Riflessioni sulle “poeterie” (3)

Tabea Nineo, Tempera, 1980

Riordinadiario

di Ennio Abate

1980

14 gennaio

Leggendo Vanoye, La funzione poetica nei messaggi scritti e  Annaratone, Rossi, Versificazione e tecnica della poesia.

Certo la poesia, che nel costruirsi s’appoggia alle varie funzioni del linguaggio comune, non è riducibile all’aspetto metrico. E mi pare assurdo che senza metrica non ci sia poesia. Anche un corpo – penso – esiste di per sé e non perché  è misurabile (o non vale soltanto quando rientra entro determinate misure considerate normali).  Ho sempre pensato che la metrica (come l’ortografia) può essere usata per intimidire, cosa inaccettabile.  E però non ignoro che finora  – e in particolare nella cultura letteraria italiana –  la misura ha avuto una grandissima importanza; ed è sciocco pretendere di capire la poesia dei classici trascurando il loro rispetto o la loro passione per i problemi di metrica. A complicare le cose c’è l’esperienza delle avanguardie, che è oltre misura (è andata oltre quelle misure canoniche). Forse perché influenzato anche solo indirettamente da tali esperienze, non ho badato più alla metrica? Oppure mi sono affidato da sempre a una metrica soggettiva, indifferente a quella della tradizione?

Credo di essermi mosso in poesia senza pensarci troppo in una sorta di “indifferenza metrica”; e, con una certa naturalezza, ho praticato forse  una metrica soggettiva, che rientra  in quella  detta del verso libero. Il problema di quanto essa sia o no alternativa o fuorilegge me lo ritrovo di fronte adesso che leggo Fortini. Il quale insiste  a dimostrare quanta metrica della tradizione stia nella apparentemente vergine e ribelle anti-metrica delle avanguardie. Quanto mi convince? Non so dire. So dire però che resto curioso verso le tante esperienze che hanno cercato il senso del/nel non senso, o la logica del/nell’a-logico. Per adesso vorrei tenere a bada sia la soggezione alla metrica che il suo rifiuto semplicistico. Potrei forse controllare che tipo di versificazione ho adottato in questi anni e quali mutamenti sono intervenuti rispetto agli inizi. Ma ne vale la pena? É un compito che richiede tempo; e, appunto, una competenza della tradizione metrica che non sono riuscito ad avere. Resta il fatto che questo mio  deficit è un po’ il marchio della mia traballante e penosa formazione liceale.  La metrica fu una delle materie per me più ostiche; e solo il provvidenziale aiuto esterno del sig. Giarletta, il direttore delle poste in pensione che abitava nel nostro palazzo, mi fece superare il blocco che m’impediva di leggere bene gli esametri in greco. Credo che quelle difficoltà furono la molla della simpatia istintiva per  i poeti che usavano il verso libero. Erano allora – parlo del 1956-57 – al di fuori dei programmi scolastici, fermi  alla “triade” Carducci-Pascoli-D’Annunzio. E li conobbi per caso in un’antologia dei poeti del primo ‘900 prestatami  dalla sorella laureanda in lettere del mio compagno di liceo Carlo Bisogno. Con il mio arrivo a Milano, l’esperienza dell’isolamento prima e la scelta della militanza politica poi cominciò il distacco – di fatto, pratico e solo più tardi motivato – dalle suggestioni dell’avanguardismo che tanto ammiravo a Salerno. Oggi condivido l’insieme delle critiche soprattutto politiche di Fortini alle avanguardie, pur sapendo da me irraggiungibile il suo classicismo. Non sono  tornato però pentito alla tradizione.

1981

Agosto

1.

Ci fu un inizio di lavoro poetico attorno al ’61 che fu interrotto dalla partenza per MI. Non so se misi il tutto da parte perche convinto che fosse una poesia “difettosa”o perché preso dalle complicazioni della mia esperienza a MI. Mi sono però sempre rifiutato di sbarazzarmi di quei frammenti. E ora ho la volontà di lavorare su quei residui intenzionati poeticamente.

2.

