Proletario del blog

di Roberto Bugliani

È uscita «Un’occhiata fuori»,  la seconda raccolta di racconti di Roberto Bugliani, amico e collaboratore di lunga di data di Poliscritture. Con l’autorizzazione dell’autore e della Apollo Edizioni di Bisignano (Cosenza) pubblicherò, distanziandoli  nel tempo, tre racconti. Questo primo è una riflessione amara ed ironica sulla sbornia da Internet di un comunissimo «proletario del blog», che ha le reazioni e le illusioni  in cui  tutti noi, frequentatori di  siti  più o meno incalliti, siamo passati. Speriamo, però, di evitare la sua finale «evanescenza corporea». [E. A.]

Aristide non sognava mai. O, per meglio dire, non è che propriamente non sognasse, perché in realtà non esiste nessuno che non sogni, come sostengono le persone acculturate che hanno letto Freud. Più semplicemente, al risveglio non riusciva a ricordare i sogni che lo avevano visitato durante la notte. Né tantomeno di giorno, da sveglio, Aristide sognava, per l’ovvio motivo che i sogni a occhi aperti non erano consentiti ai precari come lui. E Aristide precario lo era a tutti gli effetti: nel lavoro, nei sentimenti, nelle scelte esistenziali e perfino nel mondo virtuale dei blog. Siccome il precario d’oggi è il figliolo sfigato del proletario d’ieri, Proletario del blog era il nickname che s’era dato. E da buon proletario, oltre a non disporre d’una connessione adsl, non possedeva nemmeno un sito internet tutto suo, per cui doveva arrangiarsi con quelli degli altri, smanettando da visitatore con link, homepage e spazio commenti e saltellando qui e là a zigzag come un pulcino in cerca della chioccia.

Ora, come anche il più sprovveduto blogghista sa, blog è contrazione di web-log, che significa giornale di bordo. «Dietro ogni blog c’è un individuo e il suo punto di vista sul mondo», aveva letto da qualche parte, e quelle parole gli erano sembrate talmente giuste da riportarle a caratteri cubitali su d’un foglio di carta fissato con lo scotch alla parete della sua stanza, proprio sopra la postazione del computer. Con la variante che Aristide, “il proletario del blog”, non poteva permettersi il lusso d’avere un giornale di bordo né, di conseguenza, un punto di vista stabile sul mondo da esporvi, di modo che per praticità assumeva quello del blogger via via di riferimento, che suggeva come latte materno.

Era entrato nella nebulosa dei blog per curiosità, dopo che un amico gli aveva dato le prime dritte sul know-how della navigazione in rete. E da allora, poco a poco, s’era intrufolato nelle pieghe della rete che estende sempre più il suo dominio sulle terre d’Occidente, dove secondo le ultime statistiche ottocento milioni di bianchi dotati dei parametri e dei protocolli giusti veleggiano giornalmente nei settanta milioni circa di siti web a loro disposizione.

Il mondo virtuale era il fortilizio in cui s’era arroccato, e sembrò dimenticare che dietro il virtuale c’è pur sempre il reale, che dietro la rete ci sono in carne e ossa i lavoratori dell’Ente che eroga energia elettrica, che dietro i lavoratori del tale Ente ci sono i loro capi impegnati nei giri di valzer di poltrone e sudditanze politiche, che dietro ai capi ci sono i capi dei capi che guidano la macchina industriale del paese, e che dietro ai capi dei capi ci sono a loro volta i super-capi che stringono nelle mani le redini dell’economia del sistema-mondo, di modo che tutta una piramide ben strutturata e orchestrata poggia sui cavi sottili che dalla presa elettrica sbisciano fino allo schermo acceso.

Ad Aristide venne presto a noia accodarsi alla litania dei comments come facevano i coatti del blog, i quali, per farsi piacere da altri coatti come loro, non perdevano occasione per sventagliare e destra e a manca le loro banali esternazioni sul tapino di turno: «Caspita il Briciola, tanto di cappello. Mi cojoni, Age’, come sei poetiko. A’ coso, aripijate! Eddai Lisca, lascia perdere ch’è meglio». Considerava lo spazio commenti non già un invito, ma un’ingiunzione tassativa volta a fidelizzare l’utente che vi sottostava, riassumibile nel più classico degli aut aut: o stai al gioco dell’appartenenza o salti su un altro blog, che il renitente non mancava in seguito di scoprire gemello di quello da lui da poco abbandonato. A un simile stato di cose Aristide opponeva le sue scritture selvagge, come chiamava gli interventi che disseminava qui e là nel corpo della rete, andando regolarmente OT e subendo le reprimende del blogger del momento, ossia prendeva a pre-testo il testo dato per stravolgerlo, approfittando delle risonanze recondite d’una parola, delle sfumature d’un’immagine, delle possibilità eccentriche d’una situazione, col risultato di creare una sorta di metatesto. Perché ciò che le ferree leggi virtuali dei blog non prevedevano era la possibilità degli utenti di sovrapporsi fino a oscurare il testo dato rifiutandone l’unicità e la sacralità, rendendolo altro da sé, negandosi così, con quell’atto d’insubordinazione, al preconfezionato ruolo d’automi messi in moto dal click di chi guidava le danze dall’alto del suo scranno autoriale.

