Erranze-Dislocazioni-Esilio-Dismatriati-Translinguismo

di Gino Rago

Questo testo di Gino Rago, parte di una più ampia relazione, è stato presentato l’11 dicembre 2018 ad un Convegno organizzato dal «Laboratorio delle idee» della Fondazione S. Maria delle Armi a Cerchiara di Calabria (Cosenza). Lo pubblico perché documenta un modo di affrontare il fenomeno delle attuali migrazioni che è giusto approfondire, anche se a me pare  influenzato da un heideggerismo troppo metafisico. (Donatella Di Cesare, che pur parte da premesse filosofiche simili, nel suo recente «Stranieri residenti» ha affrontato lo stesso tema in termini più direttamente storici-filosofici-politici). Certo, Rago è del tutto estraneo alle spinte populistiche politico-culturali reazionarie arroccatesi sulla lettura delle migrazioni come “invasioni”, ma sembra limitarsi al pur interessante aspetto linguistico. Il rischio, secondo me, è di restare prigionieri di un’immagine idealizzata e limitata del fenomeno e delle  implicazioni che ha per “noi”. Perché se ne vede una porzione sia pur significativa: quella degli scrittori capaci di « opporre alla perdita dei propri luoghi lo «spazio» del linguaggio» e di “abitare la parola”.  Inoltre, la «resistenza attiva» di esseri umani, costretti ad «abbandonare la casa, il proprio paese o l’idea stessa di patria»  per molti aspetti e, se si vuole, in modi più metaforici, riguarda anche “noi” residenti in una Italia sempre più scossa dalla crisi della  mondializzazione.  Le due resistenze, dunque,  potrebbero diventare più costruttive, se “noi” (poeti, scrittori, gente che ancora cerca di pensare la realtà in mutamento) non ci limitassimo a vedere nei migranti la loro «condizione metafisica» o una «forma silenziosa di esilio». Come se entrambi fossimo portati – per natura o per scelta di saggezza – al « rifugio nel proprio mondo interiore» o a vivere l’esperienza esistenziale come «perdita». E le non-risposte  o l’ostilità dei governanti e delle classi beneficiarie della mondializzazione capitalistica non c’entrano?  Leggere perciò il fenomeno alla luce regressiva del «mito del nostos» o di un ritorno altrettanto paralizzante alle «radici» o alla «stabilità», che negano o diffidano della storia e dei suoi potenziali incivilimenti reciproci, mi pare un errore. [E. A.]

 

Introduzione

In una società sempre più caratterizzata dallo smarrimento delle proprie radici lo scrittore forse diventa l’esule privilegiato in grado di opporre alla perdita dei propri luoghi lo «spazio» del linguaggio.

 Il mare, «tomba d’acqua per tutti gli annegati di questo secondo millennio» assume dunque un ruolo fondamentale.

 E se Iosif Brodskij ci conduce con i suoi versi in una condizione metafisica di «resistenza attiva» dove l’abitare è la parola fondante per chi è costretto ad abbandonare la casa, il proprio paese o l’idea stessa di patria, Jean-Luc Nancy si sofferma sulla «crisi della comunità», sul decentramento del mondo e dell’individuo stesso sicché la precarietà e la marginalità fanno da sfondo ai nuovi spazi periferici della globalizzazione iper-capitalista.

 Esiste poi una forma silenziosa di esilio, l’ostracismo, del quale ci rende testimonianza esemplare il canto di protesta del poeta italo-albanese Gëzim Hajdari.

 Esilio come rifugio nel proprio mondo interiore, esilio come perdita del focolare, esilio nel suo significato fisico e spirituale, esilio come ritorno al mito del nostos e al metodo mitico. I poeti

che la curatrice dell’antologia Letizia Leone convoca e aduna in questo libro ci conducono in un viaggio nello spazio e nella storia perché davanti allo smarrimento dell’epoca attuale le parole possono diventare occasioni preziose di rifugio e di rinascita.

II

Migrazione-fenomeni linguistici

1) La migrazione fisica si affianca a quella mentale/linguistica e implica non soltanto la perdita di un mondo precedente ma anche la costruzione di una barriera tra vecchi e nuovi linguaggi.

2) Una separazione interiore può accompagnare la scrittura in una lingua appresa da adulti in coloro che costretti a «Scrivere tra le lingue» possiamo intendere come scrittori “translingui”.

3) Il fenomeno del translinguismo letterario è più diffuso di quanto si pensi ed è spesso legato a eventi drammatici che hanno imposto l’uso di un’altra lingua.

4) Il situarsi tra le lingue spesso ha dato ai translingui l’occasione di sfidare i limiti del proprio strumento letterario avvantaggiandone la scrittura perché nell’uso di una lingua diversa dalla propria, soprattutto a fini di composizione letteraria, si insinua facilmente l’idea di sfida e di superamento di se stessi e dei propri limiti, che può produrre la soddisfazione della conquista, del possesso di uno strumento nuovo, ma può favorire anche la frustrazione dell’abbandono della lingua materna.

5) Oltre a costituire un’adozione linguistica, il translinguismo letterario, ovvero “lo scrivere fra due lingue” spesso ha comportato la trasformazione dell’identità culturale e personale dello scrittore in transito tra due culture, permettendogli di acquisire una visione nuova o ‘altra’ del mondo, mediata dall’altra lingua, dalla lingua cioè del paese dell’approdo.

6) Il translinguismo letterario è un discorso ancora tutto aperto a ogni tipo di analisi e di possibilità di esiti finali, mentre il fenomeno dei dismatriati merita meditazioni d’altro genere

Erranze-Dislocazioni-Esilio-Dismatriati-Translinguismo

Erranze, dislocazioni ed esilio linguistico sono sempre di più causa di due fenomeni letterario-linguistici a crescente diffusione nel fare letteratura: il fenomeno del translinguismo e il fenomeno dei dismatriati, con i quali fin da ora credo che occorra misurarsi.

Intervista immaginaria a un dismatriato, autore di una raccolta di racconti del dismatrio:

1- Domanda:
Chi sono i protagonisti del tuo racconto Dismatria

Risposta:

Dismatria fa parte della raccolta Pecore Nere. I protagonisti di Dismatria sono i membri di una famiglia non italiana che da svariati anni risiede a Roma.

2- Domanda:
Come vivono i protagonisti del tuo racconto

Risposta:
Vivono nella ossessiva speranza di un possibile ritorno a casa. Tanto è vero che continuano negli anni a conservare tutto nelle valigie, tutte le loro cose nelle valigie le quali così sono diventate sostitutive degli armadi

3- Domanda:
Quindi le valigie come una sorta di correlativi oggettivi di precarietà, di transitorietà, anche di insicurezza

Risposta:
Sì, hai detto bene. Le valigie dei protagonisti di Dismatria non si staccano dalle valigie perché si sentono al posto sbagliato, si sentono fuori posto, in sospeso, si sentono permanentemente fuori luogo

4- Domanda:
Ne parli così precisamente nel tuo racconto che ne deduco che anche tu hai avuto le tue valigie

Risposta:
Anche io avevo le mie valigie e le maltrattavo, le cambiavo spesso. Le odiavo perfino perché desideravo un solido, sicuro, robusto armadio.

5- Domanda:
Perché, lo capisco bene il perché, ma vorrei che lo dicessi tu

Risposta:
Perché in un armadio avrei potuto tenere le mie cose meno in disordine e da questo soltanto avrei potuto sentire più sicurezza

6- Domanda:
Quindi, valigie, precarietà, disordine, insicurezza. Viceversa, armadio, stabilità, ordine, sicurezza, e dunque serenità più forte verso una idea di futuro…

Risposta:
Sono equivalenze presenti nei protagonisti del racconto perché le sento mie.
Invece a casa mia la parola Armadio era tabù

7- Domanda:
Era tabù soltanto questa parola

Risposta:
No. Erano tabù anche altre parole. Erano tabù la parola casa e la parola sicurezza, erano tabù la parola stabilità e la parole radice

8- Domanda:
Ricordi la prima impressione di Roma

Risposta:
A Roma tutta la gente corre, da me la gente non corre mai

9- Domanda:
E tu…

Risposta:
Sono una via di mezzo, sono a metà strada: a Roma cammino a passo sostenuto[…]
La mia casa? E’ dove sono… Una mia canzone? “…Non ho una patria/ ho una matria/ ma voglio una fratria”.

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II°

Translinguismo: un poeta translingue

E’ noto negli ambienti poetici il caso di un autore del Sud America, che a un certo punto della sua vicenda letteraria, giunge a ripudiare la madre lingua ispanoamericana e adotta, definitivamente, la lingua francese nel suo fare poesia.

Anche nel caso di questo poeta, accostato ad altri del tutto simili a questo, un linguista ha adottato il termine “autori translingui”, termine con il quale il linguista [che aveva già studiato i casi linguistici di Samuel Beckett, Joseph Conrad, Eugène Ionesco, quali autori esemplari che hanno tracciato la storia della letteratura translingue] intende indicare quegli scrittori che

“[…]dopo aver vissuto la propria cultura d’origine, si sono mossi verso una critica violenta nei confronti delle imposizioni culturali cui andavano incontro, inventando un sistema linguistico nuovo[…]”

Un sistema linguistico che diremmo disseminato di ibridazioni e di varie interferenze.

Secondo le ricerche di questo linguista, gli autori translingui sono coloro che in uno stadio della loro storia letteraria scelgono di esprimersi all’interno di sistemi verbali multipli allo scopo di saltare, superandoli, tutti gli ostacoli culturali della tradizione linguistica nazionale, della tradizione di appartenenza per nascita e non per scelta [richiamo l’attenzione generale degli addetti ai lavori di poesia sul rischio facile di confondere il bilinguismo
con il translinguismo].

Sempre secondo gli studi rigorosi di questo linguista, oltre a costituire l’atto di una adozione linguistica, il translinguismo letterario comporta soprattutto la trasformazione della identità culturale e personale dello scrittore in transito tra due culture, quella di nascita e quella scelta, così consentendogli l’acquisizione di una nuova Weltanshauung, di una visione nuova del mondo mediata dall’altra lingua.

Nel caso specifico di questo poeta di un Paese dell’America del Sud, il linguista ne ha interpretato la ribellione contro la lingua spagnola su due livelli principali:

a- adottando definitivamente e liberamente la lingua francese, secondo lo spirito del suo tempo, il poeta ripudia in un gesto di ribellione il pre-dominio della cultura spagnola da/di cui tutta l’Ispanoamerica ha ereditato la lingua;

b- utilizzando definitivamente il francese il poeta recupera la propria libertà di artista in rivolta contro ogni forma, ogni tipo di imposizione sociale con tutto il perbenismo di facciata dell’adolescenza nella sua città natale.

Tutto il ripudio verso la madre lingua questo autore del translinguismo lo affida a una voce poetica in grado di registrare in due intensi, concentrati distici [la breve poesia nasce già in distici…] l’amarezza della condizione di esilio in cui la lingua madre lo ha costretto, madre lingua che il poeta translingue sente inanimata, come una pietra:

Pierre Mère

De trop t’avoir fixé ô pierre
Me voilà dans l’exile

Parlant un langage de pierre
Aux oreilles du vent…

 

 

Nota

Matria è la propria terra concepita come madre, una ‘matria’ da contrapporre a ‘patria’.

Dismatria è la perdita della terra di origine, sentita come terra della madre; in sintesi, ‘dismatriati’ sono quelli della diaspora che perdono nello stesso tempo la terra-madre e con essa la lingua-madre.

Fratria è la terra di un nuovo patto di fratellanza e di sorellanza, una ‘nazione’ futura di nuovi orizzonti e nuove visioni.

 

35 pensieri su “   Erranze-Dislocazioni-Esilio-Dismatriati-Translinguismo

  1. Con questo mio breve commento desidero:

    – ringraziare vivamente Ennio Abate sia per l’ospitalità che concede al mio lavoro sul suo importante blog, sia per la sua nota ben articolata e magnificamente sviluppata;

    – segnalare che una parte della Introduzione all’estratto della relazione da me sviluppata, nel corso del Convegno chiaramente citato nella sua nota da Ennio Abate, ha trovato spinte e ispirazione dalla recente Antologia poetica “Alla luce d’una candela, in riva all’oceano…” (Giulio Perrone Editore, Roma, 2018) curata da Letizia Leone.

    Gino Rago

  2. Discorso iconico e fondante sul transitare linguistico come paradigma di una mutazione antropologica prima ancora che sociale, che scardina le fondamenta dei connotati linguistici identitari. Ma la poesia , che è oltre per eccellenza e cavalca il.divenire, accoglie i rifugiati della vita e ogni transfughi che a lei si affidi. In ciò trovo illuminante e ultimativo questo testo di Gino Rago,

    1. Ringrazio Gabriella Cinti per l’acutezza del suo commento.
      Il quale coglie, ancorché nella sua brevità, la possibilità dello stabilirsi di un legame fra ‘transitare linguistico-mutazione socio-antropologica- scricchiolio dei connotati linguistici ‘identitari’ cui risponde la poesia come simbolo di casa comune che accoglie…

      gr

  3. Ho letto l’articolo e lo trovo molto interessante come argomento. Il fatto che Gino Rago ha pensato anche alla mia poesia (Sentire il pianto della terra – pag.109 – scritta da me tra 2014 e 2016 rivisitata nel 2018) inserita in questa antologia (Alla luce d’una candella, in riva all’oceano) curata da Letizia Leone, mi onora molto e mi trovo molto d’accordo, per quanto riguarda i miei primi anni di poesia in Italia. Il processo di traslinguismo per me è avvenuto nelle tre tappe, sapientemente descritte. Aggiungendo che ora mi trovo nella fase di sviluppo della poesia, perché cercando approfondimenti nella poesia contemporanea italiana e non solo, mi sono trovata di fronte a stili così diversi da indurre a sviluppare la poetica creando un’impronta propria. Ho la consapevolezza che questo potrebbe portare anche un cambiamento positivo nella poesia anche al livello di un possibile ritorno o accettazione, se casomai avvenisse, all’interno della cultura di provenienza, per ogni poeta costretto per ovvi motivi dettati dallo sviluppo economico del proprio paese a lasciare la terra di origine ad un certo momento. Il passare degli anni contribuisce all’arricchimento dal punto di vista linguistico nella poesia dell’immigrazione. Non è vero che si dimentica la propria lingua di origine. Vive nel subconscio la lingua madre. Come già, avviene nella lingua di origine sono dei processi di cambio, di arricchimento del vocabolario con parole importate. Più un popolo ha una maggiore immigrazione, più il linguaggio cambia, si rinnova e più difficile sarà per i scrittori tornare ed essere accettati. Per il mio paese è già successo con Ionesco, Cioran, Eliade (scrittori che hanno compiuto la loro opera all’estero nella lingua di adozione) che hanno avuto un riconoscimento tardivo da parte della cultura rumena. Ma questo non meraviglia perché anche in altre culture accade ed esempi sono stati riportati. Il disinteresse per gli scrittori che vivono all’estero è noto a tutti, in tutti paesi che hanno immigrati. Siamo presi in considerazione solo nella crescita del PIL, siamo solo numeri.

