Gli zampettii dei passeri

 di Eugenio Grandinetti

Questa poesia è stata recuperata da Luciano Aguzzi, che ringrazio.[E. A.]

 
Sto in questo inverno rigido a guardare
i fiocchi di neve che sparpaglia
un vento inconsapevole. Anche noi
la cui vita è cosa lieve e provvisoria
come acqua meteorica rappresa,
affidiamo a pensieri sparsi il flusso
dei nostri sogni,

 
che s'adunino insieme a ricoprire
 di nuova coltre d'innocenza il mondo,
 a cancellare il sangue, a livellare
 le iniquità sociali perché paiano
 più agevoli i giorni e perché regni
 non l'egoismo di ognuno ma l'eroismo
 di affrontare una vita inesplorata,
 uguali tra gli uguali, e non volere
 essere più di ogni altro. Scocca
 dall'alto all'improvviso il volo
 di un passero e si posa
 sopra la neve e zampettando cerca
 qualche briciola; ma se la trova
 accorrono altri passeri a contendergliela.
 Non c'è tutto per tutti al mondo forse
 e crudele una legge esterna impone
 a tutti quanti gli esseri di contendersi
 il poco che c'è, e solamente
 i più astuti o i più forti hanno il diritto
 di sopravvivere. Ora
 i passeri son volati via e la neve
 non resta più uniformemente candida.
 È giusto - mi dico - che la vita
 selezioni i migliori e non decadano
 le nuove generazioni, non nascano
 esseri deformi e deboli. È il merito
 che deve sempre prevalere.
 Il mondo non può essere
 bianco in modo uniforme. Ora ci sono
 sul bianco della neve orme di passeri,
 ci saranno pedate d'uomini
 che passano, impronte d'automobili.
 Il bianco sarà grigio tra poco e la neve
 sarà una poltiglia lurida che al sole
 si scioglierà o si rapprenderà col gelo.
 Gli occhi si abitueranno: è giusto
 che ci sia un'alternanza
 (sarebbe monotonia il contrario)
 tra il caldo e il freddo e tra i diversi
 colori e tra le forme e le dimensioni, 
 tra le condizioni degli uomini ed infine
 tra la vita e la morte: tutto scorre!
 Ma ora cadono ancora lenti bianchi petali
 di neve e ricoprono  gli zampettii irrequieti 
 dei pensieri che rendevano torbidi anche i sogni
 e torna un candore d'innocenza
 che spinge tutti gli uomini a guardarsi
 come uguali e a porgersi la mano
 ed a sorridersi.
  
  
    

6 pensieri su “Gli zampettii dei passeri

  1. Questa poesia è tratta dalla quarta raccolta a stampa di Eugenio: «Alla rinfusa» (Cosenza, Barbieri Editore, 2013), stampata in edizione fuori commercio nel marzo 2013. Non si tratta di una vera edizione ma solo di stampa “pro manoscritto” a cura dell’autore e dall’autore distribuita ai conoscenti e amici. È una specie di raccolta antologica nella quale Eugenio mette insieme poesie di periodi diversi e di tipologie diverse: da brevissime liriche ad altre più lunghe, narrative e/o filosofiche, come questa «Gli zampettii dei passeri».
    In tutte si riscontrano le caratteristiche proprie della poesia di Eugenio: la contemplazione della natura e del suo cosmico, indifferente e privo di senso (umano) continuo riprodursi, dove non vi è traccia di provvidenza, cioè di qualche disegno guida, intelligente e consapevole, diretto a un fine. La natura si fa così, in tutte le sue ricchissime manifestazioni, metafora del destino umano, la cui vita, rispetto al tutto, ha lo stesso valore di un filo d’erba. Eppure l’uomo non può evitare di sentire la sua individualità e di illudersi e sperare, quindi di soffrire, ma anche di sognare, desiderare, aspirare a un destino migliore, almeno nell’ambito di ciò che più compete all’uomo e meno alla natura, cioè nell’ambito dell’organizzazione sociale. Qui si inserisce il sogno pacifista, fraterno, utopico di Eugenio. Fra il naturalismo di Lucrezio e l’eroismo di Leopardi.
    Eugenio citava questa poesia come prova che l’accusa rivoltagli di pessimismo e di nichilismo è sbagliata. Egli si ritiene un realista, in quanto alla natura, un utopista, in quanto al desiderio proprio dell’uomo di vivere meglio e dare un senso alla sua esistenza.
    In quanto alla resa poetica, a me pare che Eugenio riesca meglio – e in qualche caso a livello molto alto – nelle liriche brevi in cui il suo amore per la natura, e il diario esistenziale, è più libero da preoccupazioni filosofiche, e nei componimenti più lunghi in cui affronta le nostalgie del suo passato lontano dell’infanzia e della prima giovinezza, i miti della storia antica e della mitologia greca e romana. Meno bene, più prosaico e “ragionante” anziché “poetante” nei componimenti filosofici e politici in cui espone più direttamente il suo pensiero di sconsolato e talvolta disperato materialismo cosmico, in cui tutto è finalizzato alla cieca sopravvivenza e riproduzione e regolato dalla legge seconda la quale tutti sono o prede o predatori, in una continua lotta in cui non è l’individuo ad avere importanza, ma la natura nel suo insieme.

