Introduzione a “Neofascismi” di Claudio Vercelli

di Ennio Abate

Anticipo il testo che leggerò stasera per la presentazione del libro dello storico Claudio Vercelli. [E. A.]

1.

Slogan e immagini volgari, luoghi comuni razzisti, dichiarazioni di leader politici riempiono sempre più la cronaca di questi ultimi anni e mettono in allarme. Anche a livello  locale,  dobbiamo fare i conti con un’Amministrazione  che nel 2017 ha chiuso la Scuola d’italiano per stranieri e il centro interculturale donne, ha appoggiato la sottocultura di un cattolicesimo conservatore e omofobo patrocinando uno spettacolo di Povia e Amato organizzato, tra l’altro, da associazioni legate a gruppi neofascisti e ha programmato una grottesca e provocatoria “rievocazione storica” con tanto di campo militare della Whermacht davanti Villa Casati, sede del Comune di Cologno Monzese, proprio a ridosso della festa della Resistenza del 25 aprile.

Le polemiche su questo inasprimento dei rapporti sociali e politici sono quotidiane. Siamo al “ritorno del fascismo” e non ce ne accorgiamo o di fronte a sintomi di un cambiamento più complesso, magari altrettanto o più pericoloso, che ora fa pensare al vecchio fascismo e ora appare poco decifrabile?

Assieme allo storico Claudio Vercelli,   ricercatore dell’Istituto Salvemini di Torino e docente  di storia dell’ebraismo all’Università Cattolica, stasera cercheremo di rispondere a queste domande partendo dal suo libro «Neofascismi».  E in questa mia introduzione  enuncerò  sei punti sui quali vorrei che Vercelli si soffermasse.  Ma lascio piena libertà al nostro ospite di toccarne solo alcuni.


1.  RITORNO DEL FASCISMO

Questo pare un tema  abbastanza chiaro e sul quale c’è un  consenso quasi unanime tra gli studiosi.   (Dichiarazioni di Gentile, Traverso, Cacciari [1]).  Che respingono una lettura  semplificatoria, allarmistica e di grana grossa del fenomeno denominato con termini vari: neofascismo, postfascismo, fascio-leghismo; o ancora, più genericamente,  populismo. Anche Vercelli  concorda: non c’è «ritorno del passato» , «essendo il regime mussoliniano un’esperienza unica, destinata a non ripetersi»; « Fascismo è la traiettoria dal 22 al 43 quel fascismo non torna, non può tornare perché il contesto è diverso» (da un’intervista).

2. RAPPORTO (PARASSITARIO) TRA NEOFASCISMO E DEMOCRAZIA IN ITALIA

Vercelli parla di permanenza di un pericolo fascista soprattutto come cultura o ideologia. Il fascismo – dice – è «calco ideologico che perdura»  (non so se  condividendo in toto o in parte  le note tesi sull’Ur-fascismo di Eco).  È una cultura parassitaria che s’insinua nelle smagliature della democrazia sociale, «nei luoghi prima occupati dalla democrazia sociale», «negli ambiti devastati della crisi del welfare». E che oggi si rafforza – riporto da una recensione a «Neofascismi» di Guido Caldiron –  per la « capacità dei movimenti e dei temi neofascisti di diventare parte della discussione pubblica, dell’agenda politica, magari rivestendo panni di apparente rispettabilità».

Quali le ragioni di questa permanenza anche dopo la fine politica del ventennio mussoliniano e la vicenda della RSI? Vercelli elenca le principali:

1. i segni del fascismo si sono conservati  nell’«organizzazione della società italiana» e nella «mentalità diffusa, presente in diversi strati della popolazione». (Io aggiungerei soprattutto nelle istituzioni statali richiamando il libro di Claudio Pavone «Alle origini della Repubblica»);

2. «Nel secondo dopoguerra l’epurazione di coloro che erano compromessi con il regime mussoliniano fu prima occasionale, poi claudicante e infine venne di fatto neutralizzata»;

3. nella cosiddetta Prima Repubblica il neofascismo ha avuto il riconoscimento  «in ambienti e contesti che fascisti non sono mai stati» (ed io penso alla DC ), perché, nel contesto della Guerra fredda tra Est ed Ovest, era visto come argine contro l’influenza comunista;

4. Negli anni Sessanta e Settanta,  esso seppe presentarsi come «blocco d’ordine», intercettando consensi e sostegni della parte più conservatrice dell’opinione pubblica. (Qualcuno ricorderà la “maggioranza silenziosa”).

