Nuovi immigrati: Daniel Contreras e Daud Malak

Da SAMIZDAT COLOGNOM n. 1 PROVA DIC. 1999

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di Ennio Abate

Dal 1999 al 2005 ho pubblicato  otto numeri di una fanzine,  redatta solo da me, fotocopiata  e circolata in poche copie.  Ne ripubblico alcuni testi che a distanza di tempo  conservano una loro vivacità e assumono anche nuovi significati. [E. A.]  

DANIEL CONTRERAS
Incontro del 16 ottobre 1999

Abita da alcuni anni nel mio stesso condominio, nella casa di ringhiera risalente agli anni ’30 e ora in via di ristrutturazione di vicolo Adda 5. Sta al secondo piano dell’edificio interno. Per mesi ho incrociato questo peruviano dal volto marcato dalla fatica, calmo nei movimenti, pronto a sorridere al saluto. Ci siamo studiati a lungo prima di attaccare una conversazione. Capitò una domenica mattina. Gli chiesi da quale città proveniva, che lavoro faceva. Seppi che voleva imparare a parlar meglio l’italiano. Non poteva però, a causa del lavoro, seguire i corsi comunali di lingua italiana per stranieri. Andai alla biblioteca civica e gli procurai in prestito un dizionario illustrato e una grammatica dell’italiano in spagnolo. Curai un primo rinnovo del prestito e poi lo indirizzai direttamente alla civica. Restituì i manuali in spagnolo e prese, con mia sorpresa, un manuale per imparare l’inglese.

Oggi, dopo avergli detto delle mie intenzioni di inchiesta sui nuovi immigrati, vado nell’appartamento che – saprò nel corso della nostra conversazione – ha preso in affitto a 700mila lire al mese. L’unica stanza è arredata con mobili scuri di vecchia data, che il proprietario dell’appartamento gli ha lasciato: un grosso armadio, dei comodini lunghi che occupano tutta una parete, due dei quali sovrapposti per ricavare più spazio. Al centro due brande singole e una poltroncina. Ci sediamo uno di fronte all’altro su due sedie metalliche. Su una cartina del Perù appesa alla parete mi faccio indicare il suo paese di provenienza, Abancay nella regione di Apurimac.

È un paese agricolo molto povero. Ha 18.000 abitanti, in gran parte contadini e qualche negozietto. Daniel vi ha vissuto fino a 22 anni. Poi è andato a fare il muratore manovale a Lima. Nel 1966 era militare. Ha fatto il paracadutista. Me lo dice con orgoglio quando, parlando di sua moglie, mi riferisce le tre ragioni per cui non è venuta in Italia assieme a lui: perché cura sua madre anziana, che vive con lei e l’aiuta nei lavori di casa mentre lei per mezza giornata gestisce un’edicola di giornali; perché ha paura del freddo; perché teme di salire su un aereo. Daniel invece ha girato molto ed è abituato a viaggiare. Dopo due anni di militare è andato a lavorare in una miniera di ferro a Nazca. Altri due anni. Poi ha comprato un’auto e ha fatto per 4 anni il tassista. Ma la concorrenza era assillante e ha smesso. È passato a lavorare in un cantiere che curava l’irrigazione dei campi nella zona a nord di Trujllo; e poi è stato guidatore di caterpillar in un’azienda che gestiva un oleodotto che andava dall’Amazzonia alla costa del Pacifico. Altri 4 anni. Ritornato al suo paese, ha acquistato un piccolo autobus e per 5 anni ha fatto l’autotrasportatore nella regione di Apurimac. Nel 1983, un anno di crisi per il Perù, ha dovuto smettere. Mi accenna a minacce nei suoi confronti da parte dei guerriglieri di Sendero luminoso, al rischio di sabotaggio di ponti e strade, alle difficoltà di trovare ricambi per la manutenzione dell’autobus. Mi dice pure che quelli di Sendero luminoso vietavano agli automobilisti di circolare dopo le sette di sera per non essere ostacolati nella loro propaganda fra i contadini.