  2. Il giudizio (necessario) sulle poesie di Eugenio ripropone il dilemma che per me vale ancora in generale: poesia fondata sull’estetismo (arte per l’arte) o poesia comunque collegata a una visione del mondo (saldamente filosofica o, comunque, ideologica). Detto altrimenti: una poesia è bella o non è bella; e quindi non dipende per nulla o pochissimo dal “contenuto” (l’argomento) e dalla visione del mondo del poeta, che quell’argomento sceglie e presenta in un determinato modo o forma. Oppure è bella se “buona”, cioè è bella in quanto profondamente segnata da una visione del mondo forte, condivisibile, che ha i tratti più universali possibili nell’epoca in cui il poeta la scrive.

    La risposta non è affatto facile, anche se si accettasse come valido il dilemma che ho proposto. Perché risultati buoni o eccellenti sono stati sempre raggiunti da singoli poeti in entrambi i casi, indipendentemente dalle poetiche (formalistiche o contenutistiche, estetizzanti o filosofeggianti) più o meno decisamente da essi abbracciate.

    In questo il caso di Eugenio mi è sempre parso positivamente contraddittorio.
    La sua visione del mondo dichiarata (il «materialismo cosmico», ben individuato da Luciano e da altri), infatti, imporrebbe l’accettazione piena della natura “così com’è” (che abbia o non abbia una sua legge, che sia finalizzata o meno alla «cieca sopravvivenza e riproduzione»). È un destino a cui tutti (uomini, animali, vegetali) non sfuggono. Ogni soggettività (desiderio, aspirazione) è/dovrebbe essere assente o pesantemente delimitata. E, dunque, ottimismo o pessimismo farebbero solo da contorno secondario o irrilevante, per cui parlare di disperazione o di rassegnazione o di aspirazione utopica conterebbe ben poco.

    Nella poesia di Eugenio – in quella sua «contemplazione della natura e del suo cosmico, indifferente e privo di senso (umano) continuo riprodursi, dove non vi è traccia di provvidenza, cioè di qualche disegno guida, intelligente e consapevole, diretto a un fine»(Aguzzi), in quella sua visione da «realista» – s’insinua la soggettività: «la sua individualità», il «soffrire […[sognare, desiderare, aspirare a un destino migliore […]nell’ambito dell’organizzazione sociale »; «il sogno pacifista, fraterno, utopico». Che a rigore non dovrebbe insinuarsi. O deve rimanere secondaria e non ribaltare o mettere in forse la visione generale.

    Come in effetti accade?
    A me pare di sì. Perché quella soggettività non scardina mai la sua visione materialistica (antica, classica, lucreziana) e non si fa mai “dialettica”. Anche se, per affermarlo con maggior sicurezza, ci vorrebbe uno studio completo su tutta la sua produzione poetica.