3. CRISI DELLE DEMOCRAZIE

La forza del radicalismo di destra, dice Vercelli, è «direttamente proporzionale alla crisi della democrazia sociale. Più indietreggia la seconda, maggiori sono gli spazi per il primo, presentandosi come falsa risposta a problemi e disagi invece reali e diffusi». Oggi essa tenta di «rappresentare il territorio sociale dell’esclusione». E poiché i cambiamenti in corso hanno aumentato di molto povertà e disagio sociale e l’involuzione della sinistra è massima, è più facile indicare «cause di disagio immediatamente condivisibili: immigrazione, “poteri forti”, furto del lavoro e del territorio, complotti». È vero che la denuncia  non risolve i problemi, che si vanno aggravando, ma  intercetta paure e rabbia elettoralmente paganti.

Anche altri storici sottolineano i rischi che corrono oggi le democrazie. EnzoTraverso,  memore di Adorno, che riteneva «il sopravvivere del nazismo nella democrazia» più pericoloso del persistere «di tendenze fasciste dirette contro la democrazia», ha ricordato che essa può essere distrutta dall’interno.  Emilio Gentile parla di una «democrazia recitativa dove il popolo sovrano è chiamato periodicamente a esercitare il diritto di voto, come una comparsa che entra in scena solo al momento delle elezioni, per poi tornare dietro le quinte, mentre sulla scena dominano caste, oligarchie, consorterie, generatrici di diseguaglianza e corruzione».

4. CHE NOME DARE AL RADICALISMO POLITICO E SOCIALE D’OGGI

Vediamo che esso si va manifestando da tempo in Francia, in Italia, in Grecia, in Austria, in Ungheria, in Ucraina in Polonia e altrove.  È così importante dargli un nome o dei nomi precisi? Credo di sì. Parecchie difficoltà nel confuso dibattito pubblico derivano proprio dalla approssimazione dei termini usati e dei significati  spesso immaginari che a tali termini attribuiamo. In  molti di questi fenomeni la matrice fascista di fondo è abbastanza evidente. Ma le distinzioni e le sfumature di significato tra i vari raggruppamenti politici non sono trascurabili, perché  la  loro maggiore o minor  continuità  con il fascismo storico ha il suo peso. Ed esse mi paiono importanti soprattutto nel caso del populismo.

Vercelli riconduce le molteplici organizzazioni e sigle dell’«arcipelago nero» in Italia ad una unità. E considera «omologhi o comunque intercambiabili» termini come destra radicale, destra eversiva, estrema destra, movimento nazionalrivoluzionario  e neofascismo.  Solo quest’ultimo – precisa – ha caratteri molto definiti «poiché indica uno specifico pensiero, fortemente radicato nel lascito del Ventennio fascista». Ciò che accomuna tutte le formazioni  è, dunque,  il rifiuto della democrazia («la dimensione democratica e costituzionale del regime politico del nostro Paese»)  e  la volontà di rivoluzionare o di sovvertire il «sistema» democratico (o “l’esistente”) con  «il ricorso alla forza» (o alla violenza), che è «nel neofascismo un aspetto ineludibile». Ma – mi chiedo – il rifiuto o la messa in discussione di *questa* democrazia  non fu anche dei  passati movimenti del ’68-’69? Come la mettiamo, allora, con   esperienze di tutt’altro segno culturale e politico, che pure hanno fatto  o dovuto fare ricorso alla forza o alla violenza? E penso soprattutto alla Resistenza.