Ripensando alla mia lettura di Zanzotto [Oscar Mondadori 1973] in uno scompartimento di seconda classe [facevo commissario ai corsi abilitanti a Firenze?]. Per me c’è stata una rottura fisica all’età di 4-6 anni col mondo contadino (Baronissi) e più tardi con quello piccolo borghese (Salerno) e un’immersione altrettanto fisica e forzata nella metropoli (Milano). Il mio paesaggio [Dietro il paesaggio..] da allora è stato, con linguaggio preso dalla politica, il sociale. Con esso un rapporto di attrazione e di conflitto. Quest’esperienza mi ha spinto al dialogato e alla fabulazione . [Che non indica di per sé un maggior rapporto con il sociale reale]

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Un’osservazione sul rapporto scrittura-sentimenti a p. 66 di Zanzotto [Oscar Mondadori 1973]: Non è scrivendo morte o paura della morte che si esprime l’angoscia oscura che ci prende, anche quando si è a distanza da fatti di morte. Ci sono altri segni che rendono di più non il concetto (conscio) ma il suo alone (inconscio). Applicando l’osservazione ad alcune mie poesie del ‘62-‘64, mi accorgo che un verso come le cugine non sanno pisciar alto è rimasto banale. Non ho potuto o saputo più far emergere la suggestione angosciosa legata alla rivelazione infantile che registrai in quel verso. Il senso poetico (inconscio?) s’è disfatto o tramutato in altro; e le parole rimaste sulla carta vengono risucchiate nella banalità del linguaggio normale.  Allora queste parole restano solo un documento di una fase della mia ricerca a cui non  è facile ricollegarsi. E devo rinunciare a cogliere quel che forse allora stavo afferrando…

Per riaccostare quell’intenzione poetica degli anni ‘61-’64 dovrei rifarmi poeta come allora. Se mi metto nei panni del critico del me stesso passato, dovrei solo stracciare quei fogli e ritenere ormai impossibile ogni ricerca poetica.

Un immaginario dialogo fra Ennio81 ed Ennio ’62 potrebbe essere all’incirca questo:

E81 – Forse volevi dire…? Io intendo questo oggi… Qui non afferro più niente.. Qui mi respingi..

E62- Io allora temevo il futuro ed ero incapace di immaginare come tu saresti stato. Sono tutto in questi frammenti… Scrissi “le cugine non sanno pisciar alto”.  E tu che fai? Mi rispondi? Mi critichi? Cambi discorso? Mi prendi in giro? Mi giustifichi come se fossi stato uno sciocco?

E81 – Vedi che non sono tanto diverso o distante da te. Non sono andato così oltre. [Ti rispondo per le rime..] E non mi va di riordinarti o accomodarti…

[Nota 1983: Ho superato lo storicismo che forse mi guidò nel periodo della militanza e che per un po’ mi fece sentire  il vissuto a Milano “superiore” di  quello di Salerno. Rileggendo quel che scrissi in passato riesce se riprendo contatto con qualcosa di vivo, sia pur al passato [che bisogna ricordare]. Forse non c’è ritorno al passato, ma, ricordando il passato, si coglie la sua estensione (solo di sofferenza? o prevalentemente di sofferenza?) nel presente (e viceversa). Scavare il vissuto di quelle poesie giovanili  e dargli altra forma è possibile. ]

3.

Mia immagine dell’immigrato=verme tagliato. Il rapporto col dialetto è  per me pieno di sensi di colpa. Coscienza del “tradimento”. Su questo sono lontano da Zanzotto: una rottura irrimediabile, voluta e non solo subita, c’è stata. [Uno sbocco potrebbe essere quella di esasperarla, lasciandosi alle spalle anche l’italiano nazionale, internazionalizzandosi?. Forse poteva essere la via che avrei imboccato se  fossi andato a Parigi]. Anche il mio rapporto con i mass media non è quello di Zanzotto o Fortini [Che faccio? Ai miei figli spengo la TV, impedisco di leggere i fumetti d’oggi? Ma Diabolik e la Tv sono quello che furono per me Sussi e Biribissi  o Sciuscià  o Il Vittorioso e le sollecitazioni culturali che mi venivano dall’Azione Cattolica. Veleno, certo. Ma siamo senza alternative. Potrebbero dirmi: «Se tu, papi, non ti sottrai ai borborigmi del Quotidiano dei lavoratori (e nella tua infanzia ci fu pure il catechismo!), perché ci spegni la Tv?». Il mio rapporto con la cultura classica è davvero spezzato (In morte del liceo classico!). Così quello con la religione (Le gioie dell’educazione cattolica!). E anche nella tradizione marxista non ci sono entrato saldamente.

Da qui la constatazione di aggirarmi (a volte c ol rischio di sperdermi) nel labirinto consumistico-culturale. In morte del liceo classico e Le gioie dell’educazione cattolica sono titoli che  colgono la crisi (in me) dell’umanesimo idealista e dell’ideologia cattolica in cui ero cresciuto a Salerno. [Ma il processo di sfaldamento è proseguito anche nell’area culturale in cui mi sono spostato pensando di progredire  o modernizzarmi.  Forse dovrei scrivere anche un  In morte del Partito o Le gioie dell’educazione di sinistra…].

