Cinquant’anni dopo

Dialogando con il Tonto

di Giulio Toffoli

E’ bene avvertire il lettore che questo “Dialogando con il Tonto” fa riferimento ad un articolo di Guido Mazzoni, “Le parole del Sessantotto: Rivoluzione” comparso su “Le parole e le cose” e consultabile qui . [E. A.]
 

Avevo ricevuto un invito in questi termini: “Domani è l’Epifania, perché non incontrarci oggi pomeriggio davanti a Feltrinelli?”

Così sono arrivato, fedele alla linea, sotto i Portici e sono stato accolto da un sorriso del Tonto:

“Ci contavo, memore di quando ci si vedeva in via Manzoni nella sede storica della Feltrinelli a Milano mezzo secolo fa. Ricordi, si entrava e sulla destra accanto alla cassa c’era la bacheca dove facevano bella mostra di sé le riviste: Giovane Critica. Nuovo Impegno, Quaderni Piacentini, Ombre Rosse, L’erba voglio e una serie inesauribile di altre testate. Sulla destra invece lungo la parete una serie di pamphlet stampati direttamente dalle Edizioni della Libreria e poi le ultime novità”.

“Sì – gli rispondo – come dimenticare? Tanto per restare in tema come mai mi hai spedito un documento sul ’68 … è un tema per noi quasi tabù. Non ricordo quante volte se ne sia parlato, ma sono portato a credere che ogni volta abbiamo tacitamente deciso di dimenticare. Ora invece questo scritto, che fra l’altro mi hai fatto avere anonimo. Una provocazione …”

“No! – risponde recisamente il Tonto – Forse semplicemente un incipit per fare quella analisi che abbiamo sempre rimandato. Il testo mi sembrava significativo di una interpretazione del ’68, probabilmente oggi di moda, francamente abbastanza indecorosa e volevo sapere cosa ne pensavi.

Visto che ci siamo, iniziamo a vedere cosa hai capito…

Come definiresti il ’68? Dimmelo con una formula semplice, in due parole”.

“Beh mi trovi un poco impreparato, sono preso alla sprovvista. In ogni caso direi che bisogna ricordare che da noi il ’68 è durato quasi un decennio e ha perciò un volto decisamente diverso da quello del resto d’Europa; non è paragonabile ai fatti del Maggio o a quelli tedeschi o ad altri e sicuramente rimarcherei l’estrema varietà dei fattori che hanno scandito quegli anni. Di qui l’impossibilità di realizzare una lettura che non sottolinei la pluralità di sfaccettature che hanno costituito il cosiddetto ‘68”.

“Vedi – mi fa notare il Tonto – sei già su una lunghezza d’onda radicalmente diversa da quanto è scritto su quel testo. Ricordi: «Il Sessantotto è stato due cose diverse …». Ecco credo che già qui si può rimarcare la differenza fra le due letture, l’una la definirei dogmatica l’altra problematica. Ma proviamo a percorrere la strada indicata dal testo cercando di vederne la congruenza”.

“Si – gli rispondo – concordo … ”.
“Allora aiutami: qual è il primo aspetto  che il testo individua per delineare quello che viene indicato, avrai certo notato la formulazione, come il Sessantotto, con tanto di maiuscola”.

“L’autore – gli dico reciso e senza tentennamenti – afferma che ci troviamo dinnanzi a: «l’ultimo episodio dell’età delle rivoluzioni sociali moderne»”.

“Ecco – mi dice il Tonto – è il concetto di «ultimo episodio» l’elemento dirimente che evidenzia la radicale differenza fra la tua interpretazione e il testo che hai letto. Siamo di fronte a qualcuno che gioca con una filosofia della storia e sa già come andranno le cose in futuro, una specie di Fukuyama tanto per intenderci. L’idea portante dell’intervento è che la pagina delle rivoluzioni sociali, un impiccio che dal lontano ’89 ha scandito la storia della borghesia, sia stato esorcizzato una volta per tutte. Di qui la sequenza delle cosiddette «date allegoriche» (?): 1789, 1848, 1871 e 1917. Sembra di trovarsi di fronte alle tappe di una teofania negativa che giunge alla sua conclusione con il Sessantotto.

Ma cerchiamo di essere più precisi: chi sono gli artefici di questo benedetto Sessantotto?”

“Mi è facile risponderti: gli studenti …” dico sorridendo.

“E no! – mi fa il Tonto alzando il ditino – la formula non è quella giusta. Ci vien detto che la risposta esatta è gli: «studenti di origine borghese»”.

Questa volta però sono io che mi inalbero: “Lo avevo notato e già mi aveva innervosito. Forse chi ha scritto queste righe in piazza non c’è mai stato. Infatti accanto agli universitari, a loro volta per altro non solo meccanicamente borghesi, c’erano e ci saranno per anni studenti medi della più diversa provenienza, dei licei ma anche degli istituti tecnici, dei professionali e molti studenti-lavoratori. Solo una miopia ideologica può consentire di dire simili sciocchezze. Nel ’68 e negli anni successivi la platea degli studenti che partecipano al movimento era infinitamente varia e socialmente articolata come mai era successo nella storia d’Italia”.

“Avrai notato – soggiunge il Tonto – che gli studenti vengono definiti per condizione sociale. Però l’autore, che parte da un presupposto ideologico forte, sostanzialmente l’equiparazione fra Sessantotto e comunismo, aggiunge: «il soggetto politico cui questa parte del Sessantotto guarda (non ci vien detto quale sia l’altra parte ma vabbè …) rimane lo stesso del comunismo storico: il proletariato e in particolare l’operaio maschio»”.

“Sì – aggiungo – perché se non era maschio … non era proletario? Ricordo che uno dei gesti simbolici più forti del ’68 o forse meglio della fase che dal ’68 va verso il ’69 fu proprio l’abbattimento della statua del Padrone per antonomasia in quel di Schio, il fondatore delle omonime industrie tessili: il signor Marzotto. Come sanno anche i sassi il settore tessile è stato per secoli e lo era anche allora un settore dove alla manodopera maschile si affiancava in larga copia quella femminile. Evidentemente oggi fa figo sottolineare, con un qualche strano tono di disprezzo, la differenza di genere. Problema che certamente ha segnato i movimenti degli anni settanta ma certo in modo meno rozzo.

Poi come dimenticare che il ’68-’69 ha visto scendere in piazza accanto agli operai una vera e propria costellazione di altre figure professionali, qualche cosa di cui oggi si è perso completamente memoria: oltre ai soliti intellettuali e artisti si sono visti accanto a noi impiegati, tecnici e altre varie professionalità. Qui sta fra l’altro un’altra delle peculiarità che fanno del ’68 italiano un’esperienza storica che travalica radicalmente il tradizionale richiamo al comunismo, come si è espresso storicamente nell’Ottobre sovietico”.

