Gli zingari

di Angelo Australi

Il campo scendeva dalla collina dove c’era il podere de ‘le Coste’. Oltre la colonica, sul fianco posto a levante, si apriva un largo paesaggio di costoni argillosi che ricordavano i canyon dell’Arizona. In passato la località era stata abitata da una famiglia di contadini imparentata con quella di suo cugino Sergio, mentre adesso ci vivevano dei pastori sardi. In linea d’aria le due case erano distanti meno di un chilometro, piantate su colline che da ogni parte si girasse lo sguardo finivano per controllare tutto il podere e la gola dove cresceva un fitto bosco.

Dalle ‘Coste’ si alzava un fumo bianchiccio che dopo una stretta curva a roncolino si perdeva in un cielo dove il sole era ormai tramontato e si avvicinava la notte. Di fianco alla casa, dietro al porcile, l’essiccatoio del tabacco da sigari oltre il quale si apriva un tappeto d’erba grande come un lago che terminava ai piedi delle balze, per farci l’ovile era stato attorniato da una costruzione di lamiere ondulate. Il pascolo raggiungeva la macchia, dove si notava un tratto bruciato di recente, pieno di fusti scheletrici sospesi verso l’alto, nella più totale devastazione del sottobosco. Sergio stava accusando quei pastori di appiccare gli incendi per accrescere il terreno da pascolo. Ogni estate, almeno negli ultimi tre anni, c’era una notte che immancabilmente si accendeva una fiamma alta fino al cielo senza che nessuno riuscisse ad intervenire prima dell’alba. Nella macchia c’erano numerose querce da sughero e un sottobosco che ormai più nessuno manteneva pulito facendo legna da ardere, dove bastava una semplice scintilla perché le fiamme si propagassero in un vasto appezzamento nel giro di poco.

– Come vedi la macchia riduce il suo spazio, ma ogni primavera il gregge è più grande. Quando arrivarono, dieci anni fa, sulla collina ne avvistavi qualche dozzina, mentre oggi è un esercito di pecore al pascolo.

Sergio aveva disegnato in aria un ampio cerchio con le braccia, spiegando che produrre formaggio da vendere direttamente nei negozi della città, oggi come oggi rendeva bene.

– Se vi sentite sicuri c’è da denunciarli, non vi pare?

– Guarda Enrico, sicuro al cento per cento, anche se nessuno li ha mai colti sul fatto.

A quella colonica dove Enrico trascorreva le vacanze estive della sua infanzia, cercando di adeguarla alle nuove esigenze della sua famiglia che non lavorava più la terra Sergio, diventando proprietario, aveva fatto una ristrutturazione importante. Nel ritorno da una riunione di lavoro, stretto dai ricordi in un po’ di nostalgia, visto che era di strada Enrico aveva telefonato al cugino con la scusa di fermarsi per un saluto, ma adesso, preso il caffè, doveva proprio rimettersi in viaggio. Aveva informato sua moglie perché non stesse in pensiero a vederlo ritardare. Gli era stato proposto di fermarsi a cena e restare per la notte, ma la mattina doveva presentarsi allo studio prima che il collega architetto andasse a visionare un cantiere, per riferirgli l’esito dell’incontro con il nuovo cliente che costruiva un centro commerciale proprio a ridosso del casello autostradale situato a pochi chilometri dalla casa dove abitava suo cugino. Più volte Sergio e Loredana avevano pensato di trasferirsi in città, ma qui erano nati Marcella e Michele, quando ancora i vecchi genitori di Sergio ed i nonni continuavano a lavorare il podere, e nel passaggio di proprietà ad una grossa multinazionale francese di prodotti alimentari interessata solo alla coltivazione dei terreni, era stato possibile acquistare la colonica facendo un mutuo che ancora pagavano. Oltre alla casa avevano l’aia e un piccolo appezzamento di terra sul davanti, dove Loredana coltivava degli ortaggi per uso familiare. Con il suo bilico Sergio consegnava le auto negli stati della comunità europea. Aveva una ditta individuale e lo pagavano a viaggio, quindi era nel suo interesse farne il più possibile. Loredana, adesso che i ragazzi studiavano all’università, si sentiva persa in quella grande casa colonica dove avevano ricavato anche un appartamento ristrutturando le stalle, programmando che lo utilizzasse almeno uno dei figli, il giorno che avessero deciso di metter su famiglia. Ma era ancora presto perché studiavano entrambi, e il mondo era cambiato così tanto rispetto a quando si erano immaginati quel futuro, che non riusciva più neanche a figurarselo. Ci pensava spesso al futuro dei suoi figli, restando sola a giornate, ma alla fine prevaleva una certa inquietudine che annebbiava l’orizzonte. Michele studiava architettura a Firenze, Marta legge all’Università di Bologna. Succedeva raramente di vederli tornare insieme, e questo a Loredana dispiaceva. Sergio ci faceva meno caso, perché la sua preoccupazione principale era fare qualche consegna in più di auto, per mantenere inalterato un certo tenore di vita.