In un’intervista e un saggio di Enzo Traverso ho trovato che gli odierni fenomeni di radicalizzazione della destra vengono indicati col termine di «postfascismo» invece che di «neofascismo» come fa Vercelli.  E la cosa mi ha incuriosito. Quali sono le differenze o le diverse sfumature culturali, politiche o storiche  tra i due termini?  Intuisco che forse Traverso accentui la discontinuità dalla matrice fascista e  Vercelli la continuità.  E  mi pare pure di capire che nomi diversi abbiano a che fare con letture in parte diverse del contesto storico mondiale. Ad esempio, per Traverso  «il post-fascismo»   è una conseguenza del fallimento delle rivoluzioni del XX secolo e dell’eclissi del movimento operaio.  Questione che a me pare Vercelli non tocchi. In più  Traverso sottolinea che tra il fascismo e il post-fascismo non c’è solamente la disfatta storica del comunismo,  ma c’è anche la decolonizzazione. Ed anche questo aspetto non mi pare presente almeno in questa riflessione di Vercelli. Dei chiarimenti, dunque, di queste vicinanze e distanze tra due modi diversi di nominare lo stesso fenomeno mi paiono necessari.

5.  IL POPULISMO È DI DESTRA?

Ulteriori necessari chiarimenti  chiederei quando si parla di populismo o di populismi. Scrive Vercelli a pag. 180: «Il pensare la destra radicale soltanto come area politica […] induce a ricondurne i contorni e il perimetro all’interno dell’universo neofascista e, per estensione, a quello neonazista. C’è molto di ciò, in effetti. Ma la nozione medesima di destra radicale, con le trasformazioni intervenute nel campo della politica, è decisamente più composita. Si pensi, per esempio, alla pervasività del fenomeno populista, alla sua grande rilevanza nell’età che stiamo vivendo, per molti aspetti alla sua irriducibilità rispetto a categorie, concetti e pensieri più rodati. Nel populismo, infatti, precipitano esperienze concrete e  significati ideologici tra di loro anche conflittuali, tenuti insieme dal rimando al “popolo”, come entità dotata di sovranità assoluta, diretta, immediata, capace di esprimere una volontà massificata, unificata, onnisciente, unidirezionale, a tratti quasi mistica».

Ora è vero che le destre radicali – cito ancora da Traverso – convergono in un forma di nazional-populismo, invocano  un risveglio nazionale e incitano  il popolo  a sbarazzarsi delle élite corrotte, asservite alla globalizzazione, colpevoli di aver svenduto gli interessi nazionali a favore dell’Europa monetaria, responsabili delle politiche che, da decenni, hanno trasformato le nazioni europee in spazio aperto a un’immigrazione incontrollata e alla colonizzazione musulmana.  E riprendono rinnovandolo il vecchio mito del “buon” popolo contro i potenti. Ma  tutta l’area, che genericamente vien definita populista, può essere “di fatto” o sbrigativamente classificata di destra o “fascista”?  Ed è  destinata inevitabilmente a finire nelle braccia della destra o della destra radicale? Cosa ne pensa Vercelli?

6. QUALE PREVEDIBILE FUTURO

Anche se gli storici non sono tenuti a dare ricette per il futuro, alcune ipotesi sono state affacciate.

Vercelli a pag. 183 di «Neofascismi» scrive:«oggi più che mai, si ha a che fare con una destra radicale che è passata da posizioni di mera  restaurazione o conservazione ( ovvero come si sarebbe detto un tempo, di collocazione «reazionaria») a soggetto in costante movimento, che ambisce a mobilitare una parte delle collettività non solo sul piano politico, ma anche e soprattutto sociale».  E, a pag. 178, la destra radicale «sussiste  senz’altro come arcipelago di gruppi variamente articolati, sospesi tra l’essere partito politico, aggregazioni continuative a sfondo sociale, movimenti più o meno effimeri». Che potrebbe accadere se arrivasse a farsi partito? E se, nel frattempo, l’Unione Europea implodesse?   Avremmo  il fascismo del XXI secolo? Che ne pensa Vercelli?