Il Tonto, che sembra divertito, aggiunge: “Invece l’autore di questo testo ha poche certezze ma granitiche. Quali erano le idee che sottendevano al Sessantotto? L’idea di una «giustizia distributiva» e la «secolarizzazione della teodicea» …”.

Mi metto a ridere e il Tonto mi redarguisce: “Come, ti opponi all’idea che a fondamento del Sessantotto vi fosse la «secolarizzazione della teodicea» …”.

“Ma dai – gli dico – pensa se uno si fosse alzato in quell’anno, ma anche in quelli successivi, nel bel mezzo di un’assemblea e avesse detto «Compagni vi rendete conto che stiamo lottando per la secolarizzazione della teodicea»? Come lo avrebbero accolto … Ma dai, questa è la china che prende certo accademismo quando non ha più un soggetto concreto a cui fare riferimento ma un’idea astratta a cui tutto deve corrispondere per necessità”.

“L’autore di quelle righe – aggiunge il Tonto – non ha dubbi di sorta e continua affermando che «il movimento recupera il mito della Comune, dei Soviet, dei consigli operai» ovviamente in contrapposizione al socialismo reale.  E aggiunge: «a queste forme alternative di gestione della cosa pubblica, a queste scene deliberative del passato, si ispira la più importante scena deliberativa del Sessantotto: l’assemblea».

Lo sapevi quando abbiamo fatto le prime assemblee in quella primavera del ’68 che recuperavamo le «scene deliberative» del passato?”

“Non so che dirti – sottolineo sconsolato – forse parliamo lingue diverse. Io ricordo che noi giovani, quelli che questo benedetto Sessantotto lo hanno fatto davvero, eravamo davvero ignoranti, ma nelle assemblee ci sembrava di respirare un’aria di libertà come mai prima. Eravamo giovani e credevamo di avere davanti a noi un mondo da rinnovare. Se avevamo dei miti erano quelli più palpabili e vicini, disomogenei fra loro e ideologicamente tutt’altro che univoci, da Martin Luther King a Malcolm X, da Robert Kennedy al Che e poi una serie confusa ma estremamente palpabile di maestri che di volta in volta andavamo scoprendo da Lorenzo Milani a John Lilburne e certamente anche Lenin e Mao; leggevamo gli autori della scuola di Francoforte, Franco Fortini e ci stavamo accostando con molta difficoltà ai classici. E gli scritti degli studenti del SDS tedesco e quelli dell’omologo movimento giovanile statunitense…

Un universo di cui forse oggi pochi hanno memoria, ma che allora era una realtà nuova e che ci parlava concretamente, mille miglia lontano da ogni cristallizzazione ideologica. Cose che si svilupperanno negli anni successivi in un quadro storico che andava mutando con grande rapidità.

Sono cose che ben sappiamo visto che le abbiamo vissute sulla nostra pelle”.

“Vabbè – mi dice il Tonto sorridendo – inutile fermarci ad analizzare le cosiddette «parole d’ordine» del Sessantotto, che sono presentate come «utopie» destinate a rapida obsolescenza … “

“Ma come – gli dico – amputando quell’aspetto l’intero discorso sul sessantotto, maiuscolo o minuscolo che sia, si riduce a un puro rituale che ripete le stantie forme della retorica resistenziale. Anzi, viene racchiuso in quell’immagine riduttiva e mistificante che è definita nella formuletta degli «anni di piombo»”.

“Inutile che ti scaldi – mi risponde – l’idea di eliminare o almeno ridurre la «gerarchia» viene definito poco meno che insensata, «l’alienazione del lavoro» è chiaramente definita come ineliminabile e «l’isolamento» individuale, quello che chiamavamo «l’individualismo borghese» è considerato non solo consustanziale con il sistema del capitale ma anzi quasi una benedizione.

Come vedi delle idee del sessantotto non resta praticamente nulla in piedi.

Ben più interessante – mi aggiunge il Tonto mentre mi guarda con un sorriso sornione – mi sembra invece vedere come l’autore presenta l’altro volto del Sessantotto, quello vincente.  Si è trattato, ci vien detto, di «una rivoluzione delle società capitalistico-liberali … in linea di principio né di destra né di sinistra» una vera e propria «rivoluzione libertaria», nota libertaria, vittoriosa. Insomma il Sessantotto di Berlusconi”.

“Non si sa – aggiungo – se ridere o piangere. Facendosi forti di un allargamento degli spazi di autonomia dell’individuo come cliente e consumatore, espressione del volto più aggressivo e individualistico del capitale, quello che viene espressamente definito l’anarco-capitalismo, vengono enfatizzati alcuni processi che, a ben vedere, si sono sviluppati a partire dal secondo dopoguerra, se non dalla fine 1917 e hanno avuto un momento di forte accelerazione negli ultimi decenni.

Alla rivoluzione anarco-capitalista del neoliberismo dagli anni ’80 in poi viene accreditata la ridefinizione dei: «rapporti fra le età della vita, il rapporto fra l’autorità genitoriale e pastorale, il rapporto fra i sessi …» e così via cantando.

Mentre vengono del tutto nascoste, almeno per il caso italiano, le conquiste politico-sociali del ’68 e del ’69, derubricate a semplici conquiste socialdemocratiche. L’autore non conosce limiti nell’opera di esaltazione della società neo-liberista, che si è sviluppata negli ultimi decenni sotto il segno del primato indiscusso del mercato, e che «funziona bene, anzi funziona meglio senza (la) corazza … di una società borghese superegotica» quale era quella pre-sessantottesca. Per dimostrare come questo processo si sia felicemente realizzato si riconosce che è pur vero che il «tempo del lavoro resta organizzato secondo i principi severi della razionalità strumentale» ma in cambio «il tempo libero sfugge a un occhio collettivo regolatore e diventa sempre meno disciplinato nelle scelte personali e nei costumi».

Insomma, l’accettazione della servitù sul posto di lavoro, della precarietà, dell’insicurezza e della erosione dei diritti sociali è ben poca cosa di fronte alla libertà del mercato e alla enfatizzazione estrema del «diritto al consumo» che renderebbe ogni individuo libero, anche se basta un poco di spirito critico per rendersi conto che questi bisogni sono definiti e ordinati secondo le necessità e gli algoritmi del capitale.

Insomma – ci vien detto – che ciò che si è concretamente verificato in Italia come esito del Sessantotto è stato la sostituzione della «vecchia borghesia perbenista con una nuova middle class obbediente sul lavoro ma anarcoide nel privato», un esito necessario e inevitabile di fronte al quale non rimane che piegarsi e accettare di essere felici secondo i dettami imposti dalla legge del capitale.

