Il padre del mio amico

Tabea Nineo, volto

 di Alessandro Franci

 

Mia madre volle portarmi con sé a vedere il morto. «È il padre del tuo amico» disse.

Io non ero addolorato né per lui né per il mio amico; d’altronde neppure lei lo era, tanto che me lo chiese come mi invitasse al cinema.

Se c’era da partecipare a un funerale, a una veglia funebre, o visitare un ammalato, lei non si tirava indietro e questo le era sufficiente per credere che chiunque doveva essere contento di farlo quanto lo era lei; non comprendeva l’avversione che molti mostravano, per quello che riteneva fosse un dovere.

Non avevo mai visto un cadavere e l’idea che il primo della mia vita fosse proprio lui, non m’invogliava affatto. Per la prima volta avrei preferito vedere un altro defunto, qualcuno che per un motivo qualunque, mi avesse lasciato un bel ricordo, uno insomma per il quale fossi dispiaciuto che se ne fosse andato. Se proprio dovevo seguire, per così dire, la carriera di mia madre, quello non poteva certo essere un buon inizio. Era la prima volta però che mi chiedeva di accompagnarla in una delle sue macabre uscite e, trattandosi del padre del mio amico, immaginavo che per lei questa fosse anche una buona occasione per introdurmi nel mondo dei suoi cupi pellegrinaggi.

Io non avevo mai raccontato nulla di lui, anche se di storie sul suo conto ne erano sempre circolate molte. Lei però lo aveva sempre visto la domenica alla messa, e questo le doveva sembrare un motivo in più per andarlo a salutare anche da morto.

Quando il padre del mio amico la domenica veniva a messa, se ne stava in piedi in fondo alla chiesa e durante la funzione, spesso, faceva curiosi movimenti con le gambe, come per sedersi su uno sgabello immaginario. Se incrociavamo casualmente gli sguardi, mi fissava dritto negli occhi; a volte se capitavo qualche fila dietro di lui, si voltava piantando le sue pupille nelle mie, fino a quando non guardavo altrove.

Rammentavo che qualche anno prima, quando a Dallas Kennedy fu assassinato, quasi piansi e, mentre camminavo a fianco di mia madre in direzione di casa del morto, cercavo di ricordare se lei fosse stata dispiaciuta quanto lo fui io; è certo però che non potendo partecipare alle esequie, né andare fino negli Stati Uniti per vederlo nella bara, non le suscitò così forti emozioni.

Tutti i parenti più stretti, nonni, zii, cugini, erano in buona salute, perciò non potevo fare paragoni tra i sentimenti di mia madre e i miei; mi era venuto in mente l’assassinio di Kennedy solo perché tra le morti degli ultimi tempi era stata la più commovente.

La giornata era grigia, l’abitazione del defunto non era distante e mentre camminavamo, guardando di quando in quando mia madre, mi sembrava di vederla serena e pensai che lo fosse perché la stavo accompagnando, oltre che per il piacere di far visita all’estinto.

Gli altri ragazzi prendevano in giro il mio amico per via di suo padre, ma non in modo esplicito; modulavano brevi risatine e allusioni confuse in sua presenza, ma lui si era sempre mostrato meravigliato e lontano, come la cosa non lo riguardasse. Fra noi non ne parlavamo mai, neppure scherzando, ed io non dissi mai niente neppure a loro così come loro non dissero mai nulla a me. Sembrava che la cosa più importante da fare fosse quello di denigrare il mio amico.

Un giorno che andai da lui, mentre lo aspettavo davanti al portone, suo padre comparve d’improvviso di fianco a me e guardandomi negli occhi, disse: «Chissà che pelino liscio ha la Sonia.» Io non commentai, non sapevo cosa dire, pur comprendendo l’allusione. Sorrisi e anche lui sorrise per un istante, forse interpretando come una sorta di complicità il mio sorriso, poi tornò impassibile, infine si avvicinò flettendosi in avanti come volesse annusarmi il collo e, lentamente, sfiorando con il dorso della mano i miei jeans all’altezza della coscia e poi sui glutei, si allontanò in direzione del garage poco distante.

Sonia, quando ci vedevamo dietro le case o al fiume, cercava un lungo filo d’erba e tenendolo fra i denti per un’estremità, si protendeva verso di me perché anche io facessi altrettanto con l’estremità opposta; ognuno, alternando i morsi, ne staccava un pezzo diminuendo così la distanza tra le nostre labbra. Dopo il primo filo d’erba ne strappava un altro, poi ancora uno; le nostre labbra si sfioravano appena e a volte premevano l’una contro l’altra. Lei sorrideva subito dopo emanando un vago odore di caramelle alla frutta. Ce ne stavamo seduti sull’erba, sopra il vero nutrimento del nostro impalpabile legame mai dichiarato. In un pomeriggio caldo, la sua maglietta rossa di poco allontanatasi dai jeans, lasciava scorgere uno spicchio candido del fianco. Per l’ultimo morso al filo d’erba mi sbilanciai in avanti e sfiorai casualmente con la mano il fresco della pelle lungo quella striscia scoperta. Il suo sorriso dopo l’incontro sbilanciato delle labbra e le mie dita sulla sua pelle, si arrestò un istante e allora mi osservò con un morbido e istantaneo sguardo, prima di strappare un altro filo d’erba.

