Già tra noi…

Storie di migranti raccolte da Jorida Dervishi

a cura di Ennio Abate

Pubblico stralci dell’introduzione e di alcune storie di vite migranti di “La mia storia è la tua storia”, un libro in via di stampa scritto e curato con passione dalla giovane Jorida Dervishi di origini albanesi e tutor universitaria a Milano. L’ ho letto in bozze e la mia riflessione, che ora fa da prefazione al libro, oltre a richiamare temi già toccati qui su Poliscritture, vuole essere anche un riconoscimento convinto del lavoro di integrazione fatto da tanti anni, attraverso i corsi d’italiano a favore dei migranti, dal “Centro di cultura popolare” di Pioltello, in particolare nella sede di Seggiano che ho sia pur saltuariamente frequentato. [E. A.]

1. Dall’Introduzione di Jorida Dervishi

Ogni storia ѐ  unica e irripetibile, per questo le storie sono importanti.

Tu puoi imparare da ogni esperienza di vita, basterebbe guardare più in fondo di ogni storia per capire meglio il tuo posto in questo percorso di vita. Sei tu il soggetto che guarda il mondo , sei tu il protagonista principale di questo viaggio…

Perché raccontare una storia?

Perché è lì che prende inizio una voce per poi abbracciare altre voci lungo la strada, in terra e in aria, nel deserto e in mezzo al mare…

Il secondo passaggio ѐ narrare queste verità, pezzi di anima e di realtà che provengono da tutto il mondo. Raccontare una storia non è per niente facile, ed per questo che ho voluto fortemente far sì  che i loro messaggio e la loro soggettività emergano al primo posto.

Questo è il viaggio più bello che abbia fatto nella mia vita. Ho toccato con i miei occhi e le mie mani ogni singolo dettaglio raccontato dai veri protagonisti di questo libro; i Migranti e chi ha voluto  condividere con noi un pezzo del suo vissuto. Durante le interviste mi sono commossa, emozionata ma allo stesso tempo ho imparato tantissime cose. Per me è stato il viaggio di una lezione di vita che CONTINUA…

Grazie di cuore a tutti voi!

2. Da La storia di Kareem nato in Afghanistan, 31 anni

Mi chiamo Kareem e sono nato il 10/09/1998 a Frasetti in Afghanistan; l’Afganistan è un paese bello ma dal 2001 pieno di ferite, di guerre,  dove tutti combattono contro l’organizzazione terroristica chiamata AlQaeda, ma nessuno pensa ai civili, gente che vuole vivere in pace.  Ho cinque fratelli e due sorelle. Due dei miei fratelli abitano nel mio paese insieme ai miei genitori. Mio padre durante la guerra con la Russia faceva parte del comando afghano, è un politico importante. Lui ha sempre voluto che ereditassi  questa professione, ma a me la politica e la guerra non mi interessano. Sono  questioni difficili e altrettanto sporche ed è difficile trovare una soluzione in favore di tutti. È qui che ha preso inizio, in mezzo alle disgrazie, il viaggio della mia famiglia verso l’Europa. Prima di venire in Italia ho vissuto a Londra, insieme ai miei fratelli maggiori. Per tante persone il fatto di lasciare e poi ricominciare può sembrare strano, e infatti lo è…Ci vuole una gran forza d’animo per insistere e sopportare le umiliazioni, vedere la tua casa rovinata, i tuoi amici morti…

3. Da La storia di Maia Castiello nata in San Salvador

Mi chiamo Maia, sono nata in San Salvador nel 1974. In Italia sono arrivata il 28 febbraio 2019 in aereo. La mia storia è molto lunga per raccontarla in poco tempo…

Io sono una donna forte e che nella vita ha dovuto affrontare tante cose, sono cresciuta senza i miei genitori, non li ho conosciuti mai…

Lo zio e mio nonno sono stati madre e padre per me. Io non ho i figli ma so che per loro sono stata tale. Loro si sono   presi cura di me, ė grazie a loro che sono qui oggi.

La mia vita ha iniziato a cambiare quando ho conosciuto mio marito. Lavoravamo insieme prima che io venissi in Italia. Siamo commercianti.

In pratica cresciamo gli animali e poi li vendiamo nel nostro negozio.  Lui sta lì da solo e io sono qui, disperata in cerca di un lavoro, di una vita migliore. Per il momento abito nella casa di mia cognata.

Lei mi ha aiutato a prendere il coraggio per lasciare tutto e iniziare una nuova vita, anche se non è per niente facile…ne ho bisogno di lavorare. Sono venuta apposta per questo.

Lo so che è difficile, ma la mia forza per andare avanti è proprio la speranza per superare la vita che ho lasciato. La violenza, la mafia, le bande che cercano ogni mese i soldi altrimenti ti ammazzano.

4. Da La storia di Moner  nato in Marocco, 30 anni

Non avevo una casa, nemmeno un posto dove dormire, i miei giorni li passavo in montagna. La mafia greca era molto cattiva. Loro ti rubavano ciò che portavi con te, ti picchiavano fino alla morte. I poliziotti se vedevano che eri uno straniero ti lasciavano per terra, se ne fregavano. Anche quando eri dento casa non eri al sicuro, se sentivi un rumore dovevi scappare…

La prima volta ho passato il confine sotto un camion, però mi hanno beccato e rimandato indietro. Un giorno ho visto vicino al bar un pullman che portava dei ragazzi in Italia. Io avevo sentito che i poliziotti greci non controllavano i pullman italiani quindi sarebbe stato più facile “imbarcarsi” sul quel pullman…quel giorno io e i miei amici eravamo lungo al mare, volevamo solo mangiare e  riposare… ma non avevamo il tempo per questo. Qualche volta ci capitava di stare davanti al mare e guardare, almeno lì ci sentivamo tranquilli.

Il pullman stava per partire, allora abbiamo iniziato a pensare come e dove potevamo nasconderci. Nel motore, vicino all’ammortizzatore c’è un buco dove possono stare 3 persone, ma senza muoversi.        
E così abbiamo fatto. Uno dopo l’altro ci siamo infilati nel buco. Il mio amico è caduto non poteva respirare. Dopo qualche ora siamo arrivati davanti al traghetto che ci doveva portare in Italia.

Tutte le persone sono scese per fare i bisogni e per entrare nel traghetto, tranne noi tre. Avevamo già fatto un patto, quello di rimanere lì fermi, zitti, sotto il fumo di motore che ti bruciava la faccia. Non potevamo nè bere un goccia d’acqua nè fare la pipì…ne respirare…stavamo giocando con la nostra vita, quello era il prezzo per passare la frontiera…

Fortunatamente il viaggio per mare è durato 9 ore e noi finalmente ci trovavamo vivi in un’altra terra, questa volta in quella italiana.

5. Da La storia di Nora nata in Egitto, 13 anni

Io sono sempre a scuola e poi di pomeriggio vado a studiare in biblioteca. Lì almeno posso passare un po’ di tempo. Raramente o quasi mai esco con le mie amiche. I genitori non mi permettono, hanno paura, mi proteggono tutto il tempo. A casa decide per ogni cosa mio padre, poi, in mancanza della sua presenza, c’è mia madre. Io non decido quasi mai…

Non mi sento libera e infatti nessuno è libero al 100% ; nel mio piccolo mondo essere liberi vuol dire uscire di casa senza che qualcuno mi accompagni. Qui non ho nessuno, i miei parenti sono in Egitto,  quando vado lì mi diverto perché posso fare le mie passeggiate in giro per paese. Infatti, non capisco una cosa: perché in Egitto posso essere libera? Anche se accompagnata dai miei parenti ma almeno non mi sento a disagio quando metto il velo. Questa é stata un’altra delle decisioni prese dai miei genitori senza la mia approvazione. A scuola un po’ male mi sento, tutti ti guardano strano, sono l’unica con il velo. Mia madre mi dice che il velo rende le donne oneste, rispettate. Io invece aspetto di compiere i18 anni per poter capire meglio questa usanza, per poter prendere indipendentemente le mie decisioni.