La prima cosa a saltare in questo empito d’impellenza che gli veniva dalla sua volontà d’occupare coi suoi kbyte sempre più spazi della rete fu l’abituale consultazione dei giornali online, i cui articoli era solito salvare in formato Html (aveva abolito le immagini perché necessitavano di più tempo per venire scaricate) per poterseli leggere in tutta calma, a disconnessione avvenuta. Del resto, già avvertiva da tempo una certa insofferenza verso la logorroica affabulazione dei giornalisti, che intossicavano l’informazione con le loro bufale o con le mezze verità che la proprietà consentiva loro di scrivere spacciandole per linea editoriale. A quella ipocrita imparzialità lui preferiva la salutare partigianeria dei blog, quando non addirittura le teorie più strampalate cui s’abbandonavano i loro utenti. Con l’avvento d’Internet l’informazione era divenuta rizomatica e il nomadismo delle notizie s’era affermato come misura d’autenticità, la sola che fosse in grado di mostrare il re nudo.

Poi venne la volta dei messaggi. Smise di scrivere e-mail e di scaricare quelle in arrivo, rannicchiandosi sempre più nella sua ossessione. La casella postale gratuita si gonfiò all’inverosimile di messaggi in giacenza e finì con l’esplodere, azzerando ricezione e contatti. Ma lui non se ne preoccupò più di tanto. La dedizione ai blog era divenuta così esclusiva e incontaminata da annullare ogni altro interesse. E gli s’era talmente incarognita nell’animo da farlo saltabeccare da un blog all’altro col mouse frenetico e affamato in cerca di link come un passero d’inverno lo è di briciole, deponendo su ciascuno il suo ovetto di scrittura.

Scriveva rapidamente i suoi testi che spesso preparava in anticipo fiutando temi e circostanze con l’abilità d’un cane da tartufi, e per risparmiare tempo non si curava di rileggerli, mentre i minuti scattavano implacabili e gli errori ortografici s’accumulvano infitendosi (come in questo caso). Le sue erano scritture da una botta e via, non indugiava nelle aspre tenzoni verbali intraprese dai follower del guru di turno contro troll e nemici esterni, né nei gossip in cui indulgevano gli specialisti di rumor (la lingua padronale, il barbarish, gemmava a più non posso nel web), ma congedava di colpo Personalità distorta per ascoltare i vagiti di Coscienzadiclasse, o abbandonava Lolablu al suo destino prescindibile di fata morgana per buttarsi sul novizio Il Terribile Ivan, sempre trafelato, talvolta arenandosi su “errore 404 file not found”, o talaltra impapocchiandosi nel labirinto della finestra dei segnalibri che aveva inzeppato sconsideratamente di pagine web prima d’individuarvi l’icona del blog desiderato cui collegarsi che occhieggiava salvifica a conferma della sua esistenza. E i link, poi, lo affascinavano con le loro manine ruffiane dal dito indice levato a memento, che bastava un comando del mouse per farsi trasportare verso altri intrighi di byte che s’allargavano compiacenti sul desktop.

La bolletta telefonica continuava a crescere vorticosamente assieme alle sue altrettanto vorticose incursioni in quel mondo dove tutto era possibile,  bastava premere il tasto giusto e s’apriva un universo d’opportunità che non era minimamente comparabile al fatto di scendere in strada e affrontare l’afasia degli umani e l’aridità dei rapporti sociali, così che da strumento comunicativo il blog s’era trasformato in un Moloch assetato di Kbyte che lui placava con le sue scritture selvagge. I battiti del suo cuore erano sempre più simili alle intermittenze binarie del sistema, più e meno, meno e più, e perfino l’impulso che muoveva le sue dita era bipolare: più, meno, meno, più… Alle sue orecchie affinate agli impercettibili ronzii del cavo elettrico quel ritmo risultava semplicemente sublime, e i suoi occhi avevano smesso di prendere in benché minima considerazione gli «a proleta’, ma dacce ‘n tajo!» che fioccavano irriguardosi a stigmatizzare la lunghezza eccessiva dei suoi post. I lacciuoli erano divenuti catene, la curiosità dipendenza, e lui si vedeva novello Sansone incatenato dai filistei alle colonne del sistema dei sistemi; tuttavia, a differenza del personaggio biblico, non aveva nessuna velleità d’abbatterle. Insomma, negli ultimi tempi prima della sua misteriosa scomparsa mangiava pane e byte, beveva vino e kappabyte, pisciava orina e megabyte, respirava aria e gigabyte.