Nel 1990 decide di emigrare in Italia. Sceglie Milano, perché qui c’era già dal 1985 un suo nipote, che l’aveva spinto a venire. Dell’Italia aveva già sentito parlare. Aveva in mente Venezia e, essendo cattolico il Vaticano e il Papa [Woityla], che era stato in Perù nel 1985 e nel 1988.
E’ arrivato a Milano sotto natale. Sapeva (dalla televisione) che non avrebbe trovato il sole. Ma non si aspettava il freddo umido a cui non era abituato. Aveva portato con sé solo degli abiti leggeri. Il nipote non gli aveva consigliato di portarne dei pesanti. Gli procurò però, all’arrivo, il primo cappotto e l’ospitò a casa sua per i primi sei mesi. Poi è andato ad abitare da solo a Monza per tre anni; e infine ha preso in affitto l’attuale appartamento in Vicolo Adda a Cologno Monzese. Il lavoro l’ha trovato dopo tre settimane. Dapprima ha fatto per tre mesi l’operaio in una cooperativa che aveva un appalto da una ditta produttrice di fusti metallici. Il lavoro era pesante. Caricava e scaricava fusti pesanti – in media 18 chili ciascuno – per otto ore al giorno. Guadagnava 9.000 lire all’ora. Daniel dice con orgoglio di essere abituato alla fatica: “siamo lavoratori forti”. Subito dopo viene assunto dalla stessa ditta che produceva i fusti. Il guadagno era quasi lo stesso, ma ora faceva l’autista in giro per l’Italia del Nord ed era diventato un lavoratore regolarizzato. Aggiunge però che la ditta all’inizio aveva circa 150 dipendenti, ma ora ne ha soltanto 90, avendo ristrutturato il macchinario e incentivato al prepensionamento i lavoratori più anziani. Lui si sveglia alle 5 del mattino per essere alla sede di Melzo alle 6 e torna a casa verso le 19. E’ tenuto a fare tre viaggi al giorno: o uno lungo e due brevi; o tre brevi. Fa l’autista ma, a volte assieme ad un manovale, deve anche caricare e scaricare i fusti da consegnare. L’orario in pratica diventa flessibile, perché viene a dipendere dall’andamento del traffico e dalle complicazioni nelle consegne. In media, dunque, lavora 10 ore al giorno.

Gli chiedo che effetto gli fa l’essere lontano dal suo paese e dalla famiglia. Tristezza, certo. Ma poi ci si abitua, dice È comunque tornato già cinque volte al suo paese. All’inizio una volta all’anno. Poi ogni due. Alla famiglia telefona regolarmente una volta al mese, escludendo le comunicazioni urgenti o imprevisti. E manda ogni tanto dei regali. Si dice soddisfatto, perché col suo salario dà ai suoi tre figli la possibilità di mangiare, vestire bene e soprattutto studiare. Il primo è già all’università e studia ingegneria. La seconda figlia studia per diventare infermiera. Il terzo, di 15 anni, è alle medie. La sua famiglia per questo è abbastanza invidiata in paese. Mi dice che in Italia non ha trovato difficoltà ad inserirsi. Né gli sono capitati mai fatti spiacevoli perché straniero. Sì, ha sentito parlare di episodi di razzismo. Mi ricorda lui stesso l’uccisione per annegamento del giovane marocchino a Torino di alcuni anni fa. Ma lui si è fatto molti amici italiani e anche fra immigrati di altri paesi. Nella ditta dove lavora gli extracomunitari sono 15: rumeni, senegalesi e marocchini. Ritiene che i più presi di mira dall’odio razzista siano gli africani e gli arabi. E non senza motivo, secondo lui, perché sul lavoro sono un po’ “lazzaroni” e “furbi”; e spesso non rispettano le regole, prolungando – ad esempio – le pause o la permanenza nei gabinetti. Daniel disapprova questi comportamenti.