Prefazione

NOI E LORO

di  Ennio Abate

«Migrare» – ha scritto di recente la filosofa Donatella Di Cesare nel suo «Stranieri residenti» (Bollati Boringhieri 2017) – «non è un dato biologico, bensì un atto esistenziale e politico, il cui diritto deve essere ancora riconosciuto». Tale mancato riconoscimento da parte degli Stati (e, di conseguenza, dei loro cittadini) fa del migrare un dramma  – ieri nazionale, oggi planetario –  che spesso finisce in  tragedia. 

Chi emigra continua a ritrovarsi «a mezza parete», come scrissero nel libro omonimo del 1982 Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso. A dibattersi, cioè, da solo o quasi, tra la nostalgia di un mondo perduto e la speranza, che spesso si dissecca, di una vita nuova. Oppure continuerà a ritrovarsi – ne scrisse nel 1999 lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun – in una «estrema solitudine».  Da intendere in senso spirituale ma anche fisico e sessuale, perché  lontano da familiari e amici, sradicato dalle sue tradizioni, proiettato in un mondo che si muove secondo modelli etici, sociali, culturali quasi completamente diversi dai suoi.

Questo libro, suddiviso in tre sezioni («Essere migrante», «Storie migranti», «Reti migratorie») aiuta a  disintossicarsi dal veleno di una assillante propaganda, che, invece di aiutare il dialogo tra umanità residente in Italia (ma il discorso vale per tanti altri paesi toccati dalle migrazioni)  e umanità nomade, finisce per innalzare e rafforzare muri di pregiudizi, di cliché, di paure reciproche.

 È stato  amorosamente curato da Jorida Dervishi che, grazie anche alla sua esperienza di migrante, ha rispecchiato la sofferenza e il coraggio di quanti hanno deciso di confidarle le loro storie, rivivendo così la sua stessa vicenda, quasi come il naufrago di cui parlano i famosi  versi di  Dante:


E come quei che con lena affannata, 
uscito fuor del pelago a la riva, 
si volge a l’acqua perigliosa e guata

(Inferno, Canto I)

 
La seconda sezione («Storie migranti») è il cuore pulsante del libro. Come in un caleidoscopio tante schegge di vetro colorate formano variabili e ammirevoli composizioni, qui le schegge  di vita di un certo numero di migranti (uomini, donne, ragazzi e ragazze) mostrano la varietà della condizione migrante: qualcuno prima di partire era un venditore ambulante o  un soldato o un farmacista o un calzolaio o un falegname; alcuni sono fuggiti dalla guerra (per Kareem quella in Afghanistan); altri, come Maia Castiello, da un Salvador dove «le bande […] ogni mese cercano i soldi altrimenti ti ammazzano». Ma anche il coraggio e la fatica che emigrare ancora oggi richiede.

Perché viene messa in gioco, e spesso la si perde, la vita nel tentativo sempre incerto di migliorarla. La cronaca degli ultimi decenni ci dimostra che è capitato  a tanti. E poteva capitare anche a Moner, nascostosi con altri due suoi amici  nel buco (tra motore e l’ammortizzatore) di un pullman  di turisti che stava per rientrare in Italia. Altri hanno provato la durezza disumana delle prigioni, la paura di essere braccati, ricattati o picchiati dai poliziotti. E parecchi di quelli che qui parlano,  anche quando sono riusciti a giungere in Italia,  hanno la preoccupazione del permesso di soggiorno o sono alla ricerca, spesso umiliante, di un lavoro, di un’abitazione; o devono   sopportare la diffidenza e l’ostilità della gente.

Brevi o lunghe, raccontate in modo immediato  o meditato, queste testimonianze  incuriosiscono, appassionano, fanno  riflettere. Tre  cose mi hanno soprattutto colpito:

  1. la volontà tenace di adattarsi alla realtà del Paese  d’arrivo, anche quando si è provato quanto essa sia ostile e difficile per chi appare comunque straniero;
  2. la necessità di chi emigra di contare soprattutto su se stesso, essendo tuttora  insufficienti (o, con il governo Salvini, addirittura in via di smantellamento) le «reti migratorie» di connazionali, volontari  o assistenti sociali (di cui si parla nella terza sezione del libro);
  3. La difficoltà (se non ci si ferma alla superficie di queste testimonianze) di parlare di quello che si è vissuto e si sta ancora vivendo.

Mi pare, infatti, che le testimonianze documentino come ciascun migrante debba costruirsi giorno per giorno  una sua strategia individuale di autoeducazione per sopravvivere fisicamente e spiritualmente agli imprevisti delle circostanze in cui viene a trovarsi. E ora  si affida al valore della pazienza, imponendosi di  accontentarsi del poco o del minimo (come Juan). Ora si dà da sé la forza  di guardare avanti, anche se non sa  a cosa va incontro. Ora alimenta in sé il  miraggio di un mondo comunque diverso, migliore  e più  ricco di possibilità rispetto a quello da cui proviene. Ora impara  a  resistere alla nostalgia e al richiamo degli affetti perduti.  O ad affidarsi al sogno dell’indipendenza, del mettersi in proprio. O a contare sul proprio desiderio. (Lo dice chiaro e tondo Mohamed Salama, egiziano, farmacista ora lavapiatti: «ciò che conta  è quello che io voglio, sono i miei desideri»). Ma  questa strategia è anche pratica. C’è da diventare  acuti osservatori  della realtà spesso ostile- Perché si può essere prede, mentre spesso la gente non fa che viverti come invasore o predone. Lo ricorda saggiamente Thierno nella sua testimonianza: «Noi dobbiamo stare attenti a tutto ciò che accade attorno a noi, dobbiamo pensare molto bene ogni nostro movimento, calcolare ogni azione». E, malgrado timori e depressioni resta ancora – per fortuna! – la forza di stupirsi per le storture sociali del Paese in cui si è arrivati. Come succede ad Osmil:«La cosa che mi fa veramente impressione in Italia è la gente che cerca l’elemosina. A Cuba questa cosa non esiste».

E sono  certo  di poter dire che in molte testimonianze affiori solo una parte della complessa e contraddittoria  esperienza dei migranti. E che il resto verrà fuori solo col tempo. Mi ha stupito, ad esempio, che spesso  alcuni dicano di trovarsi bene in Italia.  Eppure, a volte sono  ancora senza lavoro, soli o in difficoltà. Spesso  i desideri espressi in varie testimonianze sono minimi. Si vorrebbe una  vita tranquilla, il  ricongiungimento coi familiari lontani. Nessuno pare se la sente di esprimere grosse ambizioni o addirittura rivendicazioni.  Esiste, secondo me, una giusta reticenza o forse un pudore o una impossibilità di dire  apertamente tutto il malessere in cui si sono venuti a trovare o in cui spesso ancora si trovano. Perché – dobbiamo dircelo –  il confronto (e spesso lo  scontro) tra loro e noi è nella realtà, al di là delle buone intenzioni e anche dei concreti atti di solidarietà di tanti volontari, comunque diseguale e loro rispetto a noi sono nella posizione di svantaggio degli ex colonizzati.