    Scrive Luciano: « Eugenio citava questa poesia come prova che l’accusa rivoltagli di pessimismo e di nichilismo è sbagliata. Egli si ritiene un realista, in quanto alla natura, un utopista, in quanto al desiderio proprio dell’uomo di vivere meglio e dare un senso alla sua esistenza».
    Credo di essere stato io a parlare di «nichilismo», suscitando una certa, amichevole, indignazione in Eugenio[1].
    Resta il fatto che c’è una certa contraddizione tra realismo e utopismo, anche se possono esserci posizioni eclettiche non certo disprezzabili. Ma conta capire il risultato poetico che discenda o meno (direttamente o contraddittoriamente) da una visione del mondo.
    Se come scrive Luciano: « In quanto alla resa poetica, a me pare che Eugenio riesca meglio – e in qualche caso a livello molto alto – nelle liriche brevi in cui il suo amore per la natura, e il diario esistenziale, è più libero da preoccupazioni filosofiche, e nei componimenti più lunghi in cui affronta le nostalgie del suo passato lontano dell’infanzia e della prima giovinezza, i miti della storia antica e della mitologia greca e romana. Meno bene, più prosaico e “ragionante” anziché “poetante” nei componimenti filosofici e politici», veniamo a dire che quella visione del mondo materialistica fu in fondo un ostacolo alla poesia di Eugenio. E, implicitamente, che un’altra visione del mondo (che desse più spazio alla soggettività o che fosse più “dialettica”) avrebbe giovato di più alla sua poesia. In entrambi i casi il dilemma su cui riflettere resta quello tra estetismo e visione filosofica.

    Nota [1]

    Riporto alcuni passi della vecchia discussione che facemmo nel giugno 2014 su tale questione:

    Ennio:

    1.
    Per definire questa visione poetica di Grandinetti non trovo un termine più adatto di “nichilismo emozionale”. Nella intera raccolta (ma anche in quelle precedenti) poche volte esso si vela o s’attenua. Accade in alcune composizioni, quando l’io non interviene direttamente coi suoi pensieri, ma si sofferma sul paesaggio, accennando appena (soprattutto attraverso gli aggettivi) al suo sentire, una volta tanto senza spingersi verso il ragionamento, come in altri componimenti.

    2.
    In passato ho pensato che l’influenza più forte su questa poesia venisse dalla visione materialistica antica. Ed essa c’è indubbiamente. Ma oggi penso che il sentimento nichilista di Grandinetti può anche essere accostato a quello dell’autore di «Qoelet» (forse IV o III sec a.c., Bibbia LDC p. 942). Nel quale ritroviamo quasi gli stessi temi di «Viaggi»: assurdità e inutilità degli sforzi e delle gioie umane, della giovinezza, della fama, del lavoro, della saggezza e così via [2]. Con una differenza significativa: in «Qoelet» le immagini che esemplificano il concetto di inutilità della vita («”Tutto è come un soffio di vento:/ vanità, vanità tutto è vanità”, dice Qoelet») restano concrete e sono tratte dalla vita sociale; e, alla fine, il suo nichilismo si inchina alla potenza imperscrutabile di Dio. In «Viaggi» abbiamo invece in prevalenza immagini della natura che – o attuali e riferibili ai paesaggi della terra d’origine dell’autore, la Calabria, o filtrate attraverso quelle depositatesi in lui dalla cultura greco-romana, che Grandinetti ha assorbito in profondità e conservata quasi intatta dentro di sé -, non rimandano a nessun Dio e a nessuna speranza.

