Riflessioni sulle “poeterie” (4)

Tabea Nineo, Tenace, anni ’80

di Ennio Abate

1982

Febbraio

1.

Perché ho dovuto così a lungo nascondere la mia attività di scrittore e poeta e praticarla in clandestinità? Con molte rinunce, se non con una vera mortificazione del mio desiderio? Ho sentito questo desiderio come una malattia che volevo curarmi da solo? E mi sono letto poeti e critici come uno che si legge da solo trattati di medicina per capire di cosa soffre?

2.

Ho scritto in modo incontrollato e senza rileggermi per tanti anni. I miei testi mi parevano provvisori. E li ho, infatti, chiamati appunti, quasi-poesie, poeterie.(Che può stare anche per: vanterie, peripezie, porcherie, fesserie…). Prima del ’68 consideravo senza farmi problemi i testi scritti nei primi anni ’60 come poesie. Poi mi sono parsi ora come detriti o fossili ora come braci non del tutto spente, che potevano riaccendersi e farmi scrivere nuove poesie. Solo intorno al ‘77-78, chiusa la militanza in AO, ho ripreso letture di poesia e di critica della poesia del ‘900 e ho ricominciato a scrivere poesie. Sempre con molti dubbi. Erano vere poesie? Spesso erano testi buttati giù in versi, separati da barrette, occasionali accensioni liriche, che spuntavano ogni tanto dentro il flusso del diario, in quei due anni intensissimo. Dapprima ho pensato di lasciarli in quel contesto diaristico in prosa. E, dato il forte autobiografismo, mi ero preparato uno schema cronologico ad uso privato per avere sott’occhio gli anni trascorsi, i nomi delle persone, gli eventi esistenziali importanti.

Era il mio “zibaldone”, il “serbatoio”, la base per lavorare in due direzioni: o al “narratorio” che confusamente volevo scrivere; oppure per un futuro e più maturo poetare, che – pensavo – sarebbe venuto solo riprendendo lo studio dei poeti veri, da me interrotto o trascurato negli anni della militanza politica.

[Aggiunta 2019. Senza dimenticare che, contemporaneamente a queste scritture, avevo ripreso a disegnare e a volte a dipingere. Questa incertezza (o compresenza? o contemporaneità?) tra tre pulsioni ibride – liriche, narrative, visive – fu evidente nella mia prima pubblicazione autoedita, «Samizdat Colognom», che aveva come sottotitolo «pseudo-narratorio 1977-’82 con 6 disegni»]

3.

I temi delle mie “poeterie” si alimentano del “vissuto” di questi anni: emigrazione, memoria colpevole di aver abbandonato Salerno e gli studi, rapporti familiari e sociali, lutto per la crisi della militanza politica. Ma ho sbagliato a considerare questo “vissuto” come causa del mio poetare. Dovrei aggiungervi almeno le letture fatte e un’attenzione saltuaria al dibattito su linguistica e strutturalismo che seguivo alla larga sui giornali e sulla rivista “L’ombra d’Argo” (poi “Allegoria” di Luperini) a cui m’ero abbonato.

4.

Sulle mie “poeterie” 1977-78. Prevale: un linguaggio mimetico (parlato) che rischia la logorrea, l’aggettivazione eccessiva, l’espressionismo; un legame quasi da ipnotizzato con il linguaggio dei mass media e della quotidianità sociale immediata; la tendenza impulsiva a interloquire, polemizzare, parodiare, fare il verso; un’abbondanza di verbi; il tentativo di rendere visivo un mondo nel quale io sono assente, non previsto, non riconosciuto, mai in primo piano.

Nel diarismo di questi stessi anni prevale: il bisogno di preparare discorsi da fare in situazioni concrete, magari per il giorno dopo; la parodia della vuotezza dei discorsi pubblici; un’eccessiva fiducia nel parlato (forse eco del verbalismo tipico negli ambienti scolastici e politici che frequento). Problema: in poesia questo linguaggio mimetico ha ancora un senso? Forse si può scrivere di scuola e di politica in modi non mimetici. L’eccesso di parlato è dipeso – credo – dalla mia tendenza – forte attorno al ‘77-’78 – a privilegiare la quotidianità in cui ero allora totalmente “affondato”. Lo squallore della periferia però non riesco ancora a renderlo in modi originali. Non è che emerge modellando il linguaggio poetico sul parlato assorbito in situazioni che io definisco “squallide”.

5.