Il vero Sessantotto ha trovato la sua palingenesi nella figura e nell’opera di Silvio Berlusconi, vero eroe cosmicostorico, l’incarnazione dell’emancipazione che si realizza attraverso i canali della televisione.

Senza però che venga fatto notare che nel tycoon televisivo si è incarnata la più alta sintesi fra la manipolazione mediatica e quella politica in un quadro in cui una presunta emancipazione del soggetto diventa l’altro volto della sua più radicale alienazione”. 

“Ok – gli dico – allora tutti contenti. La storia a cavallo del tubo catodico si è incarnata nello spirito della telenovela. La verità del XXI secolo …”.

“Inutile che tu faccia dell’ironia – mi stoppa il Tonto – il nostro autore nella sostanza dice proprio questo elaborando una specie di dialettica dell’inevitabile. Il Sessantotto «ha perso» anzi «La verità è che il primo Sessantotto doveva fallire, era necessario che fallisse o che diventasse altro. La sua utopia, che è poi l’utopia comunista, contrasta con i meccanismi di funzionamento delle società moderne … fondate su una divisione del lavoro capillare e su una costitutiva alienazione»”.

“L’ho letto – aggiungo un poco inviperito – e se vuoi quasi te lo ripeto a memoria. Si tratta di una cattiva razionalità che viene venduta come verità della fede. Il dato, il fatto bruto della vittoria del capitale nel conflitto degli ultimi anni del XX secolo si trasforma in una specie di teologia, la teologia del capitale: «Gli unici meccanismo di gestione degli aggregati umani che società similari ammettono sono lo Stato e il mercato … dispositivi della razionalità strumentale consustanziali alla modernità.

Nessuno potrà mai eliminare la gerarchia … o la divisione del lavoro

Nessuno potrà governare uno stato … in modo assembleare o pianificare l’economia in ogni suo aspetto, o abolire le mille forme di comando e di soggezione …».

Di fronte a simili affermazioni che dire? Sono presentate come verità della fede, assiomi della logica del capitale. Se non potesse risultate un poco retorico direi che sono sgomento … umiliati ci hanno certamente e tanto, ma qui siamo anche offesi, vilipesi, irrisi da chi del dato di fatto fa una vera e propria apologia”.  

“Beh se ti sei sentito offeso per così poco – mi aggiunge il Tonto che sembra sempre più divertito vedendomi perdere le staffe – o non hai letto l’ultima parte dello scritto o te ne sei dimenticato …

Rammenta, il Sessantotto si realizza in Berlusconi, ma come se non bastasse l’autore aggiunge che il Sessantotto: «Ha comportato la fine dell’illusione che si potesse uscire dalla preistoria».

Orcaloca, non lo sapevamo ma aveva proprio ragione Fukuyama.

Non solo: «La gerarchia, l’alienazione, l’isolamento che abbiamo accettato dopo la fine dell’età delle rivoluzioni in cambio di una sfera preziosa di benessere e autonomia privata, frustrano alcuni desideri umani profondi e non meno reali del principio di realtà che ce li fa considerare delle illusioni».

Insomma, ormai che siamo diventati adulti e ci siamo conciliati con il principio di realtà possiamo anche conservare una memoria di giovanili desideri tanto umani quanto ingenui, in fondo la borghesia conserva una qualche fascinazione per la rivoluzione e i rivoluzionari, purché siamo morti!

Una verità assoluta, ci vien detto, si ricava dal duplice volto del Sessantotto, ovvero che: «Non abbiamo nessuna utopia paragonabile a quella che animava l’età delle rivoluzioni…».

Questa verità si arricchisce di due ulteriori affermazioni irrevocabili, che ci vengono gettate in faccia come ultima e definitiva lezione di quella lontana stagione, esse sono: «Nessuno pensa che un altro mondo sia possibile» e «Nessuno ci crede più veramente»”.

“Certo per avere certezze di questo tipo bisogna avere un bel ego … Nessuno… Sarà, ma giunti a questo punto mi piace ricordare un frammento di un Mark Twain d’annata che ha scritto: «Io provengo dal Connecticut la cui Costituzione dichiara: “che ogni potere politico è inerente al popolo, e tutti i liberi governi sono fondati sulla sua autorità, e istituiti per suo beneficio; e che il popolo ha in ogni momento l’innegabile e indistruttibile diritto di alterare la sua forma di governo nel modo che giudicherà conveniente”»”.

“Se è così – aggiunge il Tonto sollevando il flûte – alla faccia di tutti i corvi che gracchiano di una storia ormai conclusa brindiamo invece a Mark Twain che ci ricorda che, nonostante tutto, il percorso dell’uomo verso la libertà non si conclude certo con la «sfera del benessere» del cittadino borghese ridotto a consumatore asservito alla superiore volontà del divino mercato e dei suoi strumenti, le macchine della finanza e della borsa. Noi continuiamo a pensare che un altro mondo sia possibile e il popolo abbia il diritto di lottare strenuamente per realizzarlo, la cecità di uno stuolo di intellettuali ridotti a cani di guardia del capitale certo non sarà sufficiente a fermarlo.

Brindiamo al futuro…”.  

