolazione italiana. Insomma si tiene conto dell’adunata, cioè solo di quelli che sono presenti sotto il balcone dell’autorità e applaudono.
Quando – e a più riprese – Salvini contesta le critiche di alcuni poteri (istituzionali o di fatto ) invitandoli a tacere perché “ non eletti “ mostra un’inequivocabile intolleranza verso la critica che è concettualmente massima allorquando essa è rivolta contro poteri istituzionali non elettivi ( Giudici costituzionali o ordinari ; gestori di funzioni di utilità pubblica ) o formazioni sociali portatrici di interessi collettivi ( sindacati, giornali etc ) o contro comportamenti ritenuti meritevoli di tutela ( libertà di riunione e di stampa ).
Quando – passo alla categoria dei valori “ oggettivi “ – si disconoscono le tutele formali e/o sostanziali di un soggetto a causa della diversità di religione, posizione sociale, sesso etc., si va contro la Costituzione e – dunque – contro la stessa maggioranza che si vorrebbe rappresentare posto che le costituzioni sono il patto originario che TUTTI MA PROPRIO TUTTI dovrebbero rispettare.
Il capo della Lega non enuncia espressamente adesione ad una concezione “ ideologicamente di estrema destra autoritaria “, ma si comporta come se lo facesse. Lo fa secondo diverse modalità e direzioni. Lo fa manifestando solidarietà verso formazioni partitiche o aggregazioni sociali di tale tipo ( Le Pen, Orban, Casa Pound e meno direttamente verso manifesti illiberali come Putin o Trump ). Lo fa manifestando abilmente una sorta di paternalistica tolleranza nei confronti dei “ diversi “ scegliendo tra costoro chi merita rispetto e chi no. Lo fa
adottando o suggerendo ciò che dice Di Maio: non sei stato eletto dal Popolo e dunque taci e lasciami lavorare. In questa pretesa va contro la struttura costituzionale che tende ad assicurare strumenti di controllo di provenienza non elettiva. Lo fa infine nel linguaggio spesso truculento.
Salvini non dice: se avanzo seguitemi; se resisto aiutatemi; se indietreggio uccidetemi ( se non erro: Mussolini ) ma poco ci manca. Lo fa plaudendo in modo plateale agli atteggiamenti illiberali o addirittura incivili di altri consociati….Ciascuno può aggiungere un tassello al mio scarso mosaico.
Ci sono anche altre spie di orientamenti illiberali come la proposta modificazione delle norme sulla legittima difesa ( che apre un pericoloso spiraglio sull’indiscriminato uso delle armi) e sulla prescrizione dei reati ( la cui riduzione non sembra in linea con l’interesse collettivo alla sicurezza ).

4.
Quale può essere la deriva di tale situazione ? La democrazia nel suo senso originario di “ governo del popolo “ si presta a degenerazioni – nessun tipo di governo è esente da pericoli – laddove si creino tra essa ed altri poteri delle saldature di interessi di vario tipo e qualità. Penso che ciò sia difficile data la struttura geopolitica dell’Europa, ma – in proposito – non ho idee chiare fino in fondo. Quello che temo come esito molto probabile è un ulteriore deterioramento dei costumi civile, un aggravamento dell’intolleranza, in una parola l’imbarbarimento inavvertito e tollerato come esito naturale dello “ stato delle cose “. Resta come oggetto di meditazione la parte più importante: cosa fare ?

9 pensieri su “Laboratorio italiano

  1. SEGNALAZIONE

    A proposito di “Salvini fascista”, oltre a rimandare al libro di Claudio Vercelli, “Neofascismi” (vedi Poliscritture FB nella colonna qui a destra: https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/2269523193299173/ ), aggiungo questo stralcio dal saggio di Guido Mazzoni pubblicato oggi su Le parole e le cose
    ( http://www.leparoleelecose.it/?p=34434):

    La separatezza è il nucleo dei populismi di destra fin dagli slogan (America first, La France aux Français, Britain first, Prima gli italiani) e a maggior ragione nelle scelte politiche. E’ sbagliato interpretare questi movimenti alla luce del fascismo storico. Se è indubitabile che l’attrazione per la personalità autoritaria, che un elemento di fascismo eterno faccia parte del discorso populista, è altrettanto innegabile che manca del tutto quella soggezione dell’individuo allo Stato che era caratteristica fondamentale dei fascismi storici. E’ difficile immaginare i leader di questi movimenti in uniforme militare, non perché in quei movimenti manchi il culto della forza autoritaria, ma perché l’esercito non è il modello di vita cui i populismi di destra si ispirano e che desiderano. Al fondo c’è una forma di individualismo anarcoide di destra uguale e contrario all’individualismo anarcoide di sinistra: la società è un aggregato di individui e famiglie, come nel modello liberale classico, ognuno si sente autorizzato a esprimere il proprio egoismo personale, familiare o microcomunitario, ma nessuno è disposto a sacrificarsi per un principio collettivo; lo Stato è un nemico potenziale e dev’essere minimo. Il modello cui i populismi di destra guardano non è il fascismo storico, sono piuttosto le gated communities che si proteggono dal mondo esterno; e il dispositivo di potere cui guardano non è l’esercito, ma la polizia. (In questo senso, l’amore di Salvini per le felpe della polizia ha un valore allegorico proprio come le divise che Mussolini indossava durante i comizi. C’è anche da dire che Salvini alterna le felpe della polizia alle felpe col nome della città o del paese in cui parla, o con le magliette del Milan, e anche questo ha un significato allegorico). I populismi di destra contemporanei non vogliono le mobilitazioni generali, le adunate militari, i bambini in divisa e il sabato fascista: vogliono una forma più o meno blanda di apartheid. Il rifiuto dello ius soli è questo: una forma di apartheid. Al fondo c’è l’ethos arcaico e tribale dei primi occupanti, quello che separa Noi e Loro, autoctoni e barbari, chi è arrivato prima da chi è arrivato dopo. Questi movimenti sono il rovescio e insieme il compimento del liberalismo classico: ne esasperano l’individualismo anarchico ma lo fanno su base territoriale e identitaria, senza rispettare né l’altro, né le procedure che regolano i rapporti fra estranei o fra concorrenti e che, nel liberalismo classico, hanno valore universale. E’ significativo che chi partecipa a questi movimenti discrimini i non-indigeni ma poi lamenti la discriminazione simbolica del ceto medio liberal verso le classi popolari indigene, e questo proprio perché è saltato ogni principio universale di coerenza e conta solo la propria particolarità. Così facendo, i populismi mostrano quanto sia fragile il rispetto per l’altro quando l’altro è un estraneo da tollerare o un concorrente da combattere.

  2. Sì, per ora è un individualismo anarcoide, almeno fin che il consumismo sarà l’unico keynesismo tollerato. Poi potrebbero essere Notti di Cristallo, e poi… Almeno fin che non si compiano quei collegamenti tra insorgenze di massa e vecchi schemi socialisti che invece quasi cento anni fa non riuscirono.