In questi anni ha visitato alcune grandi città italiane: Roma, Napoli, Venezia, Pisa, Aosta. Cologno la conosce poco. Frequenta soprattutto i suoi connazionali, che sono qui una sessantina. Si vedono di domenica. Ogni tanto vanno anche in chiesa. Ragazzi e ragazze si sentono ben accolti nelle scuole. I giovani vanno a giocare a pallone nel campo sportivo di S. Maurizio al Lambro. Sì, hanno saputo della scuola d’italiano per stranieri, ma orari di lavoro e pendolarismo impediscono la frequenza. Daniel è attento all’andamento della lira e mi ha spiegato anche perché vuole imparare l’inglese. È una lingua che si parla dappertutto e permette più contatti. Ma ha anche un altro motivo. Non è sicuro di poter restare in Italia: “come gli uccelli possiamo essere ancora costretti ad emigrare”. Ha anche altri interessi culturali, ma a causa del lavoro li coltiva poco. Gli piacerebbe fare lavori in ceramica; e mi mostra un manuale. Oppure diventare allevatore di mucche o di maiali. Grazie ad alcuni conoscenti, ha visitato degli allevamenti in Italia e ne è entusiasta. Mi mostra ancora un altro manuale illustrato di consigli pratici per gestire una fattoria. Altre sue grandi passioni sono la geografia e la storia.

E a questo punto mi dice apertamente la sua simpatia per i “caratteri forti”, che avevo già intuito nella nostra conversazione, Mi nomina Mussolini, Hitler e Pinochet. Sì, ha avuto un’educazione militare ed è affascinato dallo stile di vita dei militari. Ai tempi di Allende, lui lavorava al confine del Cile. Allora era stato un simpatizzante della politica delle nazionalizzazioni. Ma poi col passare del tempo il Cile era andato in crisi. Gli operai non lavoravano bene. Lo stesso Allende, mi dice, aveva fatto dei rimproveri agli operai che s’ubricavano e non andavano più a lavorare. E, per uscire dalla crisi – mi dice – le maniere forti di Pinochet sono servite. E dopotutto – aggiunge – ha fatto solo 5.000 morti. Gli faccio notare che, con Hitler a comandare, lui e la sua gente se la sarebbe passata male. Ma trovo una crosta spessa di resistenza alla mia obiezione. Torna anzi a prendersela con Sendero luminoso e con Mao, a cui i guerriglieri peruviani s’ispiravano. Gli controbatto ancora: Mao ha avuto però l’appoggio di milioni di contadini e ha cambiato la Cina. Gli accenno anche alla Lunga Marcia, che lui non conosce. Ma lui insiste a parlarmi delle oscillazioni fra dittature militari e democrazia nel suo paese fino a Fujimore. Lo seguo sempre meno. Nel salutarmi mi offre un succo di frutta e mi regala una sciarpa di lana.

 

 

DAUD MALAK
Incontro del 18 ottobre 1999

E’ nato a El Menia d’Egitto, a 200 Km da Il Cairo nel 1973. Proviene da una famiglia di commercianti. Ha fatto le scuole medie a El Menia e le superiori a Il Cairo, diplomandosi in elettrotecnica in una scuola italiana diretta dai Salesiani. In Italia è arrivato dopo il diploma per continuare a studiare. Si è iscritto ad Ingegneria a Pavia, ma dopo un anno e mezzo ha smesso. Ha preferito sposarsi e indirizzarsi anche lui ad un’attività commerciale. Gestisce infatti un negozio di alimentari in via Piave.