– Dove c’è il bruciato una volta ci campeggiavano gli zingari – disse Enrico. – Lo ricordo così bene quel periodo. Piazzavano un paio di roulotte nello spiano al limitare del bosco circondato di querce da sughero, vicino alla sorgente dove c’erano i tritoni.

– E’ vero -. Sergio sorrise, scuotendo la testa.

– Ogni estate, quando venivo in vacanza, tua madre minacciava che se fossi stato cattivo, mi avrebbe venduto per poche lire a quella gente.

– Quando gli zingari si accampavano allo spiazzo sotto la ragnaia, non ci allontanavamo mai dall’aia – disse Sergio. – Che scemi!

– Per me tua madre non era credibile, perché poi ricordo che il nonno si metteva a ridere e lei si arrabbiava: “Voi ridete pure, ma io glielo vendo, se non mi obbedisce. E non m’importa niente di quello che ne faranno, possono anche mangiarlo arrostito!”

– E’ vero – disse Sergio, – quelle due roulotte campeggiavano qui sempre dopo la battitura, così sentivo il sacrificio di non poter scorrazzare libero per il bosco.

– Avevi paura anche te, allora?

– Paura non direi, perché ti abituavi a vedere le stesse facce ogni anno …. Però impressionava, tutto il movimento di persone vestite in modo strano che bazzicava nella nostra proprietà.

Quel piano al margine della ragnaia era ideale per campeggiare, le gigantesche piante di sughero formavano come un circolo che nonostante il sole girasse in ogni punto del cielo si manteneva sempre in ombra. I bambini degli zingari e le donne raggiungevano a piedi il passaggio a livello, dove chiedevano l’elemosina alle auto dei turisti in attesa. I grandicelli gironzolavano correndo tra le auto con le mani tese, mentre i più piccoli stavano in braccio alle donne.

Nell’abbraccio dei saluti Enrico aveva promesso che presto sarebbe tornato con la famiglia per stare insieme almeno un fine settimana, così avrebbero parlato senza tutta quella fretta.