Lo si sente, forse con più chiarezza, nelle testimonianze delle vite  più fragili dei ragazzi e delle ragazze. Anche loro sembrano volersi accontentare di piccole  gioie. Eppure cercano inquietamente  varchi di libertà tra le maglie strette delle norme religiose e familiari; e dicono più schiettamente il disagio di essere  vissuti e trattati da diversi, come  corpi estranei:  «A scuola un po’ male mi sento, tutti ti guardano strano. Sono l’unica con il velo» (Nora). 

Queste migrazioni con la loro complessità  sono imparagonabili  a quelle interne che si ebbero da noi, in Italia, tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento.  Eppure il  filo che le può collegare alla nostra storia c’è.  Perciò questo lavoro di Jorida Dervishi va accostato alla prima inchiesta sugli immigrati» che venne condotta in Italia da Franco Alasia e Danilo

Montaldi e  raccolta nel libro «Milano, Corea» pubblicato la prima volta nel 1960. Essi trascrissero dal vivo i racconti di migranti  calabresi, veneti, pugliesi o campani in gran parte di origine contadina e provenienti dalle zone più povere dell’Italia di allora. Anche loro furono alle  prese con la ricerca di un lavoro (precario o fisso), di un’abitazione, di affetti, di cibo.

Anche loro ebbero addosso i controlli polizieschi, la concorrenza di altri emarginati o ebbero una solidarietà spesso strumentale da parte dei propri corregionali o  delle istituzioni assistenziali del tempo e subirono le ferite dei pregiudizi (altrui e propri).

Per ora queste vite di migranti, come le nostre di residenti da tempo in Italia e quelle di milioni di uomini e donne, anziani e bambini, sono agitate dalla storia caotica  iniziata all’incirca dal 1989 con la caduta dell’URSS e del precedente  ordine mondiale della Guerra Fredda. E per riprendere il paragone con il caleidoscopio, bisognerebbe dire che queste schegge di vite migranti restano ancora troppo grigie e che i colori più accessi sono ancora soffocati o ridotti.  Ma chi può escludere che si possano ricomporre in disegno splendente e multiculturale?  Per ora esso appare  utopico, ma comunque affiora. Ad esempio, nella testimonianza di Ami Dar, che, soldato israeliano di vedetta al confine della Siria vede col telescopio dei soldati siriani giocare a calcio e pensa a un mondo di cooperazione tra gli uomini al di fuori dei confini che li dividono o li contrappongono.

12 maggio 2019

30 pensieri su “Già tra noi…

  1. Quello che va approfondito è perchè “Queste migrazioni con la loro complessità sono imparagonabili a quelle interne che si ebbero da noi, in Italia, tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento” (io sono veneta, terrona del nord, e arrivai a Milano per via della nostra povertà, ragazzina nel 1960).
    La complessità di oggi è senz’altro la via attraverso cui esplorare le migrazioni, che sono *un atto esistenziale*, credo tutti condividano. Ma gli stati, nel complesso presente, intendono regolarlo e su questo si fa politica.

  2. …le storie di J. Dervishi sono davvero “atti esistenziali” di gente che è “Già tra noi…”, quindi mescolati ai nostri. Noi conoscemmo la stessa faccia della medaglia ( ma la medaglia è una sola!) solo qualche decennio fa, quando le persone non si spostavano solo dalle regioni povere a quelle ricche dell’Italia ma migravano in altri Paesi, come i miei nonni dalla Puglia in Argentina. Da dove fecero ritorno per stabilirsi al nord Italia, provati e più poveri di prima…Anche allora c’era una complessità esistenziale e politica, ma eravamo noi a cercare comprensione e accoglienza

  3. “La complessità di oggi è senz’altro la via attraverso cui esplorare le migrazioni, che sono *un atto esistenziale*, credo tutti condividano. Ma gli stati, nel complesso presente, intendono regolarlo e su questo si fa politica.” (Fischer)

    Sarebbe un passo avanti far notare la contraddizione – e che contraddizione! – fra questi “atti esistenziali” e la politica (Minniti, Salvini, UE, etc).

    Ad es. su FB:

    1.
    Enrico Galmozzi
    Ieri alle 10:11 ·
    Ho sentito dire anche da gente di sinistra che i ragazzi di Palermo [https://www.facebook.com/ennio.abate.5/posts/2373989069483414] hanno esagerato. Certo dalla stazione centrale non partono treni blindati carichi di ebrei ma non è che rimandare emigranti in Libia sia una cosuccia da niente…Ma poi, già di per sé, “prima gli italiani” non è forse una affermazione di suprematismo etnico?

    2.
    Migrante
    Ogni settimana un termine discusso e analizzato da una grande firma
    DI DONATELLA DI CESARE
    17 maggio 2019

    «Migrante» non è che il participio presente del verbo migrare. Sembrerebbe un termine neutro. Ma da tempo ha assunto un significato spregiativo. Né cittadino, né straniero, il migrante si situa alla frontiera nel tentativo di varcarla.

    Ovunque di troppo, è un intruso che fa saltare le barriere, suscita imbarazzo. Figura di transito, presenza al mondo fluida e instabile, il migrante, questo senza-luogo, così minacciosamente fuori-luogo, appare incontrollabile, sfuggente, evasivo e invasivo.

    Nessuna empatia, nessuna solidarietà per questo nuovo povero cui è stata tolta anche l’antica dignità del povero. Nella sua nudità, oscura e illegittima, è lo spettro dell’ospite. Vano ogni richiamo a Omero. Il migrante è lo straniero spogliato della sua aura esotica, della sacralità, dell’altrove epico. Non promette di far ritorno. Cerca solo un posto dove esistere.

    Ma i sovranisti lo fermano: «tu non sei di qui!». Gridano all’invasione, chiamano a raccolta contro il «clandestino», quel nemico subdolo e occulto.

    Se «rifugiato» è la parola magica della redenzione, «migrante» è un’etichetta-frontiera innalzata per arrestare chi pretenda di muoversi tra gli Stati-nazione. I nomi confortano la buona coscienza della governance liberale che esercita il potere biopolitico della selezione: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante sarebbe il «falso rifugiato». Respingere questo povero tra i poveri, meno bianco e meno istruito, è ormai un merito. Qualche ipocrita vorrebbe ergersi a suo difensore spacciando la politica razzista dell’esclusione per una «guerra ai trafficanti».

    Il migrante non è neppure l’immigrato, quel corpo su cui si eserciterà una duplice discriminazione, di «razza» e di «classe». Nel migliore dei casi è un «richiedente asilo», rinviato a un’attesa interminabile. Invisibilità e immobilità sono la sua condanna. Nel peggiore è invece un’eccedenza, un avanzo superfluo, una scoria senza diritto di esistere. Il capitalismo globalizzato lo lascia morire in mare o lo consegna a quegli innumerevoli campi di cui è costellato il mondo degli Stati-nazione.