Quando era in Egitto, l’Italia gli appariva un paese “moderno e ordinato”. Questa immagine se l’era costruita a contatto coi Salesiani, che nel loro istituto offrivano ai giovani un ambiente in netto contrasto con quello che essi trovavano nei quartieri de Il Cairo. “Italia pulita, Egitto sporco”, così sintetizza la differenza come gli appariva allora. Come esempi mi porta quello della carta su cui erano stampati i libri italiani. Era più raffinata rispetto a quella usata in Egitto. Oppure mi parla della pessima abitudine degli automobilisti egiziani di versare l’olio consumato dei motori per strada o nel Nilo. Afferro subito la sua voglia di distinguersi dai suoi connazionali. Sottolinea, infatti, con enfasi e ripetutamente la grande importanza dell’educazione alla disciplina ricevuta dai Salesiani e della volontà di riuscire e, in particolare, della sua personale capacità di sacrificio. Non gli va il carattere “meridionale” degli altri egiziani. Li presenta come “menefreghisti” e pigri (“quello che non si fa oggi si farà domani”). Sostiene che nell’ambiente da cui proviene non c’era alcuna diffidenza o ostilità verso gli stranieri. Né pensa che la loro presenza in Egitto abbia avuto o abbia intenzioni colonizzatrici. E, in fatto di religione, ricorda il rispetto reciproco fra cristiani e musulmani: “non bevevano il vino, ma non erano infastiditi se altri lo bevevano”. L’Egitto d’oggi gli appare una società senza quel ceto medio a cui lui aspira ad appartenere: “o si è ricchi o si é poveri”. Né vede qualche possibilità di ascesa sociale. E mi ricorda con una certa nostagia una dichiarazione di Sadat, che una volta aveva detto che, sotto la sua presidenza, la gente aveva ancora una possibilità di arricchirsi. Dopo Sadat, non c’è più.

Per lui il passaggio dall’Italia immaginata all’Italia reale è stato pesante. Ma continua a ritienere che l’immagine falsata dell’Italia non gli era venuta dai Salesiani che, a suo avviso, dicevano sempre cose vere sulla vita in Italia. Crede, invece, che ad alimentare l’illusione che “in Italia i soldi si trovano per strada” siano gli stessi egiziani immigrati che, tornando per vacanze e potendo spendere più, passano per ricchi. Non è però deluso per il suo trasferimento in Italia né per le difficoltà incontrate. Non è riuscito nello studio, ma mai ha perso la fiducia di riuscire nel lavoro. Vuole continuare, perciò, a vivere in Italia e pensa di tornare in Egitto solo per turismo.

In Italia è arrivato nel 1994. Nel primo periodo ha tentato ancora di studiare e contemporaneamente di lavorare per far fronte al costo della vita più alto. Ha trovato prevalentemente lavoro in nero. E l’ha accettato senza obiezioni. Anche perché non aveva nessuna nozione o esperienza di un lavoro regolare. Indirizzato dai Salesiani, è stato accettato da una ditta che produceva dentifrici. E vi ha lavorato per sei mesi come operaio. Contemporaneamente, di sera, ha fatto il venditore di bibite e gelati in una catena di sale cinematografiche. Al sabato poi andava a lavorare gratis in una pizzeria per imparare a diventare pizzaiolo. Altri lavori li ha trovati nel giro degli egiziani immigrati qui a Milano. Ha fatto, dunque, il muratore, l’elettricista, l’imbianchino e l’uomo delle pulizie in un bar di piazza Duomo. Qui lavorava sei ore di notte e veniva pagato 1500 lire all’ora. Il lavoro l’ha cercato facendo inserzioni su «Secondamano» e si è trovato a respingere offerte di prestazioni omosessuali o di compartecipazione a giochi erotici di coppia. Ha provato pure ad andare in giro porta a porta, per vendere fiori o fazzoletti. Erano vendite truffaldine. La consegna da rispettare era quella di impietosire la gente presentandosi come membri di qualche comunità di tossicodipendenti. Lui già al primo tentativo era imbarazzatissimo e ha smesso subito. A Milano per un certo periodo ha abitato in un monolocale con altri otto immigrati. E da ognuno il proprietario chiedeva un affitto di 250.000 lire più le spese.

Nelle situazioni pesantissime e a rischio in cui s’è venuto a trovare gli è servita l’educazione ricevuta: “se uno è educato bene, certe cose non le accetta”. E perciò ha respinto le offerte che riteneva infamanti. E preferito accettare lavori durissimi e poco pagati, che non mettevano in crisi il suo senso morale, la sua “onestà”: “anche se ero in miseria, non avrei mai accettato di spacciar droga”. Ha così difeso i suoi valori forti anche in un paese per lui straniero come l’Italia, puntando anche qui a distinguersi. Se in Egitto gli altri da cui distinguersi erano i connazionali dai comportamenti “meridionali”, qui in Italia gli altri con cui non confondersi sono stati gli albanesi.

