Ricordando Eugenio Grandinetti

di Giorgio Mannacio

Ho chiesto a varie persone che hanno conosciuto Eugenio Grandinetti un ricordo o una riflessione sulla sua figura o sulla sua poesia. Ecco il primo contributo arrivato. [E. A.]

1.

Ho conosciuto Eugenio Grandinetti, recentemente scomparso attraverso la rivista Poliscritture ma ci siamo visti solo un paio di volte, credo. Nacque tra di noi una simpatia fondata su elementi poco significativi: seppi che era calabrese (come me) e, successivamente, che era cugino di un mio collega di lavoro. Nel contesto della rivista che ho ricordato ebbi modo di leggere alcune sue poesie che suscitarono un certo dibattito intorno all’argomento nichilismo/pessimismo. Ad esso ho partecipato anch’io. Posto che non posso e non devo ostentare una amicizia in senso stretto ma certamente una comunanza di esperienze poetiche e una partecipazione ad una sorte che accomuna tutti noi uomini, ho creduto di ricordarlo intitolando al suo nome le osservazioni sul tema che quella sua esperienza ha suscitato in me.

A quel contributo aggiungerò – per attualizzarlo come commemorazione – minimi aggiustamenti e più consistenti tagli di parti estranee al mio compito.

2.

Allora sono partito da una premessa fondata sulla distinzione tra nichilismo e pessimismo. Ritengo – dicevo – che il nichilismo non è la negazione del senso della vita, ma negazione della vita stessa. Raggiunta la convinzione che la vita è nulla, il nichilista uccide e si uccide nella certezza di rimettere “le cose“ al posto giusto e cioè nel nulla. Per il nichilista così inteso non c’è spazio se non per la preparazione e l’attuazione del piano di annullamento. Non c’è spazio, in particolare, per svolgere una esperienza che implica un fare, un dire, un comunicare. Concludevo affermando che parlare di poeta nichilista è contraddittorio e privo di reale significato.

3.

Il pessimista non nega senso alla vita ma ad essa attribuisce connotati di dolore e sconforto. Approssimativamente sono caratteristiche della poesia pessimistica la convinzione: a) che non esiste un dio creatore dotato di razionalità; b) che la Natura ci crea e ci distrugge in un moto continuo di generazione, distruzione, riappropriazione negli elementi primordiali; c) che non esiste un luogo dove riprenderemo la nostra identità corporea (resurrezione della carne) o rivestiremo una essenza incorporea (immortalità dell’anima) o tutte e due; d) che la Natura oltre che l’evento Morte ci riserva malattie, carestie, guerre, cataclismi rovinosi ed è dunque in definitiva una nostra nemica….Nonostante ciò il pessimista accetta la vita e la vive, cercando anzi di viverla nel modo migliore sia materialmente che spiritualmente. Agisce sostituendo alla caverna la casa; ai campi incolti terreni fruttiferi; si innamora, alleva e protegge figli e nipoti; inventa le arti e i mestieri e nella comunione con la morte rivendica, contro tutto e tutti, una dignità che chiamiamo umana. Insomma pensavo che il suo destino sia vivere con decenza nonostante tutto e si adopera in questo senso. Quello che si suole indicare con l’espressione “ dare senso alla vita “,

Il poeta assume questi contenuti dolorosi e sconfortanti a messaggio della propria poesia ma opera, produce qualcosa (mi si passi il termine). Ciò non significa affatto che “la poesia salverà il mondo“ o che la funzione della poesia sia “la consolazione“. La poesia è un modo di vivere (W. Stevens: La teoria della poesia è la teoria della vita.). Su queste basi inserivo Eugenio Grandinetti nella categoria dei poeti pessimisti.

4.

Grandinetti dunque “testimonia“ uno stato di cose realmente esistente e “comunica“ con la sua poesia una serie di notizie altamente drammatiche.

Seguivano le considerazioni che riporto.

Impraticabile ormai la poesia mitologica (ammessa e non concesso che il Mito sia stato mai vissuto come verità e non come metafora) l’unica poesia autenticamente ottimistica potrebbe essere la poesia religiosa che assume come verità gli articoli della propria fede.

Qui ci troviamo a fare i conti con la cosiddetta morte delle religioni, delle fedi politiche e sociali, con il sospetto della potenziale distruttività delle scienze e della tecnica, con la convinzione, da taluni conclamata, della cosiddetta morte della storia.

Ma ancora una volta l’obbiezione (che ripete in un certo senso l’angoscioso interrogativo che chiude Il Processo di F. Kafka: “La logica della legge è incrollabile ma non resiste ad un uomo che vuole vivere “) è questa: se da una lato l’adesione ad una religione non è garanzia di “buona poesia“, dall’altro tutto sembra dipendere da noi e ci si offrono – modificati quanto si vuole ma eguali nella sostanza – gli stessi referenti che hanno ispirato i poeti civili, erotici, filosofici, etc. Abbiamo profetizzato chissà quante volte volte l’Anno Mille.

5.