4 pensieri su “Cinquant’anni dopo

  1. Il «’68» è un “oggetto storico” complesso e multiplo e nessuna analisi unilaterale può esaurirlo e tantomeno definirlo in modo coerente e senza contraddizioni. I ricordi di chi ha fatto il ’68 sono i più diversi e così anche le interpretazioni. In realtà si potrebbe cominciare col dire che il ’68 non esiste, ma esiste un periodo storico che inizia prima e finisce diversi anni dopo. E quando dico che inizia prima e finisce dopo non intendo dire davvero che abbia una precisa data di inizio e di fine, perché nulla nella storia è possibile racchiuderlo esattamente fra due date. Intendo solo dire che, per comodità analitica e storiografica, è utile risalire fino a certi precedenti (ad esempio la contestazione contro la guerra in Vietnam e le lotte operaie del settore dell’auto, in Usa, dei quattro cinque anni precedenti; la nascita dell'”eresia” maoista, ecc.) e avanzare fino a certi esiti (in Italia, fino al 1980 circa).
    Il ’68 è solo una fase del periodo da analizzare; fase in cui già si evidenziano sia gli aspetti vincenti sia quelli perdenti. Insomma, fa, o può fare, da cardine fra ciò che lo precede e ciò che lo segue.
    Gli obiettivi di lotta, spostandosi da Paese a Paese, cambiano e anche in maniera drastica e oppositiva. Di analogo c’è solo l’ondata di contestazione giovanile, prevalentemente studentesca ma non solo.
    Questa ondata ha in comune, inoltre, la capacità di cogliere problemi nuovi (però, ripeto, diversi nelle diverse circostanze), a cui cerca di dare risposte nuove. O meglio, prima i problema suscitano domande e poi le domande cercano risposte e le risposte dettano linee di guida per l’azione.
    Tutta una serie di domande ha avuto le risposte giuste e ne è seguita l’azione giusta (più o meno, mai del tutto e in assoluto, ovviamente) e la vittoria (più o meno parziale ed estesa). Questa parte del ’68 la possiamo definire in senso lato la parte modernizzatrice dei costumi, delle relazioni, di un insieme di forme di vita. Questo ’68 ha vinto. Ma la vittoria, però, non è sempre stata positiva, perché la modernizzazione non sempre si è identificata con quel “progresso” consapevolmente o inconsapevolmente perseguito. Liberazione sessuale, divorzio, aborto e tante altre cose convivono con modi nuovi di fare attività imprenditoriale, sociale e politica. Da questo punto di vista certe conquiste dei movimenti femministi e certe novità alla Berlusconi fanno ugualmente parte della modernizzazione vincente spinta in avanti dal ’68.
    Da che mondo è mondo nessun processo di modernizzazione, rivoluzionario o non rivoluzionario, veloce o lento, a salti o molto graduale, ha prodotto solo risultati positivi o negativo. Il positivo e il negativo si sono sempre accompagnati e mescolati. E il ’68, come matrice e come esito, non fa eccezione. I processi storici sono troppo complicati per poter essere programmati e in qualunque modo controllati. Lo “scarto”, rispetto a ciò che si vuole e si riesce a controllare, è sempre troppo ampio ed è lo scarto a decidere del vero e complessivo esito finale.
    Comunque il ’68 modernizzatore, innovativo, spontaneo, che si realizza giorno per giorno nei fatti senza nessuna programmata ricerca di potere costituito, anzi in contestazione del potere, si può dire vincente. Sebbene non si sia trattato di una palingenesi ma solo di una modernizzazione di certi aspetti sociali.
    Il ’68 che ha invece recuperato i miti della Comune, dei Soviet, dei consigli operai, ai nuovi problemi ha reagito ponendo domande vecchie e dando risposte vecchie. Ha reagito al socialismo reale con l’assurda proposta di un socialismo teorico e ideale identico a quello che aveva già prodotto come suo esito inevitabile il socialismo reale. E così questa parte del ’68 ha prodotto una contestazione, forme di lotta e risultati analoghi a quelli del socialismo reale, fino al terrorismo che, con alcuni omicidi chiave (ad esempio quello di Guido Rossa e quello di Roberto Peci, fra i tanti che si possono citare), si è abbassato / rivelato peggio della delinquenza comune. Come e perché questo ’68 avrebbe potuto vincere? Certamente gli italiani, compresi i militanti di sinistra con qualche cosa ancora di sano in testa, non erano disposti a vedere personaggi come Curcio e Battisti e altri analoghi al potere. Dopotutto, meglio Andreotti di Stalin. Meglio Craxi di Curcio, ecc.
    La credibilità della rivoluzione marxista e leninista si è dispersa in pochi anni, non solo di fronte alla maggioranza della popolazione, ma anche all’interno delle minoranze che si muovevano nell’ambito dell’uno o dell’altro gruppo della sinistra a sinistra del Pci.
    Il fatto che ancora oggi, anche molti che al terrorismo non hanno aderito, che lo hanno criticato, ma che tutto sommato lo hanno considerato parte del “fronte rivoluzionario”, non si siano convinti del danno che ha fatto non solo in termini di sconfitta della rivoluzione marxista, che non ha mai avuto la minima possibilità di vittoria in Italia (a mio parere, ovvio), ma anche e soprattutto in termini di freno e limitazione della vittoria e anche sconfitta delle possibilità modernizzatrici ulteriori del ’68. In sostanza la parte vincente del ’68 ha vinto meno del possibile perché frenata dalla parte perdente, da quella che ha male interpretato i problemi nuovi ponendosi domande sbagliate e dando risposte sbagliate.
    Ciò riguarda tutti i gruppi, anche lontani dal terrorismo, che si sono attardati in un leninismo ormai fuori dalla storia e che, in pratica, hanno sacrificato la possibile rivoluzione del ’68 per mirare ad una impossibile e non auspicabile rivoluzione del 1917.
    Così, esauritasi la spinta contestativa e mutate le condizioni complessive si passa ad un diverso periodo storico in cui si tende a seppellire, con buon successo, non solo la rivoluzione modello 1917 ma anche quella più autentica modello ’68. E della modernizzazione sono rimasti i cambiamenti di costume, un certo numero di conquiste di diritti personali e civili, un mutato clima psicologico in certi aspetti dei rapporti sociali, ma sono falliti altri obiettivi possibili, come, ad esempio, una autentica riforma della scuola (e dello Stato!).
    Per scendere più in dettaglio e passare alla microstoria, ciò ha significato che nel liceo dove insegnavo allora storia e filosofia (1974-1978) e dove vi era una buona concordanza fra docenti di ogni indirizzo, preside e molti studenti a mettere in pratica una scuola nuova, i più accaniti avversari sono stati proprio i rivoluzionari (fra questi almeno tre leader che sono poi finiti in carcere per terrorismo) e lo hanno fatto in due modi: 1) criticando e rifiutando la prospettiva di mettere in pratica una “riforma della scuola” dal basso perché convinti che se non si conquista il potere e non si abbatte il capitalismo ogni piccolo passo avanti è inutile o dannoso. 2) Vivendo il loro tempo scolastico nel modo più stravaccato possibile esercitando un’influenza negativa sugli studenti loro seguaci e suscitando negli altri l’opposizione o la complicità passiva di comodo e solo nei momenti dello stravaccamento.
    A ciò si sono accompagnate, in diversi casi, scelte del tutto opportuniste e immorali sotto ogni punto di vista (un leaderino, ad esempio, dopo avercela messa tutta per vanificare ogni possibilità di corretto svolgimento dell’anno scolastico, arrivato al mese di marzo ha cambiato scuola, si è trasferito in una scuola di recupero anni retta da uno zio sacerdote e ha salvato il “suo” anno scolastico, non certo quello dei suoi compagni studenti proletari che non avevano questa possibilità di uscita).
    Potrei moltiplicare esempi di questo tipo. Per cui il mio giudizio etico sul ’68 dei gruppi marxisti non è molto positivo. E io ritengo, come sempre, che se non c’è un’etica rivoluzionaria, non può esserci rivoluzione. I criminali comuni rapinatori di banche possono diventare degli Stalin, non certo dei leader da augurare ai popoli. Che non è vero (slogan troppe volte letto in quegli anni) che la delinquenza non esiste, ma che esistono solo i ribelli.
