Stabat mater/Morte della casalinga oscura

Poeterie

Chi parla in questa poesia che scrissi nel 2007? Una madre del Sud. Si rivolge al figlio immigrato, che ha dovuto portarla a morire in mezzo ai «muri di nebbie» di una città del Nord invece che «sulla spiaggia/vicino al mare». E placa il senso di colpa di lui: vada «per vie più soleggiate» e la sua «ombra» di madre lo seguirà sempre.

La leggerò domani sera, mercoledì 17 aprile, presso la Pieve di San Giuliano – piazza San Matteo a Cologno Monzese – nell’ambito della iniziativa “Stabat Mater” organizzata dalla Officina delle Arti.[E. A.]

MORTE DELLA CASALINGA OSCURA
di Ennio Abate


Figlie, hai raggione.
Nì ncoppa spiaggia
vicin’o mare,
nì dint’o giardine
chine r’ombre addurose
e soreme Assuntine;
e manche dint’a stanze e liette
cue mobile e mogane,
ca me facette frateme Vicienze
o falegname,
me putive purtà
a murì.
 
O munne e ‘na vote
nun ‘ngera chiù;
e o cirvielle mie perse
nu vereve
cae palazze re ricche
s’erene mangiate
e spiaggie,
e geranie russe
ro giardine
erene bruciati
e re ccose e casa noste
parient’e mariuole,
accuncianne e arraffane,
s’erene regniute e borse.
 
Sule dint’a chella
pianura mai viste,
addo te n’ire fuiute,
dint’a  ‘na città manicomie,
fatte ra fatiche e chill’e
ca po’ ngi finiscene chiuse,
miezz’a chilli muri
e nebbie,
me putive purtà.
 
E ie là
te puteve lascià
sule st’ombra mia,
ca mò cresce
e mò se fa piccirella;
ma te vene arrete
t’e chiama
e t’e rice:
a vite ca te riett’e
puortale pe vvie
chiù chiene e sole,
ma nun te scurdà
l’ombre,
l’ombre ra morte mie.

Figlio, hai ragione. / Né sulla spiaggia / vicino al mare, / né nel giardino / pieno d’ombre odorose / di mia sorella Assunta; / e neppure nella stanza da letto / coi mobili di mogano, / che mi costruì mio fratello Vincenzo / il falegname, / potevi portarmi / a morire.
 
Il mondo di una volta / non c’era più; / e la mia mente persa / non s’accorgeva / che i palazzi dei ricchi / avevano invaso / le spiagge, / [che] i rossi gerani / del giardino /erano bruciati / e [che] delle cose di casa nostra / parenti avidi / riordinando e arraffando / s’erano riempite le borse.
 
Soltanto in quella / pianura sconosciuta, /dove eri fuggito, / in mezzo a una città manicomio, / costruita con la fatica di quelli / che poi ci finiscono prigionieri, / in mezzo a  quei muri di nebbie, / potevi portarmi.
 
E io là / potevo lasciarti soltanto questa mia ombra / che ora s’espande / ed ora diventa minima; /  ma ti segue / ti chiama / e ti dice: / la vita che ti  ho dato  / portala per vie più soleggiate, / ma non dimenticare / l’ombra, / l’ombra della mia morte.
 
 
 


6 pensieri su “Stabat mater/Morte della casalinga oscura

  1. Poesia bellissima, in lingua materna. C’è opposizione tra paesaggi (quello di casa nostra e quello della città manicomio); c’è violazione di intimità (dei parenti arraffoni), c’è fatica e ci sono imprigionamenti (o auto-imprigionamenti); ma c’è soprattutto poesia di un’ ombra, “che ora si espande / ed ora diventa minima”, un’ombra luttuosa, malinconica, indimenticabile che dà ragione al figlio augurandogli una vita per vie più soleggiate. Un sole malinconico, forse.

  2. Bravissimo Ennio.Sentimento e realismo nel ricordo commosso
    di una persona cara e del suo e tuo sofferto sradicamento.

    1. Sradicamento… Radici… Sì, sì…A patto di non esagerare con le “radici”…

      SEGNALAZIONE

      Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione
      Conversazioni di Claudio Magris con Édouard Glissant

      1.
      Le radici — ha scritto Édouard Glissant — non hanno da sprofondarsi nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pian¬ta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani.

      2.
      — L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra. La sorgente del tuo Danubio è diversa da quella del Mississippi, di un piccolo ruscello o della mia Lézarde (il fiume della Martinica cui si intitola un suo romanzo), ma acquista il suo senso nel rimando ad esse, nell’arricchimento che dà loro e che ne riceve. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo.