Gli egiziani presenti in Italia gli appaiono tutti buoni lavoratori. Pensa, invece, che gli albanesi “per danaro possono ammazzare”. É ostile anche agli zingari, che per lui vanno in giro a rubare; ed è scandalizzato (o non si spiega) come essi possano addirittura difendere questo loro comportamento. E mi racconta l’episodio di alcuni zingari che, sorpresi a rubare nel suo negozio, affermavano con convinzione: “Sì, faccio bene a rubarti. Meglio rubare che uccidere”. Daud non ha dubbi: per lui esistono popoli buoni e popoli cattivi o più portati alla cattiveria.

Gli faccio notare che lo scontro fra ricchi e poveri spiega meglio certi comportamenti umani, che lui definisce “anormali” o incomprensibili. Non tutti – gli obietto – hanno la possibilità come te la “corazza” di una buona educazione familiare o scolastica. Forse – aggiungo – i “normali” sono semplicemente i più ricchi o benestanti; e la loro cattiveria non si svela immediatamente come quella che tu attribuisci agli albanesi o agli zingari. Ma il discorso è complicato e ci accordiamo per riprenderlo in altra occasione.

Passiamo al racconto di come è arrivato, nel 1996, ad aprire un suo negozio di alimentari in Via Piave a Cologno. La fidanzata, Sally, ora sua moglie e madre di una bimba di pochi mesi, quando lui ancora era studente, faceva la commessa in un panificio di Milano. Entrambi avevano deciso di fare un lavoro indipendente e di tentare la via del commercio, vista anche la tradizione di famiglia. Ma, per entrare nel R.E.C. (Registro Esercenti Commercio), uno straniero deve disporre di un socio che abbia la cittadinanza italiana e di una compartecipazione all’impresa del 51%. Si è, dunque, rivolto ad un amico egiziano in possesso della cittadinanza italiana. Questo gli ha trovato il negozio, ma che gli ha fatto poi pagare a caro prezzo la licenza, che inizialmente pareva disposto a cedere per pochi milioni. Da quando ha cominciato l’attività di negoziante, è riuscito a conquistarsi la fiducia e la simpatia di molti clienti, specie anziani. L’attività si è consolidata, ma sta ancora pagando il costo della licenza. Si considera, tuttavia, fortunato; e ritiene di essere stato aiutato e “scelto da Dio”.
Sia lui che la moglie sono religiosi. Appartengono alla comunità cristiana copta ortodossa, che ha una chiesa in via Senato e un monastero a Lacchiarella. Frequentano soprattutto questa comunità. Qui, a Cologno, invece, hanno scarsi rapporti con altri egiziani. Ma anche con gli italiani. Non pensano di stabilire neppure con loro stretti rapporti di amicizia. Daud spiega questa riservatezza, oltre che con l’impegno richiesto dal suo lavoro, con alcune delusioni ricevute. Quando era in Egitto, certi legami d’amicizia, che sembravano forti e sinceri, non hanno resistito alle dure prove della vita da immigrati. Mentre lui si è mostrato generoso e pronto ad aiutare gli altri, quando ha avuto bisogno, questi non l’hanno aiutato a “spostare neppure un armadio”. Pensa pure che la rottura con certi suoi amici egiziani sia derivata dalla scelta di sposarsi e dal suo ideale di vita disciplinata e basata sul risparmio. Perciò oggi dichiara di preferire “rapporti con tutti ma superficiali” e delle sue questioni più intime parla soltanto col confessore. Mi ribadisce ancora la sua fiducia in alcuni valori fondamentali: l’educazione, il lavoro onesto, l’amore per tutti.