    Mi sento felice in questo traslinguaggio che non è altro che un trasmigrare dei concetti e filosofie oltre le frontiere. Essere riconosciuta come poesia in Italia e anche in vari altri paesi all’estero per me è appagante, però, non mi crea alcun impedimento nel continuare ad evolvere dal punto di vista linguistico o di fermarmi nello scrivere. Probabilmente ero nata per scrivere e anche per essere un poeta. Dovevo solo vivere in Italia per poter riscoprire quello che veramente mi mancava.
    Le valigie stanno nel ripostiglio. Ho ordinato tutto negli armadi e cassetti da alcuni anni. Lavoro a varie raccolte. Devo solo trovare tempo di essere bilingue, per non dimenticare. Scrivo con prevalenza in italiano perché è il linguaggio giornaliero. Una scelta comoda, userei dire, ma non del tutto inutile.

    Ringrazio Gino Rago per questo articolo.

      1. Risponde al vero l’affermazione di Lidia Popa, che ringrazio.
        Ispirandomi alla Antologia poetica curata da Letizia Leone ho pensato in particolare ai casi di Edith Dzieduszycka, Gëzim Hajdari, Lidia Popa e al loro translinguismo che li fa transitare da

        lingua madre francese a lingua italiana, nel caso di Edith Dzieduszycka;

        da lingua madre albanese a lingua italiana, nel caso di Gëzim Hajdari;

        da lingua madre rumena a lingua italiana, nel caso appunto di Lidia Popa.

        gr

  4. « Il translinguismo letterario comporta soprattutto la trasformazione della identità culturale e personale dello scrittore in transito tra due culture, quella di nascita e quella scelta, così consentendogli l’acquisizione di una nuova Weltanshauung, di una visione nuova del mondo mediata dall’altra lingua».
    Questo è sempre vero, non solo nel passaggio da una prima lingua (materna) a una seconda appresa successivamente, ma anche nel bilinguismo materno, anche in chi, fin dalla nascita, vive in una situazione bilingue con i genitori che in casa parlano l’una o l’altra lingua indifferentemente. Perché ogni lingua ha una sua Weltanschauung o, per meglio dire, una sua propria analisi della realtà del mondo fisico e mentale e un proprio modo per rappresentarlo, narrarlo, immaginarlo, parlarne. Fra due lingue non vi è mai una completa parallela corrispondenza, né sintattica, né grammaticale in senso lato, né lessicale, né semantica, né nel suono e nel ritmo del parlare. Quindi, passando da una lingua a un’altra, soprattutto se si pensa direttamente in entrambe le lingue con la stessa spontaneità, è come passare da una personalità all’altra con una resa letteraria che può essere anche molto diversa.
    Va poi distinto il vero esule dal semplice migrante, che può anche sentirsi esule, ma che non lo è, perché se vuole può tornare al suo Paese d’origine. E va distinto l’esule o il migrante che desidera tornare a casa da quello che non desidera farlo e che considera il nuovo Paese il suo Paese definitivo. Va inoltre distinto l’esule e il migrante che vive in mezzo ad altri esuli e migranti del suo Paese e anche nell’emigrazione continua a usare la sua lingua come prima lingua, da quello che invece usa come prima lingua la nuova lingua relegando la lingua madre a seconda lingua. Sono situazioni diverse che comportano un diverso approccio psicologico, utilitaristico o no, elettivo o no, nell’uso delle lingue. In genere si rende il meglio, letterariamente, nella lingua che si conosce meglio (e non sempre è la lingua madre), in quella che si sente più propria e che coinvolge di più la propria intelligenza ed emotività. Ma se si scrive cose di saggistica, è la lingua più ricca di termini e concetti che riesce meglio ad esprimere il pensiero. In diversi casi questa lingua letteraria per elezione non è la prima né la seconda, ma la terza o quarta. Si pensi a scrittori (comprendendo anche saggisti, scienziati, giornalisti e non solo poeti e narratori) che hanno lasciato la terra di origine (Africa, America Latina, Paesi dell’Est europeo, Asia) già adulti, dopo avere scritto i primi lavori nella lingua madre, per passare poi in altri Paesi, spesso in Francia, dove hanno scritto nella loro seconda lingua, e infine scelto di trasferirsi negli Stati Uniti e di adottare l’inglese americano come loro definitiva e unica lingua letteraria, relegando le altre alle sfere familiari e amicali e a quella delle relazioni interpersonali fra persone di diversi Paesi e nelle occasioni di incontri internazionali.
    Quando ho passato un anno a Belgrado con una borsa di studio, vi ho conosciuto molti studenti universitari stranieri. Uno di questi conosceva ben nove lingue: era un somalo che conosceva la sua lingua locale che solo da pochi anni cominciava ad avere un principio di uso scritto, mentre precedentemente era solo orale, senza un proprio alfabeto, senza grammatica e dizionario, senza un solo libro scritto di riferimento. Conosceva poi l’italiano perché aveva fatto le scuole elementari e medie in italiano (la Somalia come ex colonia e poi protettorato italiano aveva scuole in italiano), conosceva l’inglese perché aveva fatto il liceo in una scuola inglese, conosceva l’arabo perché era di religione islamica ed era obbligatorio pregare e leggere il Corano in lingua originale, conosceva il russo e il tedesco (della Germania orientale) perché, grazie agli aiuti e agli scambi culturali, aveva frequentato parte degli studi universitari in quei Paesi, conosceva il serbo croata perché stava facendo la specializzazione post laurea in medicina a Belgrado, e conosceva altre due lingue parlate in Jugoslavia, il macedone e il rumeno, una delle oltre dieci lingue minoritarie della Voivodina dove questo somalo aveva una compagna. Finita la specializzazione, grazie a un fratello che abitava da tempo a Bologna, si trasferì a Bologna e fu assunto dall’ospedale, per cui la lingua italiana diventò poi la sua lingua di lavoro e di relazione, in pratica la sua prima lingua. Non so se in testa avesse una gran confusione o se tutte queste lingue riuscivano a convivere e arricchirsi reciprocamente.
    Ho avuto anche un docente universitario che conosceva – o almeno affermava di conoscere – ben 21 lingue, ma le usava per la bibliografia e quindi si limitava a leggerle, non le padroneggiava veramente e non era in grado di scriverle con la stessa spontaneità e sicurezza delle due o tre lingue che aveva approfondito veramente. Il poliglottismo, in effetti, è un fenomeno diverso dal translinguismo, anche se il passaggio da una lingua all’altro, sia pure occasionale e strumentale, comporta comunque il passaggio da uno a un altro diverso atteggiamento psicologico.
    Ciò si vede anche nei nostri scrittori classici di cui alcuni scrivevano in latino, in greco e in italiano, ad esempio Leopardi. O il Pascoli che scriveva in italiano e latino. Ma i diversi comparti non solo hanno spazi diversi, ma hanno proprio caratteri letterari diversi. Lo stile latino del Pascoli o del Leopardi non è lo stesso stile del loro italiano.
    Lo verifico pure in scrittori attuali. Ad esempio la poetessa Carla Spinella, nativa di Bova Marina nella Bovesia dove si parla la lingua minoritaria neogreca (greco-calabro o grecanico), scrive con piena padronanza sia in italiano sia in greco-calabro in poesia e in prosa e nella sua produzione letteraria alterna le due lingue. Ma in greco-calabro, lingua grammaticalmente e lessicalmente più povera e più irrigidita in modi di dire tradizionali popolari, Carla appare quasi poeta popolare, con una concretezza contadina che si manifesta nei proverbi, nelle forme gnomiche e aforistiche, nelle metafore e nell’immaginazione che si rifanno alla natura e al lavoro manuale dei contadini e artigiani; mentre nella produzione in italiana rivela una raffinatezza nutrita di cultura classica e della ricchezza della tradizione della letteratura italiana, per cui il suo stile è più ricco e vario, più personale e nuovo, più intimo e più libero. La lingua obbliga il pensiero a seguire i suoi percorsi, gli unici possibili. Se si tenta di superarli, ad esempio pensando in una lingua e poi traducendo mentalmente nell’altra, ci si accorge che ciò è in qualche modo possibile fra lingue di pari ricchezza semantica, mentre è impossibile fra lingue molto più diverse. Per assurdo, si provi a tradurre un trattato di sociologia o di filosofia dall’italiano in un dialetto qualunque e si vedrà che è impossibile, perché non solo mancano i termini, ma mancano proprio le strutture concettuali adatte. Per riuscirsi, bisognerebbe non tradurre ma riscrivere completamente, creando la lingua dialettale necessaria, cioè arricchendola di neologismo e strutture non sue. E anche così facendo si arriverebbe a un prodotto per molti aspetti lontano dal testo originario. Nel 1875 è stato pubblicato, per il quinto anniversario della morte di Boccaccio, un grosso libro che contiene una sola novella, scelta fra le più brevi, tradotta in tutti i dialetti italiani. Si provi a leggere e si vedrà come la stessa novella assume, nelle diverse traduzioni, toni e registri diversi, adotti metafore e modi di dire che accentuano o attenuano gli aspetti comici o tragici. E alla fine ne esce come potrebbe apparire una persona che indossi successivamente vestiti diversi, dei quali alcuni le stanno grandi, altri stretti, alcuni lunghi, altri brevi, alcuni molto colorati, altri grigi ecc. La stessa persona non sembra più la stessa in tanti travestimenti.

    1. Luciano Aguzzi ha il mio plauso, la mia con-divisione, il mio ringraziamento per un intervento che amplia e precisa aspetti significativi del tema linguistico-letterario del translinguismo emergente.
      Segnalo, e ben lo dice Ennio Abate nella sua nota che introduce il mio lavoro,
      che tuttavia questo breve saggio è un estratto d’una ben più ampia relazione
      nella quale mi sono soffermato a lungo su tre casi letterari da me considerati emblematici di autori translingui:
      Agota Kristof, Hannah Arendt, Iosif Brodskij

      gr

  5. Molto stimolante, caro Gino, il tuo contributo e il tuo approfondimento al tema così attuale del “translinguismo”, ispirato all’antologia curata da Letizia Leone, Alla luce d’una candela in riva all’oceano (ha accolto il mio testo I senza nomi).
    Nel mio caso le cianfrusaglie sono state riposte da moltissimi anni e “en douceur” nell’armadio, anzi negli armadi che hanno seguito i miei vari traslochi, il primo dalla Francia all’Italia, (non da esule, né da migrante, ma seguendo le ragioni del cuore e mio marito italiano, di lontana origine polacca), poi cambiando più volte città.
    Le valigie transitorie successive a questo cambio di vita, lingua, lavoro, famiglia, sono dunque state tutte italiane e hanno seguito l’apprendimento di quella nuova lingua in modo progressivo e autodidatta, anche se l’aver studiato il latino a scuola sia stato di grande aiuto.
    Ho scritto poesia dall’adolescenza, ovviamente in francese. In seguito, a quasi metà della vita, è così subentrato un periodo incerto, direi “a cavallo”, in cui ho però proseguito. Una quindicina di anni fa, accompagnando la malattia di mio marito poi la sua morte, ho cominciato a scrivere direttamente in italiano e da allora non ho smesso.
    Ho recentemente ritirato fuori dal solito cassetto le mie “Poésies d’antan o del tempo che fu”, (anni ’60, appena pubblicate in versione bilingue), ma la traduzione è stata difficilissima, e sicuramente imperfetta, soprattutto per quanto riguarda i sonetti. Le rime sono impossibili da riprodurre, si può tentare di ritrovare il ritmo. Ora l’alessandrino della mia gioventù è ormai lontano, forse sostituito dal settenario italiano.
    Anche se a volte difficile, quando nello stesso discorso arrivano contemporaneamente parole delle due lingue perché esprimono meglio quello che si vuole dire, non mi sento defraudata dalla mia lingua madre ma arricchita grazie alla conoscenza dell’altra. Con un po’ di ritrosia ho raccontato qui la mia esperienza, convinta però che per ognuno di noi transfughi sia sentita in modo molto diverso, secondo le circostanze e il fatto che sia stata volontaria o imposta dal destino. Aggiungerei, molto interessante anche il lungo e dettagliato commento di Luciano Aguzzi che elenca tutti i casi possibili di passaggio e approdo da lingua a lingua.

  6. Edith, grazie, la tua testimonianza parla da sé…
    Il desiderio che in me arde, da quando ho conosciuto quel tuo ‘Diario di un addio’ cresciuto come erba fresca sulle macerie della perdita del tuo compagno d’una vita, Michele, è quello di diffondere i tuoi versi. Perciò propongo quelli che ospita l’Antologia curata da Letizia Leone, I senza nomi.

    Edith Dzieduszycka
    I senza nomi

    In giacche d’ombra
    e visiere di fango
    arrancano
    letali
    i senza nomi

    Sul ciglio del sentiero
    su scogli e strapiombi
    senza meta
    a blocchi aggrovigliati

    Le loro armature sono di pelle nuda.

    Hanno perso la voce
    la lingua
    forse la voglia

    Dai rovi
    sornione s’alza
    la brigata dei corvi iene sciacalli

    L’orizzonte è fuggito

    È andato lontano
    dietro
    più dietro ancora

    Una mantella cupa
    lo ricopre.
    ——————————————————
    gr

    1. [4 voci poetiche del translinguismo:
      Edith Dzieduszycka, Gëzim Hajdari, Lidia Popa, Agota Kristof]

      Edith Dzieduszycka
      [A cavallo sur deux langues]

      A cavallo
      sur deux langues
      position
      davvero scomoda

      on penche
      un po’ par ci un po’ di là
      senza mai bien savoir
      da quale cavolo di parte

      on va cascare!
      …..

      NdA
      (Il mio ideale ora sarebbe di scrivere con le due lingue mescolate, perché certe “cose” si sentono e si dicono meglio in una, altre invece nell’altra).

      Gëzim Hajdari
      Dove vanno questi uomini]

      Dove vanno questi uomini insanguinati
      Dove vanno questi uomini insanguinati
      giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
      Dicono che provengono dal Delta del Niger
      e non vogliono tornare indietro.
      Che ne sarà dei loro destini?
      Fuggono lungo il confine
      insieme alle bestie impazzite
      in balia delle dimore ignote
      e delle voci dei defunti.