4.

 Le poesie non servono a cambiare il mondo. Perciò si possono pubblicare senza fretta, anche dopo decenni dalla loro stesura.

5.

La “clandestinità” delle mie scritture è stata la forma protettiva per continuare a poetare in una situazione ostile o inflazionata  dai “poeti d’arrembaggio”. Ci sono state fasi produttive e fasi di autocensura o rinuncia a scrivere poesie. Non mi rimprovero di non  aver troppo coltivato i contatti con altri scrittori. Semmai  di non aver lavorato tanto sodo in questa “clandestinità” da sentirla alla pari con quel che di solito altri fanno sul piano pubblico.                                        

3 pensieri su “Riflessioni sulle “poeterie” (3)

  1. Non entro nel merito degli aspetti strettamente autobiografici degli appunti di Ennio. Mi soffermo invece su un aspetto tecnico relativo al «che cos’è la poesia». Oggetto che si sa che cos’è ma che non si riesce a definire. Non ci riescono nemmeno i manuali sulla “versificazione e tecnica”, che riguardano solo alcuni aspetti; non c’è riuscito Fortini nella sua intervista televisiva di molti anni fa proprio sulla poesia. Ci sono centinaia di definizioni, ma tutte soggettive e parziali. Sembra che l’«oggetto» poesia sfugga ad una definizione complessiva. Infatti il termine «poesia» ha molteplici significati che non possono essere definiti in modo unico e univoco. La stessa poesia come genere letterario è in realtà un insieme di diversi generi nient’affatto cumulabili. Già Boccaccio distingueva i rimatori dai poeti. I rimatori scrivono in versi, cioè adottano una particolare tecnica più o meno “chiusa”, ma ciò non fa di loro dei poeti né dei loro versi della poesia. In versi sono stati scritti anche trattati su varie materie, libri di storia, persino di matematica. E ciò non ha nulla a che fare con la poesia.
    Diciamo allora, in prima istanza, che la poesia si distingue dalla prosa per la diversità di approccio con la realtà, non per il tipo di metrica con cui si scrive (dico tipo di metrica, perché anche la prosa ha una sua metrica; per cui, in assoluto, nulla di ciò che è scritto è privo di metrica, ma si distingue per i diversi tipi di metrica: tradizionale o no, metrica “da prosa” o metrica “da poesia”, metrica ben costruita e consapevole o metrica sciatta e non controllata, metrica efficace o metrica sconclusionata). La poesia e la prosa poetica hanno in comune lo sguardo che nella realtà coglie non la sua sostanza fisica ma la sua qualità suscitatrice di emozioni e sentimenti. Dalla “poesia” della realtà si passa alla “poesia” come particolare atteggiamento cognitivo che mira a conoscere di se stessi e del mondo che ci circonda il lato in relazione con le emozioni e i sentimenti (anche con il pensiero, con la politica, la filosofia ecc., ma in quanto il pensiero, la politica, la filosofia ecc. sono presi come oggetto di emozioni e sentimenti). Questa “poesia” è comune a tutte le arti e, a diversi livelli di sensibilità e profondità, è anche comune a tutti gli uomini e donne.
    Quando si sente il bisogno di esprimere questo lato poetico della realtà, della psicologia e dell’esistenza umana nella forma particolare della scrittura, sorge il problema delle forme che questa scrittura assume.
    La tradizione ha gradualmente plasmato sia i generi sia le forme tecniche particolari. L’epica, la tragedia, la lirica, la satira e altro ancora, possono miscelarsi in vari modi ma rivelano comunque approcci poetici diversi e ben distinguibili. Più che sottogeneri letterari, si potrebbero considerare settori letterari ben distinti che il termine poesia riassume malamente. Mentre in prosa si distingue in modo più netto fra narrativa, saggistica letteraria, saggistica filosofica, prosa scientifica ecc., in poesia la pratica distintiva è meno forte, per tradizione – a mio parere – non perché ne manchi il motivo e l’utilità.
    Tuttavia non tutte le scritture in prosa, anche quando sono di qualità altissima, rientrano nella letteratura, mentre tutte le scritture in versi vi rientrano (sempre se ne hanno le qualità). A pensarci bene, la prosa scientifica, ad esempio, rientra nella letteratura (come è intesa dalla tradizione concretizzata nelle storie della letteratura) non per le sue qualità scientifiche, ma per quelle “letterarie”, intendendo qui, in qualche modo, “letterario” come qualcosa che si avvicina e si identifica alla prosa narrativa, alla “bella prosa”; in definitiva, potremmo dire, agli aspetti “poetici” del discorso.
    Se l’insieme delle forme di scrittura è l’universo di ciò che si può dire del mondo (noi compresi) e del nostro rapporto con esso, per mezzo della scrittura come strumento, la scrittura letteraria è quella parte che si rivolge al lettore insinuandosi nei suoi sentimenti e nei suoi stati emotivi. Un bel libro di chimica o di fisica o di matematica, se non ha parti “letterarie” così intese, per quanto alto e importante possa essere, non rientra nella “storia della letteratura”. Vi possono entrare invece “Il Saggiatore” di Galilei o i libri di storia di Machiavelli e Guicciardini perché sono libri intessuti di “letterarietà”, sebbene non abbiano la finalità letteraria come primo loro scopo.
    Precisato questo, si comprende come le parti centrali e più forti della letteratura siano la narrativa e la poesia, dove la “poeticità” come discorso di e sui sentimenti e sul mondo emotivo attraverso i sentimenti e le emozioni stesse è più evidente e determinante.