    Il ’68 marxista ha perso, innanzitutto e soprattutto, perché ha meritato di perdere nelle coscienze delle persone prima che nella lotta armata e in quella politica.
    E questo evento non è stato una novità, ma si è ripetuto molte volte nella storia e in diverse varianti. Una di queste riguarda il periodo storico, in Italia, del 1919-1922. Le risorse di una possibile rivoluzione vincente si sono sprecate per dirottarle su una impossibile rivoluzione: sulla rivoluzione perdente del massimalismo e del leninismo. La possibile alleanza fra socialisti e cattolici (don Murri prima e don Sturzo dopo) avrebbe bloccato il fascismo e spinto in avanti, in senso progressista, l’Italietta ancora sabauda di quel tragico dopoguerra. Il socialismo riformista era maggioritario fra la popolazione operaia e nel sindacato, ma era in minoranza fra i militanti iscritti al partito. E furono questi ultimi, pur rappresentando sì e no un decimo dell’elettorato socialista, a dettare la linea, con assurde chiusure di non collaborazione con i cattolici e nello stesso tempo di agitazione esaltata quanto generica e priva di ogni base organizzativa. Così l’opinione pubblica (e le masse popolari cattoliche), si spostò verso il centro-destra e poi la destra fascista, anche – e io direi soprattutto – alla ricerca di forme di “legittima difesa” nei confronti di uno schieramento politico che non dava nessun affidamento e che prometteva una rivoluzione analoga a quella sovietica i cui echi che giungevano in Italia erano già allora disastrosi (si rileggano le cronache sulla rivoluzione russa e sulla situazione economica e politica dell’Urss pubblicate in Italia in quegli anni).
    Il ’68 marxista-leninista ha frenato il ’68 modernizzatore anche quando, ormai lontanissimo dagli esiti terroristici, è diventato forza di “governo”. Parlamentari, dirigenti di enti pubblici, uomini e donne messi a capo di giornali e di istituzioni, persino membri di governo, hanno, apparentemente, rinnegato i loro trascorsi rivoluzionari, ma di fatto di quel modello hanno conservato alcuni errori di fondo: lo statalismo, il centralismo, l’illusione che sia il potere a cambiare la realtà e non che sia la realtà a cambiare le forme di potere, la sostanziale avversione a ogni tipo di esperienza di autogoverno e di potere dal basso, che fuoriesca dai canali ipocriti e falsi della “partecipazione democratica” incanalata nelle istituzioni esistenti.
    Giulio Toffoli mette il dito su molte piaghe di quelle vicende Sessantottesche e lo fa con più raffinatezza di me, che miro alla comprensione complessiva e al perché di una sconfitta che in gran parte è stata una autosconfitta, ma lo fa però usando troppo, ancora troppo, definizioni e categorie che appartengono a quella sconfitta e ai suoi eredi, per cui il nesso fra problemi nuovi, domande nuove, risposte nuove mi pare che gli sfugga.
    Faccio un solo esempio. Toffoli scrive: «espressione del volto più aggressivo e individualistico del capitale, quello che viene espressamente definito l’anarco-capitalismo […]. Alla rivoluzione anarco-capitalista del neoliberismo dagli anni ’80 in poi» ecc. Qui non trovo una sola parola usata nel suo significato descrittivo (vorrei quasi dire scientifico, se questo termine non fosse di dubbia qualità), ma tutto il giro di frase adotta il senso polemico e propagandistico dei termini usati in modo improprio dalla vulgata della sinistra. È come definire Luigi Di Maio socialista perché così lo definiscono, fra gli altri, proprio gli “anarco-capitalisti”. Ma l’uso improprio della terminologia non aiuta a fare buone analisi e a capire che cosa succede nella realtà.
    Come si può parlare di «rivoluzione anarco-capitalista del neoliberismo» in uno Stato centralizzato come l’Italia (e gli anarco-capitalisti sono per l’abolizione dello Stato e di ogni accentramento), dove l’economia pubblica occupa più del 50% per cento (mentre gli anarco-capitalisti sono per la totale scomparsa dell’economia pubblica sostenendo che l’iniziativa privata e il mercato sono in grado di tutelare meglio anche i beni pubblico, come ad esempio l’aria dall’inquinamento ecc.), dove la legislazione statale controlla anche il restante meno del 50% di economia privata (mentre gli anarco-capitalisti sono contro ogni legislazione dall’alto e per la regolamentazione contrattuale fra le parti di ogni rapporto giuridico), dove lo Stato ritiene di avere compiti etici e di guidare alla “pubblica felicità” ogni aspetto della vita dei cittadini (mentre gli anarco-capitalisti ritengono che solo i cittadini, in proprio, senza Stato, siano i legittimi soggetti del perseguimento della propria felicità, che ognuno ha diritto di perseguire come meglio crede e che dalla concorrenza fra le varie realizzazioni nascono le migliori e più valide), dove lo Stato ritiene che sia un valore da difendere l’uguaglianza di situazioni e di diritti dall’uno all’altro confine della Patria (mentre gli anarco-capitalisti ritengono che questa pretesa è del tutto assurda e castrante, che le differenze sono risorse positive, che la concorrenza e la meritocrazia spinge in avanti e quindi, in definitiva, protegge i più deboli meglio dell’uniformità centralistica che spinge tutti verso il basso), in uno Stato in gran parte in mano a una classe dirigente corrotta, a imprenditori fasulli che mirano a rendite di posizione, a una burocrazia onnipotente quanto inefficace, a lacci e legacci di mille corporazioni (mentre gli anarco-capitalisti si esprimono ferocemente contro tutto questo ciarpame), in uno Stato con un sistema fiscale fra i più rapaci e iniqui del mondo, che arriva fino al 90% di tassazione in certi casi e in media non scende sotto il 55/60% (mentre gli anarco-capitalisti considerano un furto ogni prelievo fiscale).
    Come si può parlare di “neoliberismo” in un Paese privo, da sempre, di ogni spirito di liberismo? Dove i liberali sono una piccolissima minoranza? Dove Berlusconi è spesso considerato fra i neoliberali mentre i liberali lo considerano un socialista e nient’affatto un liberale?
    L’uso continuo dei termini politici non in senso descrittivo ma come veri e propri insulti, da qualunque parte, fa loro perdere ogni senso e li priva di capacità analitiche. Bisogna dunque, se si vuole capire e non fare propaganda, tornare all’uso proprio dei termini. Berlusconi è criticabile sotto mille aspetti, ma dargli dell’anarco-capitalista e del neoliberista non aiuta a precisare e individuare i motivi di critica ma crea solo una confusa contrapposizione. Credo di aver letto le cose più feroci contro Berlusconi e Bossi proprio nelle pagine degli anarco-capitalisti, che gli negano ogni qualifica di “liberale” perché in effetti la sua promessa rivoluzione liberale è rimasta lettera morta.
    Domande nuove, risposte nuove. Di questo abbiamo bisogno. Il capitalismo (non la destra come espressione politica, ma il capitalismo come espressione economica), che ha nel suo DNA essenziale l’innovazione (non c’è sistema di produzione capitalistico senza innovazione) dà le sue risposte nuove, ovviamente dal suo punto di vista e secondo gli interessi che lo dominano. È la sinistra che non riesce a darle, che rimescola vecchie minestre, che si presenta nella forma perdente e contraddittoria di forza che dice di avere nel DNA l’essere progressista e che però costruisce il suo programma e persegue i suoi obiettivi in forme regressive, guardando più al passato che al futuro, recuperando vecchi strumenti anziché innovare.
    Ed è sostanzialmente per questo che la sinistra, in tutte le sue espressioni, si è sostanzialmente ridotta, da molto tempo, a strumento di tipo sindacale che anziché costruire la sua realtà si limita a chiedere condizioni migliori all’interno della realtà costruita dai criticatissimi «neoliberali» e «neoliberisti», qualunque cosa significhino questi termini usati strumentalmente.