      Lidia Popa
      Sentire il pianto della terra

      In quest’attimo sconvolgente d’inerte esilio nella eternità
      Il cielo migra, capovolto nella trasparenza della biosfera.
      Sulla sabbia scolpita tra fili secchi d’erba, gode l’inverno.
      Sotto la coltre di neve, il grano si nutre dalle nuove radici.

      Affonda il vecchio tempo nel fertile suolo dorato.
      Secondi inafferrabili di granelli di sabbia mobile,
      Scorrono dalla clessidra del cielo nel fine febbraio.
      Lasciano impronte cancellabili sulla terra deserta.

      Tu, Uomo ascolta in silenzio il pianto di questa terra.
      Se ti commuovi è perché non hai fatto abbastanza.
      La terra vive e si ribella, arroventa il fiume di magma.

      Tu, Uomo se ti commuovi, senti quando piange la terra.
      La terra oppressa sotto il cemento come una tomba.
      Vive e si ribella, facendo nascere la vita ovunque.

      Nda:
      Questi versi sono la visione differente del migrante sconvolto dal suo esilio urbano, abituato a vivere in stretto legame con la Madre Natura, a quale dona considerazione e rispetto perché rappresenta la continuazione della vita, l’ossigeno per respirare e nutrimento.

      Agota Kristof
      [da I Chiodi]

      «Qui le persone sono così felici
      che nemmeno amano
      sono realizzate non hanno bisogno
      l’uno dell’altro nemmeno di dio
      la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
      e fino a sera aspettano la morte».

      Agota Kristof
      [da I chiodi]

      «Nel crepuscolo che ha perso l’equilibrio
      un uccello libero spicca un volo sghembo
      a terra c’è solo il seminato
      silenzio indicibile
      e insopportabile
      attesa
      Ieri era tutto più bello il canto
      tra le fronde degli alberi
      tra le tue mani tese
      il sole.
      Ora nevica sulle mie palpebre
      il mio corpo
      è pesante come roccia
      e non c’è motivo per cambiare marciapiede
      e non c’è motivo
      per andare alle montagne

      —————————————————–
      gr

  7. Caro Ennio Abate,
    quando nella tua nota auspichi l’incontro costruttivo tra le due resistenze attive di chi arriva e di chi già c’è fai centro poiché, ma è ancora in fieri, il prossimo convegno, che forse organizzerò nella prossima primavera, riguarderà il fenomeno linguistico-letterario della “restanza”.

    gr

  8. La pregevole relazione di Gino Rago è di notevole interesse (così come i densi commenti che ne sono seguiti) perché carica di attualità e “contingenza” il fare poetico, la scrittura creativa e la critica. Se vogliamo credere che L’estetica sia la madre dell’Etica. C’è poi un altro aspetto che ho messo in evidenza nell’introduzione all’antologia sull’Esilio, quello dell’esilio peculiare dello scrittore che assume più la valenza di categoria metafisica che politica.
    La stessa antologia è suggellata da un verso del poeta russo esule nel 1972 dopo l’accusa di «parassitismo sociale», “Alla luce d’una candela in riva all’Oceano”. Un verso che in questo caso può essere esperito quale veglia simbolica davanti al mare, il mar Mediterraneo di questo secondo millennio divenuto tomba d’acqua per migliaia di profughi. Topos della letteratura universale, l’esilio in questa nostra modernità di guerre e migrazioni assume dunque questa valenza metafisica per Brodskij. L’abitare è la parola chiave mancante e il focolare, archetipo psichico del centro, dei legami comunitari e parentali e una parola vecchia, accantonata, dismessa. Smarrimento delle radici ed erranza sono la condizione attuale di un uomo decentrato, per così dire, fuori di sé: cuffie, cellulari, computer lo tengono immerso in una esteriorità liquida, al livello superficiale della chiacchiera. Al contrario lo scrittore è un esule privilegiato grazie al suo mondo interiore. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula».
    Ne consegue che l’esilio post-moderno, quale dimensione ontologico-esistenziale, esula dalla sola sfera politica ma configura una condizione di estraneità, disadattamento, precarietà, marginalità dove il linguaggio, la poesia, l’arte e la cultura possono funzionare da «scudo immunologico» anche per chi è geograficamente stanziale. Non dimentichiamo inoltre che i poeti “classici”, ( “…un mio lavor sì doppio /Tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco” (Petrarca), erano maestri dell’abitare poeticamente la terra e citando Rilke da un prezioso volumetto di Emerico Giachery “Abitare poeticamente la terra”: «I versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli, sapere i gesti dei piccoli fiori…», ma oggi immersi come siamo nel rumore, negli spazi spogli e cementificati, nelle luci violente quanta di questa sacra spazialità è stata sottratta al nostro io? Siamo un poco tutti esuli da qualcosa di profondo, sicuramente dal silenzio…

    1. Il mio attuale stato di salute mi consente brevi tempi di autonomia o di libertà di lettura e di scrittura senza dolori proibitivi: per questo ringrazio soltanto adesso Letizia Leone per il suo intervento.
      Solo mi sarebbe piaciuto, nella Introduzione all’estratto della mia conferenza recente, dell’11. 12. 2018 in Cerchiara di Calabria, ospitata da Ennio Abate, dare maggiore risalto allo studio di Jean-Luc Nancy incentrato sulla comunità e sulla sua crisi, aspetto che sta molto a cuore a Letizia Leone e che ha ben trattato nella sua presentazione dell’Antologia poetica che ha curato per G. Perrone Editore in Roma. Ma nel corso del convegno ho acceso le mie attenzioni, come giustamente ha colto Ennio Abate, segnalandone oggettivamente i limiti, sul mero aspetto linguistico del fenomeno, come del resto dichiaro già nel titolo della seconda parte della mia Introduzione: – “Migrazione-fenomeni linguistici”.
      Ringrazio nuovamente Letizia Leone per il contributo donato al ricco e serio dibattito che si sta sviluppando.

      gr

  9. Ho scritto nell’introduzione allo scritto di Rago: « Lo pubblico perché documenta un modo di affrontare il fenomeno delle attuali migrazioni che è giusto approfondire, anche se a me pare influenzato da un heideggerismo troppo metafisico». E non a caso avevo richiamato come esempio di un terreno per un possibile confronto meno unilaterale il libro di Donatella Di Cesare che, pur partendo da premesse heideggeriane, non vi soggiace e pone – vedi ultima pagina di «Stranieri residenti» – con decisione il problema: «Occorre una politica che prenda le mosse dallo straniero inteso come fondamento e criterio della comunità».
    I commenti seguiti ( specie quello di Letizia Leone e a parte quello di Aguzzi), aggirano la mia critica; e insistono e rafforzano questa lettura metafisica del fenomeno delle migrazioni e del rapporto tra noi e loro sottraendolo al discorso storico- politico- culturale per me fondamentale. Perciò intervengo telegraficamente: per invitare a non fare reciprocamente o diplomaticamente i sordi e ad aprire, se possibile, un confronto/scontro vero e fecondo:

    @ Rago

    Non credo che Poliscritture sia un «importante blog». Meglio non esagerare. E’ un laboratorioa di ricerca. Stop. E l’ospitalità di testi che toccano questioni importanti e hanno una qualità di esposizione dignitosa è stata da sempre la regola per selezionare i testi da pubblicare.

    @ Cinti

    D’accordo contro la concezione identitaria dei «connotati linguistici» ( o, più semplicemente, delle lingue e dei linguaggi), ma diffido della ormai abusata formula pasoliniana della «mutazione antropologica».Specie quando, come nel suo commento, viene anteposta (e forse contrapposta) all’indagine sul «sociale» (termine con cui viene indicata di solito l’indagine – oggi effettivamente in grave ritardo – direttamente storico-economico-materiale delle società sorte dallo sviluppo della rivoluzione industriale e quindi *capitalistiche*).

    Tengo a sottolineare che è tutto da dimostrare che: 1. la poesia (quale? tutta?) sia (per quale sua virtù intrinseca?) « oltre per eccellenza e cavalca il divenire»; 2. accolga « i rifugiati della vita e ogni transfughi che a lei si affidi». Se, così fosse, avremmo risolto circa il 70% dei problemi che oggi ci affannano. (La poesia come« simbolo di casa comune che accoglie» mi sembra una mitologia. E smentita dalle pratiche competitive e spesso persino mafiose che ne caratterizzano molti ambienti in cui viene “coltivata”).

    @ Popa

    Ahimé, quanto poco sono «ovvi» ( e non solo «per ogni poeta») i « motivi dettati dallo sviluppo economico del proprio paese» che costringono milioni di umani «a lasciare la terra di origine»! I poeti farebbero bene a studiarli, a scavarli, perché in quella loro ovvietà si nascondono molte sorprese (spesso brutte).

    Concordo, invece, in pieno ( e anche per esperienza diretta) con la sua affermazione: «Non è vero che si dimentica la propria lingua di origine. Vive nel subconscio la lingua madre. Come già, avviene nella lingua di origine sono dei processi di cambio, di arricchimento del vocabolario con parole importate». (E qui velocemente accenno a due spunti che forse riprenderò: – anche la lingua madre è campo di *conflitti* (e non solo porto sicuro, fonte di autenticità o di elegia); – anche l’« arricchimento del vocabolario con parole importate» non è mai arricchimento lineare o evoluzionistico, ma fonte di *conflitti* anche rischiosi. (Come lei stessa , del resto, riferisce a proposito di scrittori del suo Paese che « che hanno compiuto la loro opera all’estero nella lingua di adozione) che hanno avuto un riconoscimento tardivo da parte della cultura rumena») . Perciò, inviterei ad esserepiù guardinghi e problematici ( mai ostili o diffidenti) nei confronti dei problemi enormi che pone il *translinguismo* o questo « trasmigrare dei concetti e filosofie oltre le frontiere». Per non parlare dei terremoti non solo linguistici, ma sociali e strutturali, che la mondializzazione sta comportando.

    @ Aguzzi

    Concordo. Il fatto che «ogni lingua ha una sua Weltanschauung o, per meglio dire, una sua propria analisi della realtà del mondo fisico e mentale e un proprio modo per rappresentarlo, narrarlo, immaginarlo, parlarne» conferma la grandiosità, la complessità e i rischi che vengono dalle conflittualità innestate dai processi storici – ripeto: non solo linguistici – che molti stanno direttamente vivendo e altri osservando più indirettamente.
    E, nel campo strettamente linguistico, credo che sicuramente i traduttori lo sappiano meglio di altri.

    Gli esempi che porti (lo studente somalo, il docente universitario, i nostri classici, Carla Spinella) chiariscono e confermano la presenza dell’elemento *conflittuale* e dunque non linearmente evoluzionistico o progressivo di questi processi. (E, dunque, anche i rischi, le sorprese, le trappole, le regressioni o gli avanguardismi che li accompagneranno).

    @ Leone

    Mi spiace dover dissentire con lei e cerco di farlo con il poco garbo che posseggo. Dubito che «l’estetica sia la madre dell’Etica». Troppi sono gli esteti non solo senza Etica ma anche senza Politica; e quindi troppo orbi. E se non orbo, a me pare limitativo un discorso sull’«Esilio» che sarebbe «peculiare dello scrittore» e avrebbe ( o dovrebbe avere) « più la valenza di categoria metafisica che politica».
    E perché mai questo “privilegio” (sia pur negativo rispetto all’opinione più diffusa)? Perché mai la politica (meglio usare le minuscole!) dovrebbe venir dopo la metafisica? Perché lo sostiene Brodskij?
    E perché – oggi – non nel mondo antico – «il focolare» dovrebbe restare così fondamentale? Perché questa insistenza (ossessiva) sulle «radici», se non siamo alberi, ma viandanti, passeggeri, migranti, esuli, ecc? Chi le conosce davvero le «radici», da poterle indicare come «centro»? E perché assolutizzare il «mondo interiore»? O fare una caricatura di quello supposto “esteriore” («un uomo decentrato, per così dire, fuori di sé: cuffie, cellulari, computer lo tengono immerso in una esteriorità liquida, al livello superficiale della chiacchiera»? O privilegiare soltanto il «mondo interiore» dello scrittore, come se altri non l’avessero?

    1. Gentile Ennio Abate, il mio non è un discorso unilaterale o apodittico come lei vuol far intendere. Se parlo di peculiarità metafisica di esilio dello scrittore non redigo classifiche ma evidenzio altri aspetti, concordando con Brodskij, oltre al dato esistenziale –politico. Ogni poeta o scrittore che lavora con il linguaggio (da una postazione privilegiata, questo si) affronta il suo esilio anche nella profonda riflessione della sua arte (e la postazione decentrata rispetto alla sua madrelingua implica un lavoro anche di ripensamento critico ed estetico magari da un “focolare”, da un proprio centro psichico, culturale o antropologico.)
      Inoltre penso ad un legame profondo e indissolubile tra l’estetica (un modo di fare filosofia, un “guardare-attraverso” che pone al centro l’aistethis (sensibilità) nella sua più ampia declinazione) e l’evoluzione della coscienza alla base dell’Etica. Ma si parla di arte e della sua assimilazione profonda, non di intrattenimento…sappiamo tutti benissimo che uno può ascoltare Bach la sera e poi il mattino fare il carnefice nazista in un campo di concentramento (come scrisse Steiner). L’arte possiede un profondo potere euristico al di là delle capacità dei fruitori.
      Il problema politico è la riduzione, se non annullamento, deliberato dell’insegnamento della musica, della storia dell’arte e della poesia e letteratura dai programmi scolastici…