Poesie giovanili ’60-’64. Suggestioni da Pavese per i temi (campagna-città; amori non corrisposti), composizioni brevi, quasi quadretti. Suggestioni dai surrealisti (‘64-’67): Lorca, Eluard, Apollinaire, Cendras. Interesse per la psicanalisi. Tema: la memoria della città abbandonata. Composizioni più lunghe, spesso ricavate per assemblaggio di frammenti precedenti. Cominciano i tentativi più narrativi o dialoganti, quasi teatrali. (Suggestioni forse dell’antologia dei Novissini, letta attorno al ’67?). Una fase quasi politico-civile (‘75-’77) dopo la fine della militanza in AO. Suggestioni (tardive) di Brecht. Composizioni lunghe. Tono riflessivo o dialogante. Una fase diaristica (‘77-’79). Suggestioni da Majorino e Fortini. Composizioni più varie (con amalgama delle precedenti fasi). Una fugace fase sperimentale (‘80-’82) per la lettura di alcuni testi di Zanzotto. Questi influssi andrebbero chiariti meglio. Non vanno messi in ombra come se dovessi far risaltare soprattutto una “spontaneità” o un legame “diretto” col vissuto (o col sociale). Anche l’immergersi in letture di giornali politici, riviste, ecc. ha un suo peso sia nelle “poeterie” che nel “narratorio”.

6.

Punteggiatura. Un problema di forma, denso di implicazioni che mi sfuggono Tante perplessità sugli a capo (Non ne vieni a capo!)

. Oscillo fra una interpunzione classica ed una a barre, che la sostituisce o cancella [In Samizdat colognom ho ridotto le virgole (pause brevi) facendo svolgere questa funzione agli a capo, che sottintendono o sostituiscono la virgola].

[Aggiunte.

1. Da una lettera (3 gennaio 2000) di Romano Luperini:

“Il problema della sbarretta è un problema non di punteggiatura, come pensi, ma di ritmo, che spesso ti manca in quanto troppo ripetitivo e un po’ slombato. Molte sbarrette sono inutili, sostituiscono virgole facilmente omettibili. Le lascerei solo quando vuoi indicare cesure forti, a prescindere dalla punteggiatura”.

2. Dagli appunti presi su una conversazione a telefono con Franco Fortini del 1987:

L’a capo, il verso libero, produce un effetto di concitazione. Il pericolo è l’«enfasi tragicista». L’a capo comporta un «cambio di velocità», controllabile se la poesia è breve; e si ha allora «una forma che chiude» (mi portò l’esempio di Ungaretti). Non controllabile, invece, se la poesia è lunga, finendo per produrre il cosiddetto «serpente» (mi fece l’esempio di Lucini e dei futuristi). L’a capo era un «aiuto ingannevole come l’alcool». Quando si dovevano dire certe cose, dava una carica maggiore, ma pericolosa e da controllare. E mi fece l’esempio dell’oratore che, preso dalla foga, smarrisce il pensiero e si ritrova a sentire la propria voce risuonare a vuoto. La prosasticità – disse – deve essere riscattata con la regolarità del verso. E, per farmi capire, mi lesse prima un brano ritmandolo con pause irregolari e poi ritmandolo su tre battute fisse.

(da E.A., Un «filo» tra Milano e Cologno Monzese: Franco Fortini e gli “intellettuali periferici”(5 ottobre 2009)

http://www.backupoli.altervista.org/IMG/CARTEGGIO_Fortini_Abate.pdf ]

Agosto

1.

Analisi per temi:

  • sessuale:

Era la mia chiave prevalente d’interpretazione già durante la prima stesura delle poesie ‘62-’64 sotto la forte suggestione della psicanalisi freudiana. Altre spinte in tal senso mi vennero dalla lettura di alcune pagine di Rabelais (autore che avevo casualmente incontrato ma mai letto davvero: il volume in francese di ”Gargantua e Pantagruel” mi era stato lasciato in dono da un professore di francese all’esame di francese all’Università di Napoli dove seguivo i corsi di Lingue e letterature sgtraneire, interrotti per venirmene a Milano) e mi ispirarono il testo su Babbasciò. E, più tardi, da Zanzotto. La tensione esplorativa legata alla sessualità è più repressa e contorta nei ricordi di Salerno rispetto a quelli di Barunisse, dove l’animalesco ha un suo rilievo [Comm’a n’animaluccie]. Nell’esplorazione della salernitudine appare la morte (suicidio di un amico d’adolescenza), lo sporco e la miseria (vicoli, prostituzione), l’immaginazione nevrotica e frustrata (Venere paesana, Cap’e ciell), l’ossessione paranoica del giudizio altrui (Le gioie dell’educazione cattolica [poi La ragazza dei preti]

  • bestiario:

Il simbolo (animali) potrebbe contenere un contenuto sessuale individuale ma anche collettivo-storico. Ho tentato di approfondire con letture occasionali sulle iconografie medioevali, ma non sono soddisfatto. Forza di queste immagini. Vale anche per alcuni miei disegni. (Cfr. per approfondimenti il rapporto uomo-animale in Enc. Einaudi). E’ la via meno battuta finora.