    1. Carissimo Aguzzi

      Ho letto con grande interesse le sue righe e molte delle note che lei ha fatto mi trovano d’accordo. In ogni, caso sperando che possa essere tema di una ripresa di riflessione, la rimando a una seconda parte del mio discorso. Infatti in questo caso il dialogo con il Tonto non si ferma a una parte critica ma cerca di allargarsi a un momento diciamo positivo, di analisi.
      Desidero solo fermare l’attenzione sulla seconda parte del suo intervento quella dove rifacendosi al caso italiano lei afferma che ci sarebbe stato un uso improprio di termini quali “anarco-capitalismo” e “neoliberismo”.
      Credo di non errare affermando che molto si è discusso negli anni del craxismo e poi fino ad oggi sulla necessità di una svolta liberista e di una riduzione dell’intervento dello stato in infinite querelle fra politicanti e intellettuali più o meno organici al potere, di destra e di pseudo-sinistra. I liberisti, di ogni tempra e colore, hanno fatto sentire sicuramente con forza la loro voce.
      Dal punto di vista dell’economia non credo si possa negare che si siano realizzate innumerevoli dismissioni di settori importanti dell’economia dove prima era attivo lo stato, con risultati che appaiono in molti casi pessimi. Che i diritti dei lavoratori siano stati selvaggiamente colpiti mi sembra realtà indubitabile.
      Quale è stato il risultato di questo dibattito infinito sulla realtà del paese?
      Credo che si debba anche qui porre attenzione all’originalità del caso italiano.
      L’istituzione statale odierna, seconda o terza repubblica che dir si voglia, ha conservato, duole riconoscerlo, gran parte degli elementi costitutivi dello stato democristiano, a sua volte erede di quello fascista, che per altro non molto differiva dal regime liberal-statalista sabaudo. La centralizzazione statale a livello politico ed anche economico, lo stato che “ritiene di avere compiti etici e di guida della pubblica felicità”, lo stato “in gran parte in mano a una classe dirigente corrotta, a imprenditori fasulli che mirano a rendite di posizione, a una burocrazia onnipotente …” le “mille corporazioni” e “un sistema fiscale fra i più rapaci e iniqui del mondo” sono realtà che non si possono disconoscere. Lei ha perfettamente ragione.
      Però credo si debba aggiungere: questo è il neoliberismo in salsa italica.
      D’altronde possiamo dimenticare che lo stato democratico ci ha fornito, caso credo unico in Europa, un’intera stagione di “stragi di stato” e l’eliminazione fisica di alcuni dei suoi funzionari più integerrimi per poi poter portare a temine “la trattativa stato-mafia”?
      Insomma credo si debba riconoscere che pur con uno iato notevolissimo fra teorizzazioni e realizzazioni concrete anche in Italia il capitale, alleato alla stato o se si vuole usando a suo modo lo stato, ha seguito la via della modernizzazione, una cattiva modernizzazione, più rapace e cieca che altrove.
      Ma è con questa che dobbiamo fare i conti.
      Oggi come cinquant’anni fa …