    2. @ Ennio
      Rispondo solo per quello che mi riguarda. In realtà non ci sarebbe risposta, perché concordo e a me sembra evidente che «Gli esempi […] chiariscono e confermano la presenza dell’elemento *conflittuale* e dunque non linearmente evoluzionistico o progressivo di questi processi. (E, dunque, anche i rischi, le sorprese, le trappole, le regressioni o gli avanguardismi che li accompagneranno).
      Nei lontani anni dei miei studi universitari ho sostenuto qualche esame di filologia e di linguistica. La storia delle lingue gronda sangue, come la storia di chi le parla. Partendo da una lingua qualunque, da un dialetto qualunque, si può risalire indietro ai diversi apporti e sostrati. Tutta una storia e una archeologia della protostoria e della preistoria che ci parla di scontri, di emigrazioni, di guerre, di conquiste, di mescolanze di popoli e di lingue, di lingue dominanti e lingue represse e ridotte ai margini più poveri e periferici (in senso letterale, cioè ridotte a “dialetti” che sopravvivono ai margini e fra i ceti più umili e isolati). L’emigrazione (pacifica o non pacifica, come fuga o come conquista imperialistica, come impresa e come colonizzazione di territori semidisabitati) è sempre, anche, un’emigrazione di lingue. Ci sono i casi in cui la lingua dei conquistatori viene imposta e uccide le lingue dei nativi, in altri casi è la lingua dei migranti che lentamente scompare e i migranti adottano la lingua della loro nuova terra, apportandovi solo qualche influenza lessicale.
      Mentre si svolge questa nostra discussione, nel mondo ci sono decine e decine di lingue che si stanno estinguendo (e molte altre si sono estinte nel corso dell’ultimo secolo). Lingue i cui “testimoni”, cioè i parlanti come lingua madre, sono ridotti a due o tre anziani. Anche questa è globalizzazione.
      Oggi, in Italia, ci sono movimenti di vario tipo per la conservazione e la valorizzazione delle lingue minoritarie e dei dialetti. Ma nelle scuole elementari del Settecento, dell’Ottocento e fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento era proibito parlare in dialetto o in certe lingue minoritarie considerate come dialetto. Quando io ho fatto le elementari (anni 1950-1955), c’era il rischio di prendere bacchettate sulle dita a parlare in dialetto e per molti italiani, me compreso, la lingua italiana è stata appresa a scuola, non era la vera lingua madre.
      Fra nazionalismo e imposizione della lingua c’è un rapporto stretto. E questo è un aspetto storico interessantissimo e largamente studiato.
      Un altro aspetto storico, forse meno studiato, è quello della scelta volontaria di una lingua straniera, come lingua di maggior valore nei rapporti inter-relazionali / internazionali e come lingua di maggior valore in senso tecnico e bibliografico.
      A Milano, da un po’ di anni, ci sono corsi in inglese in varie facoltà universitarie e in varie materie, non solo in anglistica, ma anche in discipline scientifiche e tecnologiche, in discipline nel campo delle scienze sociali e umane (soprattutto in corsi di specializzazione).
      Una situazione analoga l’avevo già trovata a Skopje, capoluogo della Macedonia, nel 1973, quando ho avuto qualche rapporto con quella università. Un docente di Fisica mi disse che insegnavano in inglese perché in macedone non c’erano libri di fisica; che scrivevano e pubblicavano contributi scientifici in inglese perché in macedone non li avrebbe letti nessuno.
      La battaglia linguistica, casomai, non era fra macedone e inglese, ma fra russo e inglese. Infatti alcune università dell’allora Jugoslavia, come della Bulgaria, adottavano il russo come lingua di alcuni corsi e frequentavano la bibliografia in russo. In Slovenia invece era ancora molto vivo e presente il tedesco, non solo per la sua importanza del momento ma anche per eredità storica. Però, tornato a fare un giro nelle stesse località una diecina d’anni dopo, l’inglese aveva soppiantato quasi completamente il tedesco di Lubiana, il francese di Zagabria, il russo di Belgrado (parlo sempre della lingua di scambio per gli studi universitari e di specializzazione, non della lingua familiare e nazionale).
      Una volta, da ragazzo, lessi una notizia che allora mi meravigliò. Per noi la neve è la neve. Per gli Inuit (uno dei rami principali dei popoli eschimesi) la nostra neve si suddivide in venticinque tipi diversi di neve e ognuno ha un suo nome: la neve soffice, la dura, la fresca, la vecchia ecc. ecc. Che cosa succede nella testa e nella personalità di un Inuit che parla in inglese o in un inglese che parla in lingua inuktitut? La “traduzione” non è mai solo linguistica, ma coinvolge sempre processi cognitivi molto più complessi che hanno un loro riflesso sia sulla sfera dell’emotività sia su quella del comportamento. Con quale diversità di occhi, di sguardi, di pensieri, di emozioni e di reazioni fisiche un italiano e un inuit guardano nevicare? Diversità che rimane anche se i due si trovassero nello stesso posto e nello stesso momento a guardare la stessa neve. E ciò che riguarda la neve si può estendere a diecimila altre cose.
      La lingua è “anche” uno strumento tecnologico, un attrezzo per agire nel mondo. In questo senso vi è chi sceglie l’attrezzo tradizionale, caro ai propri ricordi e alla propria esperienza, e chi sceglie l’attrezzo considerato più efficace, abbandonando senza rimpianti la lingua madre o relegandola a seconda lingua. Vi è pertanto anche un aspetto linguistico, e di ecologia linguistica, nel dibattito fra globalismo, glocalismo e localismo.
      Perché uno studioso come Nassim Nicholas Taleb, che nasce in Libano, da famiglia benestante, parla arabo e francese fin dall’infanzia, si trasferisce negli Stati Uniti e adotta l’inglese come sua lingua e in inglese scrive i suoi libri venduti a milioni di copie? Lo dice lui stesso. Sceglie gli Usa per le maggiori possibilità che quel paese offre per arricchirsi rapidamente, scalare il successo, conquistare uno spazio internazionale ed esercitare un’influenza più vasta con i suoi libri di filosofia. Si arricchisce come matematico finanziario e trader in borsa e poi si dedica alla filosofia. Quanto, di questa esperienza personale entra nelle sue teorie filosofiche e le condiziona? Come sarebbero state diverse se avesse scritto in arabo o in francese?
      Taleb è un esempio tipico, un tipico rappresentante della globalizzazione che, anche quando è presentata in positivo come allargamento delle opportunità e del benessere, richiede dei sacrifici di vario tipo, compreso quello linguistico. La «conflittualità dei processi storici» è sempre presente, sia all’interno dell’esperienza dei singoli individui, sia nei rapporti fra gruppi etnici, nazioni, Stati.

      1. @Aguzzi

        Ottime considerazioni. Se non si coglie la *conflittualità* nei trasnslinguismi e non se ne afferra il senso *politico*, si finisce o nell’esaltazione nostalgica (del passato contadino, dei dialetti) o nell’apologia progressista della lingua dei padroni del mondo (che sia l’inglese o il russo o, chissà domani, il cinese) o nella coltivazione in serra ed estetizzante dell’italiano come “lingua più bella del mondo” ( come la nostra Costituzione, che – ovvio – sarebbe anch’essa la più bella del mondo) o in una metafisica esangue e ambigua (con tutto il rispetto per la metafisica].

        Le mie esperienze di viaggi sono minime rispetto alle tue ma ho avuto sempre piena coscienza della conflittualità (interna ed esterna) lacerante che ho provato (assieme a migliaia di migranti dal Sud al Nord) anche nel solo passaggio dal dialetto all’italiano. E in poesia l’ho espressa così:

        Lettera di lamento di Karl Bis

        Per la comune miseria assieme condivisa
        e il duraturo malessere che s’ammucchiò poi
        alla rinfusa nei giorni, per la marcita di silenzio
        ch’oggi copre quel passato, ripeterò ossessivo
        il saluto, l’atto paziente e gentile della parola
        dinanzi all’oscura maturazione che ti staccò da noi.
        Una volta servì a vigilare – ricordi? –
        sul continuo morire della vita circostante.

        (Ma cumm’e fatt a te ne ì, a stà senza nuie?
        Nun putive sta ccà, sì, miezz’a sta miserie?
        Nu vire quanta marvagità s’accocchia juorne
        doppe juorne? Cumm’uve abbandonate
        a vita nun sona chiù. Ah, si te truvasse e te
        putesse chiamà pe nnome! Tenghe pronte
        na parole gentile cumm’a chelle ca mettene
        tranquille e malate ca tenene paure e murì.)
        [1]

        Dove, a cosa davvero mira, ti chiedo
        questa tua improvvisazione nel mutare?
        Lascia maturare il tuo destino accanto a noi.
        Tutto già cambia contro il desiderio di durare.
        (Sa’ quanta vote t’aggia addimmannate:
        addò vuò arrivà cu sta smanie e cagnà?
        Tutte cagne e spezz’a voglie e campà.)
        [2]

        Pover’amico, in grafia convulsa t’agiti
        e nel medesimo sobbalzo della tua mente
        in corsa resti. Graffia! Graffia le pareti
        dell’altrui parole! Ma cosa può più dirmi
        la tua fissa maschera rabbiosa del luogo
        derelitto che t’accolse e se mi giudichi
        vile lettore, mentre accorto e obbediente
        io rimango alle verità vissute in comune?

        (Che lettere agitate, povere guaglione!
        O cirvielle te zompa, ma staie sempe
        ao stesse poste a grattà cu l’onghie
        o mure e parole ca l’ate t’aizene nfaccie.
        E che me pò dicere ra o fuosse scure
        add’o te sì jettate sta faccia arraggiate?
        Sò pauruse ? No, sule accuorte ae verità
        ddoce c’avimme muzzecate ‘nzieme.)
        [3]

        Quando gli amici s’incuneano in stretti vicoli
        di morte, un allarme suona. Essi sudano e noi
        prudenti tremiamo. E per sedare i loro spasimi
        furibondi ci caliamo sul volto un elmo di silenzio.
        (Quande n’amiche se jette, cumma na lucertole,
        rint’e vicule ra morte, scatte na molle. Chille
        sure affannate. E nuie na smachere nfaccia
        silenziose pe calmà e viscere ca spasemene. )
        [4]

        Ci abbandoni per colpirci meglio e ferirti di più.
        M’auguro il tuo ritorno. Farò da argine allo scherno.
        Non disfarti in fantasma! Non lasciarmi a decifrare
        smarrito le tue impronte svigorite. (Tu te ne vaie
        odianne a nuie e a te pure. Ma sempe m’aspette
        ca tuorne. E male lengue nce pense je a tagliarle.
        Nisciune te pò ‘nsultà. Nun sparì, nun me fa
        girà sperdute su sti poche signale lasciate.)
        [5]

        Uno sterile duello a distanza malamente c’invecchia.
        Una forza cieca e proterva ti regge per vie strombate
        e dentro luride pensioni. Nel mortaio della tua mente
        solo cattiveria pesti e odi e rancori recitati.
        (Une spall’all’ate nge facimme viecchie tutt’e duie
        e sultante na pazzie arrraggiate te fà cumpagnie
        pe chell’i vvie storte e dint’ae pensione sporche.
        Là, iastemmanne, t’addurmenti ncopp’e cattiverie.)
        [6]

        Sono rimasto, sì, fuggendo io pure da fermo.
        Pacato e ragionevole, non mi sono lacerato.
        Se lacerato, mi rattoppo. E sposto un silenzio
        dopo l’altro, di continuo. Asfittico è il mio spazio
        lo so. E non faccio che soffiare polvere d’ansia
        nei suoi quattro angoli. E guardingo cerco
        di conservarlo il grumo luccicante della nostra
        amicizia. Anche se non lo intendo più.

        (Stonghe cà, ma pure je stò fujenne, accussì
        ferme. Me songhe acquietate. Sto tutt’assieme
        però. E pure si me spezzane, m’acconcie.
        Aggie spustate dint’a sta camerelle ‘e ccose
        ca s’erene fatte zitte zitte pa paure e tremavene
        e ci’aggie levate a polvere pe salvà chillu
        piezze d’amicizie ca ancora luceve. Mo
        o tenghe cu me, pure si nunn’o capische chiù.)
        [7]

        Ah, sei tu il più audace nell’esporre i desideri,
        l’avvampato nei giudizi, in pace sempre per poco,
        volto all’utopia e che buon’accoglienza dai
        all’angoscia del mondo! La stringi – dici! –
        in atti, scatti, zig zag imprevedibili. E il moto
        a rilento delle nostre immodificate esistenza
        da chissà dove miri e, tempesta, t’avventi, soffi,
        sfrondi, i boschi della nostra malinconia.
        (Sì, si sempe tu o chiù ‘nziste! Si tu Vulisse!
        Chille ca parle e appiccia fuoche e mai trove pace,
        ca pensa a n’atu munne e se mette rint’e
        a sofferenze e tuttt’e! Tu rice ca l’affierre
        pure si scappe cumm’anguille. E ncopp’a nuie,
        ca muvimme chiane e foglie cumm’a na fureste
        malinconiche, nge suscie e nge strapazze.)
        [8]

        Ma noi, prevedendo distruzioni, qui
        ci conficchiamo e resistiamo e curiamo
        la tua e l’aspra vecchiaia del mondo
        fin dal giorno assolato della tua partenza.
        E quieti nel nostro rimorso, guardiamo
        il mattatoio dove tu entrasti con ardore.
        Tornerai? Ma sei ancora di un vivo
        sfigurata ombra dell’amico mio?

        (Nui c’aspettamme ruvine e cà
        nchiudati aspettammo e curamme
        a vecchiaia toia e chelle storte ro munne.
        Ce tenimme o rimorse e spiamme
        o macielle addo tu trasiste cu tant’a foie.
        Turnerrai? Ma sì ancora chelle è nu vive
        ombre amiche accussì sfigurate?)
        [9]

        Note

        1. Ma come hai fatto ad andartene?/Non potevi restare qui, sì, in questa miseria?/ Non t’accorgi quanta malvagità s’accumula giorno per giorno?/ E come la vita di una volta non ha più suono e si ‘ inacidita come una vigna abbandonata?/ Ah, se potessi ritrovarti e chiamarti ancora per nome!/ ho sempre pronta una parola gentile/ come quelle che servono a tranquillizzare/ i malati che temono di morire.

        2. Sai quante volte ti ho chiesto bisbigliando:/ dove volevi arrivare con quella tua improvvisa smania di cambiare?/ Per me dovevi maturare come fa l’uva vicino alla nostra vigna./ Perché tutto muta per conto suo e spezza il nostro desiderio di vivere.

        3. Mi hai scritto lettere tempestose, povero ragazzo!/ La tua mente saltava, ma stava sempre nello stesso luogo./ Era inutile grattare con le unghie il muro di parole che gli altri ti alzavano davanti./ E cosa mi poteva più dire ormai dal fosso oscuro dove t’eri gettato/ quella tua faccia di morto arrabbiato?/ Tu mi giudicavi un vile/ ma io ero soto attento a non smarrire quel po’ di dolce verità/ di cui assieme ci nutrimmo.

        4. Quando un amico si slancia, come una lucertola, nel vicolo della morte,/ qua dentro scatta una molla./ Quello già suda affannato. E noi cominciamo a tremare [per lui]./E dobbiamo per forza calarci in faccia una maschera di slienzio./ solo così possiamo placare le visceri che spasimano.

        5. Te ne andasti odiando noi e te stesso. / Ma io sempre attendevo il tuo ritorno. / Avrei pensato io a zittire i malevoli. Nessuno avrebbe potuto insultarti. / Ma tu eri scomparso, un fantasma ormai. / Ed io pure mi aggiravo sperduto sulle poche tracce che avevi lasciato.