  3. …indossa la felpa della Polizia e poi stringe amichevolmente la mano a un pregiudicato, dichiarando sfrontatamente di essere “un indagato tra gli indagati”. Con queste e altre contraddizioni – dice di”proteggere dai temibili” e abbraccia i temibili, di “protegge i poveri” e difende gli interessi dei ricchi, di difendere la famiglia e l’infanzia e appoggia la discriminazione nelle mense…- cattura la fiducia sempre più crescente degli italiani offrendo un modello scaduto di padre e di essere umano…

  4. Stavo completando un lungo e articolato intervento scrivendo direttamente nell’apposito spazio del sito, quando, non so se per mio errore o per collasso del sito o di altro, tutto il testo già scritto è scomparso e non so come recuperarlo, se è recuperabile.
    Ora, alle quattro di notte, tenterò di ricostruirlo riscrivendolo a parte e riportandolo nel sito con il copia-incolla.
    Parto dall’affermazione: «E’ sbagliato interpretare questi movimenti alla luce del fascismo storico», che condivido. Condivido soprattutto perché l’interpretazione corrente del “fascismo storico” mi sembra sbagliata e fuorviante. Ma un accostamento potrebbe invece essere utile se si interpreta il “fascismo storico” per ciò che effettivamente fu.
    Fu un rapido cambiamento di paradigma ideologico che in pochi anni ottenne l’appoggio della maggioranza della popolazione (e non solo dei ceti della destra classica, degli agrari e degli industriali conservatori ecc.). Mussolini, come molti altri fascisti della prima e della seconda ora, veniva dal socialismo e si considerò un “socialista rivoluzionario” almeno fino al 1922.
    Il fascismo fu un’autentica rivoluzione e una delle utopie catastrofiche del Novecento, trasformatesi rapidamente in distopie. L’elemento socialista rimase parte integrante del fascismo fino alla sua caduta nell’aprile del 1945. Lo “Stato corporativo” fu elaborato e realizzato come “giusta via” fra gli eccessi del capitalismo liberale e del bolscevismo. La stessa esperienza bolscevica non fu estranea al fascismo, che si considerò una rivoluzione parallela a quella russa. La sinistra gentiliana, ad esempio Ugo Spirito, prestò molta attenzione, ed anche qualche simpatia, alle idee del comunismo russo. Uno storico come Delio Cantimori passò dalla scrittura di articoli fascisti (fino al settembre 1943) alla scrittura di saggi rigorosamente marxisti (dal 1945), non perché fosse un volgare voltagabbana, ma perché convinto che il nocciolo duro dei valori che aveva difeso come fascista ora poteva continuare a difenderli come leninista.
    Il fascismo ha inglobato in sé, dandogli una sua interpretazione, molti elementi della tradizione di sinistra: giacobinismo, Stato etico, Stato sociale, compartecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia, anticapitalismo e antiliberismo ecc.
    Ma della tradizione socialista ha rifiutato l’internazionalismo, il materialismo e l’antispiritualismo, valorizzando – e qui subentrano elementi della destra – il nazionalismo, il riscatto della nazione dalle umiliazioni subite e la “necessità” di riconquistare il ruolo che le spetta nella storia. Oltre alla tradizione, anzi al primato della propria tradizione fatta risalire addirittura al mito imperiale romano.
    Ma anche in questi elementi di “destra” vi erano suggestioni di “sinistra”. Basti pensare alla sinistra italiana non socialista e non marxista, cioè ai movimenti mazziniani, repubblicani, radicali e irredentisti (compreso il socialismo di Cesare Battisti e di altri analoghi protagonisti di quegli anni). Era presente un nazionalismo di sinistra di lunga data e di forte presenza. L’opposizione al positivismo scientista e materialista portò alla maturazione di un clima ideologico diverso che si espanse e concretizzò nel corso del primo anno della Prima guerra mondiale. La catastrofe della guerra fece precipitare le cose e rese obsolete le ricette socialiste e comuniste. Il socialismo, sia nella versione del Psi e degli altri partiti della diaspora socialista fra il 1914 e il 1925, sia nella versione del Partito comunista d’Italia, si presentano agli occhi dell’opinione pubblica sempre più come partiti completamente staccati dalla realtà e come grave minaccia al futuro del Paese. Minaccia che portò anche i liberali e i movimenti cattolici, in gran parte, a confluire nel fascismo, sia pure in modo inizialmente strumentale.
    Il fascismo si presentò e fu accolto come rivoluzione popolare. Non per nulla, fino al 1921, la maggior parte degli iscritti fascisti proviene dalle file della sinistra: ex socialisti, anche ex comunisti, ex mazziniani, ex radicali ecc. Successivamente al mussolinismo si aggiunsero altre correnti del fascismo, ad esempio il fascismo agrario e squadrista di Balbo, Starace e Farinacci. Mussolini, agile opportunista e però capace di intuizioni precise e di decisioni rapide, integrò tutte le diverse forze e provenienze nella sua linea politica potenziando gli elementi nazionalisti e di destra, fino ad arrivare all’antisemitismo e all’alleanza con il nazismo di Hitler. Ma si distinse sempre dalla destra tradizionale e non rinunciò mai ad alcuni elementi ideologici del suo passato socialista e al paragone della rivoluzione fascista con quella bolscevica, che lui interpretava come rivoluzione nazionalista (l’internazionalismo di Lenin è per lui solo di facciata, solo propaganda) e asiatica. E dall’impronta asiatica gli derivava il dispotismo comunista, il materialismo, lo spirito antieuropeo e antioccidentale e quindi la ricerca del riscatto nazionale in chiave antioccidentale e anticristiana.
    Mutata completamente la situazione storica, a cento anni di distanza, abbiamo assistito a un cambiamento del paradigma ideologico altrettanto profondo. Ora l’avvenimento più eclatante e scatenante è la globalizzazione, che la sinistra ha sostanzialmente accettato e al cui servizio si è posta, sia pure con varianti marginali. Avvenimento preceduto dalla fine dell’Urss e dalla caduta dei “muri”, che è caduta delle speranze nel comunismo sovietico e nelle sue imitazioni in altri Paesi, Italia compresa.
    Il “popolo delle periferie” si è sentito e si sente sempre più emarginato economicamente, ma anche nella propria identità culturale, nelle proprie tradizioni, nei propri diritti democratici e, in forme spesso confuse e molto variabili, ha dato e dà vita a movimenti di opposizione trasversali alle sinistre e destre della tradizione e dei partiti del Novecento. Anche in questo caso vi sono elementi innovativi (come nel caso del fascismo, non si tratta di semplice reazione, ma di un complesso e profondo fenomeno di difesa, di valorizzazione, di promozione di istanze politiche, economiche e culturali che si contrappongono al globalismo e alle sue versioni imperialistiche).
    La Brexit, l’elezione di Trump, i gilet gialli francesi, la vittoria elettorale del M5S e della Lega (una lega nazionalista e sempre più lontana dalle sue premesse federaliste e secessioniste del primo Bossi e delle teorie di Gianfranco Miglio) sono tutti eventi di questa diffusa opposizione al globalismo.