Sull’autostrada non c’era traffico, ogni tanto sorpassava un camion. E altri, ma pochi, Enrico ne incrociava sulla corsia opposta, con già i fari accesi. La solitudine dei rettilinei gli riportò alla mente la conversazione avuta con Sergio. Gli piaceva da matti andare a curiosare nel bosco in cerca di nidi, e alla fine fermarsi al ristagno d’acqua della sorgente a osservare i tritoni, ma quella minaccia della zia di venderlo agli zingari lo rendeva succube di un qualcosa che non riusciva neppure ad immaginare, provava un disagio che non sapeva controllare, che bloccava ogni pensiero. Cazzo se aveva paura, allora! E ancora oggi, a pensarci, quando nelle strade della città incrociava una zingara a chiedere l’elemosina, per una sorta di riflesso istintivo, pur di evitarla cambiava direzione. Nel mese che occupavano l’area della sorgente lui finiva per odiarli perché limitavano lo spazio dei suoi giochi d’esplorazione. Lo stagno si formava subito fuori lo spiazzo della sugherata, dove l’acqua che pisciolava da un piccolo tubo in metallo arrugginito, si incanalava in un rigagnolo fino al punto in cui si formava un lieve avvallamento che poi confluiva nel torrente. L’acqua scorrendo sempre limpida e fresca, era un luogo ideale per la colonia dei tritoni. Si ricordò di quella volta che non vedendo nessuno intorno alle roulotte, prese la decisione di avvicinarsi allo stagno. Camminava stando attento ad ogni piccolo rumore, tenendo presente il suono delle voci che gli giungeva dal lontano passaggio a livello, mentre davanti a lui si stendeva una specie di bagliore luminoso che nascondeva il sottobosco dietro a forme appena percepibili. I colori abbagliati dalla luce si confondevano in quell’avvolgimento che sembrava piuttosto un fumo denso e bianco. Nell’avvicinarsi allo stagno dei tritoni sentì dei colpi d’ascia provenire da dietro una delle roulotte, secchi, costanti, come quando intorno alla casa il nonno o lo zio si mettevano a far legna. Allora si era fermato di colpo, distogliendo lo sguardo dai riflessi di luce che filtrava tra gli alberi del bosco. Ricordava proprio bene quel lampo di spavento che lo fece come franare dentro se stesso, cascava in un budello scivoloso che a un certo punto si rimpiccioliva. Lì era buio, ci faceva un freddo paralizzante.

4 pensieri su “Gli zingari

  1. …in questo bel racconto, Angelo Australi, con il suo stile realistico, descrive la trasformazione di un territorio agricolo e naturale -tra campi, prati e boschi- in zona ibrida, tra centri commerciali in costruzione, incendi dolosi della macchia sempre a scopi commerciali e di una casa colonica per generazioni abitata da contadini trasformata in villa…Un esempio, credo, del “progresso” non sostenibile, e si capisce anche dalla solitudine in cui vengono a trovarsi le persone che abitano il territorio, sempre più distanziate tra loro per ragioni di lavoro e di studio…ma tutto ciò in fondo non crea rifiuto, allarme, sembra essere un processo obbligato e senza ritorno. Mentre un gruppo di zingari che, qualche anno prima, d’estate occupava la zona della sorgente d’acqua, vicino alla stagno dei tritoni, e non si sognava di snaturare l’ambiente con opere, ma si limitava a vivere, o anche vivacchiare, suscitava massima diffidenza anche tra i vecchi, poco saggi direi, così forte tra trasmetterla ai nipoti…Così i colpi d’ascia per tagliare legna terrorizzavano il giovane Enrico, mentre i rumori di ruspe e trapani, il crepitio del fuoco doloso oggi sono quasi entrati nella nostra normalità…

    1. E’ così, Annamaria
      … la trasformazione della campagna è avvenuta senza che chi ci abitava da anni ne fosse realmente consapevole. Però una cosa è certa (ne parlo per esperienza diretta), molti degli anziani erano stanchi di lavorare la terra, e stimolavano i più giovani a trovare altri sbocchi di lavoro.
      Chi poi è andato a lavorare in fabbrica, c’è stato un periodo che subito si è comprato un piccolo appezzamento di terra per farci l’orto, per trascorrerci una buona parte del suo tempo libero.
      Sembra assurdo, ma è andata così. Non voglio neanche generalizzare, ma credo che la risposta a questo problema sia sempre stata rimandata.

      angelo

  2. «Gli piaceva da matti andare a curiosare nel bosco in cerca di nidi, e alla fine fermarsi al ristagno d’acqua della sorgente a osservare i tritoni, ma quella minaccia della zia di venderlo agli zingari lo rendeva succube di un qualcosa che non riusciva neppure ad immaginare, provava un disagio che non sapeva controllare, che bloccava ogni pensiero. Cazzo se aveva paura, allora! E ancora oggi, a pensarci, quando nelle strade della città incrociava una zingara a chiedere l’elemosina, per una sorta di riflesso istintivo, pur di evitarla cambiava direzione.»