    3.
    Di fronte alla poesia di Grandinetti un lettore partecipe e non distratto è messo di fronte a tre problemi: uno esistenziale (“l’inutilità della vita di cui qui si parla è anche la mia”); il secondo intellettuale (“ha ragione o no questo poeta a insistere sulla solitudine della condizione umana, sull’inutilità della vita, sulla vanità della storia?”); il terzo estetico (“questi versi – diciamolo pure – attardati nell’Antico e paghi di rimanere nella forma classica dell’endecasillabo sono, sì, belli, ma quel loro ritmo ci raggiunge ancora oggi?”). E’ possibile dare ad essi una risposta unitaria? Lo chiedo perché ho l’impressione che i pochi o tanti lettori di queste poesie di Grandinetti tendono a considerarli separatamente, separando cioè i tre piani – emotivo, di pensiero ed estetico – e, di solito, privilegiando l’ultimo e accantonando gli altri due. Anche per il fascino indubbio che hanno ancora su molti la fluidità di questi versi, la loro architettura sintattica che procede sicura per espansioni robuste, la pacatezza o persino dolcezza delle immagini evocate.
    4.
    A me pare, invece, che bisogna prendere atto che la poesia di Grandinetti è un tutto unitario. Si è saldata (o ha finito per saldarsi) soltanto e proprio con certe emozioni (da solitario) e certi pensieri (nichilisti), e ha fatto un tutt’uno con essi. Non ci sarebbe, cioè, senza quelle emozioni e quei pensieri (e quegli endecasillabi). Non è pensabile, cioè, che possa essere “corretta” da una visione diversa. La sua base è quella: solipsistica e nichilista. La sua bellezza non è separabile da essa. Si può essere d’accordo o meno con questo nichilismo, essere attratti o respinti dal desiderio del poeta di farsi pietra. (Come, per fare altri casi, si può essere d’accordo o no con il cattolicesimo di Dante o l’antisemitismo di Céline). Ma va tenuto presente l’insieme, che per me è unitario. Solo dopo averlo riconosciuto, si potrà porre anche il problema di come, in un contesto di modernità prima e ora di postmodernità, che Grandinetti ha attraversato assieme a tanti di noi, si possa essere conservata intatta una visione delle cose e un’emotività del genere.

    (https://www.poliscritture.it/2014/06/23/appunti-su-viaggi-di-eugenio-grandinetti/)

    eugenio grandinetti
    25 Giugno 2014 @ 16:14 Modifica
    Perciò se è sembrato che i miei scritti sono sembrati rivelatori di una concezione solipsista e nichilista,vuol dire che, mio malgrado, hanno trasmesso un messaggio di tal tipo. La mia intenzione,invece, era quella di lamentare e non di compiacermi di una situazione di incomunicabilità e quindi di solitudine in cui si trova l’uomo che vive in una società basata su rapporti di tipo individualistico: quanto al nichilismo non è quella di distruggere alcunché,bensì quella di indagare, in chiave materialistica, sulle vicende non solo dell’uomo ma dell’intero universo.