    La divisione si radicalizza e quasi assume valenze antropologiche. I due poli opposti diventano, da un lato, quella parte della popolazione, concentrata soprattutto nelle grandi città, che pensa “globale”, che colloca i suoi interessi materiali e le sue preferenze culturali in un mondo sempre più globalizzato, dove non ci sono confini, nazioni, patrie e identità ma dove Londra equivale a Berlino o a New York o a Hong Kong, secondo le opportunità del momento. Questa parte della popolazione non ha cura delle periferie, che ignora, o se ne prende cura solo in modo strumentale, per tenere a freno l’opposizione. Ritiene che la cultura delle periferie rappresenti una chiusura residuale destinata a sparire, o al massimo a diventare folclore da museo e da sagra turistica. Nei confronti di queste periferie mette in atto una vera e propria politica imperialistica che mira a sovvertire e distruggere i legami comunitari, le tradizioni, la capacità di organizzarsi e di opporsi. Che mira, insomma, a trasformare il popolo in moltitudine disgregata e senza memoria.
    Dall’altro lato si ha la popolazione delle periferie portata, direi istintivamente, a difendere i propri interessi materiali come le proprie tradizioni, l’identità e la possibilità di pesare sulle decisioni politiche. Ma sull’ideologia delle “periferie” non pesa, come molti sembrano credere, il pregiudizio, il ritardo culturale, le pulsioni xenofobe e via dicendo. Sono i globalisti che vogliono far credere questo. Sull’ideologia delle periferie pesano problemi reali, concretissimi e quotidiani, che hanno il loro centro nelle difficoltà economiche, nel degrado delle condizioni di vita, nell’insicurezza materiale e psicologica, nella mancanza di prospettive, nel disagio di vedere le forme di vita in cui si riconosce sparire giorno per giorno. La presenza di una forte immigrazione non controllata e non integrata è solo uno degli aspetti, ma è anche il più visibile. Ciò porta al fatto che il tema dell’immigrazione abbia un peso forte negli orientamenti elettorali.
    Se molto elettorato di sinistra (ma anche del centro e della destra berlusconiana) ha votato nelle ultime tornate elettorali per i Cinque stelle e per la Lega, non è perché si è convinta della loro proposta programmatica, ma perché non ha alternative migliori per esprimere il proprio disagio e cercare di difendersi in qualche modo. Ma oltre lo stesso orientamento elettorale vi è un orientamento culturale complessivo – per questo ho parlato di cambiamento di paradigma – che investe anche la Chiesa cattolica, la cui politica di larga accoglienza degli immigrati ha scontentato anche gran parte degli stessi cattolici praticanti (ormai ridotti a una piccola minoranza pure in Italia).
    Insomma, il “popolo delle periferie” si sente sempre più spaesato nel proprio Paese, sempre più arrabbiato, sempre più chiuso in un lager i cui confini sono metaforici perché non c’è filo spinato, ma realissimi in quanto oppressione fiscale e burocratica e deprivazione di ogni forma di ascolto e di possibilità di far pesare le proprie opinioni.
    Sentono l’Unione Europea da un lato come forma di difesa contro la demagogia economica nazionale, e per questo gli indici di gradimento pro-euro sono aumentati; ma dall’altro come potere lontano e nemico che ha bisogna di una radicale riforma.
    Anche l’immigrazione è vista, contro la cecità del vecchio umanitarismo socialista e cattolico che esprime una solidarietà che non ha possibilità di concretizzarsi positivamente, come un’operazione imperialistica a danno sia dei Paesi di origine sia dei Paesi di arrivo. Ma nella Chiesa e nei partiti di sinistra la “periferia” non trova un progetto di solidarietà, sì, ma anche di opposizione all’imperialismo globalista; una solidarietà che non si trasformi nella catastrofe quotidiana della sovversione e del degrado della vita delle periferie, delle persone che non hanno le risorse di difesa dei globalisti.
    Tutto ciò non riguarda solo i ceti più umili e più poveri. Se diamo un’occhiata oltre le periferie delle grandi città percorrendo quelle della nazione, del territorio, percorrendo cioè le piccole e medie città, i paesi e i borghi disseminati in tutte le regioni italiane, scopriamo che il passaggio dal voto ai partiti di sinistra al voto per il M5S e la Lega riguarda anche intellettuali e ceti benestanti che, nelle piccole realtà, sono più legati alle proprie tradizioni. Gli ultimi decenni hanno visto tutto un fiorire di Pro Loco, di associazionismo locale, di promozione dell’uso del dialetto, di riscoperta di tradizioni, di feste e sagre ed eventi legati alle tradizioni locali ecc. Spesso, nella valorizzazione delle tradizioni locali incontriamo anche sindaci e giunte comunali di sinistra e le organizzazioni cattoliche. Ma poi questo interesse, quando è preso sul serio ed evade dalla giornata folcloristica ad uso dei turisti, è smentito dalle politiche sociali ed economiche di quelle stesse giunte. Ad esempio in alcune regioni le giunte di sinistra stanno attuando piani per la sanità regionale che prevedono l’accentramento in grosse strutture ospedaliere nei capoluoghi o in pochi città, lasciando morire tutta la rete ospedaliera attuale e chiudendo ospedali esistenti da decenni e in qualche caso da secoli. Si è arrivati all’assurdo che in città di oltre 40mila abitanti le partorienti, per partorire, devono recarsi al capoluogo, in qualche caso lontano anche venti o trenta chilometri, perché nella propria città non vi è più nessuna struttura ospedaliera di ginecologia e ostetricia. Così, in futuro, tutti gli abitanti di quelle città avranno, nel proprio certificato di nascita, il nome di un’altra città come luogo di nascita.
    Qualcuno dice che si tratta di cose banali? Sì, lo dice. Ma giustamente gli elettori votano per la conservazione del proprio ospedale e delle altre strutture sociali ed economiche che il globalismo tende ad eliminare perché considerate di livello inferiore allo standard richiesto. Ma che standard è quello che, per eseguire una tac, o per ingessare una gamba rotta, o per partorire, ti obbliga a recarti a decine di chilometri di distanza, in megastrutture dove sei trattato come un oggetto qualsiasi e dove, salvo i casi di assoluta urgenza, devi aspettare mesi prima di essere ammesso alla prestazione sanitaria richiesta?
    Il “popolo delle periferie” non riesce a convincersi che questo sia fatto per il suo bene e che il suo disagio sia solo immaginario, frutto del pregiudizio.
    Il paragone fra Salvini e il fascismo, incongruo in sede storica, può assumere un certo valore se si paragona il disagio degli italiani del 1919 a quello di oggi, delle mancate o errate risposte dei partiti socialisti e “democratici” e del potere seduttivo che ha svolto la promessa fascista di una rivoluzione radicale e popolare.
    L’alternativa – la risposta al “che fare?” – non sta nel preteso illuminismo della sinistra alla Renzi o alla Grasso o alla Boldrini, ma nel dare ascolto al “popolo delle periferie”. L’Italia conta circa ottomila comuni e almeno 7.950 possono considerarsi “periferia”. Dare ascolto al “popolo delle periferie” e prendere in esame la necessità di rivoluzionare il sistema di potere e di governo, eliminando gran parte dell’attuale centralismo statalista e muovendosi verso forme di federalismo comunale che, se non realizzano la “democrazia diretta”, certamente vi si avvicinano.
    Da questo punto di vista non posso concordare con Mannacio che difende l’attuale Costituzione italiana. Concordo sulla necessità di osservarla finché non si riesce a cambiarla, ma credo che vada cambiata radicalmente. Perché l’attuale Costituzione è l’espressione compromissoria della partitocrazia imperante nel 1947; perché è nata già vecchia, elaborata da politici e giuristi che hanno guardato più alle loro spalle che al loro futuro; perché contiene gravi limitazioni della sovranità popolare scippata dallo Stato come apparato e dai partiti (burocrazia e classe politica elitaria); perché di fatto vige una Costituzione in senso materiale sempre più lontana dalla Costituzione scritta.