E quando si trovò a tacitare con un secco ‘fanculo! l’amico d’una vita Verardo, il quale s’era azzardato a ricordargli che anche i proletari del blog come lui a ogni click del mouse sul desktop contribuivano, datosi il teorema del battito d’ali della farfalla modellato sul colpo di cannone del vecchio Voltaire, ad accrescere le morti per gastroenterite, morbillo e influenza dei bambini di terre dimenticate dagli dèi e dagli uomini – ma sempre presenti alle multinazionali. In quel preciso momento s’accorse che il suo viaggio era ormai senza ritorno. E un dolce senso di liberazione gli pervase mente e corpo.

Ora, lui poteva capire che per farsi la doccia un europeo medio s’appropriasse dell’intera quantità d’acqua giornaliera a disposizione d’un abitante dell’Africa. E poteva anche arrivare a comprendere che un litro d’acqua consumato in Europa fosse un litro sottratto ai restanti quattro quinti del mondo, sì… più meno, meno più, più meno meno più meno meno più più più… tutto tornava nella matematica mondiale, tutto quadrava nell’ordine termodinamico della società. Ma accrescere l’impoverimento d’un essere umano del terzo mondo con un solo click del mouse, suvvia, che panzana era mai quella!

E in cuor suo commiserò l’amico blogless, il quale miserello ignorava che il blog era stato concepito per conferire visibilità a chi nel mondo reale non l’avrebbe mai avuta, che erano quei cinque minuti di gloria a dare uno scopo alla vita di merda dei blogghisti una volta spento lo schermo, che era l’avvento d’una forma di comunicazione pulita e democratica, dove la libertà formale è ipso facto sostanziale, e che su siffatta Sibilla tecnologica si riversava il diluvio di pulsazioni dell’animo umano.

Chiamati dalla sorella preoccupata per il prolungato silenzio di quel fratello sempre più strano che da qualche giorno non rispondeva al telefono, i pompieri forzarono la porta d’ingresso chiusa a chiave con tre mandate, irruppero nel piccolo appartamento e, dopo aver spalancato le porte della cucina e del bagno senza trovarvi nessuno all’interno, si precipitarono nella camera-studio. Davanti allo schermo acceso che emanava una luminosità ferocemente intensa, ammucchiato sul sedile della poltroncina a rotelle c’era un fagotto d’indumenti che la donna confermò appartenere al fratello, come se questi se ne fosse andato nudo e incosciente per le strade del mondo.

Le ricerche della polizia, che diramò alle questure di tutta Italia i dati anagrafici e la fotografia dello scomparso[1], non portarono a nulla.

Cinque anni dopo gli inquirenti archiviarono il caso come irrisolto. E qualcuno, mettendo in relazione la stranezza di questo caso con quelle d’altri più recenti, tutti riguardanti sparizioni improvvise di persone che fino a pochi istanti prima se ne stavano tranquillamente a casa loro, con le immancabili montagnole d’abiti abbandonati sulle sedie davanti ai monitor accesi, s’è spinto a formulare l’ipotesi d’un’evanescenza corporea dovuta a qualche, e al momento incomprensibile, bizzarria di tubi catodici e d’effetti ionici perversi che, se sollecitati casualmente ma nel modo giusto, relativo all’uso intensivo del computer, aprirebbero vortici temporanei nello spazio-tempo.

Ma non mi si domandi che fine abbia fatto Aristide, alias Il proletario del blog. Perché non v’è alcuna fine nella sua storia, lui è ancora lì, ombra dell’ombra che era, le mani eteree sulla tastiera, le dita immateriali a premere sui tasti, con i suoi quarant’anni suonati e le mille una personalità virtuali, lui è sempre lì, nell’aria stagnante, palpitante, fremente, ancora.