  3. Ennio, concordo con varie cose che dici, ma il discorso è ampio e complicato e sono al computer da 15 ore, tutta la notte, e sono costretto a chiudere e cercare di dormire alcune ore.
    Ma una cosa voglio dirla: certamente in Grandinetti c’è contraddizione, come c’è in tutti. Il comportamento umano è contraddittorio, da qualunque punto di vista lo si esamini. Perché nell’uomo è radicata la libertà (limitata, condizionata fin che vuoi, ma insopprimibile) e la libertà comporta sempre una dialettica contraddittoria fra le diverse scelte possibili e quelle che effettivamente adottiamo.
    Sull’aspetto: estetismo o contenutismo. Vecchio e irrisolvibile problema. Tenterei di semplificare parafrasando la risposta di Carducci: Una poesia è bella se è bella, cioè se ha bella forma, qualunque sia il contenuto. Però non tutti i contenuti si prestano a essere rivestiti di bella forma. Carducci fa l’esempio di una seggiola e aggiunge che è difficile fare una bella poesia per lodare una seggiola: il soggetto non si presta. Quando un poeta sceglie un soggetto, in genere sceglie forma e contenuto insieme, visti in modo unitario, e sa, o potrebbe e dovrebbe saperlo, fino a quale livello quell’insieme forma e contenuto può portarlo. Quando Ugo Foscolo scrive una lettera in terzine dantesche per chieder denaro in prestito a un amico, sa bene che sta scrivendo una lettera in versi, non una poesia destinata ad avere un alto valore. I due aspetti sono uniti, nella riuscita possibile e nella coscienza che ha il poeta della possibilità di riuscire bene.
    Poi, naturalmente, ci sono poeti che riescono, perché il loro modo di essere poeti li sorregge in questo, a scrivere belle poesie filosofiche, mentre altri, pur poeti di pari valore, in quegli stessi contenuti non ci si trovano. Leopardi ci riesce, ma non sempre allo stesso modo. Dante ci riesce benissimo in molti casi, ma anche lui ha cadute prosastiche in cui è sorretto solo dal grande mestiere. Eugenio non ha l’ampiezza di vena poetica di Leopardi e di Dante e nelle poesie filosofiche e politiche, lunghe, l’urgenza del messaggio (del contenuto) prende il sopravvento sulla forma che, pur avendo qualche bel passo, nell’insieme si abbassa a un registro prosastico e ragionante che perde l’intensità propria della poesia che diciamo bella o bellissima. Eugenio ne era consapevole ma, diceva, gli interessava di più la comunicazione che la bellezza in sé. Anche se poi – altra contraddizione – in molte poesie afferma che la parola non comunica, che la comunicazione è fragile e impossibile, che gli individui sono sostanzialmente isolati, non si comprendono, ma al massimo si illudono di comprendersi. Questa sottovalutazione della bellezza (a mio parere più apparente che reale, perché anche in questo Eugenio e il poeta in genere cade in contraddizione) la si riscontra anche nella poca cura formale che Eugenio dedicava ai testi: poca lima, molte ripetizioni, versi non eufonici che ha lasciato stare anziché correggere, una produzione immensa e redatta velocemente, quasi ossessivamente. Tutti elementi contraddittori, perché poi Eugenio, ottimo lettore di classici antichi e moderni, sapeva capire e apprezzare la bellezza e di fatto, entro un certo limite, cercava di ottenerla anche nei suoi componimenti.

    1. D’accordo io pure su molte cose. Una veloce nota su un’affermazione che mi ha fatto sorridere: “Carducci fa l’esempio di una seggiola e aggiunge che è difficile fare una bella poesia per lodare una seggiola: il soggetto non si presta”. Perché? Perché Carducci in questo esempio è ancora irrimediabilmente ( non è una colpa, ovvio) *ottocentesco”. Basti pensare, almeno in pittura, alla poesia che Van Gogh seppe ricavare da un paio di scarpe (https://it.wikipedia.org/wiki/Un_paio_di_scarpe) o da una sedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Sedie_(Van_Gogh)).

  4. …in questa poesia di E. Grandinetti mi colpiscono i frequenti movimenti che si fanno mutamenti anche repentini, trasformando paesaggio e pensieri umani, da candidi come una coltre intatta di neve a grigia fanghiglia per opera di interventi di una feroce natura “esterna”: zampettii frenetici di passerotti per la sopravvivenza, pedate d’umani e impronte di automobili…Sembra che il poeta trovi nella natura stessa, che ciclicamente si ripresenta nel suo aspetto candido-utopistico e spietatamente realistico, la spiegazione della vita cosmica. Ma, secondo me, negli scritti trapela anche un senso nascosto e doloroso di perdita soggettiva…Inoltre trovo che il senso di incomunicabilità, di solitudine universale e del non senso della vita, di cui certo E. G. parla, siano in contraddizione con il suo grande senso morale, il suo voler essere, come nei pensieri “buoni”: “…uguale tra gli uguali e non essere più di ogni altro…” Per questa ragione, forse, non curava eccessivamente la forma nei suoi scritti? era una scelta?…

  5. Si, giusto e tristemente vero.
    La vita spiegata così ha il peso degli anni ma anche la forza dell’uccellino che resiste…insieme ai suoi simili. Grazie

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