      3.
      Magris — Infatti tu hai celebrato, come dice il titolo di un saggio, la Poetica del diverso , ma di un diverso che non si isola, non alza il ponte levatoio né si trincera dietro una muraglia cinese per escludere gli altri, «i barbari»…

      Glissant — L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; quella cinese è stata costruita non solo per impedire agli invasori di entrare, ma anche per impedire ai cinesi di uscire, come dice quella mirabile storia del generale cinese che sorveglia la frontiera e, vedendo un’apertura fra due alte montagne lontane, dice ai suoi ufficiali: «là c’è il mondo e noi non ci andiamo». Chiudersi in se stessi è terribile quanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo.

      4.
      Glissant — Questa memoria è stata spesso oscurata per tanti motivi: difficoltà di docu¬mentazione, rinuncia, vergogna, spirito di rivendicazione, e ora si sta cercando di recuperarla. Ma senza le ambiguità e le regressioni spesso connesse alle richieste di «pentimento». Il discendente di schiavi che ingiunge al discendente di schiavisti di chiedere perdono, con tale richiesta regredisce e si fa piccolo, si pone in una condizione di minorità. Altrettanto piccino è il discendente di schiavisti che rifiuta di prendere coscienza della sua storia, mentre egli cresce interiormente se, considerandosi giustamente non responsabile di ciò che hanno fatto i suoi antenati, assume consapevolezza di quella barbarie.

      5.
      Glissant — Faulkner, uno dei grandissimi del secolo scorso, sapeva di appartenere a una casta o classe di piantatori bianchi del Sud, di cui condivideva i pregiudizi, fortemente radica¬ti. Ma ha avuto il genio di capire che quella classe — la sua — portava in sé la perdizione ossia la schiavitù dei neri, peccato originale e dannazione del suo mondo. E ne ha fatto un simbolo universale, con la sua straordinaria forza epica e con quella scrittura che io chiamo la rivelazione differita, in cui l’esistenza, la verità, la morte si annunciano per venire rinviati sino alla fine. Così un uomo legato al vecchio Sud ha scritto la più grande epopea della schiavitù dei neri e ne ha fatto una parabola universale dell’umano.

      6.
      Glissant — Se Joyce ha scritto con l’ Ulysses un epos dell’individuazione, la letteratura del «Sud» (un sud che può essere ovunque) narra piuttosto la storia di Ulisse che diventa Nessuno, e su questa strada incontra l’epica, la totalità, la coralità — il Tutto-Mondo, come dico io. Ma questa autentica epica viene spesso contraffatta da tanta falsa letteratura, anche di successo, che simula e dunque falsifica la calda vita, come se essa fosse facile e a portata di mano…

      (https://www.corriere.it/cultura/09_ottobre_01/magris-dialoghi-glissant_c3667c46-ae5c-11de-b62d-00144f02aabc.shtml)

  3. SEGNALAZIONE

    “Poetica della relazione” del martinicano Edouard Glissant. Un’erranza creola
    di Alessandro Corio
    «Alias de Il Manifesto»
    07 luglio 2007

    Stralcio:

    il poeta martinicano – con un vero balzo in avanti oltre le politiche del riconoscimento della diversità, facilmente manipolabili dagli apologeti del multiculturalismo relativista e spesso prossime a nuove forme di «razzismo postmoderno» -rivendica strenuamente il «diritto all’opacità», ossia a una «divergenza esultante delle umanità» e a una «singolarità non riducibile» che non si racchiuda in una sorta di autismo identitario ma che fondi le basi di un divenire di scambio continuo con l’Altro: «La trasparenza non appare più come il fondo dello specchio in cui l’umanità occidentale rifletteva il mondo a sua immagine; in fondo allo specchio c’è ora opacità, tutto un limo depositato dai popoli, limo fertile ma, a dire il vero, incerto, inesplorato, ancor oggi molto spesso negato o offuscato, di cui non possiamo non vivere la presenza insistente». Ed è proprio la presenza «insistente» di ciò che Lévinas ha definito come «la trascendenza del volto dell’altro» che rende possibile quel fenomeno carico di imprevedibilità che è la creolizzazione.
    La creolizzazione delle culture nella totalità-mondo non si basa dunque sull’appartenenza a un territorio, bensì sulla conflittualità e l’imprevedibilità di risultanti della Relazione, sull’erranza e sul multilinguismo. Scrivere oggi, afferma Glissant, significa irrevocabilmente scrivere «alla presenza di tutte le lingue del mondo», anche quando non si parla che la propria. Questa poetica di apertura non nasconde gli elementi più problematici della globalizzazione. Lo scandaglio lirico dell’abisso del bateau négrier da cui questa poetica sorge, si rovescia nel capitolo iniziale in un’eco baudelairiana che si fa metafora viva dell’intera poetica di Glissant «Salve, antico Oceano! Preservi sulle tu creste la sorda imbarcazione delle nostre nascite; i tuoi abissi sono i nostro stesso inconscio, solcati d fuggitive memorie. Poi disegni queste nuove rive, noi vi ancoriamo le piaghe striate di catrame, le bocca arrossate e i clamori taciuti. (…) Ci conosciamo, folla, nell’ignoto chi non atterrisce. Gridiamo il grido di poesia. Le nostre barche sono aperte, le navighiamo per tutti».