    La tradizione, attraverso le tecniche retoriche, ha potenziato l’efficacia del discorso letterario (narrativa, oratoria, storia, poesia ecc.). Le tecniche non sono una gabbia che limita il discorso, ma sono un potenziamento, una guida al miglior risultato, alla concentrazione, all’efficacia. Diventano una gabbia quando non sono più sentite come necessità e come un aiuto. Cioè, diventano una gabbia quando altre tecniche subentrano a quelle precedenti che ormai si sentono morte, o comunque vecchie e stantie. Non è lo scrivere libero da tecniche (che non esiste) che uccide le tecniche, ma sono le nuove tecniche che uccidono le vecchie tecniche.
    E questo cade a proposito della metrica. Ennio scrive: «la poesia […] non è riducibile all’aspetto metrico. E mi pare assurdo che senza metrica non ci sia poesia». Se riferito alla metrica tradizionale è vero, ma se riferito alla metrica tout court è sbagliato, perché non esiste scrittura senza metrica e tanto meno poesia. Nemmeno la musica può esistere senza “metrica” e la metrica è la musica interna, il ritmo della prosa e della poesia. Della metrica della prosa, formalizzata nei vecchi trattati di retorica, si è persa la nozione (scolastica) da tempo. Ma non si è persa la metrica della prosa, perché gli scrittori che hanno stile sanno bene che anche in prosa è necessario tutto un lavorio sul lessico e sulla sintassi perché la scrittura abbia ritmo, efficacia, perché voli anziché inciampare a ogni frase. Ciò che si è perso sono le regole fisse, codificate, tipiche della prosa antica e medievale, ma non le “buone regole” che il bravo scrittore continua ad applicare, comunque le abbia apprese.
    La metrica non è “misura” nel senso letterale (si tratti di contare le sillabe o la “durata” del verso), né solo tecnica di composizione dei versi (con il sapiente accostamento delle sue parti e il posizionamento delle sue vocali toniche), né arte di comporre in rima e in strofe. Ma questi aspetti tecnici sono finalizzati a ottenere ciò che è il fine della metrica: la musicalità della poesia e musicalità che le dia efficacia, che ne esalti il significato, che ne trasporti il messaggio. Messaggio di evocazione di sentimenti ed emozioni prima che di significati letterari. Anzi, questi ultimi non stanno in piedi senza i primi.
    Caduta la metrica tradizionale, detta anche “chiusa” per il suo carattere precettivo e obbligante, il poeta è più libero? Fallace illusione. I pessimi verseggiatori, facitori di prosaici componimenti in perfette forme metriche classiche (sonetti, canzoni, terzine dantesche ecc. ecc.) ci sono sempre stati. Nel vecchio liceo classico, fino ai primi del Novecento, si imparava a fare versi e si facevano anche, come compiti in classe, componimenti in versi su tema. Negli archivi di antichi licei ci sono fasci di compiti in classe in versi.
    Si passa al verso libero. Libero da che cosa? Dagli obblighi della metrica tradizionale, da cui già il verso sciolto si era in parte emancipato (si confrontino le canzoni di Leopardi con quelle del Petrarca e si veda quanta novità metrica già c’era in esse). Ma anche il verso libero ha la sua metrica, certamente più libera e soggettiva, ma non meno performante. E come i tanti rimatori senza poesia precedenti, anche nel campo del verso libero ci sono tanti verseggiatori senza poesia. Perché non è la metrica tradizionale a fare poesia e tanto meno la presunta mancanza di metrica, ma la poesia è fatta di sapiente metrica poetica, di sapiente capacità di emozionare, persuadere, insinuare nel cuore quella musicalità che è propria della poesia.
    Il verso libero è, in effetti, più difficile del verso chiuso tradizionale, proprio perché essendo libero richiede da parte del poeta una sensibilità maggiore. Sembra più facile, perché qualcuno pensa che basta andare a capo di tanto in tanto. Ma poi se ne vedono gli effetti in tante cosiddette poesie che non valgono la carta su cui sono scritte. Il verso chiuso, ad esempio lo schema di un sonetto, obbliga il verseggiatore a restare all’interno di una tradizione e a ottenere un risultato il cui livello minimo è valutabile immediatamente proprio nella correttezza della forma metrica. Per questo tanti verseggiatori popolari, “arretrati”, preferiscono la metrica tradizionale. Il verso libero di chi non ha nessuna idea di metrica (e dico nessuna idea non solo in senso culturale, ma nemmeno in senso istintivo, spontaneo, per dono naturale) invece, spesso, non raggiunge nemmeno quel livello minimo misurabile come correttezza metrica, cadendo nella banalità più spinta.
    Ennio scrive poi: «mi sono affidato da sempre a una metrica soggettiva». Ma la metrica è sempre stata soggettiva, anche se il soggetto si cala all’interno di una struttura linguistica offerta dalla tradizione e dall’uso corrente. Ciò avveniva ai tempi di Dante come avviene oggi. Possiamo prendere un endecasillabo qualsiasi di Dante o Petrarca o Leopardi e vedere come, mantenendo la lunghezza di undici sillabe metriche, possiamo variarlo in decine e decine di modi. La “chiusura” è più apparente che reale. Se Leopardi, fra le decine di alternative, sceglie la migliore, è perché è Leopardi, perché soggettivamente è lui a dominare la metrica e non viceversa. Mentre invece il suo imitatore e falsificatore che alla fine dell’Ottocento pubblicò falsi autografi di Leopardi si svela come falsificatore anche per l’assoluta incapacità di creare un perfetto endecasillabo. Crea, sì, endecasillabi, ma con metrica così povera e zoppicante che Sebastiano Timpanaro non fatica a elencare questa incapacità metrica fra le prove della falsificazione.