        6. Così, voltandoci le spalle, siamo entrambi invecchiati / e solo una follia rabbiosa / ti accompagnò per quelle vie contorte e nelle pensioni luride. / Lì, tra brontolii e bestemmie, t’addormentavi sulle cattiverie che facevi e ti facevano.

        7. Resto qua, ma, pur fermo, fuggo anch’io. / Ho spostato in questa stanzetta / gli oggetti che erano diventati silenziosi e tremanti / e li ho spolverati / per salvare il pezzo ancora luccicante della nostra amicizia. / Me lo conservo, ma non l’intendo più. /Mi sono rassegnato. Mi tengo unito però. / E se mi spezzano, mi ricompongo.

        8. Sì, sei sempre tu il più deciso! Vulisse sei tu! / Quello che parla e dà fuoco e non trova mai pace,/ che pensa a un mondo diverso e si cala/ nella sofferenza di tutti! Tu dici di afferrarla/ anche se scappa come un’anguilla. E su di noi,/ che muoviamo piano le foglie come una foresta/ malinconica, soffi e ci sconvolgi.

        9. Noi attendiamo distruzioni e qua/ inchiodati aspettiamo e curiamo/ la vecchiaia tua e quella storpiata del mondo./ Tratteniamo il rimorso e spiamo/ il macello dove tu entrasti baldanzoso./ Tornerai?/ Ma sei ancora quella di un vivo/ ombra amica così tanto sfigurata?

        (da E.A., Immigratorio, CFR, Piateda (SO) 2011

    3. Gentilissimo Ennio Abate ringrazio di averti soffermato al mio comento con la risposta. Purtroppo gli errori di espressione sono dovuti alla tecnologia che inserisce in automatico le parole, perciò mi scuso con i lettori del blog. Per quanto riguarda la globalizzazione, l’economia, la politica e altro a quale fai riferimento non è il mio campo, quindi difficile che lo tocchi. Chi rischia troppo non ottenne niente. Ho dato molti tributi e contributi volontariamente, e non è servito a nulla. Scriverò poesia e altro come ho sempre fatto. I critici faranno il loro atto di sbranare le parole e senza esaltare dalla gioia o l’amarezza continuerò la mia strada, obliqua e piena di sassi spigolosi. Grazie di avermi ospitato. Un saluto. Lidia Popa

  10. Prima di tutto ringrazio Gino Rago ed Ennio Abate per avermi segnalato la pubblicazione su Poliscritture di questo breve saggio estratto da “Erranze, Dislocazioni…” che è parte “d’una più ampia relazione nella quale mi sono soffermato a lungo, afferma Gino Rago, su tre casi letterari da me considerati emblematici di autori translingui: Agota Kristof, , Hannah Arendt, Iosif Brodskij “.
    Erranze, Dislocazioni-Esilio-Dismatriati-Translinguismo… C’è qualcosa di più attuale e costringente oggi nell’Italia di 5 milioni di poveri e del Sovranismo alle porte? Non direi. Forse questi sono problemi che travalicano l’aspetto “letterario” e approdano o dovrebbero approdare anche su ambiti sociali. Non è solo una questione di verificare i mutamenti antropologici che questi nuovi fenomeni producono. Forse dovremmo riflettere più in profondità e verificare che le conseguenze che stanno di fronte a noi hanno pure qualche causa. Una volta si gridava alla dialettica, alle strutture e alle sovrastrutture, all’economia, al capitalismo e alle sue capacità di penetrazione e di riammodernamento delle forme di dominio… e oggi? Solo a scrivere “proletario” o “classe subalterna” si corre il rischio di essere impalati al primo crocicchio cittadino. Non abbiamo più gli strumenti per sondare il presente. Ognuno è diventato un albero solitario che cresce in una radura di sterpi. Eppure qualche decennio fa l’orizzonte di tutti, intellettuali e non, era il futuro. Ormai ci rimane il passato. Vogliamo allora fare un passo indietro e cercare di capire cos’è accaduto?
    Ricordate la “Profezia” del Pasolini di “Il libro delle croci”? (P.P.Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964, pp. 93-99)

    Era nel mondo un figlio
    e un giorno andò in Calabria:
    ……………………………..
    Alì dagli occhi azzurri
    uno dei tanti figli di figli,
    scenderà da Algeri, su navi
    a vela e a remi. Saranno
    con lui migliaia di uomini
    ………………………….
    Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
    a milioni, vestiti di stracci
    asiatici, e di camicie americane.
    Subito i Calabresi diranno,
    come malandrini a malandrini:
    <>
    Da Crotone o Palmi, saliranno
    a Napoli, e da lì a Barcellona,
    …………………………………..
    andranno come zingari
    su verso l’Ovest e il Nord
    con le bandire rosse
    …………………..

    Eravamo nel primo quinquennio degli anni ’60 e Pasolini aveva profetizzato: questa parte meridionale dell’Occidente non sarà più come prima! Africani e calabresi, da vecchi fratelli, condividendo lo stesso pane e lo stesso formaggio, andranno come zingari, verso l’Ovest e il Nord, a sventolare le bandiere rosse della nuova storia…

    Bianciardi ne “La vita Agra” aveva gridato alla modernità produttiva e consumistica un inattuale e intempestivo: “Io mi oppongo. Occorre che la gente impari a non collaborare, a non farsi nascere bisogni nuovi e anzi rinunciare a quelli che ha”(Rizzoli, 1962.)
    Sapete come si coniuga oggi quella opposizione?

    “Oggi essere rivoluzionari significa togliere
    più che aggiungere, rallentare più che accelerare,
    significa dare valore al silenzio, alla luce,
    alla fragilità, alla dolcezza.” (F.Arminio , Cedi la strada agli alberi, Chiare Lettere, 2017, pg. 12).

    Le armi dell’alternativa, deposte ai piedi degli alberi, contemplano se stesse, quello che furono, e nemmeno più quello che potevano essere.
    Nel 1964 di Pasolini, io avevo 14 anni, i miei paesani, i miei fratelli, mio padre e mia madre, anche senza la compagnia degli algerini, erano già sulle strade del mondo e, come loro, altre migliaia di calabresi, da un decennio circa. Nel Meridione non si respirava. Alle diaspore dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento ne seguivano altre. E se prima il mondo meridionale riusciva a ricomporsi e a ritrovare un equilibrio fra partenze e ritorni, dopo gli anni ’50 quell’instabilità si è frantumata; quella civiltà si è disintegrata, quel territorio geografico, spirituale e linguistico non ha retto più! Afferma ancora Pasolini:

    Tre millenni svanirono
    non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica
    l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano,
    lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano.
    Quasi come un padrone(pg.95)

    L’ipotesi gramsciana della pari dignità tra la classe operaia del Nord e ceti contadini del Sud smottava, cominciava a evidenziarsi e a solidificarsi quel bisogno di salario e di consumo in cui il Meridione si schiavizzava già dai primi anni del ’50. Ecco la nuova inclinazione, il nuovo pendio del franamento: all’originale sole del Sud si sovrapponeva e si sostituiva il “meraviglioso sole del Nord”. Ed io che seppellivo quotidianamente la dolorosa acredine delle separazioni e dei distacchi, la solitudine della coscienza nella precarietà dell’esistenza, la selvaggia fraternità del sangue e dei legami familiari, cominciai a sbirciare nei “porcili senza porci”, sulle “radure color delle feci”, sulle case dirupate dai terremoti e svuotate dall’indigenza, “tra frigorifero e televisione”, nei miei stessi occhi e negli sguardi di chi mi guardava e vi trovai la presenza della morte e della dissoluzione, la ferocia e l’indelebile dolcezza degli uomini e delle donne, lo slancio vitale e l’esaltazione vigorosa o mortifera della natura. In una poesia giovanile urlavo al mondo e a me stesso:

    Dimenticare ogni albero
    di questa foresta
    per liberarci dalla condanna degli avi!

    Dimenticarci di tutto e di tutti… e seppellire il passato. Ma non poteva accadere e infatti non è accaduto. Non si possono “tranciare di netto le proprie radici solo perché si vuole inseguire il fantasma di una utopia rivoluzionaria, senza radici siamo foglie inaridite, rami secchi” su cui vagano soltanto le formiche e su cui si riversano le ombre dei morti. Degli uccisi e degli uccisori. Lo ricordava bene Carlo Levi attraverso “lu campusantaru”, il custode del cimitero di Gagliano: “Il paese è fatto delle ossa dei morti!” È realtà o metafora? I nostri paesi sono fondati, costruiti, impastati e mantenuti ancora in piedi dalle ossa dei nostri morti. Le ossa di ieri non sono altro che “gli stracci asiatici e le camicie americane”, di Pasolini degli anni ’60.
    E tra quegli stracci, a ben rovistare, ci stanno ancora i flatus voci, i mugolii e i singhiozzi, le imprecazioni e tutto ciò che era stato parola. Verso i 18 anni, in pieno ’68, l’abbaglio rivoluzionario mi portò alla rinuncia delle radici linguistiche: diventai anch’io senza padre e senza madre. La rivoluzione aveva bisogno della lingua nazionale. I gerghi dialettali erano ormai rimasugli della tradizione reazionaria; che andassero al macero come le superstizioni del mondo contadino meridionale… Un altro universo, di progresso e di scienza, ci attendeva oltre l’angolo!
    E invece… Invece il nulla! Ho dovuto ripercorrere le algide strade di Zurigo, quelle nebbiose di Londra, quelle umide di Copenaghen, per poter ritornare alla “fratria”, a quella comunanza di bisogni e di intenti e di lingua che, volutamente, avevo cercato di travolgere e abbattere nell’esistenza quotidiana. Ho letto che Lidia Popa, da straniera in Italia, afferma che la lingua materna non si può in alcun modo dimenticare, che essa sopravvive nel nostro inconscio. Certo! Freud affermava che l’apice dell’iceberg è sostenuto dalle strutture immerse nell’acqua. E si ritorna sempre all’origine. All’acqua e al focolare. Chi poteva parlare di Erranze, Dislocazioni-Esilio-Dismatriati-Translinguismo se non Gino Rago, proprio perché meridionale, ha provato sulle proprie braccia il peso del vuoto delle valigie sempre aperte… Lo spaesamento di noi “sudisti” è ancestrale… anche nelle terre di Calabria ci sentiamo fuori luogo…da dove veniamo? Dalla Grecia? Dall’Oriente? Dalle orde barbariche dei Goti, degli Unni e degli Svevi? Dalla Francia dei Normanni? Dalle truppe di occupazione di Annibale? I nostri cieli hanno dato stelle e lune ai popoli più vari. I nostri linguaggi conservano tracce indelebili delle civiltà registrate dallo stesso Rholfs. Noi Meridionali siamo in esilio da sempre. Forse è giunta l’ora di soffermarci un attimo e di riprendere il filo del discorso, più volte interrotto e più volte ingarbugliato fra le pietre delle nostre fiumare. Luciano Aguzzi ricordava l’esperienza esemplare di Carla Spinella. Ha usato un termine specifico per indicare la provenienza culturale e linguistica della poetessa: Bova, terra e luogo di lingua greca. Ecco, oggi, a chiunque, intellettuali e politici mancano i luoghi, quei luoghi che fino a qualche decennio fa rappresentavano l’unione di cultura e di etica, di lingua e di futuro. Corrado Alvaro in Gente d’Aspromonte registra che Antonello, figlio dell’ex pastore, dopo l’emigrazione, ritorna a casa pallido, emaciato e aggiunge Alvaro, volle bere direttamente “nta lu vozzarieddhu”, nell’orcio di creta, e disse: -Com’è buona quest’acqua!- E la sera a cena, “raccattando le molliche fra le pieghe della giacca, l’Antonello disse:-Com’è buono il pane nostro.” Cosa aggiungere? Lingua, acqua, pane, focolare… Il problema è che il sistema economico del consumo e della produzione ci ha tolto tutto: lingua, pane e focolare e ci ha dato commercio industria, inquinamento, malattie e povertà. Ha ragione Letizia Leone ad affermare con Broshij che nell’era post-moderna “l’esilio è un evento linguistico”. Io l’ho provato sulla mia pelle e Arringheide ne è la testimonianza; ma accanto all’ontologia c’è l’esistenza, la quotidianità, la dimensione dei rapporti sociali, e spesso, ultimamente, tendiamo a poggiare l’accento più sul primo termine che sul secondo.

    1. Giuseppe Gallo ci lascia una testimonianza ricca di letteratura e di vita realmente vissuta e dichiarata e riprende le parole chiave della dismatria:
      Viaggio, Valigie, Armadi, Case, Ritorno, Stabilità, Incertezza, Provvisorietà, Distacco, Terra Madre, Lingua Madre, Matria, Fratria…Dismatriati, Patria…

      Giuseppe Gallo è egli medesimo, più che un autore del translinguismo, un dismatriato perché le protagoniste del suo poema di 32 Canti titolato Arringheide sono le donne, meglio sono le madri che lottano contro i soprusi e le prepotenze di pochi e con la lotta salvano i fili che tengono unita la comunità,proprio la comunità secondo l’idea di Jean-Luc Nancy… Lasciando la sua matria Giuseppe Gallo perde in un sol colpo le 3 madri: la terra-matria, la lingua delle madri, la madre che lo mise al mondo…
      Ma ora mi sta rodendo questa parte finale dell’intervento ultimo di Ennio Abate:

      “[…]Per dirla con Walter Benjamin ogni linguaggio, come ogni cosa competa all’uomo, è al tempo stesso civiltà e barbarie. Solo le nostre scelte, come sempre, possono consentirci di trasformare ciò che ci appare barbarie in uno strumento di libertà.”, sulla responsabilità delle nostre scelte.

      gr

    2. @ Gallo

      Caro Giuseppe,
      rispondo qui avendo come riferimento lo scritto completo apparso su L’Ombra delle parole (https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/23/giuseppe-gallo-canto-xxi-da-arringheide-citta-del-sole-reggio-calabria-2018-pp-604-e-20-dichiarazione-di-intenti-di-giuseppe-gallo-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa/ ) e non la porzione che hai riportato qui sopra. E, sperando in una discussione a più voci, dico lealmente che non riesco a condividere le motivazioni di fondo che ti hanno ricondotto ad un uso (assolutamente legittimo) del dialetto, ma allo stesso tempo ad una svalutazione della possibilità che l’italiano o le parole dell’italiano abbiano «la capacità e la forza di introdurre o di perseguire un senso». Ridotte all’osso queste sono le mie obiezioni, pronto a correggerle, se necessario:

      1.
      “Noi” non siamo alberi, non siamo natura. O, quantomeno, non lo siamo del tutto. Abbiamo subito in millenni e secoli un processo di *umanizzazione*, contorto, doloroso, cieco, non lineare che è passato anche attraverso le lingue che abbiamo ricevuto o apprese. Siamo trasformati dalla storia e qualche volta riusciamo persino ad imprimere “noi” qualche trasformazione.