    (http://espresso.repubblica.it/attualita/2019/05/13/news/migrante-donatella-di-cesare-1.334548?ref=fbpe&fbclid=IwAR3pTRX4c8fSUS4RCbNbVl6MUbmsMrusb0AEhySood_Wk5z0MebZnfg4oY0)

    3.
    Gianfranco la Grassa
    17 maggio alle ore 10:39 ·

    http://www.ilgiornale.it/news/cronache/sea-watch-sfida-viminale-gdf-dalle-nostre-acque-1696197.html?fbclid=IwAR1SXFx0stwyXL8N87DNyBS6kWertxjL9lQ3YUa9vqwWsTdSXl22ssM_ROU

    sarebbe indispensabile affondarle. Ovviamente prima che raccolgano migranti. Quanto all’equipaggio, ci sono sicuramente sufficienti scialuppe di salvataggio. Il problema è soltanto togliere di mezzo questi strumenti di nostro danno e invece produrre un bell’affondamento pure finanziario delle ONG, che così infine la smetteranno con la loro attività delittuosa. Naturalmente tutto questo potrà essere fatto quando finalmente il vaso sarà colmo ed in alcuni paesi europei (non certo in tutti, questa UE deve essere fatta saltare in aria) si affermeranno forze veramente decisioniste e capaci di portare infine ordine e sicurezza. E non si parli sempre di fascismo. I tempi sono cambiati. Non ci dovrà più essere un nazionalismo sfrenato, nessuna propensione all’“Impero”, nessuna politica di tipo razziale. Semplicemente spazzare via gentaglia come quella ancora etichettata quale “sinistra” (la più dannosa) e “destra”. Questi “infetti” devono mettersi al servizio dei nuovi gruppi di comando o essere sbattuti in galera o, se accettano, essere inviati fuori dai paesi liberatisi della loro presenza in ambito politico

    (https://www.facebook.com/gianfranco.lagrassa/posts/10214421648685101)

    1. Da Machiavelli a noi (evitiamo di fare ricerche precedenti) la politica e gli atti esistenziali non sono in contraddizione. A parte Croce, etica (psicologia, antropologia, morale, vita comune, religione… ) e politica si regolano in modi diversi. Pure per Marx e per Lenin. Volere o no.

      1. Avevo commentato GLG chiedendogli di confrontare la posizione da lui espressa con quella di Formica uscita in un articolo il giorno stesso. Due diverse ipotesi di collegamenti, o meglio subordinazioni, internazionali, differenti, via Ue o no. La politica delle migrazioni dentro quei due quadri. Politiche che subordinano l’etica eventuale.
        Dove sta la gente comune? Mi pare in un territorio etico, c’è un comune confine che possa influenzare, condizionare, quello politico?

        1. “Avevo commentato GLG chiedendogli di confrontare la posizione da lui espressa con quella di Formica uscita in un articolo il giorno stesso”

          Sorvolando su un piccolo, cinico dettaglio: ” sarebbe indispensabile affondarle. Ovviamente prima che raccolgano migranti. Quanto all’equipaggio, ci sono sicuramente sufficienti scialuppe di salvataggio”

      2. Sempre a rimestare diavoli liberali (Croce) con santi (Marx, Lenin) per dire – “volere o no” – che dobbiamo sottometterci.

        1. mi riferivo ai “distinti”, piuttosto che alla dialettica, non si capiva? d’altra parte etica e politica nemmeno nei “santi” sono mescolate

  4. Nelle sue prime fasi – gli emigranti, provenienti da regioni diverse e con un’identità e un senso di appartenenza regionale, furono identificati e trattati come italiani (Franzina, in Storia dell’emigrazione italiana, 2001). . Partiti come siciliani, napoletani o piemontesi, gli emigrati si trovarono a essere visti e trattati come italiani dalla società e dalle istituzioni dei Paesi di insediamento. In questa stessa direzione agirono le organizzazioni e i movimenti politici.
    Lo sviluppo del senso di appartenenza nazionale tuttavia non avvenne in contrapposizione al senso di appartenenza regionale e locale, espresso dalla formazione delle prime associazioni di immigrati provenienti da qualunque posto d’Italia. È anche vero che loro venivano pregiudicati e chiamati “terroni”. Invece per un migrante che proviene dall’Africa la situazione diventa ancora più difficile. Loro devono combattere tra due identità: un’altra nazione ma anche un’alta identità regionale. C’è chi fa fatica a trovare un’abitazione anche in un determinato quartiere….
    Ps: un tema per un altro libro…

    1. Solo il papa dice che siamo tutti figli di dio. Ma gia i capi politici con rosario in mano fanno le loro distinzioni.

      1. Non è necessario essere ( o credere di essere” “figli di Dio”) per riconoscere che gli immigrati sono umani come noi. E chi mette “prima gli italiani” e cancella gli immigrati cancella sia l’universalismo cristiano che quello umanistico.

        1. L’universalismo umanistico, a parte il fatto che deriva da quello cristiano, incarna principi etici. Poi li fa valere, se riesce, sul terreno della politica, sdegno e rampogne non bastano.

  5. “sdegno e rampogne non bastano” (Fischer)

    E chi dice che bastino?
    Ma pensare di cavarsela coi richiami alle bronzee leggi delle dottrine politiche chiudendo gli occhi sugli ammazzamenti di migranti e considerandoli “danni collaterali” forse basta?
    L’ipocrisia dei dotti è peggio per me dello sdegno dei “buonisti”.

  6. E poi il confine tra morale e politica è sempre mobile e comunque spinto – in avanti o indietro, da una parte o dall’altra – nel conflitto tra dominatori e dominati. Salvini che agita il rosario che fa? E gli immigrati pure, per il fatto stesso di fuggire, sottopongono le loro credenze alla prova del mutamento…

    1. @ Ennio Abate: questa tua ultima considerazione, sul confine spinto sempre avanti, non contrasta forse con la considerazione precedente in cui accusi invece (qualcuno in particolare? me? sarei anche responsabile di non avere criticato GLG per la sua pretesa di affondare le navi *prima* che imbarchino i migranti? boh!) di chiudere gli occhi sugli ammazzamenti dei migranti, considerandoli danni collaterali?
      Se viviamo, come viviamo, in una situazione di confine sempre mobile tra morale e politica, come fai a sdraiare chi vuole trattare la questione delle migrazioni in modo articolato (Visalli per esempio, in alcuni articoli sul suo blog) su chi vuole direttamente ammazzare i migranti? C’è o no una questione gravissima, e mondiale addirittura, sulle migrazioni umane al nostro tempo, in rapporto agli stati? E perché mai chi tratta l’argomento, solo per questo dovrebbe anche fregarsene delle vite?
      Quale è, veramente, la soluzione non fantasticata per le vite dei migranti? I flussi regolati con visti? L’accoglimento come che sia di chi arriva attraverso i flussi criminali?
      Non c’è un vasto spazio di discussione tra le due strade, per condurre la seconda verso la prima soluzione? Fermo restando poi che in ogni caso, a livello personale, la maggior parte delle persone nel nostro paese accoglie e lavora in loro favore?

      1. Credo ci sia una netta differenza tra “spingere il confine” (tra morale e politica) a favore di una inclusione dei migranti (che non significa esclusivamente in un paese, in Italia ad es.) e spingerlo invece verso la loro esclusione (La Grassa e tanti altri).
        Sono – nell’essenziale – posizioni inconciliabili. E lo si vede a livello del linguaggio nella interpretazione dei singoli episodi di cronaca e nell’impostazione di fondo (teorica,strategica, filosofica, di visione del mondo) dei ragionamenti. E nei fatti (scelte di Minniti prima, di Salvini oggi. Ecc.). Le battute polemiche fanno da contorno, ma portano le tracce delle rispettive interpretazioni: anche La Grassa non vuole “ammazzare i migranti” ma vuole eliminare – “disinfestare” dice! – tutti i “buonisti” e i “sinistri”: che se non è zuppa è pan bagnato)
        Arrivati a questo punto di chiarezza delle posizioni ( e qui su Poliscritture lo si vedeva già nel 2016:https://www.poliscritture.it/2016/12/28/noi-e-loro-nello-specchio-di-facebook-verso-la-fine-del-2016/ ) non vedo più «un vasto spazio di discussione tra le due strade». Non resta che scegliere, sopportando anche i limiti della propria scelta. E poi i nostri posteri vedranno con chi stare o a chi dare più ragione.