    1. Tocco velocemente solo tre punti del complesso intervento di Luciano Aguzzi. Quelli in cui egli pare tessere una strisciante revisione (non rivalutazione…) dell’immagine negativa del fascismo e riecheggiare con eccessiva simpatia le istanze del “popolo delle periferie” oggi tanto esaltate (a parole) dagli ambigui (o trasversali) populismi:

      1.
      Non mi convince l’ affermazioni: «L’elemento socialista rimase parte integrante del fascismo fino alla sua caduta nell’aprile del 1945». Né il credito che sembra concedere al “parallelismo” tra fascismo e bolscevismo (seguendo la moda revisionista che ha equiparato fascismo e comunismo). L’attenzione o la simpatia di Ugo Spirito per le idee del comunismo russo o il trasbordo indolore dalla scrittura di articoli fascisti a «saggi rigorosamente marxisti» dello storico Delio Cantimori farebbero davvero pensare che le ideologie siano intercambiabili e mere maschere, sotto le quali l’individuo intelligente potrebbe comunque perseguire i “valori” in cui crede o addirittura dei valori “universali”. Solo pensando questo, infatti, si può scrivere: «(l’internazionalismo di Lenin è per lui solo di facciata, solo propaganda». Trascurando però il dato fondamentale della strategia di Lenin tanto profondamente internazionalista da vedere la presa del potere in Russia solo come l’inizio della *indispensabile* rivoluzione in Europa.
      Di questo passo si possono assolvere tutti: Spirito, Cantimori, Heidegger.
      Il fatto innegabile che « il fascismo [abbia] inglobato in sé, dandogli una sua interpretazione, molti elementi della tradizione di sinistra: giacobinismo, Stato etico, Stato sociale, compartecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia, anticapitalismo e antiliberismo ecc.» andrebbe inteso come appropriazione, deformazione, mistificazione delle idee dei suoi avversari. Come del resto fece Hitler. E come farà, su un’altra sponda, Stalin per la costruzione de socialismo. Per analogia mi viene da pensare al passaggio dal paganesimo al cristianesimo, quando le basiliche romane vennero utilizzate per la costruzione di chiese cristiane. L’elemento – socialista o pagano – muta senso e se resta «parte integrante», diventa però inevitabilmente parte *subordinata*. Ed è quello che conta.

      2.
      Troppo disinvolta mi pare anche l’affermazione: « La catastrofe della guerra fece precipitare le cose e rese obsolete le ricette socialiste e comuniste. Il socialismo, sia nella versione del Psi e degli altri partiti della diaspora socialista fra il 1914 e il 1925, sia nella versione del Partito comunista d’Italia, si presentano agli occhi dell’opinione pubblica sempre più come partiti completamente staccati dalla realtà e come grave minaccia al futuro del Paese. Minaccia che portò anche i liberali e i movimenti cattolici, in gran parte, a confluire nel fascismo, sia pure in modo inizialmente strumentale.».
      Anche su questo punto il prevalere nell’opinione pubblica dell’interventismo sulle forze pacifiste o neutraliste o l’appoggio dei liberali al nascente fascismo viene in fondo presentato come aderenza alla “realtà”. Ma del PCdI gramsciano tutto si può dire ( insufficiente, di certo) ma non che andrebbe considerato “staccato dalla realtà”. ( A meno di non scambiare l’opinione della maggioranza prima all’interventismo e poi al fascismo come aderenza alla “realtà”).

      3.
      A me pare errato vedere « elementi innovativi (come nel caso del fascismo, non si tratta di semplice reazione, ma di un complesso e profondo fenomeno di difesa, di valorizzazione, di promozione di istanze politiche, economiche e culturali che si contrappongono al globalismo e alle sue versioni imperialistiche)».
      Allo stato attuale non credo che questo “popolo delle periferie” (fossero pure i combattivi gilets jaunes) si *contrapponga* al globalismo e alle sue versioni imperialistiche. Svela un disagio, una insofferenza, del motivato rancore ma non ha maturato alcuna alternativa. Mi pare che colga bene questa fumosità Mazzoni, che nel saggio che ho segnalato sopra scrive in merito e dalla sua ottica (“socialdemocratica”): « I movimenti populisti di oggi non sembrano avere un’ingegneria sociale, cioè un’utopia di destra o di sinistra: propongono versioni autoritarie, protezionistiche, nazionalistiche di un’economia di mercato che, per altri aspetti, mantengono ultraliberale o dotano di palliativi deboli, di foglie di fico. Le forze sistemiche, da parte loro, aspettano che i regimi populisti crollino o che si adeguino ai fondamentali del capitalismo: la possibilità che creino un modello economico e sociale diverso non è nemmeno contemplata.».