Da un accenno ammirato che Daud fa ad un giovane di 29 anni, che in una trasmissione televisiva da lui seguita aveva dichiarato orgoglioso la sua verginità, finiamo per parlare di preti e di celibato. Nella comunità copta sono ammessi sia i preti sposati che quelli celibi. Mi dice che, secondo il rito copto, il prete celibe viene ricoperto da un lenzuolo “come se fosse morto”; e cambia anche il nome. Afferro tutta la forza suggestiva di questi legami religiosi. E capisco di più come essi danno forma a tutte le riflessioni di Daud sugli eventi, perché gli offrono modelli protettivi e esplicativi. Gli accenno solo velocemente al mio scetticismo e al distacco dalle forme di pensiero religioso. Ma dobbiamo interrompere. La conversazione si è prolungata fin troppo. E saluto lui e sua moglie, che ha ascoltato attenta i nostri discorsi, accudendo la bimba e intervenendo solo in alcuni momenti.

11 pensieri su “Nuovi immigrati: Daniel Contreras e Daud Malak

  1. Due osservazioni mi sono affiorate mentre leggevo i due ritratti, precisi e completi, e le dico qui senza farne conseguire giudizi generali.
    1) i “valori” cui si ispirano (o si ispiravano?) Daniel e Daud: più interessati al morale-sociale, cioè al comportamento tra i pari, quelli di Daud; più radicali in senso antropologico (provvedere ai figli, alla famiglia) quelli di Daniel. Sono gli stessi valori della mia famiglia originaria, padre e madre, usciti dalla guerra con la sola capacità di lavorare e poi immigrati a Milano – mio padre agli inizi viveva in una stanza con altri due immigrati dal sud, e finì poi a 56 anni per cancro ai polmoni facendo 3-lavori-3, dal mattino alle due di notte.
    2) la acquisizione dei valori, respingere la pigrizia, disponibilità al cambiamento, adattamento al nuovo radicandosi in famiglia, è religiosa, cattolica. Cattolicesimo che ha costruito a lungo il terreno comune tra paesi pure lontani, e che è fra l’altro alla base della posizione attuale della chiesa nei confronti dell’immigrazione.
    Che ne è oggi di questo lavoro unificante del cattolicesimo? Che ne è oggi di quell’etica individuale del lavoro a tutti i costi per la famiglia?
    Che cosa unisce oggi il mondo in movimento tra nord e sud, tra est e ovest?
    C’è bisogno di un’altra unificazione “ideale”, per quanto astratta e lontana dalle scelte politiche, ma unificante tra gli umani atomizzati e disgregati del capitalismo finanziario?
    Per quanto vago e inutile mi viene solo in mente il distico “Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro”.

    1. « la acquisizione dei valori, respingere la pigrizia, disponibilità al cambiamento, adattamento al nuovo radicandosi in famiglia, è religiosa, cattolica». (Fischer)

      Sarà anche cattolica (per i cattolici), ma per gli altri? Tanti lavoratori di altre fedi o con altri riferimenti definibili religiosi hanno etiche fondate su queste caratteristiche abbastanza “universali”. E quindi perché farle discendere esclusivamente dalla religione cattolica?
      E poi « questo lavoro unificante del cattolicesimo» o « quell’etica individuale del lavoro a tutti i costi per la famiglia» sono stati o sono così positivi? Per chi? E « gli umani atomizzati e disgregati del capitalismo finanziario» proprio di « un’altra unificazione “ideale”» avrebbero bisogno?

      1. @ Ennio: Mi rimproveri un’analisi come se fosse un mio schieramento. Il lavoro matto e disperatissimo è stato solo il modus vivendi di noi nel dopoguerra. Non so se nel sud o nel nord, ma certo nelle immigrazioni degli anni 60. Non so neanche se era un atteggiamento giusto, certo che permetteva di vivere. E che poi si è sostanziato nella democrazia degli anni 70. Oggi so che il trentennio riformista è morto e sepolto. Eppure, a che cosa ci rivolgiamo nella speranza, se non a una distribuzione imposta con le forze del conflitto tra le classi?

        1. Non ci sono rimproveri nel mio commento, ma considerazioni e domande che sollecitano eventuali risposte (anche da altri).