      2.
      L’«utopia rivoluzionaria», a cui avremmo ceduto (“noi” del ’68-’69, suppongo) e che oggi tu annoveri tra le «“novissime” bubbole», era, se ci si pensa bene al di là delle esagerazioni del fanatismo o del successivo pentitismo, una *possibilità*. (Fortini contro i vari Diamat: il socialismo è possibile, non certo). Marx a partire dalla sua analisi del modo di produzione industriale iniziato in Inghilterra l’aveva indicata in linguaggio moderno (e non più in quello mitico degli antichi o dei rinascimentali). La riduzione di tale *possibilità* a *dogma* fissato in catechismi marxisti-leninisti dotti o volgari, la sconfitta tragica e innegabile dei tentativi di “costruzione del socialismo”, il ritardo nella comprensione dei mutamenti in corso, specie quelli permessi dal dominio sulle scienze e le nuove tecnologie non dovrebbero mai farci assecondare – per disperazione, scoraggiamento, desiderio di rassicurazione, volontà di contare qualcosa nel nostro tempo – le letture del mondo regressive e rinunciatarie. (Oggi per me esse sono soprattutto quelle heideggeriane in filosofia, nazional-sovraniste in politica, neo-estetizzanti e pseudoelitarie in poesia).

      3.
      “Il paese è fatto delle ossa dei morti!”. No, è fatto di vivi. E, se resiste e quando resiste, è per opera dei vivi. Certo, i vivi, se sono davvero tali, portano con sé nella loro resistenza e in quel che costruiscono anche la memoria dei morti, che in qualche modo (molto metaforico, ma ci contentiamo) *rivivono* o facciamo *rivivere*. Ricordandoli, ripetendo le loro *verità*, misurando continuità e discontinuità con le loro credenze o sapienze o conoscenze pratiche cristallizzatesi anche lingue (dialettali, nazionali, internazionali). Nella dialettica o nel tira e molla tra morti e vivi, pur nella consapevolezza che tutta la storia diventa polvere, che anche i troni, le grandi potenze, i dominatori (e non solo noi dominati o dialettali) lo diventeranno, mai e poi mai – e non per ottimismo miope – dobbiamo farci risucchiare dalla parte della distruzione della storia o collaborare coi *distruttori* nichilisti.

      4.
      Pasolini e Recalcati. La frattura (tra dialetti e lingua, tra mondo contadino e industriale) c’è stata. Dura, pesante, sanguinosa, come ha detto bene Aguzzi in uno dei suoi commenti. Inutile illudersi che potesse essere possibile un mutamento armonioso o rispettoso o tendenzialmente quasi paritario. Sì, «quella civiltà si è disintegrata, quel territorio geografico, spirituale e linguistico non ha retto più!». Il «corto circuito fra la contemporaneità e il passato, fra i giovani e i vecchi» non l’abbiamo creato noi, ce lo siamo trovato di fronte come problema. Ma va detto, contro certi stereotipi freudiani, che non tutti (anche tra i sessantottini) abbiano «tentato di “uccidere” i nostri padri per sottrarci al loro controllo, per prendere il loro posto e per individuare noi stessi come soggetti su cui costruire un mondo nuovo». È falso che tutti, dopo la sconfitta, «ci siamo ridotti a vivere come esiliati, senza suolo e senz’anima, senza lingua e senza parole». Ed è sbagliato, secondo me, un pentimento di maniera: «non dovevamo uccidere i nostri padri, ma andare alla loro ricerca, non dovevamo cancellarli e annullarli perché antiquati e reazionari, ma collegarci alle loro speranze, alle loro fatiche, alle loro radici». O riecheggiare quell’annacquatore della psicanalisi che è Massimo Recalcati, che ha propinato ai giovanotti renziani il mito Telemaco in formato postmoderno.

      5.
      La memoria (del passato, dei dialetti) non basta, se non si ritrova anche nel passato, anche nei dialetti) i conflitti *simili* a quelli d’oggi. E anche qui devo ricordare gli argomenti che Aguzzi ha giustamente portato in uesta discussione. Va bene fare la storia della quotidianità «legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato», ma dobbiamo ricordare che anche questa quotidianità è dominata dal Capitale; e perciò da prendere con le pinze e non considerarla un bene rifugio per sconfitti. (Adorno: «Scrive Adorno nel saggio dedicato ad Aldous Huxley e l’utopia: «La lotta contro la civiltà di massa può consistere soltanto nella dimostrazione del legame fra questa e la perpetuazione dell’ingiustizia sociale. Non critichiamo la civiltà di massa perché essa dia troppo agli uomini o renda troppo sicura la vita, ma perché essa aiuta a far sì che gli uomini ricevano troppo poco e cose troppo cattive, che interi strati vivano in una miseria interiore ed esterna spaventosa, che gli uomini si adattino all’ingiustizia». https://francosenia.blogspot.com/2018/12/il-volto-della-medusa.html?spref=fb&fbclid=IwAR2l_inZa1XJ7V6TY4fc4I_cieXCLa1RUICfFEyBlXZwSQ8h6xySqmqV7i8).

      6.
      Locale/globale. «Allora, questo è stato il mio intento: ricostruire la storia del paese e della comunità, del territorio d’origine e delle sue vicende esistenziali sottolineando la loro ambigua e tragica “melodia quotidiana” elevandola, se possibile, ad un valore di carattere generale». E va bene, ma per dare alla storia del proprio paese valore generale occorre collocarla nella cornice degli attuali conflitti scatenati dalla mondializzazione. Del resto a scavare nel passato locale, trovi conflitti *simili* a quelli odierni. O, come scrivi, «una “foresta primitiva di ombre e di belve”, attraverso i frammenti della loro quotidianità, sempre in bilico, tra spaesamento e disordine, sotto l’imperversare delle lotte contro la fame, contro gli uomini e i santi, contro la natura e il destino, contro se stessi e gli altri». La vita locale (o contadina) non è mai stata arcadia o solo arcadia. È per me un’illusione dire che «i nostri luoghi sono e consistono perché qui tutti hanno un nome, un segno, un simbolo e solo qui sembra che sia possibile l’esistenza» e contrapporli all’«altro mondo, quello esterno, lontano mille chilometri o cinque, [che] è, invece, senza nome… è ostile, ha regole diverse». Ci sono invece somiglianze e differenze, continuità e discontinuità. E in esse, faticosamente e spesso brancolando, ci muoviamo o ci agitiamo delirando. Al di fuori delle mitizzazioni personali o collettive, cosa c’era di meglio o di più rassicurante in una vita di paese, se, scavando a fondo, anche lì abbondavano «i contrasti e le ostilità presenti in passato tra paesi limitrofi e all’interno di una stessa comunità»? Le guerre tra i poveri cosa hanno di meglio o di più sopportabile rispetto alle guerre tra i ricchi? ( Forse le prime rovinano paesi e le seconde intere società o continenti).

      7.
      Lingua, dialetto, reliquie. Conflitto e “guerra” si sono depositati anche nelle reliquie! Stanno anche nella tua «bisaccia traboccante di reliquie e dentro ciò che rumoreggia di più è proprio la lingua». Conflittuale è stato il «processo di italianizzazione». Pasolini ha visto soprattutto il conflitto tra lingua nazionale e dialetti; e ha messo sotto accusa più lo strumento, la « televisione che, unificando il Paese, da Nord a Sud, azzerava le differenze dei patrimoni linguistici regionali» che i rapporti sociali diseguali che permettevano un certo uso dello strumento. Ma il conflitto ha attraversato sia i dialetti che la lingua nazionale. Se sono finiti al macero i nostri dialetti, i nostri linguaggi nativi ( o “materni”), lo stesso è avvenuto per una parte dell’italiano. Il macero poi non è stato solo linguistico: se si pensa, ad esempio, alle culture contadine ma anche a quelle operaie, dopo gli anni Settanta del Novecento; e ai *corpi* che le facevano vivere e sviluppare. E, quindi, vedere il dialetto come una risorsa unitaria dei poveri contro i ricchi o degli umani contro i disumani o degli autentici contro gli artificiosi è secondo me un’illusione. Ci si è ammazzati anche usando il dialetto! Gli sfruttatori hanno parlato anche in dialetto! E non si capisce perché, nella sconfitta, farne una bandiera. La sudditanza, l’artificio, l’inautenticità non è solo in chi usa l’italiano, può esserci anche in chi usa il dialetto. ( Rileggere Fortini,«Il filologo e l’allodola», in «Saggi Italiani 2», pagg. 334-341, Garzanti, Milano 1987 ). I rapporti sociali espressi in dialetto non per questo diventano egualitari, a meno di non mitizzare ed edulcorare. E dunque non condivido questa conclusione: «Mentre prima avevo nutrito un atteggiamento di sudditanza e di sottile ostilità nei confronti del dialetto perché lo ritenevo inadeguato incapace di introdurci al progresso civile e sociale, ora mi convincevo che non ci sarebbe stata né crescita, né affermazione dei diritti, né autonomia delle comunità locali se non riappropriandoci “del patrimonio storico locale” riutilizzando il dialetto». È falso che «le parole, e mi riferisco a quelle dell’italiano, non hanno in sé la capacità e la forza di introdurre o di perseguire un senso». Chiediamoci: quale senso? Perché anche il dialetto con l’intento di raggiungere il materno (o la “matria”?) può illudere. Quello che conta è la presenza di una medesima tensione emancipativa, che può esserci o mancare sia quando abbiamo a che fare col dialetto sia quando abbiamo a che fare con la lingua nazionale e sia nelle altre lingue che, per circostanze di vita o di studi, riusciamo ad acquisire. A volte si ha un uso acritico del dialetto o un suo uso iperlettario, che non ha niente di nuovo rispetto a quello della lingua nazionale. E non è affatto detto che ci avvicini di più a «ciò che siamo stati, ciò che siamo e forse, ciò che immaginiamo di diventare». L’uso del dialetto non garantisce autenticità.

  11. AL VOLO
    (Quando l’estetica non è del tutto cieca…)

    C’è un ministro nel mio paese, ministro dell’Interno nonché vicepresidente del Consiglio, che in ogni occasione pubblica a sua disposizione manifesta uno sdegno solenne e stentoreo per questo paragone, che lei giustamente ha appena fatto, tra i migranti di oggi e quelli del passato: le decine di milioni di italiani che lasciarono il loro paese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Decine di milioni: altro che le cifre di cui si sta parlando adesso. Dice Matteo Salvini che i migranti di oggi sono tutti dei poco di buono, rubagalline e stupratori di vocazione, mentre i nostri santi bisnonni erano gran brave persone, persone specchiate. Infatti quelli erano italiani, e invece questi sono negri. Ora, la filologia a qualcosa serve davvero. In un libro di qualche anno fa, La lingua restaurata, Valerio Magrelli riporta una ricerca linguistica sull’etimo del termine dispregiativo dego, che ancora oggi designa negli Stati Uniti le persone di origine italiana. Due le possibili etimologie di questo termine: la prima fa riferimento all’intercalare, alla stampella discorsiva «dico», in veneto «dego» (il Veneto, uno dei maggiori bacini elettorali di Salvini, è stata la regione forse più spopolata dall’emigrazione di massa di un secolo fa), dego dego dego… La seconda sarebbe un calco pseudo-italiano della parola inglese dagger, cioè “pugnale”. Perché lo stereotipo dell’emigrato italiano in America all’inizio del Novecento era quello di un tizio svelto di mano, spesso provvisto di arma da taglio. Uno stereotipo, certo. Come sono stereotipi, non meno volgari e violenti di questo, quelli impiegati dalla propaganda di oggi.

    È facile prendersela con i nuovi autocrati che si aggirano per l’Europa e per il mondo. Ma i risultati elettorali che democraticamente li hanno portati al potere sono figli di un’involuzione culturale che ha riportato in auge categorie di pensiero che ci illudevamo fossero sepolte dalla storia, la storia tragica del Novecento. È letteralmente allucinante che vengano rialzati i muri, che vengano chiuse le frontiere, che di nuovo si senta parlare di «razza bianca»: sembra un film distopico ed è invece la realtà storica con cui dobbiamo oggi fare i conti. All’inizio del Novecento, subito prima della grande tragedia, Georg Simmel sosteneva che il modo di stare al mondo dell’uomo è simboleggiato dalle figure salvifiche della comunicazione e del passaggio che sono il Ponte e la Porta: i luoghi in cui entrano in contatto l’interno e l’esterno, la nostra identità e la differenza, Noi e Loro; senza, e questo è molto importante, artificialmente confondere gli uni e gli altri, senza fare di tutto una pappa indistinta. Solo così queste differenze possono entrare in relazione. Oggi le porte si chiudono, si rialzano i muri, e per colmo di evidenza didascalica i ponti provvedono addirittura a crollare.

    Forse ripensare la tradizione dell’iconotesto, privilegiare questa ibridazione conflittuale tra parola e immagine, significa anche pensare ostinatamente a forme di contatto che siano di relazione, appunto, e non di confusione. E può essere – per quanto è nelle mie possibilità, si capisce – anche la metafora di un modo diverso di stare al mondo. Un’altra vita, che la modernità ha sperimentato. Oggi ci viene da pensare che la libertà, la spregiudicatezza, il coraggio che hanno avuto i nostri padri – un coraggio anche terribile, in molti casi – siano stati non la regola della condizione umana, come pensavamo, bensì una felice eccezione. Sta a noi dimostrare il contrario.

    Che cosa si può fare per ricostruire questi ponti, riaprire queste porte?

    Non c’è una domanda alternativa, vero? Naturalmente non lo so: viviamo un tempo di grande confusione, di grande scoramento. Ma probabilmente quello che resta da fare, a noi, è quello che abbiamo sempre fatto. Quando dico «noi» parlo delle persone che si occupano dei linguaggi, per esempio delle forme della letteratura – per quel poco che ancora sollecita la nostra attenzione. Sono proprio i linguaggi, le retoriche, a segnalare come si stia tornando a tempi terribili della nostra storia. Coloro che stanno rialzando i muri mostrino una grande spregiudicatezza linguistica, una grande capacità di usare gli strumenti della comunicazione contemporanea che coloro che coltivano il pensiero critico hanno invece una comprensibile cautela nell’impiegare. Ma il rifiuto della fotografia nel 1850 somiglia molto al nostro rifiuto (al mio rifiuto), nel 2015, del web 2.0. Uno come David Cronenberg ama dire che bisogna adottare il punto di vista del virus, non della specie contagiata[28]. Ecco, se questi linguaggi oggi ci sembrano virus che si introducono nella nostra specie sociale e minacciano di distruggerla, bisogna cercare di capire come invece le possano consentire di modificarsi, di continuare il nostro percorso sulla terra e dunque sopravvivere. Per dirla con Walter Benjamin ogni linguaggio, come ogni cosa competa all’uomo, è al tempo stesso civiltà e barbarie. Solo le nostre scelte, come sempre, possono consentirci di trasformare ciò che ci appare barbarie in uno strumento di libertà.