        Il caso di Visalli è, secondo me e per quello chedi lui ho letto (all’inizio di più, poi non più), più ambivalente. Innanzitutto, non è che sia il solo a dire che le migrazioni, nelle loro cause e nelle forme che assumono oggi, siano « una questione gravissima, e mondiale addirittura». Ma anche lui opera secondo una scelta ormai fatta: in una logica “riformistica” suggerisce forme di regolazione che a me paiono non tenere conto a sufficienza del grado di globalizzazione dei conflitti interstatali e tra grandi potenze. Resta cioè – realisticamente?- a cercare le soluzioni nell’ambito degli Stati nazionali (non a caso ha aderito o simpatizzato con le posizioni di Patria e Costituzione, se non sbaglio). E mantiene una certa – ambigua per me – neutralità da “studioso” aggiornatissimo, che ti seppellisce troppo spesso sotto una enorme valanga di libri letti e di autori citati.

        Posso ipotizzare anche che non esiste, in questo contesto storico, una «soluzione non fantasticata» che metta d’accordo tutti. Ma allora, ancor più, si tratta di fare una scelta, una specie di scommessa. O di mantenersi in un’ambivalenza da “zona grigia”. Comunque, io non ho dubbi a spingere pensieri e comportamenti a favore dell’inclusione e non a puntare sull’esclusione.

  7. …secondo me, brandire un rosario come fosse un’arma di difesa e di attacco a protezione di interessi parziali, escludenti larghe fette di umanità (poteva anche essere la mezzaluna, la stella di davide, il tao… se esibiti solo per negare) favorisce il fanatismo settario…Così non si costruisce la ricerca di un denominatore di umanità comune, ricerca che dovrebbe informare la morale e la politica…Di recente un’amica mi ha inviato una foto dell’ingresso al Museo Antropologico di Montreal, Canada, affermando che si tratta del più bel museo che abbia visitato…una lettura, credo, da affiancare al Vangelo, alla Bibbia, al Corano, alle Dichiarazioni dei Diritti, alle Costituzioni…sulle ragioni e i misteri dell’essere umani

  8. A proposito di religiosità e laicità…

    SEGNALAZIONE

    Stralcio:

    L’immagine genitoriale rassicurante, accogliente e protettiva interiorizzata dalla persona può identificarsi sia con una presenza divina sia con un ideale del tutto umano. In entrambi i casi la mente accede all’idea di trascendenza, percependo come reale, possibile e degna una realtà che travalica l’individuo. Sacra o profana che sia tale realtà, i suoi effetti positivi sulla mente non cambiano. Di quale tipo sarà e come evolverà la percezione della trascendenza dipende dalla struttura sociale e spirituale in cui si cresce. È un dato di fatto che diversi miliardi di persone si rivolgano ogni giorno a qualche divinità e ciò rende il fenomeno religioso molto interessante anche da un punto di vista psicologico. Siccome è un dato provato da test e ricerche che “chi crede in Dio, ed esprime la propria fede con attività rituali o dichiarazioni di fede, subisce precise modificazioni neurobiologiche”, Cyrulnik si chiede cosa determini l’attaccamento religioso, quali effetti produca la fede e come influenzi l’attività psichica spontanea, indipendente dalla volontà e dalla consapevolezza.

    Nonostante tutte le religioni predichino l’amore a Dio e al prossimo, per alcuni le parole della fede sfociano “in un linguaggio totalitario che pietrifica le anime”. Molte persone religiose detestano chi è diverso per fede, convinzioni, scelte, appartenenza al punto da volerne la morte. Non si può dunque ignorare che la stessa religione può portare gli uni all’altruismo, alla mitezza e all’accoglienza del prossimo, mentre in altri sfocia nel fondamentalismo e in un’intolleranza distruttiva. Bisogna ammettere con Cyrulnik che la religione “struttura la visione del mondo, salva moltissime persone, organizza quasi tutte le culture… e provoca disagi immensi!” Di tale tragica incongruenza possiamo dire almeno due ragioni. Innanzitutto lo stile d’attaccamento nei confronti del divino dipende dal modo in cui abbiamo appreso a relazionarci nell’esperienza vissuta: “Chi ha acquisito uno stile di attaccamento rigido si sottometterà a un Dio totalitario, mentre chi ha uno stile di attaccamento sicuro sarà abbastanza fiducioso da tollerare chi ama un Dio diverso”. La seconda ragione ha a che fare con la profondità della conoscenza del proprio stesso credo, perché quando una fede non è “argomentata, la sua deriva spontanea la spinge verso il totalitarismo”.

    Chi nega il dubbio, anziché affrontarlo con coraggio, ha paura e per questo diventa aggressivo e intollerante; al contrario, chi affronta il dubbio e l’attraversa può uscirne con una fede più salda e non avverte il bisogno d’imporsi con la forza sull’incredulità altrui o su chi professa un altro credo. D’altra parte già Agostino d’Ippona sosteneva che la fede se non è pensata non esiste, è qualcosa d’altro.

    Nei periodi d’incertezza culturale, precisa Cyrulnik, il sistema religioso non funziona correttamente e produce tre tipologie di problemi molto seri: culturali, che si traducono in guerre pseudo-religiose, come quelle che stanno tormentando il mondo da alcuni decenni; problemi psicoaffettivi, come il fanatismo, e neurologici, come certe forme di estasi e allucinazioni. Esistono molti modi diversi di credere o non credere in Dio, l’idea che ognuno si fa del divino si modella a seconda del contesto culturale in cui si cresce, delle esperienze personali vissute e del modo in cui il credente incontra Dio. In un ambiente sereno, stabile e affettuoso Dio avrà “le sembianze di una benevola forza sovrannaturale” che diventerà un sicuro fattore di resilienza nelle difficoltà, una forza che induce alla speranza e alla sensatezza del reale. Può certamente essere intesa in questo senso la famosa e spesso citata affermazione di Nietzsche “chi ha un perché sopporta quasi ogni come”: posso resistere nel dolore se riesco a dare un senso alla mia sofferenza, se riesco a conservare la speranza che il male che sta accadendo a me non pervada il mondo, che anche se io soccomberò, al di fuori di me e della situazione che sto subendo, ci sia ancora, almeno per gli altri, la possibilità del bene.

    ( da https://www.doppiozero.com/materiali/sopravvivere-al-male-psicoterapia-di-dio?fbclid=IwAR1wtv5Xf4Oby1K3X_ymzchzUDzdZD9dlAXkGHIt04iNEG5Ko9vHOgUv7fw)

  9. Ciascuno a casa sua (casa “nazionale” ovviamente idealizzata!). E Dio pure viene un po’ “nazionalizzato” (anche in questo caso: a ciascuno il suo ). Ogni processo di cambiamento che metta in crisi le case proprie (nazionali) viene svalutato e demonizzato, prendendo a pretesto i “conflitti di civiltà” teorizzati e alimentati dalle élites ma imputati ai migranti o agli «stranieri residenti» che li contrastano (Donatella Di Cesare). [ E. A.]