Quando arrivammo sul rettilineo che finiva davanti casa del mio amico, sotto un’ombra piatta per la luce opaca, scorsi il garage con l’auto chiara parcheggiata e subito dopo, il portone aperto.

Il sesso, così lontano dalle gioie che dovrebbe suscitare, per tutti noi ragazzi, s’intristiva in un lessico quasi scientifico, sussurrato tra i denti con uno sguardo quasi greve e poco sincero, mezze voci che tradivano l’inesperienza e il timore di doverla dimostrare con grossolani equivoci di fronte alla misera platea di inesperti ragazzini. Scroto, prepuzio, testicoli, pène, erano solenni divulgazioni di difficili enigmi che risuonavano tra noi come parole prive di colore e solenni come quelle pronunciate dal prete durante la messa. La dedizione confusa nel nominare le parti del corpo femminile, si nascondeva dietro un’involontaria ironia mischiata a sorrisi velati e veri imbarazzi. Cosi termini come vagina, vulva, grandi e piccole labbra, clitoride, ruotavano in una comica e favolosa ellisse intorno a un cosmo inesplorato, oscuro e reso ancor più incerto da credenze religiose o leggende tramandate da generazioni. I seni diventavano le mammelle e, alcune volte, per qualcuno, le poppe, termine che volutamente mostrava una sorta di intimità con il sesso.

Un pomeriggio, al fiume, dopo il rituale dei fili d’erba, Sonia mi prese la mano poi se la portò all’altezza del seno e col palmo della sua la spinse facendola aderire a una sconosciuta docilità. Un piccolo e cedevole impatto si raccolse tutto nella mano; fu un istante privo di sorrisi, fissato in uno sguardo quasi solenne che ci scambiammo come sorpresi.

Un pomeriggio il padre del mio amico, nel garage, mi afferrò la mano e la premette contro di sé all’altezza della cerniera dei pantaloni; il palmo si riempì di una durezza anch’essa sconosciuta, lontana, senza senso, incomprensibile. Mentre rideva forse mi guardava nello stesso modo con cui mi guardava in chiesa, ma io vedevo, oltre la sua mole, gli attrezzi appesi alle pareti e non udivo chiaro quel suo riso gorgogliante coperto da un’eco bassa, dispersa subito nel paesaggio di viti sparse sul tavolo da lavoro, cacciaviti, trapani.

Era gonfio come un grosso rospo, tanto che la giacca l’avevano dovuta tagliare, dissero a mia madre. Il viso chiazzato di un rosso violaceo, con l’ombra della stanza, a tratti mutava in blu. Aveva le mani incrociate sulla pancia, le dita tozze e larghe come strane salsicce; avevano dovuto sfilargli l’anello per evitare che gli mozzasse l’anulare. Intorno all’incrocio delle dita avevano annodato un rosario con un piccolo crocefisso. C’era odore di fiori mischiato a profumi artificiali che invadevano la stanza. La bocca era semi aperta e tra le labbra quasi azzurre si notavano i denti. Tutti parlavano a bassa voce e un bisbigliare continuo fluttuava senza che una sola parola fosse comprensibile.

4 pensieri su “Il padre del mio amico

  1. Ben trovato Alessandro,

    confusione adolescenziale del sesso, dove tutto si mescola in un paradosso luminoso che gli adulti violentano, dissacrano, tendono a umiliare. C’è tanto della nostra generazione, dove la morte era una presenza fisica nel vissuto quotidiano, ma anche una prigione dalla quale evadere.

    E’ un buon racconto

    angelo australi

  2. …sì, un racconto bello e tragico. A salvarsi il ricordo di un’amicizia tra aiutano, che si capiscono e aiutano oltre le parole, e l’ approccio dell’autore alle prime esperienze sessuali, in un gioco sereno. Via via, poi, tra il detto e il non detto, la discesa all’inferno attraverso la narrazione di situazioni di vita quotidiana, come banalità del male… La madre dell’autore e il suo rapporto cinico-giulivo con la morte, il padre dell’amico e la sua scanzonata aggressività sessuale, gli amici che se la ridono e emarginano, sino alla visione cruda e impietosa di un corpo senza vita, violentato… Viene il dubbio che più passa il tempo e più diventiamo proprio così…normale

    1. Grazie Annamaria Locatelli per la bella riflessione, l’incrocio tra il mondo degli adulti e quello dei non adulti è a volte ruvido e tagliente, la banalità che cresce con il tempo si forma nell’insensibilità, nella dimenticanza di ciò che ci ha abbandonato e che, invece, ci era proprio quando anche noi abitavamo quel mondo. Tutto si normalizza, si spezzetta o forse, in altri casi, rimane ancorato confusamente a una soglia della vita, senza mai varcare “la linea d’ombra”.

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