    (da SCRITTURE DEL CONFLITTO di Andrea Cortellessa http://www.leparoleelecose.it/?p=34478)

  12. …difficoltà, problemi, conflitti sono presenti sia in chi resta che in chi parte, nel mio caso come madre a distanza dell’unica figlia che tredici anni fa è migrata, per amore e per lavoro, in un cantone svizzero di lingua francese. Per quanto proprio a distanza no, perchè sono stata molto coinvolta nella scelta migratoria della figlia, divenendo una sorta di pendolare (non frontaliera) italo-svizzera attraverso il passo del Sempione, una rotta che i nostri antenati migranti conoscevano già bene…Che dire? A volte mi capita di percorrerla cosi’ spesso, richiamata da diverse motivazioni, non ultima quella affettiva, che a metà percorso provo un senso di smarrimento e non so piu’ se sto andando o ritornando…Dove poi? Da ritrovarsi in certi “non luoghi” risucchianti: senza casa, senza storia, senza nome. Un’esperienza molto comune, credo. Cerco poi di vederne la ricchezza, gli sviluppi, ma senza sperare in una risoluzione dei conflitti:

    Nella terra franca
    tra i confini
    si gioca la partita
    di ombre snza divisa
    CORTOCIRCUITO!
    Una cortina di fumo
    -non è muro-
    contrappone e confonde…
    Se la paura scema
    seguono, goffi, gli abbracci
    a ridisegnare e intrecciare
    corpi sguscianti,
    lingue meticce decorticate
    di radici,
    nenie infinite,
    aliti e pane…

    1. L’esperienza migrante inevitabilmente ha determinato in me in modo quasi naturale una riflessione sul linguaggio, una meditazione eminentemente linguistica.
      Perché?
      Perché, detto semplicemente, con i corpi viaggiano anche le parole.
      E nel corso del viaggio alcune si perdono, mentre altre, fino a quel momento sconosciute, compaiono, per la prima volta, mentre altre ancora si mescolano e vanno verso una sorta di meticciato…
      Si pongono così, gentile Annamaria Locatelli, anche problemi di traduzione e di mediazioni culturali che pongono nuove istanze letterarie, a anche etiche quando si vogliono fabbricare ponti di corde linguistiche fra mondi diversi…
      Nella coscienza che nel caso delle traduzioni, tradurre può voler significare anche perdere e trovare, non coincidenza ma avvicinamento…
      Ed è su ciò che Lei, come del resto per me magnificamente ha saputo fare Letizia Leone, ha pronunciato la sua nitida e problematica parola di poesia, prima che il dibattito, pur dotto e ricchissimo di spunti, assumesse altre tinte, altri toni, altri suoni, imboccando sentieri forse un pò distanti dallo spirito del mio lavoro, incentrato, com’è sotto gli occhi di tutti, sull’asse migrazioni-fenomeni linguistici
      Ringrazio Annamaria Locatelli per il suo contributo e rinnovo il mio ‘grazie’
      a Ennio Abate per l’ospitalità.

      gr

  13. Gent.mo Ennio Abate, prima di tutto non posso far altro che ringraziarti per aver esaminato con attenzione le questioni di fondo, intorno a cui e sulle quali, è nata “Arringheide”. Evidentemente le problematiche che anche per te sono di vitale importanza hanno trovato uno spazio di comune riflessione. E questo è già un primo risultato. Ho notato che anche tu ami scrivere versi in dialetto. Anzi l’alternanza che usi ne “La lettera di lamento…” rafforza il dilemma: Italiano o dialetto?
    E veniamo alla prima questione: “Noi” non siamo alberi, non siamo natura.
    Cosa vuoi che ti risponda a una dichiarazione di tal genere… è vero che il linguaggio tradisce sempre ciò che si è; consciamente e inconsciamente, ma ritenere che io possa aver dimenticato che siamo “uomini” mi sembra un po’ troppo. Nella “Lettera del lamento… ” sopra riportata a un certo punto scrivi
    “Quandu n’amiche se jette, cumma na lucertola,
    rint ‘e vicule ra morte…”
    oppure
    ” E come la vita di una volta non ha più suono e si ‘ inacidita come una vigna abbandonata?/
    quali conseguenze dovrei ricavare? Che l’uomo non è una lucertola? E che la vita non è una vigna? A volte, a forza di utilizzare l’acume dell’intelligenza, questa si abbaglia e trasforma la metafora per materia.
    E veniamo al punto n. 2 “L’utopia rivoluzionaria”. È proprio quella del ’68-69. Ho riferito un giudizio di Ungaretti in relazione alla sua partecipazione da volontaria per la guerra del ’15-18. Anche allora il clima era euforico come nei nostri anni… e, come il poeta “espatriato” dall’Egitto si lanciato nell’avventura della “bella morte” anche noi, del Sud, del Centro e del Nord, abbiamo attraversato la trincea della stasi e della quiete per scuotere l’albero fatiscente delle istituzioni. Abbiamo lottato e sperato… ma chi ha ridotto la “possibilità” in sfacelo? Le BR? I sevizi segreti? I fascisti? Gli americani? Queste “risposte” sarebbero “bubbole”… Da marxiano o da marxista, non so più nemmeno io come definirmi, credevo nella dialettica materialistica della storia… poi quando tale dialettica produce situazioni che divergono dalle aspettative si grida al “dogma”, al “ritardo nella comprensione dei mutamenti in corso, specie quelli permessi dal dominio sulle scienze e le nuove tecnologie…” e così all’infinito. Io non mi sento né disperato, né scoraggiato… e non ho bisogno di rassicurazioni “psicologiche”. L’esperienza di quegli anni fa parte della mia vita. Certo, qualcosa si è depositata nell’inconscio… fa fatica a venire fuori, ma convivo benissimo con il fantasma che son stato. Allora, qual è il problema? Quest’anno ricorre il cinquantesimo del ’68. Non dovremmo affrontare il problema alle radici? Perché nacque? Come si è svolto? Quante sono le tesi sulla sua natura? A quali esigenze obbediva? Alla ristrutturazione della borghesia? All’ansia rivoluzionaria del proletariato? Alla rottura della guerra fredda?
    Gent.mo Ennio Abate, prima datemi una risposta chiara ed esaustiva su tali argomenti e poi possiamo discuterne… anch’io, come te e come tanti altri della nostra stessa generazione, abbiamo ancora “la volontà di contare qualcosa nel nostro tempo”. È per questo ed è su questa base che ci troviamo a discutere. Se avessimo abbandonato le armi della prospettiva saremmo forse da qualche altra parte… magari alla Rai o a Mediaset…
    Ti rassicuro, nessuna lettura del mondo regressiva e rinunciataria… però non puoi impedirmi e impedirci di volgere gli occhi su altri orizzonti e su altre dimensioni dell’esistenza.. Ha ragione Letizia Leone quando ribadisce, contro una tua semplicistica obiezione, ” Ma si parla di arte e della sua assimilazione profonda, non di intrattenimento…sappiamo tutti benissimo che uno può ascoltare Bach la sera e poi il mattino fare il carnefice nazista in un campo di concentramento (come scrisse Steiner). L’arte possiede un profondo potere euristico al di là delle capacità dei fruitori.”
    Ora il punto 3 “Il paese è fatto delle ossa dei morti!” L’espressione è di Levi, in Cristo s’è fermato ad Eboli. È il custode del cimitero di un paese vicino a Matera che la suggerisce all’intellettuale “esiliato” dal Nord. Hai ragione a contrapporre vivi e morti.
    Ma è uno schema che non regge più… Dante si è recato nei tre regni d’oltretomba per potersi confrontare con se stesso e con il proprio secolo. Manzoni è sceso nel Settecento spagnolo… noi che vogliamo fare? Vogliamo rimettere in campo un nuovo furore “futurista” e distruggere la Venezia dei Dogi perché antiquata? Perché espressione del mercantilismo e dell’arricchimento aristocratico delle classi egemoni dal Rinascimento in poi? La storia seppellisce tutto. La polvere ricoprirà ogni cosa. Hai ragione a ricordarlo. Ma non ho capito cosa vuoi dire quando suggerisci di non collaborare con i “distruttori” nichilisti. Attendo risposta adeguata.
    N.4 Pasolini e Recalcati. La frattura (tra dialetti e lingua, tra mondo contadino e industriale) è stata radicale. Oggi ne paghiamo le conseguenze, anche se un nuovo consumismo tenta di appropriarsi anche di questi nuovi spazi: coltivazioni biologiche, produzioni artigianali di nicchia, produzioni legate al territorio, ecc. Ne conosciamo tutti qualche esempio… la cipolla di Tropea, la ‘nduja di Spilinga, tanto per rimanere in Calabria. Pasolini, nella mistica carnale, che lo tormentava si era accorto, come nessun altro politico del tempo che in “tre anni” avevamo perso le strutture mentali e le conoscenze di tre millenni… io dico che quella distruzione ce l’abbiamo ancora addosso, sulle spalle e nelle coscienze. Se qualcuno non ha avuto modo di leggere il testo di Vito Teti, “Quel che resta”, Donzelli Editore, mi permetta di consigliarlo. Qualche risposta c’è in relazione alla frattura di cui si parla. Ma io vorrei dire qualche altra cosa. Il Meridione, nella logica capitalistica, doveva essere la riserva di mano d’opera per l’industria del Nord; per le forze più avvertite della sinistra, si dice così oggi, doveva avere invece un futuro industriale… da Napoli a Taranto, da Lametia Terme a Termini Imerese. Creare altra classe operaia, Nord e Sud uniti nella lotta, e così via… Capitalismo e antagonisti al capitale erano sulla stessa strada… L’urto di tali forze è stato così tremendo che sul terreno sociale è avvenuta la desertificazione… popolazioni intere hanno abbandonato i “porcili senza porci”, le “radure color delle feci”, le case dirupate dai terremoti… è avvenuto lo svuotamento! E io che dovevo fare? Assistere e sgranare gli occhi? Accontentarmi del frigorifero e della televisione? Ammutolire ancora, come per tanti secoli? Nascondermi nei neri “fazzolettuni” delle donne come le afgane di questi decenni? No! Ho scelto la strada della lingua, del grido, della condanna e del vituperio.
    Gent.mo Ennio Abate, tu affermi senza mezzi termini: – È falso che tutti, dopo la sconfitta, «ci siamo ridotti a vivere come esiliati, senza suolo e senz’anima, senza lingua e senza parole». Ed è sbagliato, secondo me, un pentimento di maniera…- Ti invito a frequentare, e non so se lo fai e quanto, le situazioni sociali del Meridione… negli anni sessanta, e successivi. i figli dei contadini hanno affiancato i figli dei potenti locali, di varia origine, non solo delinquenziale, per perpetuare il predominio e la prepotenza dei secoli precedenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Tutto il meridione è fuori dello Stato e Salvini ha promesso che in meno di un anno sconfiggerà mafia, ‘ndrangheta, sacra corona unita e via di seguito… Il mio ritorno alla lingua materna non è un pentimento… è il tentativo di rapportarmi al sangue che ancora permea ciò che resta del passato nella mia Calabria, con tutti i rischi del genere. Molti mi dicono: ma perché non hai raccontato queste storie in italiano? Perché non hai tradotto e presentato sulla stessa pagina la traduzione dei 32 canti?
    Perché hai scelto la forma antiquata del poema e della versificazione in endecasillabi?
    Quale risposta scegliere? Il mio è stato un ritorno. Un nostos… e vorrei che questo ritorno fosse meno individuale e più comunitario. Scrive la dott,ssa Brigida Gullo, nella prefazione ad Arringheide riportando alcuni versi del poema:

    Cumpari mie, brindamu cu stu vinu
    a cu’ sa pe’ mmu mbisca ‘mparti guali
    l’uocchju chi ride carmu allu vicinu
    e percia li nimici capitali;
    a cui sa pe’ mmu vasa e mu accarizza
    a a cui sa pe’ mmu scanna si si!

    Compari miei, brindiamo con questo vino/ a chi sa mescolare in parti uguali/ l’occhi che sorride calmo al vicino/ e trafigge i nemici principali; / a chi sa baciare e accarezzare / e a chi sa scannare se inviperisce!

    Dunque, “bisogna ritornare agli uomini, agli uomini di carne e di sangue, ai sentimenti e allo spirito, in parti uguali. Oggi, invece, siamo e ci comportiamo come larve, come robot; sottoposti a imput soporiferi che annichiliscono. E allora? Allora la salvezza è solo nella comunità, solo nella sfida quotidiana contro chi ne determina il destino”. Come si vede. nessuna rassegnazione. Anzi! il ritorno implica un’assunzione di responsabilità. Telemaco, il figlio, di chi si è perso, è ritornato non per contemplare, ma per uccidere. Magari insieme al padre.
    N5 La memoria (del passato, dei dialetti) non basta, se non si ritrova anche nel passato, anche nei dialetti) i conflitti *simili* a quelli d’oggi.
    Su questo argomento è facile rispondere. Arringheide ha questo titolo perché ruota non intorno all'”arringa”, in senso di discorso alla folla”, come potrebbe a prima vista suggerire, ma “arringa” terza persona singolare del verbo arringare. È incitazione e imperativo insieme! Arringa, arringa! Lancia, lancia le pietre, le pallottole, le armi che ha a disposizione contro i nemici. Ricordava Gino Rago che sono le donne, custodi matriarcali della vendetta, a incitare alla ribellione e alla lotta.

    “Arringa! Arringa!”, rispundiu Mariuzza
    e doppu ‘Mmaculata de Giosina,
    de l’atra parte puru Catrinuzza
    nzema a Marreddha e cu donna Bettina,
    Era la ruga propriu na carcara
    chi ‘mpocava de rabbia para para.

    “Lancia! Lancia!”, rispose Mariuzza/ e dopo anche Immacolata, figlia di Giuseppina/ dall’altra parte anche Caterinuzza /insieme a Marrella e a donna Elisabetta. /Era la strada come la fornace della calce/ che infuocava di rabbia interamente.

    Penso che basti per descrivere il clima e il disagio ad ogni rassegnazione.