  5. @ Aguzzi

    Ho letto il suo complesso e interessante intervento rispetto al quale mi sembra utile una mia precisazione. Il mio testo era ed è – come appare – legato strettamente alla situazione politica attuale e italiana. Non intendevo prendere posizione sulla validità o meno della nostra Costituzione e – in generale – non mi piace dire che una Costituzione è la più bella o la meno bella del mondo. Rispetto alla nostra posso dire che condivido – in parte – la sua opinione circa la necessità di rivederne alcuni principi ( ad esempio: bicameralismo, autonomie, rapporti Stato – Regione … ) . Con riferimento al “ sospetto “ che nutro sul termine Popolo se non analizzato nei suoi contenuti , sono ancora convinto della necessità di “ contropoteri “ istituzionali ( non
    elettivi ). Ma forse i tempi stanno cambiando. Ci avviamo verso una democrazia assembleare ? Se gli esiti sono quelli che mi pare di intravvedere nell’oggi, temo questa deriva. Con viva cordialità.
    Giorgio Mannacio

    1. Il mio “ideale” non è la democrazia assembleare, ma la più completa libertà dell’individuo, col solo limite della garanzia di pari libertà per gli altri. Cioè l’applicazione più spinta del principio di sussidiarietà. Perché devo delegare al Comune o alla Regione o allo Stato ciò che credo di poter fare meglio per mio conto, da solo o associandomi liberamente con altri cittadini? La democrazia assembleare va riservata solo a quelle decisioni che non riguardano i singoli né i gruppi associati liberamente ma, appunto, l’assemblea, sia essa assemblea di condominio, di istituto scolastico o nazionale. L’assemblea dovrebbe sempre avere un limite: trattare e decidere solo sugli argomenti di sua competenza. Questo è chiaro per le assemblee condominiali (le quali, purtroppo, per obbligo di legge, sono spesso costrette a deliberare anche su cose che dovrebbero essere di competenza dei singoli condomini e non materia assembleare), non è chiaro per le assemblee nazionali, per i Parlamenti, che secondo lo spirito della democrazia autoritaria (qualche studioso parla anche di democrazia totalitaria) si arrogano competenze che non dovrebbero avere e mettono testa e mani anche in affari, persone e luoghi da cui sarebbe giusto e bello astenersi.
      Il necessario contropotere allo strapotere delle assemblee parlamentari (e peggio ancora se lo strapotere viene dall’esecutivo che ha in pugno l’assemblea) sta in parte in altre istituzioni costituzionali, sia politiche (ad esempio le assemblee regionali, provinciali [malamente soppresse], comunali), che dovrebbero avere poteri propri non travalicabili dallo Stato centrale, sia giudiziarie (autonomia della magistratura inquirente e giudicante, divisa e distinta per formazione, reclutamento e carriera). Ma soprattutto sta nel garantire la libertà dei singoli cittadini di farsi gli affari propri, detto brutalmente, si tratti di affari nobili o meno nobili (purché legali), senza che lo Stato detti continuamente regole etiche, o redistributive di ricchezza (quindi anche queste sostanzialmente etiche sulla base di una concezione politica determinata) e addirittura regole che premiano o puniscono stili di vita (sulla base di discutibili scelte igieniche e di prevenzione dell’obesità e/o di malattie), anche quando non c’entra nulla con la difesa del “bene comune” che è la salute pubblica (diverso è il discorso relativo ai vaccini essenziali relativi a malattie contagiose e per questo di interesse non solo individuale o familiare). Infine, altro contropotere, è l’opinione pubblica e quindi la libertà di pensare, di comunicare, di organizzarsi, di pubblicare ecc. Tutte queste libertà, nell’Italia cosiddetta democratica, soffrono limiti intollerabili, non perché siano proibite, ma perché racchiuse entro regolamentazioni che ne rendono, spesso, difficile il godimento. La sistematica rapina fiscale che impone oneri indebiti, la cervellotica e frenante burocrazia, obblighi di legge di tipo corporativo e d’altro tipo rendono complicato ciò che dovrebbe essere libero e semplice.
      Il mio ideale non è la democrazia ma la mini-archia e limitare le tecniche elettorali solo alle decisioni che riguardano tutti gli elettori, in modo indivisibile
      Riportando un po’ più di libertà, di capacità di decisione e, di conseguenza, anche di responsabilità per le decisioni assunte, ai livelli più bassi fino a quello minimo del singolo cittadino, fra l’altro, si contrasterebbe anche il fenomeno della riduzione della democrazia parlamentare a semplice momento di formale passaggio di carte di decisioni prese in ben altri vertici e nelle quali la presunta forza e neutralità della tecnologia la fa sempre più da padrona.