      1. Caro Toffoli, concordo con la sua conclusione: «Insomma credo si debba riconoscere che pur con uno iato notevolissimo fra teorizzazioni e realizzazioni concrete anche in Italia il capitale, alleato alla stato o se si vuole usando a suo modo lo stato, ha seguito la via della modernizzazione, una cattiva modernizzazione, più rapace e cieca che altrove. Ma è con questa che dobbiamo fare i conti. Oggi come cinquant’anni fa …». Ma ciò mi sembra che dimostri che di «anarco-capitalismo» non si può davvero parlare, bensì di cattivo governo che deriva da una cattiva organizzazione dello Stato (alla faccia della più bella Costituzione del mondo!!!) che ha favorito il peggiore capitalismo (mentre quello migliore, degli Adriano Olivetti per intenderci, è stato volutamente ostacolato e in diversi casi eliminato).
        Concordo anche con quest’altra sua affermazione: «Credo di non errare affermando che molto si è discusso negli anni del craxismo e poi fino ad oggi sulla necessità di una svolta liberista e di una riduzione dell’intervento dello stato in infinite querelle fra politicanti e intellettuali più o meno organici al potere, di destra e di pseudo-sinistra».
        Appunto, si è discusso. Ma la svolta liberista non c’è mai stata e oggi come allora l’economia di Stato è sovrabbondante e mal gestita. Berlusconi aveva messo insieme un gruppo di liberali e liberisti un po’ più liberali e liberisti dei precedenti di altri governi, ma poi li ha eliminati o emarginati uno ad uno preferendo circondarsi degli yesmen (professionisti e dilettanti) di sempre, finendo per combinarne di cotte e di crude, ma certamente non di tipo «anarco-capitalista» e nemmeno «liberale» (salvo che al termine non si dia un senso generico di opposizione al comunismo).
        Non concordo invece con la sua aggiunta alla frase citata: «I liberisti, di ogni tempra e colore, hanno fatto sentire sicuramente con forza la loro voce». Hanno fatto sentire la voce, sì, ma i liberali e i liberisti in Italia sono così pochi che non hanno mai avuto la “forza” di far sentire veramente la loro voce. Né all’interno dello schieramento di centro-destra né in quello cattolico (oggi più culturale e sociale che politico). Alcuni dei risultati “più spinti” dei liberali consistono non in potere politico ma nell’essere riusciti a “sdoganare” a livello universitario (a isole, però, non a vasto raggio), autori che, per quanto grandi e interessanti, erano prima emarginati, ad esempio Popper, o l’italiano Bruno Leoni, molto più noto negli Usa che in Italia pur avendo insegnato all’Università di Pavia, o qualche autore della cosiddetta scuola austriaca (Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e pochi altri). Gli autori più significativi dell’anarco-capitalismo e libertarianesimo liberale, quali Murray Newton Rothbard e il più giovane e vivente e più estremo Hans Herman Hoppe sono ancora sconosciuti a tutti, al di fuori di una piccola cerchia di studiosi, sconosciuti anche agli specialisti di economia e sociologia e politologia.
        Infine merita una nota quest’altra sua affermazione: «Dal punto di vista dell’economia non credo si possa negare che si siano realizzate innumerevoli dismissioni di settori importanti dell’economia dove prima era attivo lo stato, con risultati che appaiono in molti casi pessimi. Che i diritti dei lavoratori siano stati selvaggiamente colpiti mi sembra realtà indubitabile». Qui i problemi sono due e ben diversi. Se infatti i diritti dei lavoratori sono stati colpiti ciò non deriva dalle dismissioni, ma da altre cause, fra le quali almeno due rilevanti: una è la situazione di ristagno dell’Italia che non può non colpire anche i lavoratori come ha colpito anche i ceti medi (il mio reddito di pensionato ex docente e preside di liceo fra il 1996 e oggi si è ridotto, in termini di potere d’acquisto, del 50% circa). Ciò non è dovuto a qualche particolare cattiveria, ma alla più generale cattiveria di uno Stato, di una classe politica, di un assetto socio-economico che non regge la concorrenza di altre realtà economiche e politiche. È poi ovvio che in una situazione del genere le categorie più deboli subiscono più danni, mentre una parte relativamente ristretta della popolazione riesce a cavarsela o addirittura a migliorare la propria posizione. La seconda causa è che i governi, i partiti e i sindacati, praticamente tutti, salvo minoranze senza potere, non hanno cercato le vie migliori per lo sviluppo e la salvaguardia dei diritti e dei livelli già acquisiti, ma hanno cercato le vie clientelari e assistenziali che gli garantisse il consenso senza riformare e cambiare nulla. In questo modo, anche l’apparente difesa della sinistra e della Cgil si è tradotta e si è limitata a salvare qualche apparenza, qualche brandello, qualche concessione assistenziale, più nei riguardi delle categorie già protette e molto meno verso le altre e soprattutto verso i giovani fra i quali la disoccupazione e sottoccupazione è altissima. Nella crisi degli anni 1963-1966, seguita al boom del dopoguerra, si diceva che «il cavallo non beve», cioè chi poteva investire non si fidava a investire in Italia. Ora quelli che possono investire sono diminuiti e la sfiducia a investire in Italia è ancora meno. Sento tutti i politici, di qualunque partito, dire ogni giorno che bisogna aumentare gli investimenti e ridurre le tasse. Giusto. Ma credo però che sia impossibile aumentare gli investimenti pubblici e insieme diminuire le tasse; ed è anche impossibile non diminuire le tasse (e i costi del lavoro, il cuneo fiscale ecc.) e avere insieme un aumento degli investimenti privati. Sono parole e programmi contraddittori destinati a restare inattuati o attuati in piccola parte a scapito di altri equilibri economici, ad esempio aumentando ulteriormente il gigantesco e frenante debito pubblico dell’Italia. L’Italia illiberale, clientelare e statalista si sta avvitando sempre di più e io non vedo soluzioni se non in un cambio profondo di paradigma che liberi le energie represse.
        In quanto alle «innumerevoli dismissioni di settori importanti dell’economia» contesto il termine «innumerevoli» e lo faccio per tre motivi statisticamente documentabili: 1) le dismissioni sono state relativamente poche rispetto al complesso dell’economia gestita dallo Stato, regioni e comuni e altri enti pubblici non territoriali. 2) Un buon numero di precedenti dismissioni sono poi rientrate (ciò riguarda tante aziende municipali di servizi, prima gestite dai comuni, poi privatizzate, poi tornate alla gestione diretta). 3) Un altro buon numero di dismissioni si è risolto in operazioni di false dismissioni, perché lo Stato (o gli enti pubblici locali territoriali e non) ha semplicemente trasformato aziende di diritto pubblico in aziende di diritto privato (aziende societarie), mantenendone però il controllo con oltre il 51% delle azioni, arrivando in qualche caso anche all’85/90%. Questo non vuol dire privatizzare, ma vuol solo dire mettersi una maschere cercando di non farsi riconoscere.
        Va da sé che in tutte le aziende dove lo Stato ha il massimo potere il management dipende dallo Stato e anziché mirare a rafforzarsi sul mercato mira a tenersi buoni i politici di turno. In questo modo è senz’altro vero che certe aziende, dopo la (fasulla) privatizzazione, funzionano peggio di prima. E ne risentono anche i dipendenti la cui azione sindacale, in una azienda con bilanci negativi, non può che essere debole. Perché la vecchia affermazione di Lama che il salario è (da considerare) una variabile indipendente, non sta né in cielo né in terra. Così le aziende decotte che lo Stato mantiene in vita pesano di fatto sulla fiscalità generale e i loro dipendenti, per quanto trattati male, sono degli assistiti. Mentre le aziende veramente private, se la partita si mette male, delocalizzano la produzione in Paesi dove la vita delle aziende è più facile, non solo per i costi della mano d’opera ma anche per altri fattori e costi sociali complessivi.
        È necessario che lo Stato si tiri indietro riducendo le tasse e le sue attività improprie. Sono improprie tutte le attività gestite dallo Sato che i privati potrebbero fare meglio, soprattutto quelle che non costituiscono nessun servizio pubblico essenziale (perché lo Stato deve gestire o avere una partecipazione azionaria maggioritaria in industrie dei più diversi tipi? Che centra questo con la funzione dello Stato, anche dal punto di vista di chi crede lo Stato necessario?).
        Ritirarsi, e fare però leggi quadro che favoriscano le attività produttive reali e sfavoriscano quelle puramente finanziarie e speculative.
        Che non s’intrometta nelle aziende in crisi per farle vivere per forza, ma lasci che le aziende obsolete e perdenti falliscano, si interessi però ad organizzare centri di avviamento al lavoro veramente funzionanti che si assumono la tutela dell’operaio o impiegato licenziato, lo riqualifichino e gli trovino un altro posto di lavoro in pochi mesi. Se questo è possibile in altri Paesi, perché non dovrebbe essere possibile in Italia? Perché in Italia, con tanti giovani disoccupati e tanti altri emigrati all’estero continuano ad esserci aziende che non trovano lavoratori con la qualifica adatta? Decine di migliaia di posti qualificati, ad alto salario, restano vuoti perché né la scuola né altre agenzie sanno preparare i giovani a questi lavoro?
        Che lo Stato, infine, renda più facile mettere in piedi un’azienda e lasciarla vivere, senza opprimerla con una burocrazia asfissiante e costi fiscali diretti e indiretti enormi. E che le difenda dalla malavita del racket delle tangenti, che è così pesante che in intere regioni italiane condiziona pesantemente la vita delle singole aziende e spinge molti a chiudere. Che faccia funzionare meglio l’amministrazione della giustizia con processi più veloci, più certi e meno costosi. Che dia più spazio agli arbitrati privati sostitutivi dei processi pubblici.
        Questo sì, la lotta alla criminalità, dovrebbe essere un compito prioritario dello Stato. Anzi, è l’unico compito che potrebbe giustificarne l’esistenza. Che infine curi di più e meglio la preparazione dei giovani ad ogni livello scolastico, dalle materne alle specializzazioni postuniversitarie.
        Uno Stato più piccolo e più concentrato sulle competenze sue proprie significherebbe allontanarsi da una prospettiva socialista o comunista e incrementarne una liberale? Apparentemente sì, ma con uno Stato di minor peso e una cittadinanza di maggiore peso con più ampie possibilità di iniziativa e di autogoverno si potrebbe, volendo, facilitare la costituzione di realtà di vario tipo, ad esempio anche quartieri o piccole città intere rette da autoregolamenti solidali, a proprietà collettiva ecc., isole di “pre-comunismo”, come si diceva una volta, che, se funzionano, possono diffondere un modello che è insieme un modello culturale e di vita, oltreché un modello economico. E potrebbero rinascere con spirito ed energie nuove forme cooperative, di economia sociale, di condivisione di beni, aiutate anche dall’attuale tecnologia disponibile. Come mai tutte le novità che in questo settore sono nate per combattere l’economia del capitalismo sfrenato che mira solo al guadagno sono poi state rifiutate, una volta trasferitesi in Europa, dalle sinistre tradizionali che hanno preferito difendere le corporazioni già esistenti? E quelle novità sono invece diventate, in molti casi, novità utilizzate dai capitalisti per i vantaggi che ne traggono utilizzando l’innovazione con segno ideologico rovesciato. Ma di chi è colpa se in Italia è persino proibito, perché si fa concorrenza ai tassisti, dividere le spese di viaggio di una macchina fra un gruppo di amici?
        Ed io – tanto per fare un altro esempio e poi chiudo – che ho tanti libri e dvd che ormai non mi servono più e che se vendessi in eBay potrei vivere di rendita per il resto della mia vita, non posso farlo, perché, pur vendendo cose mie e non trafficando fra acquisti e vendite, sarei costretto a prendermi la partita IVA e ad affrontare un costo, che poi venda o no, che guadagni o no, sarà comunque di oltre 4.000 euro all’anno, oltre alla enorme perdita di tempo per stare dietro agli adempimenti fiscali e burocratici, ai rischi di errori e di multe salatissime ecc. Ciao ciao Stato, non diventerò mai imprenditore, nemmeno nella forma minima di venditore di vecchie cose in eBay. E coloro che potrebbero acquistare da me un libro a 5 euro lo acquisteranno a 15 da un venditore autorizzato e con tutto il carico fiscale e burocratico in regola. Questa differenza di prezzo – allargando l’esempio all’intera economia nazionale – incide sulla qualità della vita e anche sull’ecologia perché i libri vecchi riciclati, o condivisi, sono sempre meno perché molti trovano più conveniente buttarli nella spazzatura. E quante cose si buttano nella spazzatura reale o immaginaria perché l’organizzazione sociale giuridica ed economica in Italia ti toglie la convenienza, quando non addirittura la possibilità a qualunque costo, di utilizzarle? E purtroppo fra le cose che si buttano nella spazzatura ci sono anche idee ed energie, ci sono tante possibili startup, tanti giovani che non trovano il modo di mettere a frutto le proprie competenze ecc. ecc.