    N6 Locale/globale
    Ho tentato di rileggere più volte i tuoi appunti su questo problema, ma non sono riuscito, credimi, a trovare, qualcosa con cui tu possa polemizzare con me e io con te… eccetto questo: “E va bene, ma per dare alla storia del proprio paese valore generale occorre collocarla nella cornice degli attuali conflitti scatenati dalla mondializzazione. ”
    Non pensi, gent.mo, di pretendere troppo? Racconto una storia di fine Settecento: il tentativo di rifeudalizzazione dei ceti dominanti a discapito delle classi subalterne e della borghesia stessa… eppure la metafora generale dovrebbe essere in linea con il tuo sentire… Anche qui, scusami, ma viene fuori l’intento pedagogico di chi ritiene di avere le chiavi del tutto…
    Alla presentazione del Poema a Roma a Spazio5 il 29 settembre u. s., per affrontare il problema dei conflitti locali/globali è intervenuto i professor Vittorio Pagliaro, docente Dei rapporti internazionali dell’Università di Napoli… il quale ha ben rappresentato lo schema dei rapporti conflittuali tra territori limitrofi.
    Arcadia? Quale Arcadia? Parliamo di guerra, di fame e di sopraffazione e non del chiaro di luna della vita agreste e pastorale…

    7. Lingua, dialetto, reliquie. Conflitto e “guerra” si sono depositati anche nelle reliquie!
    Da una lettura di quanto scrivi apprendo che ” il conflitto ha attraversato sia i dialetti che la lingua nazionale. Se sono finiti al macero i nostri dialetti, i nostri linguaggi nativi ( o “materni”), lo stesso è avvenuto per una parte dell’italiano. Il macero poi non è stato solo linguistico: se si pensa, ad esempio, alle culture contadine ma anche a quelle operaie, dopo gli anni Settanta del Novecento; e ai *corpi* che le facevano vivere e sviluppare. ” Noto quindi che su questi problemi il mio discorso e il tuo coincidono. Il tuo dissenso sta nel pensare che io possa aver visto Il ” dialetto come una risorsa unitaria dei poveri contro i ricchi o degli umani contro i disumani o degli autentici contro gli artificiosi…” . Non si tratta di autenticità e di supposta purezza del dialetto rispetto alla lingua italiana. Per me, ambedue le lingue hanno pari dignità. Ma se parlo di caccia non uso il codice linguistico della medicina. Anche il verismo italiano cercò di coinvolgere l’espressività dialettale. In queste settimane “L’amica geniale” imperversa sui nostri teleschermi… e che ti fa il regista? Ricorre ai sottotitoli in italiano e fa esprimere le protagoniste in dialetto, ampliando le frasi gergali usate dall’autrice stessa del romanzo. Ormai il mistilinguismo del commissario Montalbano ha fatto scuola. Io per parlare delle strade, dei panorami, dei luoghi e dei sentimenti del mondo che conosco di più non lo posso tradurre in italiano. Tu lo fai? La mia è stata anche un’operazione di più vasto respiro. Una ricchezza della Calabria è quella della varietà linguistica. Una frammentazione inverosimile. Ogni area geografica, anche la più ristretta, ha la propria espressione linguistica. Aguzzi ne ha dato testimonianza tramite l’antico greco di Bova e della poetessa Spinella. Io ho tentato di dare un fondamento linguistico alla regione. Un inizio. Spero che altri dopo di me possano proseguirne lo spirito e l’intento. Ecco dov’è la mia illusione. Ma è un’illusione scoperta. Chi è sul crinale della scelta tra italiano e dialetto comincia a percepire sempre di più che il proprio linguaggio nativo è destinato al macero. Di fronte alla plateale anonimia dell’unificazione idiomatica portata avanti dalla lingua italiana, si avverte la ricchezza e la diversità della propria parlata. Tullio De Mauro, (Linguaggio e società nell’Italia di oggi, Ed. Eri, 1978, p. 150) affermava che questo problema “è un fatto che ancora una volta riporta il discorso alla crescita, all’affermazione dei diritti e all’autonomia delle comunità locali; che vogliono riappropriarsi del patrimonio storico locale e riutilizzarlo”. Mi sembra che sia chiaro: solo” salvaguardando le parlate dialettali, riusciamo tutti a parlare italiano”. Su cosa siano poi i miei versi e su ciò che possano rappresentare nell’ambito culturale della mia regione lo lascio ai quattro lettori che mi sono rimasti e ai quali, come a tutti voi, auguro felicissime feste natalizie.

  14. @ Gallo

    Caro Giuseppe,
    e che anime! Passare al ‘Gent.mo Ennio Abate’ e farmi sembrare uno che si mette in cattedra per bacchettarti o fare l’inquisitore, alle cui accuse rispondere puntigliosamente!
    No, le mie osservazioni/obiezioni, anche se partono da spunti presi dal tuo scritto, non hanno l’intento di attaccarti personalmente, come mi pare di capire da alcune tue affermazioni un po’ risentite («Io non mi sento né disperato, né scoraggiato… e non ho bisogno di rassicurazioni “psicologiche”»; «… Il mio ritorno alla lingua materna non è un pentimento…»). Sono nel solco della fraternità, dell’incoraggiarsi – anche spietatamente – e del confronto su un piano di *parità* (ideale). Mirano ad oltrepassare pigrizie e stereotipi per fronteggiare lo smarrimento dell’area sociale in cui, nostro malgrado o per scelta meditata, ci ritroviamo. E che, approssimativamente, io tendo a chiamare, senza alcun intento dispregiativo o snobismo elitario: intellettualità di massa, sinistra allo sbando, ex-sessantottismo, moltinpoesia, scrittori in ombra. Stiamo tutti cercando. Nessuno può sbandierare verità già trovate. D’accordo?
    Dunque, non ho «una risposta chiara ed esaustiva» a tutte le domande politiche che poni. Posso solo dire che tutto il lavoro (prima in un gruppo redazionale, ora più in solitaria) di Poliscritture dal 2004 ad oggi, evitando la chiusura in una ricerca settoriale (per soli poeti o per soli politici), ha tentato di riflettere su i temi che a te e a me stanno a cuore. (Solo, a titolo esemplificativo, ti rimando ad alcune discussioni tentate:
    https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13;
    https://www.poliscritture.it/2018/10/01/tre-riepiloghi-sul-68/;
    https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/).
    Né impedisco a me stesso o ad altri di « volgere gli occhi su altri orizzonti e su altre dimensioni dell’esistenza» (metafisiche, religiose, poetiche, utopistiche, ecc.). Per su questi altri orizzonti o dimensioni ci sono orientamenti che condivido ed altri (heideggeriani, come quelli di Letizia Leone, di Linguaglossa, dello stesso Rago) da cui dissento profondamente. Come dissento da un certo pasolinismo (https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=149:ennio-abate-le-ceneri-di-pasolini&catid=1:fare-polis&Itemid=13), che ritrovo anche nelle tue riflessioni: «“bisogna ritornare agli uomini, agli uomini di carne e di sangue, ai sentimenti e allo spirito, in parti uguali. Oggi, invece, siamo e ci comportiamo come larve, come robot; sottoposti a imput soporiferi che annichiliscono».
    Non replico per ora sui singoli punti che hai toccato in questo commento. Ma lo faremo – se ci stai – sia in questa sede pubblica sia in scambi diretti tra me e te mano mano. Perché sono davvero complessi e hanno bisogno di essere analizzati con calma e in profondità, sottraendoci alla polemica spicciola.

  15. Da una rilettura a mente più riposata, ho notato qualche refuso.
    Non “volontaria” ma “volontario” per quanto riguarda Ungaretti.
    L’endecasillabo “e a cui sa pe’ mmu scanna si stizza!” ha perso una sillaba per strada… quindi va scritto e letto “a a cui sa pe’ mmu scanna si si stizza!”
    La ripetizione “intorno non intorno” è da intendersi “non intorno”.
    Questo dovevo ai lettori…
    Eventuali altre distrazioni potrete segnalamele voi. Grazie dell’attenzione.

    *Nota di E. A.
    I refusi nel commento precedente sono stati corretti.

  16. * A proposito di locale/globale, Sud/Nord, centri/periferie, autoctoni/immigrati, etc.

    SEGNALAZIONE(ANCHE PER POETI)/ AL VOLO

    Il risultato è che ciò che abbiamo visto a Torino e in Italia, prima nell’edilizia, poi nel terzo settore, poi nel pubblico impiego, incluso l’importantissimo Sistema Sanitario e, con delle differenze, la scuola, non è il risultato locale della stagnazione e dell’arretratezza del nostro paese ma è la tendenza generale del mondo. La possibilità di frammentazione, di cui abbiamo parlato fino ad ora, regge il sistema economico mondiale. La differenza tra il centro, o i centri, e le periferie è che i ricchi si concentrano al centro, la finanza che si muove in uno spazio immateriale, in sostanza è controllata dai ricchi del centro. I lavori peggiori si diffondono in periferia. Lo spostamento dei lavori in periferia indebolisce drammaticamente i lavoratori dei paesi centrali, ne scardina i diritti. Li costringe a scegliere tra disoccupazione e lavoro senza garanzie e a basso reddito. Il cottimo torna ad essere una delle forme più diffuse di retribuzione. I rischi vengono scaricati sui lavoratori. Le sicurezze vengono concentrate nei padroni, fino a che l’instabilità del sistema, di tanto in tanto, non travolge anche loro.
    Ci siamo stupiti decenni fa che le imprese edilizie non facessero più le case in proprio ma appaltassero tutto, che non pagassero più i muratori ma metri cubi di muro, metri quadri di pavimenti e di intonaco. Oggi si fa tutto così, dai grattacieli ai libri, alle serie televisive.

    (DA http://www.ospiteingrato.unisi.it/la-frammentazione-del-lavoro/)

  17. Caro Ennio, dici che sono stato “animoso”? Forse un pochino! Posso anche ammetterlo; ma tu me ne ha dato la possibilità. Hai elencato 7 punti di dissenso, io non ho fatto altro che presentarti le mie obiezioni. Due, la n.1 e la n.6, mi sono sembrate pretestuose e di poco conto. Sul resto possiamo discuterne pubblicamente e in forma privata, “sottraendoci” alla polemica spicciola che non interessa nessuno e che lascia il tempo che trova. Alla nostra età, ognuno ha le proprie idee, le preferenze filosofiche e le inclinazioni culturali che saranno state elaborate e rielaborate da anni di travaglio, di pensamenti e ripensamenti. Ho fatto il docente liceale per più di quaranta anni. E l’unica cosa che ritengo importante nell’insegnamento è quella di scendere dalla cattedra, di mettersi sullo stesso piano dei giovani… il resto viene da sé. Alcune tue puntualizzazioni mi sono sembrate “professorali”… heideggeriani Letizia Leone, Linguaglossa e Gino Rago, pasoliniano io… avrà ognuno il diritto di leggere, citare, interpretare filosofi e letterati, senza per questo essere considerato così e cosà… altrimenti un giorno saremmo montaliani, un altro giorno marxisti, un altro strutturalisti e via di seguito. Le etichette si danno ai vini, ai formaggi e non sicuramente agli uomini di cultura o agli intellettuali. Su Arringheide ci ho lavorato per più di 20 anni. 32 canti, ogni canto è composto di 82 sestine, alla fine il numero dei versi supera quelli dell’Iliade. È comprensibile che ci tenga o no? Ed è un pesante fardello portarselo sulle spalle, credimi. Cercherò di andare a leggere i file che mi hai suggerito per avere un quadro più esauriente dei temi trattati da Poliscritture. Grazie dell’ospitalità e sono sicuro che ci leggeremo ancora.

  18. @ Gallo

    Caro Giuseppe,
    sono io pure sicuro che ci leggeremo ancora e ci diremo apertamente – animosamente o pacatamente poco importa – quel che pensiamo. Per ora – professorale o meno – preciserò solo un punto. Ho parlato di orientamenti (di pensiero) heideggeriani per Letizia Leone, Linguaglossa e Gino Rago e di «un certo pasolinismo… nelle tue riflessioni». Sono “etichette” da dare solo a vini e formaggi? Non credo. Sono approssimazioni necessarie per inquadrare i propri interlocutori. E che essi potranno adottare anche nei miei confronti. Non ci vedo nulla di offensivo. Semmai è un atto di onestà intellettuale. Tanto più che le ho motivate con veloci citazioni e potrei argomentarle più a fondo. Chi, ad esempio, sentendo l’espressione «abitare la parola» non pensa ad Heidegger o, se uso il termine capitalismo o rapporti sociali, non pensa che io mi riferisco a Marx? Le definizioni potrebbero essere troppo imprecise o grossolane o parziali o scolastiche. E allora vanno raffinate, ma non abolite. Né vedo perché esse dovrebbero limitare « il diritto di leggere, citare, interpretare filosofi e letterati». Né come si possa essere un giorno «montaliani, un altro giorno marxisti, un altro strutturalisti e via di seguito». A meno di non voler fare i comici o i camaleonti alla Zelig o i voltagabbana ad ogni cambio di moda. Anche l’eclettismo ha i suoi limiti. A presto.

  19. Caro Ennio, lo dici tu stesso: sono “approssimazioni” e questo mi basta. Una volta si era soliti citare, a proposito, una specie di storiella. Alcuni venivano invitati ad osservare, dal bordo della strada, il passaggio non troppo veloce di un autobus. Gli astanti, interrogati sul fenomeno, tendevano a dare risposte varie e molteplici. A seconda dei loro punti di vista. Ma quello che mi lascia in imbarazzo nel tuo ultimo commento è la ricaduta in un ulteriore abbaglio. La possibilità di citare Montale, Ungaretti o qualche altro, a seconda delle varie situazioni o occasioni, per te diventa non solo eclettismo ma acquista una pregnanza ulteriore… si diventa comici, voltagabbana, camaleonti… scusa, ma tu, per non essere considerato un trasformista alla Zelig, citi solo Marx? E quale poi? A inseguirti su questo sentiero non ne vale la pena. A me pare che tu abbia bisogno di “inquadrare”, non tanto e non solo (ribadisco non solo, a scanso di equivoci) per onestà intellettuale, ma per dividere gli interlocutori in amici o nemici… sarà una eredità del giovanilismo rivoluzionario? Io, ormai, alla mia età ho un approccio più tollerante… Perché non lasciamo da parte queste battute e andiamo al sodo. Per es. , non ti è venuta voglia di leggere Arringheide, direttamente, per verificare sulla pagina contenuti e problematiche? Fammi sapere… a presto!

    1. @ Gallo

      Lo scambio tra noi due sta prendendo troppo spazio e tocca punti fuori tema rispetto all’argomento principale del post. Ti risponderò in privato.

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