    La metrica classica dimostra la sua potenza anche in altre forme. Ad esempio in molti poeti che usano il verso libero è facile riscontrare, all’interno del verso cosiddetto libero, dei versi di misura classica, quinari, senari, endecasillabi e altro. Costruiti consapevolmente o a volte a orecchio, da un orecchio che sente quei metri e li riproduce anche senza accorgersene, perché, come in musica, non è facile evitare ciò che sta nella trama dei suoni, dei ritmi, del periodare.
    E si ha anche una prova in qualche modo inversa. Diversi poeti del secondo Novecento, anche viventi, hanno, a un certo punto, ripreso l’uso della metrica classica, scrivendo, ad esempio, sonetti. Ma nei casi migliori (penso, ad esempio, a Giorgio Caproni), pur nel rispetto della metrica classica, comprese le rime e le strofe proprie del sonetto, si ha un risultato sorprendentemente nuovo, lontano dagli schemi e dai ritmi classici della tradizione. Qui è avvenuto, per l’appunto, l’inverso, come se il verso libero fosse stato inserito e racchiuso nella metrica classica, senza però perdere le sue qualità innovative e persino colloquiali e prosaiche, ma di un “prosaico” di grande densità poetica, sconosciute al ritmo più ripetitivo e cantilenante del verseggiare classico.
    Per concludere, direi che la poesia è un’arte artigianale, un manufatto umano che, come ogni manufatto artigianale, racchiude in sé l’applicazione di tecniche trasmesse dalla tradizione, l’uso di strumenti trasmessi dalla tradizione, finalità e scopi ugualmente forniti dalla tradizione, e tutto questo in mano a un artigiano che, con il suo tirocinio, con il suo talento, con la sua psicologia e cultura, con la sua passione o svogliatezza, realizza il manufatto. I livelli di qualità del manufatto possono essere i più diversi, secondo la sapienza il talento l’esperienza e la passione dell’artigiano. Nei casi più alti si ha l’uso al meglio della tradizione e delle qualità personali che giunge all’innovazione, cioè a quella qualità esemplare che aggiunge qualcosa di nuovo e di alto e che porta così all’abbandono, in qualche misura, delle parti invecchiate della tradizione e alla formazione di nuovi elementi che vengono incorporati nella tradizione stessa, in continua formazione. Oggi, ad esempio, fanno parte della tradizione del poetare sia il verso libero sia particolari usanze, come l’omissione di parte della punteggiatura, certe forme ellittiche della sintassi ecc. Tutte cose che prima non c’erano e che a un certo punto, per opera di qualcuno che ha avuto la forza di usarle con capacità di persuasione, si sono diffuse.
    E fra le cose che si sono così diffuse c’è anche la poesia in prosa. Che non è la prosa della narrativa del racconto o del romanzo e tanto meno quella del saggio, ma una prosa particolare, con una sua propria metrica, creata per ottenere quei risultati poetici che ampliano il campo della poesia e in particolare della lirica. Ma questo non vuol dire che ogni banalità sentimentaloide in prosa retorica e oratoria sia poesia.
    E ciò richiama un altro fenomeno legato alle forme d’uso e di diffusione della “poesia”, oggi. A un numero notevolmente aumentato di poeti / verseggiatori che si presentano al pubblico corrisponde un aumento della platea degli “utenti” di poesia. Per molti di questi l’unico contatto si riduce alle letture di poesia, ormai organizzate in ogni quartiere e in ogni più piccolo paese e più volte all’anno, o alle poesie postate nei social. Privi di un’educazione alla comprensione, anche tecnica, della scrittura poetica, molti di questi utenti spostano l’attenzione dalle forme ai contenuti e apprezzano pessime poesie piene di banali affermazioni di buoni sentimenti o di giudizi politici o genericamente umani nello stile dei peggiori bigliettini dei Baci Perugina.
    Una volta, e parlo dei tempi lontani, ma storicamente non troppo, che arrivano fino agli anni Cinquanta del Novecento, anche i contadini analfabeti, quando nelle occasioni conviviali ascoltavano recitare un sonetto o una tiritera o una cantata, apprezzavano la buona organizzazione dei versi prima, e come veicolo, del contenuto, scherzoso o bozzettistico o satirico o narrativo o sentimentale. Quegli utenti erano stati educati, dalla tradizione, in questo caso dalla tradizione popolare, a comprendere le forme metriche tradizionali e a saperne giudicare l’efficacia.
    Con ciò non voglio dire che una volta era meglio di oggi. Assolutamente no. Voglio solo dire che oggi la situazione è più confusa e complessa. E che se, nelle scuole, comprese quelle di scrittura creativa finalizzate alla poesia, esistenti anche a livello di quartiere e con accesso spesso gratuito, ci si allenasse anche a comprendere la metrica classica anziché rifiutarla con sufficienza, gli aumentati ascoltatori (non lettori, purtroppo) di poesia potrebbero comprendere meglio anche la poesia in verso libero.