Permane in me oggi – come era presente ieri (e i giorni della lettura dei testi di Grandinetti) una sorta di interesse sulla funzione della poesia. Si è più o meno tutti d’accordo sull’idea che la poesia sia una forma di comunicazione. Lo attesta la storia dell’uomo e sembra inaccettabile che qualcuno dica o scriva qualcosa per non essere ascoltato. Anche la forma più disperata di comunicazione (il messaggio nella bottiglia) vuole far sapere qualcosa a qualcuno. La stessa ragionevolezza ci porta ad affermare che la cosa comunicata debba essere compresa dai possibili destinatari. Ma che cosa si comunica, , a che condizioni il messaggio è intellegibile?

Nella successione delle sue osservazioni Ennio Abate ricordava Fortini che parla di notizie sullo stato dell’uomo. La formulazione mi convince. Essa consente di assumere nel contenuto della comunicazione ogni situazione che costituisce il tessuto del nostro vivere. Seguivano delle divagazioni sul “perché“ della comunicazione. Nel mondo sociale vi sono comunicazioni di vario tipo ma viene unanimemente riconosciuto – e non potrebbe essere altrimenti, salvo che non si voglia disconoscere che “la poesia è fenomeno reale – che la poesia ha una specifica funzione (vedi riferimenti in Jakobson: Linguistica e poetica in Saggi di linguistica generale, U.E.F , Milano 2002). Ci si può avvicinare ad una soluzione considerando che la comunicazione poetica non è diretta alla fondazione di diritti e doveri né alla produzione e circolazione di beni e servizi; essa non esige risposte operative da parte dei destinatari.

Oggi – nel riportare alcune osservazioni di ieri – non intendo richiamare l’attenzione su di me ma – attraverso la memoria dell’occasione che le ha generate – ricordare un una persona che non ci fa più compagnia e che ha affrontata con onestà e passione l’esperienza poetica.