Note
[1]

Emilio Gentile:
« Non credo che abbia alcun senso, né storico, né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia, in Europa o nel resto del mondo».  Che respinge – almeno nell’immediato – ogni forma di ritorno anche «sotto altre spoglie» e considera questi discorsi o sentimenti semplice occultamento di «altre minacce, queste veramente reali che incombono sulla democrazia»: « proprio in questo voler scoprire i fascisti d’oggi, che non sono come i fascisti dell’epoca mussoliniana e non sono neppure quelli che oggi si definiscono fascisti, ma sono persone e movimenti che negano di essere tali, consiste l’ambiguità e la vaghezza dell’allarme per il rischio incombente sulla democrazia, di un ritorno del fascismo sotto altre spoglie, che ritengo non esista realmente. Esiste invece effettivamente il rischio che, a furia di vedere fascisti dappertutto, si distolga l’attenzione da altre minacce, queste veramente reali, che incombono sulla democrazia e che nulla hanno a che fare con il fascismo, sotto qualsiasi veste lo si voglia immaginare» .


Enzo Traverso:

« Sapere se le nuove destre radicali coincidono con un “idealtipo”fascista – convergenze di nazionalismo, razzismo e antisemitismo, opposizione alla democrazia, uso della violenza, mobilitazione di massa e leadership carismatica – è un esercizio piuttosto sterile.»

«Un continente che ha conosciuto settant’anni di pace quasi ininterrotta non può esprimere la stessa politica “brutalizzata” che ha colpito l’Italia, la Germania o la Spagna negli anni Venti e Trenta. Cercare dei Filippo Tommaso Marinetti, degli Ernst Jünger e dei Carl Schmitt – esteti della violenza e teorici dello Stato totale – nell’Europa di oggi, sarebbe […]anacronistico e vano»

Massimo Cacciari:

“Santo cielo, no. Il fascismo fu una grande tragedia. Qui siamo alla farsa, queste persone non sono in grado di produrre grandi tragedia”.

8 pensieri su “Introduzione a “Neofascismi” di Claudio Vercelli

  1. Non disponendo di una registrazione, quello che segue è un semplice e forse schematico riassunto di servizio basato sui mie appunti dei temi principali toccati dallo storico Claudio Vercelli durante l’incontro di presentazione del suo libro “Neofascismi”, organizzato ieri 5 aprile 2019 da “Officina delle Arti” presso la sala dell’ ex Consiglio di Zona C in via Pascoli 29 a Cologno Monzese. [E. A.]

    1. NOVECENTO E RITORNO DEL FASCISMO

    Il Novecento con i suoi problemi si è esaurito. Anche il fascismo storico è un capitolo di storia chiuso. Esso fu antiliberale. Non puntò sugli individui ma sulla collettività. E fu capace di nazionalizzare le masse, presentandosi come loro protettore. Esse rinunciavano alla rivendicazione delle libertà individuali e accettavano di essere subalterne ma tutelate. Nello stesso tempo i conflitti d’interesse tra classi o gruppi sociali venivano trasformati in conflitti etnici (si pensi alle legge razziali). La “rivoluzione fascista” fu realizzata con un ricorso alla violenza più brutale, del tutto imparagonabile a quella che pur caratterizzò gli anni Settanta in Italia. Secondo Vercelli, oggi viviamo in società in cui esiste una minore propensione alla violenza fisica.

    Altra differenza. Nel primo Novecento il fortissimo conflitto sociale spingeva ad una forte identificazione dei singoli e dei gruppi sociali con il partito che li rappresentava. Oggi, invece, siamo di fronte ad una crisi della coesione sociale. Siamo in una società “postdemocratica”, nella quale la partecipazione politica è bassissima. Non si può neppure più parlare di una volontà di colonizzare, fortissima allora. La situazione è caratterizzata proprio dall’indebolimento o dall’assenza di conflitto sociale. I gruppi sociali sono sempre più incomunicanti tra loro. La società odierna è attraversata da varie paure: quella di essere colonizzati (ad es. dagli “invasori” islamici); quella di essere retrocessi, perdendo quel benessere (poco o tanto) conquistato. Prevalgono, dunque, le angosce per la propria sorte. Si fa fatica a capire il cambiamento in atto della realtà. Esso sfugge. Non appare decifrabille. Prevale soprattutto l’impressione che il proprio mondo si vada sgretolando. E. per diminuire l’angoscia che ne deriva e che è individuale e allo stesso tempo sociale e diffusa, si sente il bisogno di rendere più ordinato il territorio in cui si vive. È su queste paure che fanno leva le destre marginali come Casa Pound, capaci anche di interfacciarsi con le destre di governo. Si consideri anche che, mentre le nostre società sono in crisi e invecchiate, nel mondo altre società (Cina e alcuni stati africani come il Niger ad es.) sono in fase emergente e di sviluppo..