  6. @ Ennio
    1.
    «seguendo la moda revisionista che ha equiparato fascismo e comunismo». La storiografia è sempre revisionista. Non c’è storiografia che non sia anche revisione delle narrazioni passate. Non si tratta di “moda” ma della stessa ragione di esistere del lavoro storiografico. La moda può, casomai, consistere nel diffondersi per imitazione di alcune interpretazioni, quindi fenomeno marginale, giornalistico e accademico, ma estraneo al lavoro storiografico più serio. Se una nuova interpretazione si diffonde vuol dire che è credibile e convincente. Non necessariamente esatta, ma fino a prova contraria appare più credibile e convincente delle precedenti interpretazioni. In genere una nuova interpretazione nasce dal verificarsi di eventi concreti, che si riassumono in due fatti principali. Il primo è la disponibilità di nuovi documenti che allargano la conoscenza e pongono nuove domande. Il secondo è il passare del tempo: la distanza temporale (con tutto ciò che significa in termini di nuove esperienze ecc.) permette di rileggere da nuovi punti di vista il passato.
    Questi due fattori determinanti per il lavoro storiografico hanno reso evidenti, al di là delle intenzioni e dichiarazioni dei protagonisti, certe analogie nel reale sviluppo degli eventi del Novecento. Analogie fra le tre utopie trasformatesi in distopie: fascismo, nazismo, bolscevismo. L’elenco delle analogie è lungo, come è lungo anche l’elenco delle differenze, perché la storiografia è sempre scienza del particolare e due eventi storici non sono mai identici. Ma la narrazione storica non può mai fermarsi alle singolarità; essa tende necessariamente anche a cogliere le analogie e a costruire modelli scivolando, qualche volta arbitrariamente, verso interpretazioni di sociologia della storia. C’è tutto un lavoro retrospettivo, perché il passato è sempre presente, e quindi la storiografia è anche un’ingegneria mentale che ricostruisce gli avvenimenti del passato alla luce della realtà presente. In ciò si possono nascondere errori (attribuire ai protagonisti del passato idee e motivazioni che non avevano), che la ricerca storica deve evitare, ma si rivelano anche verità che i protagonisti del passato non conoscevano, pur subendone un’influenza determinante.
    Che le tre utopie / distopie del Novecento abbiano in comune degli elementi di socialismo e che li abbiano mantenuti per tutto il tempo della loro durata al potere, per me, è cosa ovvia. Non si tratta, per il fascismo e il nazismo, di socialismo marxista. Ma di principi di fondo del socialismo presenti anche nel marxismo ma propri di tutta la storia del socialismo e anche di gran parte dell’utopismo antico e rinascimentale. Dalla fine del Settecento il socialismo (e il termine stesso nasce in quel periodo e viene poi rilanciato negli anni Venti dell’Ottocento) costituisce una corrente di pensiero molto diversificata ma che ha in comune la convinzione che sia possibile un progetto di ingegneria sociale (costruttivismo sociale), con la mira di razionalizzare i comportamenti sociali, abbattere le irrazionalità e i pregiudizi, superare l’ignoranza e i particolarismi, unificare il genere umano (o la nazione), guidarlo alla sua emancipazione, portarlo con un graduale progresso alla “maturità”. All’idea che la società cresce (o decresce, in qualche caso) su se stessa con un movimento spontaneo non controllabile, se non molto parzialmente, col socialismo subentra l’idea della costruzione illuministica che elimina gli errori della spontaneità e quelli del male morale (egoismo, sfruttamento, illegalità ecc. ecc.). Disegno illuministico e illuminato concepito come necessario, destinato ad affermarsi comunque. Ma all’interno di questa cultura nasce, fin dall’inizio, anche la corrente che ne predica l’attuazione per via rivoluzionaria, attraverso la creazione di un partito di avanguardie (“illuminati”), una strategia per la conquista del potere e l’instaurazione di una “dittatura popolare” (concetto che Marx riprende trasformandolo in quello di “dittatura del proletariato”). La dittatura popolare ha il compito di eliminare i nemici e di educare i cittadini a riconoscere e accettare ciò che è il loro vero bene, cioè la comunità di intenti, la subordinazione dell’interesse particolare a quello generale, fino al sacrificio di se stessi per il bene comune, la centralizzazione nelle mani dello Stato (dell’avanguardia di illuminati) della gestione del bene comune, con l’eliminazione o la drastica riduzione delle singole volontà, della libera iniziativa, del libero mercato e in pratica di tutto ciò che è “libero” al di fuori del controllo dello Stato. Ciò comporta la supremazia della politica sull’economia, del politico sul privato, delle direttive statalistiche sulle forme spontanee di organizzazione della società civile, e in pratica della centralizzazione e burocratizzazione di ogni decisione. La libertà che resta ai singoli cittadini non nasce da un diritto ma da una concessione ed è ristretta a un residuo marginale. Certamente, unita a questa concezione vi è quella complementare dell’estinzione dello Stato, che vuol dire che i cittadini, quando saranno tutti “maturi”, “educati” e “illuminati”, saranno capaci di autogestirsi e non avranno più bisogno della dittatura dello Stato. Ma questo elemento complementare si è rivelato del tutto utopistico mentre quello dell’ingegneria sociale e delle strategie per la conquista del potere hanno avuto un notevole sviluppo sia a livello di critica dell’esistente sia a livello di effettiva conquista sociale e di potere.
    Questa enfasi costruttivistica è propria delle tre utopie / distopie del Novecento. Ma, in misura minore, è entrata anche nelle dottrine più diverse, dal liberalismo sociale al cattolicesimo sociale, dal “dispotismo illuminato” alla Bismarck alle diverse versioni di regimi di democrazia moderna, dal peronismo ad altre forme di regimi autoritari. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il socialismo, pur non essendosi mai realizzato nella sua integralità progettuale, ha però permeato di sé il pensiero e la politica del Novecento e del Duemila in modo che appare ormai irreversibile. Sia nelle sue potenzialità positive di realizzazione di maggiore equità e giustizia, sia in quelle negative di ipertrofia statalistica, di fiscalismo oppressivo e di soffocante burocratizzazione.
    Partendo dal contributo della tradizione socialista, mescolato con altri contributi e altre tradizioni, si sono sviluppate le storie del fascismo, del nazismo e del bolscevismo. Diverse, ripeto, per molti aspetti, ma con in comune elementi fondamentali, fra i quali l’idea di un partito di militanti, non di massa, e della conquista del potere anche attraverso l’uso della violenza rivoluzionaria, dell’esercizio dittatoriale del potere, del primato della politica, della subordinazione dell’economia alla politica, della eliminazione o drastica riduzione delle libertà individuali e del peso della società civile. Tutto in nome di un ideale superiore al quale sacrificare l’individuo.
    2.
    «Solo pensando questo, infatti, si può scrivere: “(l’internazionalismo di Lenin è per lui solo di facciata, solo propaganda”. Trascurando però il dato fondamentale della strategia di Lenin tanto profondamente internazionalista da vedere la presa del potere in Russia solo come l’inizio della *indispensabile* rivoluzione in Europa».
    Il «per lui» della mia frase che citi è Mussolini, mi pare chiaro. Non sto riferendo il mio pensiero ma quello di Mussolini. Il quale, ripeto, in più occasioni menzionando Lenin e la rivoluzione russa stabilisce un parallelo con la sua rivoluzione fascista. Lo stabilisce a livello di partito (il partito fascista è concepito come partito di militanti, non partito di massa; non è un partito che deve aspettare il consenso delle masse per agire, ma deve porsi alla loro testa e trascinarle, anche costringendole), a livello di organizzazione dittatoriale del potere (senza il potere dittatoriale, afferma, non si può realizzare nessun programma rivoluzionario; parla di potere come fatto necessariamente elitario, di “aristocrazia delle trincee” che ha diritto di governare; ma, aggiunge, governare per il popolo, per il bene del popolo e della nazione, con ciò realizzando la “vera democrazia”, che è la democrazia plebiscitaria, mistica unione fra il Duce e il suo popolo. Su questo si fonda il culto della personalità del capo e tutta la mitologia che ne segue), a livello di affermazione sul piano internazionale, a livello di organizzazione degli apparati dello Stato (il capo sopra tutti, poi il partito, lo Stato, con quella tipica mescolanza fra apparati di partito e apparati dello Stato, per cui il partito assume un ruolo prevalente e viene, di fatto, costituzionalizzato in questo ruolo), a livello di organizzazione della struttura sociale (con l’economia posta sotto controllo e finalizzata ai programmi della politica, del partito e dello Stato).
    L’internazionalismo di Lenin, nelle intenzioni di Lenin, non è solo di facciata. Ma Mussolini non crede alle intenzioni di Lenin e interpreta il suo internazionalismo come di facciata. Afferma che la rivoluzione russa è dominata dall’elemento asiatico, quindi è antieuropea e antioccidentale, e che il suo internazionalismo riprende la classica spinta all’espansione imperialistica. Quindi vero nazionalismo, non vero internazionalismo.