febbraio 2019

2 pensieri su “Ricordando Eugenio Grandinetti

  1. Sulla persona di Eugenio Grandinetti e sulla sua poesia sono intervenuto più volte in questo blog, trattando, dal mio punto di vista, anche il problema del nichilismo e del pessimismo. In attesa di mettere insieme un mio personale ricordo, questa volta rivolto più alla persona e al suo percorso biografico, vorrei qui ricordare, a proposito di nichilismo e pessimismo, due cose.
    1) Potrei essere quasi completamente d’accordo con Giorgio Mannacio se non fossi convinto che il nichilismo e il pessimismo, prima di essere due filosofie, sono due dimensioni esistenziali e spesso due dimensioni psicologiche in cui gli elementi soggettivi prevalgono sugli elementi logici. Non è una costruzione filosofica a portare al nichilismo e/o al pessimismo, ma, al contrario, sono esperienze di vita che portano alla razionalizzazione filosofica e al nichilismo e/o pessimismo come filosofie. Con ciò non voglio convalidare l’accusa del Tommaseo al Leopardi, che brutalmente si potrebbe sintetizzare nella frase: «È gobbo e sgraziato, per forza che odia la vita». Piuttosto, con Sebastiano Timpanaro, si potrebbe meglio sostenere che la “disgrazia” non porta Leopardi al pessimismo, ma lo porta ad una maggiore sensibilità e acutezza di ragionamento, capace di liberarsi dalle illusioni, ed è questa maggiore sensibilità e acutezza che lo porta al materialismo e al pessimismo. Resta però un’impronta esistenziale che non si può omettere, perché, del resto, la propria soggettiva esperienza esistenziale è alla radice della maggior parte delle visioni filosofiche che non si limitino a un orizzonte ristretto e controllabile con gli strumenti formali della logica.
    Quindi, nichilismo e pessimismo non si definiscono in modo autonomo, ma solo in contrasto con altre filosofie anti-nichilistiche e anti-pessimistiche. E sostanzialmente solo ritenendo che la vita abbia un suo senso indipendente dall’esistenza individuale, ma che comprende e valorizza questa esperienza, si riesce a uscire dal confine, più o meno ristretto, del nichilismo e del pessimismo. Dico “più o meno ristretto”, perché ci sono tante forme di nichilismo e tante di pessimismo. Questo “senso” che trasporta l’esistenza individuale oltre i suoi confini terreni può anche essere compatibile con il materialismo e la convinzione della non esistenza di una qualche forma di vita ultraterrena (ad esempio un ideale etico, politico, proiettato nella storia e quindi nel futuro), ma più spesso si identifica con una credenza filosofica e/o religiosa che sostanzia l’esperienza esistenziale individuale in una qualche forma di eternità.
    Chi scrive, anche e talvolta soprattutto, per lasciare un ricordo di sé, e/o per “illuminare” gli altri sulla verità del proprio modo di concepire la vita, difficilmente potrà essere definito nichilista e/o pessimista, perché queste finalità della scrittura presuppongono comunque un senso della vita e una proiezione di se stessi nel futuro. Anche se poi si vuole considerare ciò una mera illusione, viverla, questa illusione, sottrae al nichilismo e al pessimismo, almeno nelle versioni più radicali.
    Quindi Leopardi, come Eugenio, non sono mai interamente nichilisti e/o pessimisti. Ed essi infatti lo negano. Lo sono solo in relazione al punto di vista di chi li legge e li giudica. Così sono nate le dispute sul Leopardi, che spaziano in un arco vastissimo, dall’accusa di chi vi vede il pretto nichilismo e pessimismo alla difesa di chi vi trova un autentico spirito religioso e un’indomabile energia e voglia di vivere.
    2) Ma cosa diceva di sé, in proposito, Grandinetti? Egli negava di essere nichilista e/o pessimista, ma si riteneva piuttosto un “naturalista”, che vede la realtà così com’è. In un suo breve intervento in Poliscritture, in calce a un articolo sulla sua poesia e proprio in risposta a chi parlava di pessimismo, rispondeva: «(15 febbraio 2015) […] c’è qualcosa che non ci trova d’accordo: infatti sia Ennio che Luciano considerano pessimistico il tono delle mie poesie, ed io non sono d’accordo. Lo sarei se in una bella giornata io mi lamentassi perché il tempo potrebbe peggiorare. Io vedo che la vita su questo nostro mondo è basata sulla predazione da quando dal brodo primordiale alcuni organismi hanno cominciato a differenziarsi procurandosi l’energia loro necessaria appropriandosi dell’energia prodotta da altri organismi. Inoltre se dico che la vita dell’uomo è destinata ad estinguersi dopo un periodo di decadenza non faccio altro che descrivere una situazione reale: o mi sbaglio?».
    Eugenio ritiene la sua visione fisica-biologica dell’universo e della vita un “dato di fatto”, in cui non c’entra il pessimismo. Un dato scientifico che contrappone non all’ottimismo ma alle illusioni senza fondamento del credente in una diversa visione. Gli osservavo, più volte, che entrambe le visioni, come dato di fondo, sono indimostrabili e sono credenze e non costruzioni scientifiche e nemmeno logico-filosofiche. Il pessimismo sta, pertanto – a mio parere -, nel scegliere come più vera la visione meno propizia al destino umano. Ma è comunque con questo atteggiamento “naturalistico”, che gli veniva da Lucrezio piuttosto che dal Leopardi, che Eugenio si difendeva dall’etichetta d’essere pessimista.
    Ma per la comprensione della sua poesia, come per quella di Leopardi, giova poco l’uso delle categorie di nichilismo e di pessimismo. Serve di più risalire, per quanto è possibile, alla sua esperienza esistenziale che lo portano a questa concezione e soprattutto valutare come questa s’incarna nella sua scrittura, come non rimane inerte credenza ma diventa contenuto e forma, anzi, lavoro continuo sui contenuti e sulla forma del suo rapporto con il mondo e del riflettersi nei suoi versi.
    E anche come la sua poesia testimonia una irrequietudine che dà l’idea di un essere che tenta di sfuggire dalla gabbia in cui si sente chiuso, che guarda oltre le sbarre e che descrive un mondo che, nonostante l’afflizione della prigionia, è anche per lui un mondo ricco di bellezze, di sentimenti, di emozioni, di desideri, di speranze soffocate. Chi legge, pur constatando il fatto che l’autore ritiene che il mondo sia una gabbia, è attratto non dalla descrizione della gabbia ma di ciò che sta fuori e di ciò che spinge il poeta a parlarcene. In questa insanabile contraddizione il nichilismo e il pessimismo evapora in quell’«effetto Leopardi» che ho più volte, altrove, menzionato.

  2. …mi ritrovo in molte riflessioni espresse da Giorgio Mannacio e da Luciano Aguzzi sulla persona e la poesia di Eugenio Grandinetti, autore che ho imparato ad apprezzare attraverso le letture sul blog…Secondo me, però, a voler considerare le sue diverse espressioni poetiche, emerge una visione della realtà dalle molte sfaccettature, non riducibile al dilemma se fosse riconducibile al pessimismo o al nichilismo…Protendo comunque per la prima ipotesi, in quanto nelle poesie di E. G. la dimensione esistenziale umana è improntata alla sofferenza, alla solitudine, all’incomunicabilità tra esseri umani, tuttavia l’umanità intera, che non è solo uno sfondo, condivide tale sorte e i versi lasciano trasparire comprensione e solidarietà da parte del poeta…In alcune composizioni lo scrittore espone, attraverso un linguaggio privo di esitazioni, forte e convinto, la sua completa adesione alle lotte “di classe”, per i diritti, a mo’ di attivista…Anche la Storia non gli era indifferente…
    I paesaggi, sia di terra che di mare, che fanno da sfondo al viaggio “senza meta” di ogni essere umano, sono descritti come inospitali, degeneranti nella decomposizione – con un senso soggettivo diffuso di sradicamento e di respingimento- ma compaiono anche come vive presenze che il poeta osserva in quanto amante e studioso della natura…

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