    2. RADICALISMO DI DESTRA E ASSENZA DELLA SINISTRA

    Col passaggio dalla società fordista alla società postfordista, grazie all’informatizzazione e allo stravolgimento che essa ha reso possibile nel mondo del lavoro, siamo entrati in una nuova epoca. Di fronte a questo cambiamento in corso certe destre dimostrano una capacità camaleontica di adattamento e il radicalismo di destra gioca le sue carte soprattutto nel controllo dei territori marginali (le periferie). Qui, a causa della crisi mal gestita dai governi, il disagio sociale e spesso la rabbia degli impoveriti cresce. Col rischio che al conflitto degli interessi materiali, che una volta era guidato e rappresentato in una certa misura da partiti e sindacati, si sostituisca nuovamente il conflitto etnico. (Si veda la demonizzazione degli immigrati, dei rom, che proprio nelle periferie già in difficoltà vengono relegati).

    La sinistra (o le frammentate sinistre) è, invece, come ammutolita, si disperde, balbetta. Dimostra un’evidente incapacità di adattamento o di cambiamento della propria lettura del mondo. Non riesce a farsi un’idea della realtà. Né afferra la pesantezza della riduzione dello spazio vitale che certi strati sociali impoveriti stanno subendo. Troppo spesso si abbandona alle prediche.

    Per Vercelli bisogna prendere sul serio i «neofascismi». Bisogna che vengano riconosciute come forme di sapere, evitando l’errore di giudicarli come semplici forme più o meno becere d’ignoranza. Sono culture (e in parte anche sottoculture) che comunque a chi vi aderisce offrono un orizzonte di senso, una ragione d’esistere. E nascono da esperienze reali. La realtà urbana – ha detto esemplificando – se la giri nella tua auto la percepisci diversamente da chi si muove (o è costretto a muoversi quotidianamente) su un mezzo pubblico affollato.

    Prendere sul serio i «neofascismi» significa anche che non è possibile sbarazzarsene con il ricorso alla magistratura. Leggi contro l’apologia di fascismo già ci sono (la legge Mancino ad es.) ma risultano inefficaci o poco applicate da una magistratura che – non va dimenticato – ha nella sua storia molte tracce della «matrice fascista» conservatasi nelle istituzioni e nell’organizzazione della società italiana. Il ricorso alla penalizzazione, comunque, trascurerebbe proprio la dimensione sociale della crisi della democrazia, sulla quale i neofascismi oggi riescono a far leva mentre la sinistra non ci riesce più.

    3. POSSIBILI PROSPETTIVE PER IL FUTURO

    Vercelli dubita che si vada verso una riunificazione in forma di partito dell’ eterogeneo «arcipelago» delle destre radicali. A suo parere il destino delle nostre società va verso l’americanizzazione. E dalla crisi dello «statuto del lavoro», dalla sua diminuzione inarrestabile a causa dell’introduzione di sempre nuove tecnologie, si potrà uscire solo sganciando il reddito dal lavoro. Siamo in una società che produce sempre più ricchezza ma non la redistribuisce. Essa viene accumulata nelle mani di pochi o pochissimi. E, dunque, si deve puntare sulla redistribuzione della ricchezza. Ci dovrà essere un diritto alla sua redistribuzione. Quindi basta battere sempre o soltanto sui diritti civili delle minoranze o delle “vittime”, perdendo di vista, come ha fatto la sinistra, i diritti sociali e abbandonando le lotte per il diritto all’uguaglianza. Si deve tornare a rivendicare i diritti anche con la forza. Essi non sono un favore o un semplice risarcimento per sofferenze subite.