    SEGNALAZIONE

    Gianfranco la Grassa
    https://www.facebook.com/gianfranco.lagrassa/posts/10214448192428678

    https://scenarieconomici.it/al-grido-di-la-francia-non-e-dei-francesi-400-migranti-occupano/?fbclid=IwAR2pE71BnVdgmF4WrfugaZh3mf1559huoN8TAKaHn05Tl4XzO_NJYLkr8e4
    in realtà, nella sostanza, la Francia deve restare ai francesi, l’Italia agli italiani, la Germania ai tedeschi e via dicendo. E naturalmente ogni paese africano o asiatico deve restare ai suoi abitanti da secoli e che hanno una loro cultura, tradizioni, modo di vita e via dicendo. Quando ci fu il movimento detto della “negritude” (Senghor, Aimé Césaire, Damas, ecc.), lo considerai assai positivo e giustificato. Così come sono pienamente soddisfatto di aver approvato e simpatizzato senza riserve per la lotta di liberazione nazionale in Algeria o in Vietnam, ecc. E sono nettamente favorevole a chi in Sud America resiste alla prepotenza USA, da qualsiasi establishment di questo paese provenga. In poche parole, è ora che si rispettino fino in fondo le diversità culturali, etniche, ecc. che abitano questo pianeta. Che possano esserci reciproci “innesti” di date “civilizzazioni” in altre è inevitabile e non dannoso se ciò resta entro limiti tali da evitare le indebite e improprie mescolanze, che creano poi altrettanti disagi reciproci e quindi inevitabili forti “malumori”. Questi ultimi servono a – e quindi sono debitamente promossi da – classi dominanti (con i degradati ceti politici da esse espressi), ormai marce e pressoché disfatte, che hanno la loro “ultima spiaggia” nella creazione di situazioni in cui le classi sottostanti vengano distratte e rese fra loro avverse tramite questi forzati e volutamente mal preparati “incontri” in grado di suscitare violenti contrasti e rifiuti degli uni da parte degli altri.

    La cosiddetta “carità cristiana” e i conati di un “comunismo” – che nulla ha a che vedere con quanto pensavano e speravano i comunisti di tanti e tanti decenni fa (non dico un secolo, ma oltre mezzo senza dubbio) – sono oggi la punta avanzata di un processo che rischia di annientare ogni vera diversità (di reciproco “arricchimento”) in un miscuglio di etnie e culture in grado soltanto di odiarsi e respingersi fra loro.

    In questo contesto di profondo degrado e disfacimento si inserisce poi uno scontro – che ha una lunga per non dire “eterna” storia – tra gruppi dirigenti di “comunità” (da alcuni secoli ormai divenute paesi e Stati) diverse per una supremazia di tipologia più generale (da molto tempo ormai di carattere mondiale).

    Premesso che la vita è conflitto anche acuto tra “poli differenti” – e non certo una inerte e indifferenziata mescolanza di anodini gruppi sociali con culture senza nerbo né effettiva propria tradizione – è indispensabile come primo passo individuare le modalità (connesse sempre a forti nuove ideologie perché quelle ancora sopravvissute sono solo “acquaticcio fangoso”) per far nascere un forte movimento che elimini senza falsa pietà i portatori del degrado oggi in atto soprattutto nel cosiddetto “occidente”, costituito dai paesi più “avanzati” soltanto dal punto di vista economico e del livelli “materiali” di vita. Solo eliminando sistematicamente e con estrema minuziosità i ceti politici e “pseudo-culturali” (in particolare, ma certo non soltanto, quelli detti per abitudine “di sinistra”), l’ “occidente” potrà rivivere una nuova epoca storica di riavvio della propria civiltà; altrimenti ci si rassegni ad una decadenza paragonabile a quella dell’Impero romano. E pur non essendo religioso, voglio ricordare con nettezza che la nostra civiltà e lunghissima storia è per l’essenziale cristiana. Non si tratta certo di promuovere “crociate”, ma di smetterla con l’indebito innesto di altre tradizioni religiose, da rispettare massimamente ma nel loro ambiente plurisecolare di grande vitalità.

  10. Senza dover contrapporre laicità e religione. Si può leggere la religione anche oltre la psicologia, e oltre certezze sociologico/morali sulla difesa della propria “casa … ovviamente idealizzata” (!).
    Sarebbe invece da operare efficacemente per convincersi e convincere che “Ciò che conta è lo scopo, che è sempre lo stesso: essere persone gentili e compassionevoli nel nostro rapporto con gli altri (…) perché fondamentalmente tutte (le religioni) insegnano gli stessi valori: amore, compassione, tolleranza.”

    “Una volta ho chiesto a un anziano frate perché il Cristianesimo non crede alle vite precedenti; mi ha risposto ‘perché ogni singola vita è creata di Dio’. Pensare in questo modo fa sorgere un senso di intimità con Dio. Così come il nostro corpo viene dal grembo di nostra madre – ed è per questo che le siamo così legati – la nostra vita viene da Dio: veniamo da Lui, ci ha creati e questo ci dà un senso di vicinanza. E più vicini ci si sente a Dio, più forte sarà la nostra determinazione a seguirne l’insegnamento, che è l’amore, la compassione. L’approccio teistico è quindi davvero potente e di grande aiuto per molte persone, molto più di quanto potrebbe esserlo quello non teistico.
    È bene restare legati alla propria tradizione religiosa.”

    http://it.dalailama.com/messages/religious-harmony-1/the-relevance-of-religion-in-modern-times

    1. Il discorso religiosità/laicità è del tutto secondario nella discussione sulle migrazioni che stiamo facendo e non vorrei che si scantonasse con richiami (“La cosa migliore è essere ben informati, perché questo aiuta ad essere rispettosi”) che trovo del tutto banali e smentiti dai fatti.
      E’ su quelli che bisogna arrovellarsi e anche entrare in conflitto con chi li usa per escludere i migranti dalle relazioni sociali vantaggiose solo per una parte dell’umanità.
      Che poi uno debba restare religioso per “convenienza”, perché “in generale, la religione rappresenta uno strumento per portare alla nostra mente pace e appagamento, un senso di benessere ” mi indigna. E’ uno svilire lo stesso pensiero religioso, che davvero viene assimilato all'”oppio dei popoli”. Ed è un’evoluzione del sentimento religioso che somiglia troppo alla deformazione subìta anche dalla psicoanalisi. Che, da strumento di ricerca sull’ignoto, s’è adattata ad essere strumento di appagamento e benessere esclusivamente interiore e individualistico.