    L’altro, il diverso, non viene incontrato, ma solo spiato da lontano. Australi in questo racconto mette bene a fuoco proprio questo clima di esperienza *sospesa* o *mancata*. La paura – alimentata, va detto, dagli adulti (la zia) – domina il ragazzo e blocca la sua curiosità. E persisterà come un residuo irrisolto anche nella sua età adulta. Non si arriva all’incontro (che potrebbe essere disastroso o anche risolutivo).
    Non credo di esagerare, generalizzare o deviare il discorso dal racconto al reale, se mi pare di ritrovare lo stesso clima di esperienza *sospesa* o *mancata* in gran parte dei discorsi che si fanno non solo sui rom ma sugli stranieri.

    P.s.
    Un esempio di quanto dico mi pare affiori anche in questo scambio che ho avuto su Facebook a proposito della vicenda di Casal Bruciato:

    Adriana Mughetti Io non entro nel merito! E le minacce a donne e bambine non vanno fatte! Però chi di voi alla vista di un rom sulle scale non controlla o d istinto non si tiene borsetta e borsellino ben saldo? Magari un motivo c è! Qualcuno darebbe chiavi di casa per pulizie? Vedo un po’ della solita ipocrisia come al solito! Della serie periferia si, Parioli e Capalbio meglio di no! Detto questo gesto bruttissimo che però faccia riflettere tutti chi l’ ha fatto, tutta la politica, i rom stessi magari, e la nostra pseudo giustizia legalità!
    Ps attendo chi darebbe chiavi appartamento! !!!!!!!!!
    Ennio Abate Mettere in questi termini la questione significa:

    1. fare di un pregiudizio razzista una norma assoluta: perché solo dei rom non c’è da fidarsi? Non ci si fida in genere di chiunque non conosciamo o no? Ma, conosciuta una persona (rom o italiana o francese, ecc.) posso anche affidargli le chiavi di casa, no?

    2. se tutti i governi (vecchi e nuovi) rispettano gli interessi dei ricchi dei Parioli o di Capalbio e aggravano le condizioni di vita degli abitanti delle periferie con scelte sbagliate ( ma non pare proprio che sia questo il caso della famiglia rom a cui è stata assegnato *regolarmente*- per quanto si sa – un’abitazione a Casal Bruciato), si devono criticare questi governi e non azzannare bestialmente madre, padre e bambina rom, gesto non “bruttissimo” ma da vigliacchi.

    1. Caro Ennio,
      ti seguo in questa tua riflessione confessando che il racconto mi è venuto in testa quando ad aprile, con il mio gruppo di lettura, abbiamo letto “L’oro del mondo” di Sebastiano Vassalli e contemporaneamente il nostro mitico ministro dell’interno gongolava per lo smantellamento di alcuni campi rom. A un certo punto Vassalli ne “L’oro del mondo”, parlando con l’editore che incontra per caso ad un convegno, cerca di motivare l’idea del romanzo a cui sta lavorando e gli spiega (te lo sintetizzo con parole mie) che la resistenza l’hanno fatto in trecentomila, ma quei quaranta milioni che erano fascisti dove sono andati a finire?.
      Questo è il problema che non abbiamo mai risolto, ma semplicemente rimosso.
      Andare in fondo alle cose è faticoso, ma sì, bisogna dirlo, accanirsi con una famiglia come quella di Casal Bruciato è da vigliacchi due volte, perché come spieghi te, i problemi sono politici!!!

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