    Oggi la crisi degli Stati nazionali è fiscale. Il capitalismo odierno è talmente mobile da eludere ogni sovranità fiscale, tuttavia va ricordato che le grandi rivoluzioni borghesi – la francese e l’americana – scoppiarono proprio sulla questione fiscale. Vercelli prevede che essa tornerà al centro del dibattito politico.

    Bisogna ripartire da un progetto universalista. Bisogna chiedersi cos’è il potere oggi nelle società “posfasciste” e “postdemocratiche”. Esso è un potere diverso dal passato e non certo sottoposto al controllo democratico.

    1. Peccato non poter ascoltare la registrazione dell’incontro perchè, nella esposizione della posizione di Vercelli, mi pare di riscontrare alcuni elementi di interna contraddittorietà:
      1. se Vercelli dice che si deve puntare sulla distribuzione della ricchezza, rivendicando i diritti anche con la forza, non è proprio quello che i gruppi di destra estrema avanzano? Con la forza dei loro sgangherati interventi non chiedono che la distribuzione tocchi anche gli emarginati nostrani?
      2. e se la crisi degli stati nazionali è fiscale, non è l’indirizzo sovranista e protezionista rivolto a mantenere e ricondurre in casa le risorse fiscali?
      Quanto alle ultime tre righe, “bisogna ripartire da un progetto universalista. Bisogna chiedersi cos’è il potere oggi nelle società “posfasciste” e “postdemocratiche”. Esso è un potere diverso dal passato e non certo sottoposto al controllo democratico” purtroppo, detto così non è più di un truismo. Che intendeva dire, se intendeva dire qualcosa di concreto come progetto universalista, Vercelli?

      1. L’ultimo punto (POSSIBILI PROSPETTIVE PER IL FUTURO) è stato solo sfiorato. Anche se ci fosse stata la registrazione, gli accenni sarebbero risultati insufficienti.
        Comunque, Vercelli è su Facebook, vi pubblica spesso articoli interessanti e, se si vuole, lo si può contattare direttamente.

  2. Condivido gran parte delle riflessioni. Il potere continuerà a mio parere a chiamarsi potere democratico, come negli USA, perché gli viene lasciato ampio margine di visibilità sul piano dei diritti civili. In questo gli USA sono avanti e noi ci allineeremo (A Tucson ci sono per strada uffici e negozi non solo dedicati a etnie diverse ma anche ad esempio agli LGBT ecc.) man mano che il post-fascismo si impossessa saldamente del potere politico e fa egemonia eliminando però le punte più evidentemente incompatibili coi diritti civili. Più complessa ancora credo sia la faccenda del lavoro. Ufficialmente sembra che il lavoro abbia perso la vecchia importanza ‘civile’ come forza identitaria e di reddito ma la quantità del lavoro sommerso tende ad aumentare (vedi ad es. il fatto che a chiedere il reddito di cittadinanza al Sud siano in pochi).

  3. SEGNALAZIONE

    Sempre di Claudio Vercelli aggiungo questi due vecchi suoi testi che puntualizzano due temi sfiorati nella serata del 5 aprile:

    1.
    ’estrema destra postindustriale
    http://moked.it/blog/2018/02/18/lestrema-destra-postindustriale/
    Tre sono quindi i fattori di maggiore tensione, allo stato attuale delle cose: il declino della democrazia partecipativa, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti continentali delle immigrazioni. Tutti e tre segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che ne accompagnano l’evoluzione. Dall’insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto sociale del lavoro, oramai retrocesso a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo politico sta traendo un significativo giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai da una parte della stessa sinistra (ripiegata sul mero riconoscimento dei diritti civili, disgiunti da una riflessione sugli indirizzi di fondo della società), declinandola però sul versante delle appartenenze etno-razziali. E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il volto del «mondialismo» giudaico (o «sionista»). Non è una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica come fattore di aggregazione e di proselitismo, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi. Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di una società altrimenti in via di veloce invecchiamento, il recupero in chiave fobica di due temi quali l’omosessualità (intesa come manifestazione di perversione della «natura umana») e l’immigrazione (segno di contaminazione) diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti. Il neofascismo si presenta quindi, nella sua essenzialità, come un discorso sulla necessità di rimoralizzare una società che avrebbe perso i suoi autentici «valori»: in campo pubblico, dove tutto sarebbe malaffare, latrocinio, pandemonio, confusione e distruzione; in campo privato, dove sarebbero prevalse le spinte “contro-natura”, indirizzate a disgregare, attraverso le politiche dei diritti civili, la “naturale gerarchia” tra aristocrazie morali e subalterni. Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che c’è e che avrebbe fallito: la democrazia sociale e liberale. Di fatto, professando queste posizioni, ambisce a portare a compimento lo smantellamento brutale dello Stato dei diritti per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia, rimanendo in uno condizione di mobilitazione spasmodica. Una società che si senta perennemente sotto pressione, risulterà comunque meno disponibile a tutelare le proprie libertà, semmai negoziandole e poi cedendole a favore di quanti dovessero presentarsi come coloro che la sanno tutelare, ossia proteggere, dalla minaccia pervasiva e incombente del rischio di un’ecatombe collettiva. In tale modo, il radicalismo di destra, si candida a rappresentare e a governare parti delle nostre società abbandonate a sé. Ancora una volta in un gioco di specularità con una qualche parte più rispettabile della comunità politica, di cui spesso si rivela essere un imbarazzante ma necessario alter ego, svolgendone il «dirty job» di dire ciò che altrimenti sarebbe interdetto dall’arena pubblica. Consapevole che la variabile del tempo potrebbe risultare a suo favore. Non torna il fascismo storico ma senz’altro declinano la democrazia sociale e il pluralismo. È questo il vero problema.
    (5/fine)

    2.
    SOVRANISMO
    http://www.doppiozero.com/materiali/sovrano-senza-scettro
    • CHI SIAMO
    Sovrano senza scettro
    Claudio Vercelli

    Afferma l’enciclopedia Larousse che il sovranismo è «la dottrina dei difensori dell’esercizio della sovranità nazionale in Europa». La sua radice sarebbe essenzialmente difensiva (quindi negativa, perché derivata per sottrazione), intendendo impedire il trasferimento di poteri, funzioni, saperi e competenze dallo Stato nazionale ad un organismo ad esso sovraordinato, federale o internazionale. In tale processo, infatti, il sovranismo identifica l’indebolimento e la disintegrazione dell’identità storica di una collettività, insieme allo svuotamento progressivo del principio democratico, soprattutto laddove esso invece istituisce e vivifica un nesso di rappresentanza diretta tra cittadini e decisori politici. La risposta alla globalizzazione senza confini, quand’essa si fa spazio totale di relazioni e di scambio, al medesimo tempo assolutista e autosufficiente, riposerebbe pertanto nella ricostruzione di saldi confini nazionali, a presidio di un territorio che è descritto come altrimenti assediato ed espropriato. Assediato dal più potente esercito che ci sia, quello della merce, ed espropriato non solo di capacità decisionale ma anche delle funzioni di rappresentanza degli interessi e delle identità territoriali.

    Il movente collettivo che sta all’origine del ritorno della rivendicazione di una sovranità che si vorrebbe tanto «popolare» quando immediata, ossia diretta, è quindi il timore di decadere nell’insignificanza. È la vera condizione dettata dall’angoscia per il «sempre uguale», quest’ultima cifra profonda dei processi di integrazione verticale che si accompagnano alla globalizzazione in atto. La tematizzazione per la «minaccia» che sarebbe costituita da flussi migratori, infatti, non ruota intorno alla diversità di cui i migranti stessi sono depositari, e quindi portatori, bensì all’attentato che costoro effettuerebbero nei confronti della coesione dei paesi ospiti: cercando di diventare “uguali” a noi, vengono per carpirci un diritto incedibile e indivisibile, mettendo a repentaglio l’omogeneità sociale. Non è pertanto l’altrui rivendicazione di alterità ma il timore per l’alterazione alla propria fragile soggettività a fomentare i peggiori pensieri di chi assiste al cambiamento comprendendo di non esserne protagonista ma solo destinatario.