  11. E’ elitista trattare la questione religione come una tovaglia da cui si sbattono via le briciole. Quando poi la recente politica di Salvini la mette in mezzo, e subito gli rispondono i laici che la rivendicano come fatto privato. E invece gli integralisti godono, e prelati, parroci e semplici fedeli ecco che si pronunciano, pro o contro.
    Come si può non tener conto che religione e politica sono state intrecciate negli ultimi 25 anni? o 75? o 90? E lo sono nelle invocazioni dei presidenti americani e sud americani, vedi Bolsonaro, e così via.
    Che sia affare di cuore, o di ragione, o di diritti universali (che restano la traduzione laica della uguaglianza fra tutti i figli di dio) anche le migrazioni sono pensate e affrontate con presupposti religiosi, impliciti, quando non *laicamente* negati.
    Questo perchè “arrovellarsi e entrare in conflitto” coinvolge idee politiche e culturali che non appaiono autosufficienti per tutti.
    Allora sto dicendo di tornare alla religione?
    Dico piuttosto che non si può escludere la religione dalla politica. Non per tutti, semplici e colti, una cultura laica è autosufficiente.
    L’intervento del Dalai Lama che ho proposto aiuta a chiarire qualcosa nel rapporto tra religione e politica. Le religioni, dice, non sono solo quelle creazioniste, quelle del libro, di un Dio che “ha poteri illimitati e illimitate compassione e saggezza … va oltre la nostra esperienza, è la verità ultima”. Quel Dio è, appunto, il presupposto culturale e storico dei diritti universali e delle nostre risorse razionali.
    Religione è anche quella dei non teisti, però, dice il Dalai Lama, “i precetti sono gli stessi: amore, compassione, perdono e così via”.
    Egli cioè attribuisce queste virtù assolute al campo della religione, mentre per i laici sono valori solo umani: civiltà, cultura, dovere, ragione, responsabilità. Ma queste qualità umane, di una umanità ideale che deve estendersi a tutti, al presente e al futuro, hanno la caratteristica di essere una continua rincorsa tra continue cadute. Il nichilismo e la *santità laica* alla Savonarola vengono dopo la fine della religione: ammettiamo che sia solo coincidenza temporale, tuttavia le contraddizioni della ragione sono ancora devastanti.
    Che senso ha considerare il discorso laicità/religione del tutto secondario per le migrazioni, e non solo? Quando la religione ne è coinvolta, mi pare che il laicismo sia quasi ispirato dalla paura delle guerre religiose europee di cinque secoli fa.
    E che senso ha il tono sprezzante di commentare la frase “La cosa migliore è essere ben informati, perché questo aiuta ad essere rispettosi” come un “richiamo del tutto banale e smentito dai fatti”? Mentre invece la frase si riferisce a qualcosa di politicamente concreto: è meglio rivolgersi alle tradizioni religiose essendo “ben informati perchè questo aiuta ad essere rispettosi”.
    L’ipotesi religiosa è la speranza che il fondamento di “amore compassione e perdono” sia più grande di noi, in qualche modo fuori ma anche dentro la storia. Come si può quindi espungere sic et simpliciter chi ha questa idea di religione dalla politica? Trovo abbastanza necessario che la religione diventi materia di riflessione e di confronto.

    1. Nessuno vuole « escludere la religione dalla politica» o dalla riflessione o mettersi a fare il difensore della laicità illuministica contro le “superstizioni”. Ma se la religione entrasse nei discorsi sulle migrazioni con affermazioni generiche o “auto terapeutiche”tipo quelle del Dalai Lama (“La cosa migliore è essere ben informati, perché questo aiuta ad essere rispettosi”; “In generale, la religione rappresenta uno strumento per portare alla nostra mente pace e appagamento, un senso di benessere” ) sarebbe uno svilimento dello stesso pensiero religioso. Da contrastare – altro che sprezzo! E lo stesso vale per l’uso della religione fatto da Salvini o Trump o Bolsonaro.
      Dove sta il “rispetto” per gli umani ( o la compassione o il perdono, etc.) in gentaglia come questa che si dice credente? O in che tipo di Dio crede?

      Né capisco come si fa poi a considerare positivamente chi – religiosamente – vede in Dio « il presupposto culturale e storico dei diritti universali e delle nostre risorse razionali» e allo stesso tempo sostenere o simpatizzare per le posizioni sovraniste e neo-nazionaliste tendenzialmente romantiche e irrazionaliste e escludenti.

  12. La divisione tra plebe e elite non si confonde: la plebe si sente ed è esclusa. La vecchia e nuova destra la interpreta?
    Non sarebbe la prima volta.
    La tradizionale politica di sinistra ormai ne è esclusa.
    Ma la plebe è, di nuovo, maggioranza.
    (A caduta: suffragio universale, e nuovi aspiranti all’impadronirsi dei voti.

    Io voglio tener conto dei sistemi ideologici della plebe, perché plebei siamo tutti.

  13. No, plebei non siamo. E «tutti» men che mai. È una parte di “noi” (ex “ceto medio”, ex “piccola borghesia”) in via di impoverimento che enfaticamente assume un’ideologia “pelebeista” e si vive nell’immaginario come plebe o *finge* di essere plebe. Cancellando così la contraddittorietà dei processi in corso e sostenendo che sia completamente superata la contrapposizione (politica) destra/sinistra, dicendo che è del tutto inaridita l’una («la tradizione politica di sinistra ormai ne è esclusa») e fremendo per l’avanzata egemonica dell’altra («la plebe si sente ed è esclusa. La vecchia e nuova destra la interpreta?
    Non sarebbe la prima volta.
    »). E dando per scontato che sia morta in particolare la sinistra marxista, con la quale civettò negli anni ’60-’70 del Novecento, seguendo “la moda” di allora come segue quella populistica di oggi.

    E non confondiamo la dimensione sociale da quella politica. Cosa vuol dire: «la plebe è, di nuovo, maggioranza”? Lo è demograficamente o elettoralmente?
    Chiamare la popolazione – comunque una parte di essa, proprio perché plebei non siamo tutti; non ci sono forse nella popolazione anche gli ex “borghesi”, i “radical chic”, etc.? – col termine di ‘plebe’ o di ‘popolo’ è una scelta politica *soggettiva* (opinabile) e non un dato di realtà *oggettiva” (meno opinabile). Chi la sposa svela un’attrazione per modelli di società pre-moderni, pre-illuministici, pre-marxisti. Tant’è vero che un Negri, che a Marx è rimasto ancorato (a modo suo e in modi diversi da altri marxisti gramsciani o althusseriani o luxemburghiani o leninisti) respinge le tesi “plebeiste” e quelle “populistiche”. Infatti, parla di *moltitudine*, mantenendo una contrapposizione di tipo dinamico (post-industriale) al Capitale e non cedendo alla naturalistica suddivisione (non dinamica) tra basso e alto, tra una generica plebe e una generica élite.

    1. Plebeo è, direi, chi non si connette più politicamente a schemi definitori ossificati. Chi per esempio ride delle etichette a cascata sovranista-populista-fascista. Si allarga quindi l’essere plebei sul piano della ideologia.
      La appartenenza a un ceto, a una classe, la adesione a un programma politico, le analisi di poteri economici, sono altra cosa.

      1. SEGNALAZIONE

        Claudio Vercelli

        Guarda, puoi anche aprire la finestra e vedere se sia il caso di darsi ad “un malore attivo” ;-). Ciò che stiamo vivendo, a mia modesta opinione, è un mutamento profondo, di lungo periodo, che riguarda l’Italia ma anche il resto dell’Europa. Mettiamola in un’unica soluzione: è finità l’età del compromesso socialdemocratico e dell’interclassismo popolare. La politica registrada tempo questa trasformazione. Si torna al plebeismo, da cui avevamo cercato di uscire a partire dal secondo dopoguerra in poi. Anche per questa ragione le scempiaggini fascistiche e nazistoide piacciono a quanti, dovendo amministrare un tale trapasso, più che vedersi come cani pastore di mandrie preferiscono pensarsi evolianamente come “aristocrazia dello spirito”.

        ( DA https://www.facebook.com/claudio.vercelli/posts/10218131238902431)

        1. Appunto! Le scempiaggini fascistiche e nazistoidi… Ma chi si vuole pensare evolianamente eccetera? Ah, saperlo! (Dagospia)
          Che intanto la “sovrastruttura” abbia cambiamenti in proprio?