  4. Insisto a segnalare vecchi articoli su Glissant, convinto che ricorrendo alla sua visione si possa capire meglio l’invito/augurio della madre che parla in questa mia poesia ad andare «per vie più soleggiate». [ E. A.]

    SEGNALAZIONE

    OGNI ATTO POETICO È CONOSCENZA DEL REALE: ADIEU GLISSANT
    di Giuliano Battiston

    http://www.minimaetmoralia.it/wp/ogni-atto-poetico-e-conoscenza-del-reale-adieu-glissant/

    1.
    Rinunciando all’idea di un ordine sovrano che riconduca una volta per tutte ogni cosa ad unità, Glissant ha elaborato – nutrendosi delle riflessioni di Felix Guattari e Gilles Deleuze in Millepiani – una sua versione della «identità rizomatica». Mentre Deleuze e Guattari «hanno utilizzato questa immagine del rizoma come radice ‘moltiplicata’, ‘proliferante’ e l’hanno opposta alla dimensione esclusiva e totalizzante della radice unica, applicando questa immagine al modo di operare del pensiero, io l’ho usata per offrire una definizione dell’identità» – ha spiegato nel corso di un nostro incontro. L’identità, per Glissant, era dunque costitutivamente una relazione, un’apertura all’altro, un luogo di scambio tra il «medesimo» e il «diverso» in cui ciò che conta è il nodo, la maniera in cui si entra in contatto con gli altri. Non, dunque, un’identità evanescente, un’abdicazione del soggetto, perché pur respingendo l’idea di una radice totalitaria Glissant ne rivendicava comunque il radicamento nel luogo, vera condizione per l’apertura al «caos-mondo», ovvero «lo choc, l’intreccio, le repulsioni, le attrazioni, le connivenze, le opposizioni, i conflitti tra le culture dei popoli, nella totalità-mondo contemporanea». Idee che trasferite sul piano compositivo si sono tradotte nella rinuncia all’unicità formale in favore della necessità barocca di inventare forme multiple e della «volontà di disfare i generi, questa divisione che è stata così utile, così fruttuosa nel caso della letteratura occidentale». Sul crinale di una nuova storica fase di passaggio, «non più dall’orale allo scritto, ma dallo scritto all’orale», questa divisione risulta infatti inadeguata, e oggi «possiamo scrivere poesie che siano saggi, saggi che siano romanzi, e romanzi che siano poesie» (come si vede, per esempio, in Sartorius, Tutto-Mondo, Edizioni lavoro 2009, vero e proprio «romanzo disintegrato», ambientato in Martinica).

    2.
    la questione sembra ruotare attorno alla necessità di vivere e pensare diversamente la relazione tra quella entità insuperabile che è il «luogo» e ciò che definisce come «tout-monde». Fatta questa premessa, possiamo intendere la creolizzazione anche come un nuovo modo di articolare questa relazione, aprendo il luogo, senza annullarlo?

    Quello che sostengo è che non possiamo ignorare il luogo, perché non viviamo in una condizione sospesa. Quando dico che il luogo è insuperabile, intendo dire che non possiamo eluderlo, né possiamo chiuderci al suo interno, perché il luogo diventa significativo soltanto nel momento in cui viene messo in relazione con altri luoghi. La vocazione del luogo, infatti, è di provocare un contatto, un rapporto, e quindi di entrare in relazione con tutti i luoghi del mondo: in altri termini, con quello che definisco tout-monde. Se nel mondo tradizionale esistevano i popoli sedentari e quelli in movimento, quelli che scoprivano e quelli che venivano scoperti, il tout-monde è un mondo dove entriamo insieme, senza alcuna distinzione. Quanto alla creolizzazione, essa è il modo di funzionamento di questo mondo: quella relazione che, permettendo il mescolarsi delle identità e delle qualità, produce risultati imprevedibili. Sta a noi fare in modo che questa imprevedibilità sia orientata verso l’accettazione dell’altro piuttosto che verso il suo rifiuto.