    Del resto, e in parallelo, anche la rivoluzione fascista e quella nazista concepiscono il loro nazionalismo entro un quadro di espansione imperialistica. In questo caso però la spinta espansionista non viene mascherata con l’ideologia internazionalista ma si presenta come diritto dei popoli più forti a dominare i più deboli. Questo disegno nazional-imperialista è pienamente sviluppato da Hitler, mentre Mussolini svolge un ruolo minore data la debolezza militare dell’Italia. Hitler riprende una tradizione imperialistica mirata all’unificazione europea e non tanto alla conquista di colonie in Africa e in Asia; egli si rifà direttamente e indirettamente all’imperialismo di Carlo Magno e a quello di Napoleone.
    Guardando gli eventi nella loro lunga durata anche nell’espansionismo sovietico in Asia e nell’Europa orientale si può leggere la tradizionale tendenza russa che aveva già animato la politica assolutistica degli zar, dal Cinquecento con Ivan il Terribile in poi. Questo sottofondo nazionale diviene sempre più visibile con Stalin e con i suoi successori. Probabilmente Lenin era lontano dal pensare a questo, tuttavia è difficile credere che la tradizione dell’assolutismo russo non lo abbia influenzato, sia pure a sua insaputa.
    3.
    «andrebbe inteso come appropriazione, deformazione, mistificazione delle idee dei suoi avversari. Come del resto fece Hitler. E come farà, su un’altra sponda, Stalin per la costruzione del socialismo. Per analogia mi viene da pensare al passaggio dal paganesimo al cristianesimo, quando le basiliche romane vennero utilizzate per la costruzione di chiese cristiane. L’elemento – socialista o pagano – muta senso e se resta “parte integrante”, diventa però inevitabilmente parte *subordinata*. Ed è quello che conta».
    Dici bene. Il cristianesimo ingloba in sé elementi del paganesimo. Ma non sono d’accordo che questa parte diventi «inevitabilmente parte *subordinata*». Il cristianesimo / cattolicesimo costantiniano si allontana di molto dal cristianesimo del primo secolo e con il trascorrere dei secoli se ne allontanerà sempre di più. Così come il socialismo sovietico si allontana dalle premesse marxiste. La parte *subordinata* in realtà tende a riemergere e a condizionare con forza il corso della storia. Tanto che tutti i riformatori del cristianesimo si rifanno al cristianesimo delle origini e accusano di degenerazione pagana quello delle chiese costituitesi in organizzazioni di potere. Così anche molti critici del socialismo reale sovietico si rifanno al marxismo delle origini.
    Il substrato storico è sempre molto subdolo. Non permane solo nelle lingue e nei dialetti, in cui vi si può leggere l’archeologia di lingue “morte” da millenni, ma anche nelle mentalità, nelle tradizioni, nelle organizzazioni, nella vita sociale e inevitabilmente nelle politiche e anche nelle rivoluzioni.
    4.
    «Ma del PCdI gramsciano tutto si può dire (insufficiente, di certo) ma non che andrebbe considerato “staccato dalla realtà”. (A meno di non scambiare l’opinione della maggioranza prima all’interventismo e poi al fascismo come aderenza alla “realtà”)».
    Il concetto di realtà è subdolo. E quello di realtà politica lo è ancora di più. Diciamo che il PCdI di Gramsci (che in realtà era di Bordiga, segretario del partito fino al 1924) era sostanzialmente diretto dalla Terza Internazionale. Era Mosca a dettare le regole e le politiche. Bordiga vi si oppone, nella misura in cui è in disaccordo, ma dopo il suo arresto nel 1923 il predominio di Mosca diventa totale. Gramsci e Togliatti sono i fedeli esecutori della politica dell’Internazionale. Gramsci maturerà forti dubbi solo dopo il 1926 e Togliatti resterà invece succube di Mosca per tutta la vita. A rileggere oggi la stampa socialista e comunista degli anni 1919-1926 c’è da restare allibiti. Forse è solo un effetto della nostra ricostruzione retrospettiva, ma sicuramente il fenomeno fascista non fu solo sottovalutato, ma del tutto incompreso, e la strategia e le tattiche messe in campo si presentano del tutto incapaci di bloccarne l’ascesa al potere. I socialisti e i comunisti, divisi su tutto, con lo sguardo rivolto più alla Russia che alle reali dinamiche italiane, non fanno quasi nulla – né, credo, che la situazione gliel’avrebbe permesso – per bloccare il fascismo sul piano dello scontro armato, della rivoluzione, pur continuandone a parlare quotidianamente; non fanno nulla sul piano della formazione di vaste alleanze con le forze borghesi non fasciste, anzi accusano di tradimento anche le tendenze riformiste dei Turati, dei Bissolati ecc. Sembrano affidarsi, sopravvalutandone la forza, solo alle manifestazioni di tipo sindacale e politico di “massa”, ma di masse che sono minoranza, che sono disarmate, che anche quando, come a Torino, occupano le fabbriche, non sanno poi cosa farne; come se si aspettassero che in qualche modo, per miracolo forse, il popolo italiano insorgesse spontaneamente, o insorgesse spontaneamente il proletariato europeo. Le correnti socialiste riformiste sembrano invece fidarsi troppo del parlamento e della monarchia, rifiutando tuttavia di allearsi con Giolitti. Sia i riformisti sia i comunisti rivoluzionari sembrano non essersi accorti del cambiamento di clima culturale e politico e interpretano il fascismo come reazione della borghesia, come fenomeno passeggero o, peggio, come ultima risorsa della reazione che porterà allo scontro conclusivo che determinerà la vittoria del proletariato. Il “fare come in Russia”, le illusioni sul potenziale rivoluzionario del proletariato, le divisioni fra i diversi socialismi e i comunisti, le errate direttive di Mosca, hanno determinato una linea politica perdente. A mio parere non c’era alternativa possibile di vincere e di mantenere contemporaneamente fermi i principi del socialismo e del comunismo come venivano concepiti allora. In questa mancanza di comprensione e di incapacità di elaborare una linea efficace sta il non “realismo” dei socialisti e dei comunisti del 1919-1926. Tutto sommato Bordiga fu il più consapevole dell’impossibilità di vincere in Italia dopo che la Rivoluzione russa perse la sua capacità di espansione e che lo stesso ultimo Lenin si era piegato all’idea del “socialismo in un solo paese”. Non per nulla fu critico nei confronti dello stesso Lenin e molto di più nei confronti di Stalin e della sua politica di capitalismo di Stato nazionalistico.
    5.
    «Allo stato attuale non credo che questo “popolo delle periferie” […] si *contrapponga* al globalismo e alle sue versioni imperialistiche. Svela un disagio, una insofferenza, del motivato rancore ma non ha maturato alcuna alternativa. Mi pare che colga bene questa fumosità Mazzoni».
    Il saggio di Mazzoni, che ho letto per intero, è molto interessante. Non concordo con tutte le sue affermazioni, ma concordo che il “popolo delle periferie” non rappresenti un’alternativa matura al globalismo. Rappresenta però, come Mazzoni stesso scrive, una tendenza, un ostacolo, un ritardo al suo avanzamento. Del resto non credo che esista un’alternativa al globalismo, però potrebbe e dovrebbe esistere un’alternativa al «cattivo globalismo». Quindi l’ostacolo che le periferie pongono è già qualcosa, in attesa che maturi, se maturerà, una vera alternativa. Se non maturerà, il disagio sociale è destinato ad aumentare e a permanere e convivere, in forma cronica, con il «cattivo globalismo», realizzandosi una o l’altra delle tante distopie immaginate dalla letteratura e dal cinema, dove una minoranza della popolazione, composta da individui Alfa, governano e gestiscono ogni potere, una seconda categoria di individui è al servizio della prima (politici di rango inferiore, amministratori, burocrazie, polizie, ecc.) e gode di privilegi, mentre una terza categoria, che poi costituisce la maggioranza, vive quasi ai margini di tutto fra miseria e assistenzialismo, fra lavoro precario e non lavoro. Sembra quasi di tornare alla Repubblica di Platone.
    Ma, scrive Mazzoni, se ho capito bene, che la sinistra ha ormai rinunciato a ogni alternativa anche al «cattivo globalismo» e partecipa a quella forma di imperialismo costituito dall’imporre il proprio modello a tutto il mondo, o comunque nell’esportarlo, con le conseguenze catastrofiche, ma inevitabili, che se tutti gli otto miliardi di persone viventi, e prossimamente nove o dieci, arriveranno ai livelli di consumo degli europei e degli statunitensi, non solo si incrementeranno i flussi immigratori, ma si arriverà alla distruzione ecologica sempre più spinta cui seguiranno, e qui ritorno alle distopie letterarie e cinematografiche, il medioevo delle guerre per l’acqua, per la conquista dei territori ancora abitabili ecc. ecc.
    A quando una sinistra capace di elaborare una politica della decrescita? dei rapporti internazionali equi? della diminuzione graduale e ordinata della popolazione? del rifiuto delle ridicole teorie dell’immigrazione che ci serve per colmare i vuoti demografici e per pagare le pensioni? di un modello di vita diverso ed ecologicamente compatibile con le risorse del pianeta Terra?