  2. COMPLESSITA’ DEL ’68 E MISERIA DI UNA SUA INTERPRETAZIONE

    Caro Luciano,
    lo scrivo in breve frenando la mia delusione (e un po’ di rabbia). Ma è possibile che parti dichiarando che « il «’68» è un “oggetto storico” complesso e multiplo e nessuna analisi unilaterale può esaurirlo e tantomeno definirlo in modo coerente e senza contraddizioni» e poi in sostanza riproponi, come hanno fatto sistematicamente nei vari decennali tutti i suoi nemici e affossatori, una manichea distinzione tra un ’68 buono e uno cattivo?
    Io non so se in quegli anni tu militavi in qualche partito o gruppo extraparlamentare o no, ma la tua interpretazione è tale e quale quella del vecchio PCI o del PSI.
    Se, malgrado le premesse teoriche che dovrebbero guidare la tua analisi e farla restare sul piano della complessità, accogli la distinzione rozza e preconcetta fra “buoni” e “cattivi” o dai della «modernizzazione» la lettura capitalistica che si è imposta poi nei fatti, accogli il *loro ‘68*. Che è appunto questo: modernizzazione capitalistica (di superficie). Questa sarebbe tutta la novità contenuta in quel movimento così complesso? E che bisogno c’è di occuparsene ancora?
    Tu non fai che criminalizzare il *nostro ‘68* con l’appiattimento sulla sua coda terroristica.
    Ma non conta parlarne tant’è la distanza dal nostro modo di leggere il suo significato.
    Il tuo manicheismo si rivela anche quando parli degli immaginari operanti in quegli anni. E qui mi limito a sottolineare che, se «il ’68 che ha invece recuperato i miti della Comune, dei Soviet, dei consigli operai, ai nuovi problemi ha reagito ponendo domande vecchie e dando risposte vecchie», non meno vecchie sono le domande e le risposte dei tuoi miti riformisti.
    Una frase come questa: « gli italiani, compresi i militanti di sinistra con qualche cosa ancora di sano in testa, non erano disposti a vedere personaggi come Curcio e Battisti e altri analoghi al potere. Dopotutto, meglio Andreotti di Stalin. Meglio Craxi di Curcio, ecc», ti qualifica davvero come un reazionario. Visto che dai addosso esclusivamente a tutte le formazioni (non solo a quelle lottarmatiste, ma proprio a tutte!) che in quegli anni cercarono di intravvedere e costruire una possibile uscita dalla modernizzazione capitalistica, che poi, con la loro sconfitta, si è imposta.
    Ed è davvero penoso che di queste spinte tu ricordi soltanto qualche episodio avvenuto nella scuola in cui insegnavi. Sei affezionato al capitalismo “buono”? Tienitelo.

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