  • sociale/storico:

Prevale nei commenti fin dai primi tentativi (del 1974). L’interpretazione si politicizza (a volte anche moralisticamente, ma forse per l’assenza di un lavoro assiduo sul tema). Alla base: l’esperienza di militanza in AO e gli studi storici fatti all’università. Tendo ad una censura o a un’autodisciplina dei motivi più infantili-sessuali-erotici.

  • linguistico e metrico:

E’ quello più debole e trascurato. Perciò oscillazioni fra verso lungo e breve (o verso e non-verso), nella composizione aggettivo-nome, nei neologismi, nelle locuzioni a volte ipersintetiche, nel contrasto fra linguaggio colloquiale (emotivo) e linguaggio astratto e meditato, sul peso da dare al rapporto significante/significato. Poche le letture di linguistica e solo un’eco degli scritti di Jakobson e dei formalisti russi.

Dicembre

1.

Lasciar perdere queste poesie-frammenti o tentare di svilupparle ancora? Nel primo caso, non le toccherei più. Al massimo ne faccio una cernita e dico: queste sono le “migliori”. Nel secondo caso mi dovrei dedicare ad un’elaborazione da collegare all’attualità che vivo, agli strumenti di cui ora dispongo e alla sensibilità o intelligenza con cui oggi mi muovo. Delineando i Percorsi per temi ho imboccato questa seconda via.

2.

Insoddisfazione per i tentativi di sviluppare le poesie ‘62-’64. Non viene fuori tutto il contenuto del ricordo fissato provvisoriamente nel frammento e che ho pensato facilmente recuperabile. La mascheratura (letteraria) delle persone reali d’allora la vivo come una perdita. Dire o non dire che “la contadina” è mia zia Assuntina cambia qualcosa. Attorno alla “contadina” s’addensano immagini letterarie. Attorno a “zia Assuntina” s’addensano i garbugli psichici e la necessità di fare i conti con le remore che mi vengono quando devo parlare di rapporti familiari o parentali.

3.

Analisi per temi: il dramma della sessualità. Quando riesco a usare quel po’ di psicanalisi che ho afferrato, diventa dubbia (se non inconsistente) l’immagine che ho di me come ribelle fin da giovane, anticattolico e tutto teso a buttarsi nel sociale. Ribellione ci fu, ma sfociò in impegno politico-sociale solo a cavallo del ’68-’69; e dunque tardi e ormai quando ero lontano da Salerno. Anzi, si delineò con nettezza solo dopo il matrimonio con R. Prima quella ribellione era soprattutto tormento per la mia povertà di rapporti (pochi amici e nessuna amica), di affetti e di sesso. E le poesie dei primi anni ’60 questi conflitti esprimevano e forse da essi erano condizionate anche sul piano delle scelte stilistiche: usavo immagini, sensazioni, emozioni non idee (tantomeno ideologia, neppure quella cattolica in cui pur mi ero formato), se non in maniera implicita.

4.

Insistere con gli autocommenti. Evitare la presunzione di uno sguardo specialistico che non ho. Gli autocommenti non devono pretendere neppure di essere critica. Possono svilupparsi in narratorio, magari saggistico.

2 pensieri su “Riflessioni sulle “poeterie” (4)

  1. Interessante Ennio, trovo che questa riflessione poetico/autobiografica o autobiografica/poetica sia molto utile per ricostruire il proprio percorso, anche di “scrivente”; faccia chiarezza in sé e accetti limiti e limitazioni con una serena saggezza (nei limiti del possibile… al saldo delle frustrazioni ricorrenti e in essere) che storicizza i fatti e gli slanci. Penso che dovremmo fare tutti un lavoro del genere; io l’ho fatto in parte per commentare e proporre il mio ultimo libro, ma è un tipo di riflessione che vorrei portare avanti ancora. A proposito, non dovevamo riprendere qualcosa al riguardo di già sviluppato insieme?

    1. “A proposito, non dovevamo riprendere qualcosa al riguardo di già sviluppato insieme?”

      Sì, Marina, Ma la mia parte l’avevo fatta. Aspettavo Giorgio Morale….Fatemi sapere. Ciao.

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