  7. @ Aguzzi

    1. Revisionismo.

    Non mi riferivo alla storiografia (alla buona, seria, storiografia) e alla valutazione di nuovi documenti ( ad es. degli archivi dell’ex- Urss), ma proprio a quei discorsi su eventi storici che rientrano nel concetto di *uso pubblico della storia* (espressione, mi pare di ricordare, che lessi per la prima volta negli anni Novanta in un saggio di Nicola Gallerano: https://it.wikipedia.org/wiki/Nicola_Gallerano). In particolare, penso, in accordo con te, agli articoloni sui mass media. Esemplari negativi di questa, che secondo me moda deve essere chiamata, i libri di Giampaolo Pansa sulla Resistenza o le trasmissioni di Paolo Mieli. Un abisso separa questa produzione da opere anche discutibili come quelle di Furet o dello stesso Nolte. Le «analogie fra le tre utopie trasformatesi in distopie: fascismo, nazismo, bolscevismo», i dati « che i protagonisti del passato non conoscevano» ci sono. E tuttavia, sono più prudente e diffidente di te sia verso l’accostamento e l’appiattimento (o omologazione) che tu tendi ad approvare tra fascismo, nazismo e bolscevismo accomunandoli sotto il concetto di «utopie trasformatesi in distopie» sia sulla tesi della presenza di «elementi di socialismo» nel fascismo e nel nazismo. Forse la differenza tra noi è di accento. Tu tendi a delle generalizzazioni che io trovo forzate e ad una tua visione anarco-individualista, che giudico *unilaterale*.

    2. Lenin/Mussolini.

    D’accordo: il giudizio su Lenin è quello di Mussolini, non il tuo. E’ lui che “usa” la rivoluzione bolscevica pro domo sua giocando – guarda caso – sulle analogie ( il partito di militanti, la dittatura). Ma perché trascurare o sorvolare sulle differenze nette tra il pensiero di Lenin e quello di Mussolini? Il programma rivoluzionario del partito bolscevico cosa ha a che fare con quello del fascismo? L’ «“aristocrazia delle trincee” che ha diritto di governare» con i rivoluzionari (socialisti) del partito pensato da Lenin? E dove trovi in Lenin « il culto della personalità del capo»? Meno male che ancora riconosci che «l’internazionalismo di Lenin, nelle intenzioni di Lenin, non è solo di facciata». Altra faccenda è Stalin. Ma il discorso sulla continuità/discontinuità Lenin/Stalin è annoso e in questa occasione è meglio accantonarlo.

    3. Scommesse.

    Su questo punto forse siamo più vicini ed è sempre questione di accento. Per me resta evidente che il “ritorno alle origini” (cristianesimo evangelico protestante e non post-costantiniano o cattolico romano, Marx e non marxismi socialdemocratici vari; ma anche – perché no? – repubblichini di Salò rispetto al fascismo di regime) è una scommessa. Si punta su un*certo* passato, in polemica con la lettura ufficiale e dominante con la speranza (o – si dirà – la “pretesa”, quando finisce male) di fondare su di esso un progetto di rinnovamento o di rivoluzione. Più che «subdolo» quel «substrato storico» lo considererei inerte. Può essere rivitalizzato solo se si riesce a far convergere su di esso un consenso più o meno ampio di minoranze attive. Come riuscì a Lenin e a Mao. Come non è riuscito a “noi” nel ’68-’69.

    4. “Noi” e la Terza Internazionale.

    Mi pare che esageri, sempre per partito (anarco-individualista) preso, la subordinazione alla Terza Internazionale. In parte l’egemonia politica dell’Urss era in quegli anni indiscutibile. Lì la rivoluzione era stata fatta. Chi poteva non riconoscerlo? Solo gli avversari. Persino anarchici come Victor Serge dovevano ammettere quell’autorità data al partito bolscevico dalla iniziale riuscita della “scommessa” di Lenin. Per non parlare della Luxemburg. E tanti altri. E non credo che i singoli che aderirono alla Terza Internazionale fossero degli ingenui o degli opportunisti o dei servi. Avevano i loro dubbi, come li avevamo noi quando negli anni della nostra militanza entrammo in questo o quel partitino o gruppo, ma i dubbi di per sé non hanno immediata valenza politica, non possono essere spesi politicamente nell’immediato, lavorano o macerano nel profondo, sono repressi o accantonati dalla scelta militante che si è fatta. Certo che in tanti si illusero. Ma dev’essere chiaro che non solo non è facile uscire da convinzioni che nel concreto delle situazioni non paiono illusioni, ma che non si può antivedere più di un tanto. La lotta politica non è lotta di profeti, ma di uomini condizionati dalle circostanze che ereditano. Vanno considerate tutte le revisioni sulle scelte fatte dai nostri antenati, ma è sbagliato giudicarne l’operato *soltanto* col senno del poi o a freddo, a passioni e sconfitte consumate. Ammesso che Bordiga sia stato il più consapevole dei comunisti di allora, non mi pare che sia bastato. Né che su quelle sue posizioni oggi si possa costruire chissà cosa. Del resto anche “noi”, che siamo consapevoli dei limiti di europeisti sfegatati e sovranisti o dei vari populismi destrorsi o sinistrorsi, cosa riusciamo a fare di più rispetto a Gramsci o al PCdI pre-fascismo?

    5. Mazzoni.

    Mazzoni è informato e tocca ferite aperte della ex sinistra, ma le sue conclusioni “socialdemocratiche” che a me paiono di resa anche morale oltre che di politica vanno combattute.

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