          1. “Ed è proprio qui che si inserisce il risultato elettorale del 35% circa della Lega di Salvini. Al di là della sua massiva sovraesposizione mediatica, va detto che malgrado tutto il peggio che si possa pensare, per le fasce che stanno pagando maggiormente le politiche liberiste è il solo in grado di rappresentare la loro condizione e *farlo con il loro stesso linguaggio che gli consente di essere percepito come uno di loro che ha perfettamente capito cosa vivono* e quindi anche in grado di sapere quale sia la ricetta per uscirne.

            Salvini ha saputo come gestire i suoi alleati di governo – anche il dato delle amministrative infatti conferma quello europeo – e di certo da oggi all’interno dell’esecutivo cambieranno di molto i rapporti di forza. Aspettiamoci dunque che passino oscenità come la riforma sul regionalismo differenziato e chissà cos’altro da qui al 2023.
            E sì, perchè non credo affatto che cadrà il governo. Non lo credevo nemmeno prima ma particolarmente adesso non lo credo.
            Non dopo che Salvini in questa partita ha saputo giocare così bene le sue carte al punto di aver fatto, in UE e dentro al governo, scopa, primiera, carte, ori e settebello. Un vero e proprio cappotto sui suoi avversari.”
            https://www.facebook.com/letteramanifestosovranismocostituzionale/posts/355355085331118?__tn__=K-R

  14. SEGNALAZIONE
    Una politica oltre la nazione
    Donatella Di Cesare26 Maggio 2019
    https://jacobinitalia.it/una-politica-oltre-la-nazione/?fbclid=IwAR1aLlR7CuSvlN-XkT3YHFzxYttgdbPH2yr03_5d56z7OZvQhYi7XylgoZI

    Stralci:

    1.
    È ovvio che se guardiamo ai fenomeni migratori esclusivamente in un’ottica statocentrica, cioè a partire solo da quel che avviene all’interno dei confini di una nazione, ad esempio l’Italia, finiamo per essere fuorviati. Perché è inevitabile difendere i privilegi che abbiamo come cittadini. Da una parte lo Stato ci protegge, dall’altra ci chiede di sostenerlo contro chi lo metterebbe in pericolo. Qui sta lo scontro epocale tra i cittadini dello Stato-nazione e i migranti, uno scontro che si sta trasformando in una vera e propria guerra. Se si accetta la logica della selezione dei flussi, la migrazione diventa solo un problema di governance: quanti rimpatri riusciamo a fare, quanti migranti riusciamo a respingere, quanti ne sbarcano. Su questo terreno è evidente che la sinistra rincorre la destra. Succede in Italia, ma anche in Germania, dove questi argomenti sono sposati dalla socialdemocrazia e persino da una parte della Linke. Se si segue questa logica il miglior risultato possibile non può che essere quello dei porti chiusi. Il problema sono i flussi migratori o lo Stato nazione che è una forma politica assolutamente obsoleta? Dobbiamo ribaltare la prospettiva. Il sovranismo nasce esattamente qui: dalla volontà di tenere in vita lo Stato-nazione, mentre si dovrebbe guardare, nel contesto della globalizzazione, a forme politiche post-nazionali.

    2.
    Vorrei precisare che io non difendo semplicemente la «libertà di movimento». Il diritto alla circolazione è una posizione astratta, speculare al liberalismo. Chi emigra è spinto a muoversi da cause gravi, individuali e collettive, spesso intrecciate tra loro: guerre, cambiamenti climatici, carestia, persecuzioni ecc. Migrare è un atto esistenziale e politico, che è determinato da alcuni fattori, ma è pur sempre una scelta. Lo ius migrandi è una delle grandi battaglie del nostro secolo: il punto non è semplicemente la possibilità di attraversare le frontiere, ma il diritto a una nuova chance di vita, a una nuova possibilità. Occorre garantire il diritto non solo a circolare, ma a essere accolti, a risiedere dove si desidera. Io sono contrarissima a vedere la questione delle migrazioni come una questione di etica – come ha fatto tanta filosofia – ma anche attraverso il bel gesto della carità cristiana. Il punto è politico: bisogna mettere in discussione lo Stato. Perciò è necessario rovesciare i termini: il problema è lo Stato-nazione, non le migrazioni. Si tratta di radicalizzare quello che Hannah Arendt già aveva intuito, ed è questa la novità del lavoro che sto discutendo in Italia e all’estero. Non riusciamo però a fare passi avanti nel costruire un’innovazione della prassi politica perché c’è una sinistra che pensa che il welfare si possa garantire solo nei confini dello Stato nazione. Quindi sì, serve un nuovo internazionalismo ma questo si darà solo in presenza di una nuova sinistra che faccia suoi questi assunti.

    3.
    Si può raccontare la storiella che lo Stato-nazione è un palliativo: dato che il capitalismo è globale, e il capitale non conosce più frontiere, il movimento opposto e contrario dovrebbe essere quello di rinsaldare stato e frontiere. C’è una sinistra – forse la maggioranza a livello mondiale in questo momento – che pensa che per arginare il capitale globale, per far fronte ai problemi complessi della globalizzazione, occorra ripartire da una forma politica che conosciamo e che ha dimostrato di funzionare. Un ragionamento che apparentemente ha dei punti di forza, a cominciare dal fatto che i ceti popolari e anche la classe media potrebbe comprendere questa impostazione sul breve termine nella speranza di vedersi protetti. Ma ci sono due enormi problemi. Anzitutto i migranti vengono sacrificati sull’altare della riconquista della sovranità statale. Questo è un atteggiamento reazionario, cioè proprio regressivo, perché si limita a reagire alla realtà della globalizzazione, senza guardare alla possibilità di nuove forme politiche. In secondo luogo si tratterebbe di rafforzare l’indebolito Stato-nazione. Il che si traduce in un surplus di sovranismo. Fili spinati, muri, torrette con uomini armati, vigilantes sono una drammatica teatralizzazione della sua forza per mascherarne le debolezze.

    4.
    A me non piace la parola identità, la trovo sempre pericolosa e inquietante, soprattutto in Italia. L’identità è solo un mito. Fondamentale invece è la comunità. Se lo stato perde terreno, l’alternativa è proprio la comunità. Ma non quella fondata sull’identità e l’immunizzazione, ma una comunità fondata sull’ospitalità. Dobbiamo anche superare il diritto d’asilo per guardare a un’ospitalità che diventi un dato costitutivo delle nostre società. Non è un caso che, in questa battaglia, all’avanguardia siano le città, le grandi metropoli. Come sapeva bene Walter Benjamin, le città sono costituite per lo più da stranieri residenti, estranei che ricevono il diritto di residenza, e non solo quello di visita, costituendo così un nuovo paesaggio umano e politico.

    5.
    In questi anni mi sono spesso occupata dell’ideologia dell’ultradestra. Si tratta di fenomeni nuovi solo in parte, perché a ben guardare vengono ripresi e rilanciati temi radicati nel nazionalsocialismo. Dobbiamo stare molto attenti: se suona ridicolo dire «sta tornando il fascismo di ieri», non possiamo neanche escludere l’arrivo di un fascismo contemporaneo. Io vedo una continuità tra le idee di ieri e quelle di oggi, prima di tutto nella pretesa di decidere con chi si vuole abitare. In altri termini: stiamo vivendo una pulizia etnica ai nostri confini. Non solo con le politiche dei porti chiusi, ma anche ai confini terrestri. È una pulizia sistematica richiesta, fuori e dentro, dallo Stato-nazione, che altrimenti non potrebbe esistere.

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