  2. La poesia ha un suo luogo non è nella pancia né nel cuore tanto meno nell’inconscio. Ieri , oggi la poesia vive come la musica non si sa dove eppure prende solo alcuni di noi come fossero suoi figli da non abbandonare. Finge di lasciarci liberi di disfarsene del nostro ieri o del nostro domani a lei interessa come va oggi, ha bisogno di questo, ma noi siamo fatti di tutto come un grande pensiero di cui lei ha bisogno, un bisogno che richiede la nostra capacità così terrena , così essenziale e utile che la alimenta fino alla nostra fine. Ennio ci riesce bene.

  3. …è una bella cosa che Ennio abbia conservato i suoi scritti giovanili, quali ” residui intenzionati poeticamente” e che sia arrivato a pensare: “scavare il vissuto di quelle poesie giovanili e dargli altra forma è possibile”…Credo che sia possibile e anche importante, non solo a livello personale…Secondo me, quel verso che sembra banale e fa sorridere nel suo ovvio significato – mentre l’autore lo ricorda legato a
    un sentimento angoscioso- potrebbe esprimere una richiesta di aiuto disattesa…Interrogandosi anni dopo il poeta su quel verso, riformula in qualche modo la richiesta d’aiuto a se stesso, ma non l’ottiene…Non è tempo di madri e padri, se va bene di sorelle e fratelli che condividono la consapevolezza dei reciproci fardelli…Forse nella poesia, però, possiamo confidare..

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