[1]Si tratta della fotografia fornita agli inquirenti dalla sorella dello scomparso, tale E.V., coniugata, casalinga, madre di due figli, che ritrae l’uomo di tre quarti a figura intera. Il volto, rasato, ha tratti regolari e gli occhi fissano con espressione d’evidente contrarietà l’obiettivo, mentre le gambe divaricate, col piede sinistro sollevato da terra alcuni centimetri e ostentatamente proteso in avanti come se il soggetto, indossante una camicia blu di cotone dalle maniche rimboccate al gomito e un paio di pantaloni rossi a costine di velluto leggero un po’ stazzonati, volesse suggerire al fotografo la sua ferma intenzione di proseguire nel cammino senza indugiare nella staticità della posa. Alle spalle dell’uomo un gruppetto di giovani pioppi, dai rami ammantati di foglie d’un verde tenero e brillante, che svettano allegri prolungandosi oltre il bordo superiore della carta patinata, fanno pensare che la foto sia stata scattata a inizio estate, o comunque non prima della tarda primavera, d’un anno imprecisato, che tuttavia la sorella, nel corso dell’interrogatorio, ha chiarito trattarsi del mese di giugno, per l’esattezza il 14, di due anni prima, soggiungendo, a conferma della sua dichiarazione, che rammenta con precisione la data perché fu lei stessa a scattargli quella fotografia dopo molte insistenze e superando le mille perplessità del fratello in quanto l’uomo, per una sua fisima di cui non ha mai rivelato la ragione, si negava a farsi fotografare. La foto è stata scattata in occasione d’una passeggiata domenicale nel parco pubblico della città dove lo scomparso e la sorella vivevano, ma in appartamenti di stabili diversi e distanti tra loro un paio di chilometri. Sito alla periferia nord della città è l’appartamento di proprietà della sorella, mentre quello del di lei fratello scomparso, acquistato in seguito alla divisione dell’eredità materna, una sessantina di milioni in titoli di Stato e obbligazionari andati all’uomo secondo l’esplicita volontà testamentaria della madre che s’era fatta una passione per la difficile situazione economica di quel figliolo balzano con la testa perennemente fra le nuvole,  è sito nel centro storico. 

Questa fotografia, la fotografia dell’uomo scomparso, finì il suo tortuoso percorso nel secondo cassetto della scrivania d’un funzionario della mobile, il cui ufficio è sito al secondo piano del palazzo della Questura, e lì – per quanto ci è dato sapere – giace ancora, sepolta sotto fascicoli di circolari e verbali di denunce di vario genere.         

4 pensieri su “Proletario del blog

  1. Ho letto con piacere. Racconto interessante. La metafora colpisce al cuore! Diventa quel buco nero che continua a divorarci. Tanto per scimmiottare Hegel potremmo dire che il reale è virtuale e il virtuale è reale! Sono curioso di leggere gli altri racconti.

  2. Un bel racconto, sul proletario del (dei) blog, chissà se potrò leggere il suo paredro, il padrùn del blog, anzi i suoi vari padrùn.
    Perché un blog può non costare, una connessione wi-fi è poco costosa soprattutto se assorbe le comunicazioni telefoniche, sono due piccioni acciuppinati con una fava non matura, ma intanto… Eccomi *pensionata del blog*. E forse non sparirò -non credo- in un mucchio di stracci. Con un trucco.
    Che i padroni dei loro blog, costosi, si offrono al colto -scelgono- e all’inclita (le autorità benemerite) per ricevere consensi, interesse finalizzato alle vendite, ma anche “critiche costruttive”, dir non è mestieri. Ma si può girare in rete e frequentare assennatamente siti un po’ nudi che intendono collegarsi. E si può mantenere vecchie amicizie, e amicizie collegate, e discutere tra amiche e vecchie signore, di tante cose reali come malattie, servizio sanitario, cibo, strade di figli e nipoti, politica, no?

  3. …veramente inquietante questo racconto di R. Bugliani. Sono ormai tanti quelli che figurano ( non figurano) tra i desaparecidos dei blog, in generale della rete. Mi ha colpito la descrizione della progressiva e, sino all’irreversibilità, inconsapevole metamorfosi dell’uomo in macchina-robot. Forza-lavoro proletaria al servizio del sistema…dio mio!

  4. Con colpevole ritardo, dovuto a motivi non dipendenti dalla mia volontà, ho letto i commenti al mio racconto, e voglio ringraziare Giuseppe Gallo, Cristiana Fischer e Annamaria Locatelli per la loro benevolenza di commentatori, e tutti coloro, inoltre, che hanno dedicato un po’ del loro tempo di lettori a questo racconto.

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