    Il razzismo contemporaneo, nel suo dispositivo differenzialista (ognuno stia a casa sua con le caratteristiche che gli sono proprie) è il cuore pulsante del sovranismo. Non si teme il diverso, si ha semmai paura di chi vorrebbe trasformarsi in omologo, sottraendo spazio fisico e simbolico, risorse materiali e cittadinanza sociale, ai “già inclusi”. Questo ipotizza la cosiddetta «teoria della sostituzione»: vengono da “noi” non solo per “prenderci il posto” ma soprattutto per essere come “noi”. Ciò che si vuole recintare, quindi, è se stessi, non gli altri. Poiché ci si sente scontornati. Urla all’«identità», alle «tradizioni», al «buon, vecchio passato» (ma adesso anche al decantato «territorio», obiettivo di una retorica del discorso pubblico di cui sono cantori, nel medesimo tempo, i Farinetti e i Salvini) chi sa, in spirito suo, di esserne sprovvisto. I bonzi del rossobrunismo si rallegrano di questa denuncia, identificando nel rifiuto delle migrazioni contaminanti la premessa per rilanciare un soggetto storico altrimenti assente, la classe antagonista. Specularmente, le vestali del liberismo umanitario, molto diffuse in una sinistra che ha perso i suoi referenti sociali (così come l’idea stessa che la società non sia solo la somma del già esistente e la realtà non si riduca al già dato), si trincerano nel fortilizio della circolazione – delle merci, del denaro, degli esseri umani – intendendolo come l’unico indice possibile dell’evoluzione delle relazioni sociali.

  4. …”Oggi viviamo in una società in cui esiste una minore propensione alla violenza” non so se questa affermazione sia del tutto vera, dipende dal punto di vista che si considera…il cosidetto “popolo”, di questi tempi, mi pare che ne subisca talmente tanta da rimanerne azzerato: vuoi schiacciato dagli interessi del capitale, vuoi blandito dalle sirene della propaganda, vuoi confuso da discorsi mistificanti…

    1. Credo che Vercelli si riferisca alla quantità e brutalità della violenza fisica esercitata dagli squadristi fascisti, gran parte dei quali venivano dalle trincee della Prima guerra mondiale. Le forme odierne di violenza sono effettivamente – lo credo io pure – imparagonabili a quelle.

      P.s.
      Aggiungo che sulla sua bacheca di FB ha annunciato la preparazione di un libro proprio su questo tema:

      Claudio Vercelli
      7 aprile alle ore 10:50 ·
      Sto scrivendo un libro sul 1919, che uscirà entro l’autunno. Ritornare sui propri passi, rivedendo cose già note ma non per questo adeguatamente ricordate, è sempre molto utile. Tra queste: il tasso di violenza che attraversava le società europee nel dopoguerra (per noi oggi quasi inimmaginabile); l’europeismo di Kalergi (altro che piano di “sostituzione etnica”, una menzogna pari ai Protocolli di Sion); l’opportunismo e il camaleontismo dei protofascisti – li chiamo così – spesso provenienti dalle file della sinistra; la decadenza di un sistema di potere, quello liberale, completamente incapace di fare fronte ai processi di ingresso nell’agone politico delle “masse”; gli echi di bestialità, brutalità e ferocia che la Grande guerra aveva consegnato come torbido e mefitico lascito all’Europa intera e quant’altro

  5. si’, sicuramente era una violenza fisica senza pari quella degli squadristi, ma proprio il sangue che scorreva portava alla presa di coscienza e alla ribellione, oggi la violenza dall’alto è come stemperata nel nulla, sorniona e silenziosa, un po’ come le armi nucleari distribuite in ogni continente che sembrano addormentate, cosi’ è difficile trovare la convinzione, l’unità e la forza per difendersi…appunto un progetto universalistico

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