Su “Il tempo dei desideri” di Alberto Mari

di Giò Ferri

Mercoledì 3 aprile 1919 alle ore 18 presso la Libreria Popolare di via Tadino,18 – Milano, Angelo Lumelli e l’attore Roberto Carusi presentano il libro di Alberto Mari. Qui un’analisi da parte di Giò Ferri. [E. A.]

Milano, 12 giugno 2017

Caro Alberto,

di queste tue poesie e prose poetiche bene dice l’amico Giancarlo Majorino: “…Un poemetto (Il tempo dei desideri, anche il titolo generale della raccolta) che sta come un cuore proprio, che batta più in profondità…”. Aggiunge un altro comune amico, Vincenzo Guarracino in quarta di copertina: Il tempo dei desideri è il tempo in cui chi scrive si può finalmente concedere assoluta libertà espressiva… una disincanta quotidianità senza remore e censure, senza gratuiti sperimentalismi…”.

Tutto risponde, ovviamente con maggior dettagliata partecipazione critica, a questi acuti accenni:

Scrittura

  1. Quest’aria impronunciabile,

illusionista ha in mano

un sogno oscuro ostruito

da cavi di parole,

in gola, in mente,

rigetto della carta,

parentesi del cielo.

E nella prosa surreale de Il castello di carte”.

Il silenzio delle espressioni attorno a lui bloccò la sua mano. Egli poi scorse inutilmente le dita. La carta pescata non appariva o lui non aveva il coraggio di guardare?…

Se vogliamo rivolgerci ai trattati di retorica possiamo parlare di supersignificazione, la polisemia e densità connotativa del testo estetico. Un grado altissimo di informazione, per altro, come dici impronunciabile, coprente una complessa, articolata (misterica?) isotopia semantica. In-significante e insieme plurisignificante: “… un sogno oscuro ostruito / da cavi di parole… Che s’aggrumano in gola, in mente e si esprimono paradossalmente in un rigetto: rigetto della carta, della penna. Per fortuna, tuttavia, questa tragica impotenza da spazio alla parentesi del cielo. La poesia stessa nasce da una drammatica impotente resistenza di fronte alla crudeltà del significato. Così che, come osserva Guarracino, la stessa incombenza della realtà si fa presenza, oltre la paura del nulla semantico.

Questa battaglia che giustifica la nascita e la necessità e il senso della poesia è fra l’atro raccontata in prosa, in Fuoristrada, dedicata a Bob Dylan, tuo nume adorato e tutelare per le tue scritture (!), e promettente una estetica del silenzio nel rumore assordante della desolazione (leggo in esergo la citazione di B.D.):

Sorpresi i passeggeri nella stanza della memoria, si agitano, parlano tutti insieme…

[una mia nota – il confuso manierismo della nostra poesia?]

Ogni cuore per conto suo percorre il proprio finestrino, ma non sa leggere i nomi che si intravedono agli angoli delle vie. Pareti, porte, vetrine sfilano nelle altezze ondulate del buio … Pensieri solidi reggono l’urto delle luci, lembi di essi si scollano e si piegano, ma basta poco per riprendersi dalle increspature e la carta fa la sua figura, nello scritto che trapela, le voci si confondono: “Parlate uno alla volta, che diamine!”. E le voci si esercitano come in un balletto per assecondarlo, per poi interrompere il gioco di trattenersi.

Se dovessimo ritornare al concetto di polisemia (caratteristica specifica della tua scrittura), dovremmo curare più specificamente le infinite occasioni dell’idea, del segno, della parola, della visionarietà, dell’ambiguità, delle azioni, delle cose, dei suoni o rumori, dei tempi, delle iterazioni… ecc… Ma costretto a semplificare sottolineo due oggetti mentali: la carta, il gioco, che più spesso trovo citati con la chiara intenzione di un significante… in realtà, ripeto, in-significato.

La carta non è tanto un composto della cellulosa, bensì la ragione stessa, campo spaventosamente bianco e infinito, della volontà arrischiata dello scrivere. Di occupare lo spazio dell’inesistenza. Guardare il foglio di carta dispiegato sul tavolo per servire a una idea di poesia significa affacciarsi su di un abisso.

E quell’abisso altro non è che occasione del gioco, del rischio di quel famoso lancio di dadi il cui risultato è sempre incerto. Anzi nullo se è limitato sempre dalle stesse facce numerate. Un rischio senza speranza di salvezza, se, ricorrendo appunto il segno polisemico, non è definitivamente comprensibile la sua ragione, il suo destino.

In Tagli:

La maniaca esistenza, / frutto del respiro, / cerca l’intenzione, / la dimensione superiore / e ci passano sopra, / serrandoci a metà / trapassandoci…

Il foglio di taglio, / lunare alito, / alzato / cala

sul mondo distante dell’osservazione / dove una linea sfocata sussulta

si coglie il rimando continuo, / atmosfera di orologi antichi.

La porta girevole riporta voci, / apparenze, squilli in cuffia, / oltre la musica, argine / coprente, / stimolante

e con decisione ci escludono (han capito tutto / i nuovi iniziati)

dal commiato dei movimenti / ripassando sui nostri tratti.

C’è bisogno di ammutolirsi, / di trasecolare, d’inneggiare alla sorpresa…

Una banale lettura potrebbe recare anche il giudizio socio-culturale di una realtà in cui la poesia è travisata, derisa con il suo im-possibile autore. In realtà il senso ultimo riguarda l’apocalissi del nostro ‘fare’, poiéin. Del nostro ‘essere’.

Il tempo dei desideri” (New Press Edizioni, Cermenate Como, 2016)

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