    3.
    Adottando la distinzione tra radice e rizoma lei ha proposto anche una originale «classificazione delle culture», distinguendo tra quelle ataviche e quelle composite. Quali sono gli elementi distintivi di questi due tipi di culture?
    Le culture ataviche considerano l’origine del mondo come mitica e leggendaria. Immaginano di essere fondate su una Genesi, sufficientemente assoluta da determinare la fede nella forza della filiazione. Alla credenza nella filiazione, un aspetto assolutamente centrale nelle culture ataviche, si accompagna un sentimento totale di legittimità, attraverso il quale la cultura passa di generazione in generazione, su un determinato territorio. Le culture composite, invece, nascono dalla storia: la nostra genesi, per esempio, sta nel ventre del battello dei negrieri. Pur essendo stati nel corso del tempo anche straordinariamente fecondi, i sistemi di legittimità e filiazione oggi costituiscono un ostacolo all’incontro dei popoli. E oggi per combattere l’intolleranza, i massacri e i genocidi occorre rinunciarvi, ricorrendo alla molteplicità di quella che chiamo la «degenesi».

    4.

    Il «medesimo» e il «diverso», l’oralità e la scrittura, il pensiero continentale e il pensiero dell’arcipelago, culture ataviche e culture composite: questo riferirsi a una sorta di pensiero binario non potrebbe essere interpretato come un debito nei confronti di quella stessa tradizione filosofica, metafisica e sistematica, dalla quale vuole prendere le distanze?

    Niente affatto. Sebbene le culture occidentali non siano monolitiche, tanto che ognuna ha conosciuto le proprie deviazioni e le proprie eresie, tuttavia esse hanno imposto di volta in volta il loro razionalismo, fosse nel nome del cattolicesimo, o del protestantesimo, o della dialettica, o del marxismo, o del capitalismo o del comunismo: niente altro che sistemi, per fuggire i quali non abbiamo potuto che appellarci a qualcosa che li contraddicesse: mi impongono l’uniforme? Cerco il diverso. Mi impongono il pensiero continentale? Cerco il pensiero dell’arcipelago. Mi impongono le culture ataviche? Cerco quelle composite. Non si tratta dunque di un modo di pensare binario, quanto di un modo per combattere il monolitismo che ci è stato imposto, quel monolitismo che pur non essendo il tratto caratteristico del pensiero occidentale, è il tratto che il pensiero occidentale ha voluto imporre al resto del mondo.

    5.
    C’è chi sostiene che le sue posizioni corrono il rischio di portare a un nuovo tipo di cosmopolitismo, caratterizzato dalla celebrazione aproblematica della tolleranza e della diversità, che negherebbe legittimazione alle battaglie emancipative. A guardare al suo lavoro, però, non soltanto ci si accorge che, per usare le sue parole, il cosmopolitismo è «solo una relazione degenerata», ma che tutti i suoi lavori rimandano a una prassi molto connotata politicamente.

    Le critiche alle quali allude derivano da una scarsa conoscenza dei concetti con i quali lavoro. Per me, la creolizzazione e la relazione non hanno niente a che fare con una dimensione morale, e sono soggette a passare, usando un termine che forse sembrerà hegeliano, per una fase di opposizione e di rottura. Rimandano dunque a una battaglia contro quella assolutezza dell’essere, del pensiero e del territorio su cui si basano tutti i fascismi; inoltre, dal momento che lavorano sull’immaginario, sono idee fortemente politiche. Lo slogan che recita «agisci localmente, pensa globalmente» può paradossalmente riassumere meglio di ogni altra cosa la mia posizione, perché rinvia alla necessità di mettere in rapporto il proprio luogo con tutti i luoghi del mondo

  5. …trovo molto sofferenza, ma anche un ragionato fatalismo nella poesia di Ennio, che descrive bene come sia soprattutto il distacco dalle radici affettive a pesare, piu’ che dai luoghi e dalle cose. La madre diventa un’ombra inscindibile nel vissuto del figlio-poeta, ne condivide la sorte, sperando per lui terre piu’ soleggiate, ma ricordandogli di non dimenticare” l’ombra della mia morte”, cioè, credo, l’ombra di ciascuno di noi che ciclicamente conoscerà distacchi e erranze dei propri cari

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