      2. @ Ennio
        La prima affermazione di Cristiana Fischer sulla quale fermi la tua attenzione non mi pare tanto lontana dalla realtà, se al “cattolica” sostituiamo l’iperonimo “cristiana”. Poiché il Cristianesimo è stato a lungo(ed è ancora, pur se in misura più contenuta) fenomeno universale, nulla di più normale che i principi sostenuti da questa fede religiosa fossero i più diffusi : in primis in Occidente, poi anche in tutti quei luoghi della terra che con l’Occidente hanno avuto rapporti di qualsiasi genere. Naturalmente ciò non significa che questi principi siano appannaggio esclusivo del Cristianesimo, ma solo che questa fede se n’ è fatta portatrice. Fermo restando, dunque, che l’ideale della famiglia e la cultura dei valori possano appartenere sia a fedi religiose che al pensiero laico.
        Piuttosto mi preoccupa « quell’etica individuale del lavoro a tutti i costi per la famiglia». Se l’espressione “a tutti i costi” non allude a qualcosa che sminuisca la dignità dell’individuo, ma invece vuole riferirsi a sacrifici anche gravi che il lavoro può comportare, allora va bene. Ma se “a tutti i costi” dovesse implicare in qualche modo disonestà, corruzione o compromissione, allora no, il concetto sarebbe inaccettabile. Tuttavia non credo che Fischer volesse suggerire questa, lettura che per giunta poco si concilierebbe con la dottrina cristiana.

        1. Gentile Pasquale Balestriere, come lei ha capito il mio richiamo a un lavoro matto e disperatissimo non può riferirsi a disonestà corruzione etc., ma all’impegno totale e senza risparmio, che era anche etica personale, con cui il paese uscì dalle conseguenze della guerra costruendo un qualche approssimato benessere.
          Nonostante il nome casualmente attribuitomi, non mi riferivo solo alla dottrina cattolica del lavoro -quella che ancora oggi ispira la chiesa cattolica all’accoglimento indifferenziato, come se nel foggiano e in campania non si realizzasse invece vera e propria schiavitù- ma alla circostanza storica in cui dc e pci, appellandosi a forza e resistenza di un popolo contadino, riuscirono a distribuire un po’ di civiltà e benessere. Citerò solo gli aiuti nella piena del Po nel 51, e la riforma della scuola media.
          Oggi di quel popolo lavoratore il lavoro seleziona solo alcuni sfruttandi, ma lascia al margine, inedia e rancore, gli altri. Avvelenando gli animi e la psicologia, operazione forse compiuta.
          Certo la mia prospettiva è individuale, vedo solo sorti personali. A Daud e Daniel è andata anche bene. Ma per costruire ideologie oggi occorrono ben nuove analisi! Si può seguire il lavoro attuale di Sergio Bologna, Primo maggio ’18 e https://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/13971-sergio-bologna-il-mancato-approdo-del-confronto-tra-operaie-i-e-capitale.html

  2. Daniel e Daud sono esseri umani con pregi e difetti -condizione comune a tutti noi- . Essi tuttavia tendono ingenuamente a considerare come oggettive esperienze vissute, sì, ma lette e interpretate in modo soggettivo e piuttosto approssimativo, anche per colpa di una visione della vita manichea, dove esistono solo il bianco e il nero.
    A vent’anni di distanza, sarebbe interessante ritrovarli e -se possibile- sentirli di nuovo Daniel e Daud, ponendo loro magari le stesse domande, per cogliere varianti e invarianti nelle risposte. Per qualche utile riflessione psico-sociologica.

    1. Di Daniel Contreras non ho più notizie. La carriera di commerciante di Daud Malak è, invece, proseguita bene: ha aperto diversi negozi di pane o di pasticceria e non solo a Cologno Monzese dove aveva iniziato.

  3. No, il valore di un lavoratore non va misurato per come agisce da singolo. Non ci si deve limitare a guardare se è onesto o disonesto, corrotto o non corrotto nel lavoro che gli viene assegnato. Quell’«etica personale» diffusa dalla dottrina cattolica tra le classi lavoratrici o quell’etica del lavoro propagandata a gran voce dal socialismo hanno coadiuvato e incoraggiato il compromesso, la subordinazione della classe lavoratrice a quella capitalistica.
    A fronte di « un qualche approssimato benessere» per i lavoratori vanno posti gli enormi profitti dei capitalisti ottenuti proprio con lo sfruttamento dei lavoratori. Presentare positivamente la politica di DC e PCI, che «appellandosi a forza e resistenza di un popolo contadino» ( a parte il fatto che i contadini entrando in fabbrica si facevano operai) sarebbero riusciti «a distribuire un po’ di civiltà e benessere» significa tacere se non occultare quello sfruttamento.
    Che Daniel Contreras e Daud Malak, a cui « è andata anche bene», proprio non lo vedano, passi. Ma che la Chiesa cattolica, con l’eccezione di pochi preti operai, proprio non volle vederlo, almeno qui su Poliscrittura non deve passare.
    Ed è sbagliato scrivere che «oggi di quel popolo lavoratore il lavoro seleziona solo alcuni sfruttandi, ma lascia al margine, inedia e rancore, gli altri». «Il lavoro seleziona»?! Semmai sono i capitalisti e i governi capitalistici che hanno sottomesso il lavoro e stanno imponendo persino forme di lavoro schiavistico.
    Ed èdavvero un controsenso citare l’articolo di Sergio Bologna quasi come se avalasse questa ridicola apologia dell’etica individuale o del lavoro.
    A quest’etica del tutto subordinata alla logica dei capitalisti , dei cosiddetti “datori di lavoro”, Bologna contrappone proprio i «comportamenti antagonistici di classe degli Anni 70, anni di emancipazione e di produzione d’intelligenza operaia». E mostra i danni (paradossalmente per gli stessi capitalisti!) dei periodi in cui « la lotta operaia tace, là dove il suo silenzio si fa prolungato». O indica chiaramente le responsabilità non del lavoro (!) ma di «una classe capitalistica che non investe e non innova, di un capitalismo orientato alla rendita, ai sussidi pubblici». Infine denuncia per l’oggi le responsabilità di «prestigiose Fondazione culturali che richiedono per l’assunzione anche temporanea laurea magistrale e conoscenza di almeno due lingue straniere pagano anche cinque euro all’ora; le tariffe provinciali di riferimento dei facchini in area emiliano-romagnola si aggirano sui 20 euro all’ora».
    Se scrive: «Perché in Italia non si è consolidato un movimento dei precari? La mia risposta, lo sapete, è che quella precaria è una non-identità. Di quella sconfitta hanno approfittato i movimenti populisti e sovranisti per costruire un loro anticapitalismo no global. Noi continuiamo ad attardarci nell’analisi della composizione tecnica del lavoro postfordista, abbiamo sparso fiumi d’inchiostro sul bio-sfruttamento. Dobbiamo forse ricominciare da altre linee di partenza», è per esigere che le «nuove analisi», di cui c’è bisogno, non dovranno basarsi su prospettive individuali, o «sorti personali» ma «immaginare un percorso di antagonismo». Accennato proprio in alcune analisi dei vituperati ’68 e ’77.

  4. Il “lavoro” che nominavo è evidentemente l’offerta, la somministrazione, la conflittualità’, del lavoro. Quella popolazione contadina, poi operaia, è quella che ha sviluppato il paese, con il lavoro e con le lotte. Con le lotte e con il lavoro. Poi ci fu la reazione a quella capacità di confliggere (e alla politica della dc aperta ai paesi del petrolio, mentre il pci si accuccio’, alleato e coperto, agli usa nel bipolarismo). E iniziarono gli ’80.
    E sì, tutti i movimenti, le culture, le politiche, le ideologie, gli sforzi, gli ideali, le lotte e le morti, sono sempre intestate ai singoli -fragili, influenzabili, miserabili, eroici, pensosi, imbecilli- che le agiscono. Mi dispiace, ma i soggetti, come la responsabilità, sono sempre individuali.

  5. e p.s.: devo continuamente ripetere che il cattolicesimo non mi coinvolge, non lo ho mai sposato, ma lo osservo come innerva il nostro paese, e ben altrove, nel male e nel bene.

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