Dediche. A Gesualdo da Venosa

di Antonio Sagredo  
languisce al fin chi da la vita parte     
mercé grido piangendo
o tenebroso giorno
moro, lasso, al mio duolo

 
                              Gesualdo da Venosa
 
 madrigale  ve (le) noso
 
Il capezzale di una donna non  amai  fittizia alcova o reale
solo l’insana malattia di una melancholia carnale mi sedusse.
Liberai commosso i carnefici esiliati dai rastrelli della mente.
Il castello dei merli fu più di una malattia ascetica: una quinta!
 
 
La fuga generò una kermesse di cinque voci e semitoni,
una carezza della nemesi celebra ossessa atti indicibili,
il procardio vomitò esausto il cromo di  straziate note:  
vola -su –seno-doge … vola-su-seno-doge… vola-su…
 
 
Con gli occhi dei liuti ho cantato i carmi  di un Orazio esterrefatto, 
le mie labbra normanne  gonfie come nere vele dal favonio,
 pentagrammi di artigli e ombre assolate sul  leggio infame.
La mia vita fu santa, sublimata dall’inchiostro, e dai delitti!
 
   
A.S.
Vermicino, 3 ottobre 2008
 
 

6 pensieri su “Dediche. A Gesualdo da Venosa

  1. Ed eccoci a leggere/gustare uno dei tantissimi gioielli in versi di Sagredo, che oggi , questo blog, ci presenta : Gesualdo da Venosa, madrigalista eccellente, stimatissimo da alcuni musicisti del secolo trascorso, in primis Stravinskij.
    Che dire, io come alcuni suoi affezionatissimi, stimiamo la solidità costruttiva dei suoi componimenti in un mondo che si sta frantumando da oramai alcuni decenni: i versi di Sagredo sono delle piccole (alcuni sono sublimi) cattedrali di dove escono note altissime e altre ve ne entrano per essere mutuate e ripresentate rinnovate.
    In questo componimento, in pochi versi, 12, viene riferita come in un carosello teatrale l’esistenza di Gesualdo: l’assassinio, la fuga, la musica che trova nell’ultimo verso la sua apoteosi, e il trionfo in una “santa”, direi beata dimensione.
    Noi dobbiamo dei debiti difficili da esorcizzare, e nessun credito se non quello di attendere a letture straniate e non di altri suoi gioielli/cattedrali.
    G. R.

  2. Mi permetto un piccolo e più che doveroso intervento, che non può non essere a favore delle poesie di Antonio Sagredo. Ci ha abituato a elevate e profonde letture questo autore salentino, tanto dall’aver costretto il prefatore dei suoi “CAPRICCI”, Donato di Stasi ad affermare che se Sagredo è affetto da “titanismo”, i restanti poeti sono soltanto degli “impiegati della letteratura”, e con buona pace di questi avanzi mettere un punto fermo, come uno spartiacque “crudele e spietato”, che lascia dietro di se rovine costruite con la sabbia e non con la rabbia, poiché la sua compassione pietà ci avverte che siamo soltanto accattoni, e non “meduse d’amore” come recita una altra sua poesia.
    Non credo di aver sparso incensi in suo favore, non ne ha bisogno. Il poeta, questo poeta, è foriero soltanto di “portali di scoperte, come scriveva Joyce, ed è già tanto.

    Dario Pella

  3. Ho cercato su You Tube il madrigale (?) in cui, credo, dovessero esserci le parole citate in questo verso (“vola -su –seno-doge … vola-su-seno-doge… vola-su…”) e non ho trovato nulla.
    Chiedo qualche dritta…

    1. Caro Ennio,
      è ovvio (almeno per me) che non l’hai trovato: non esiste; è soltanto l’imitazione sonora e ritmica di un madrigale forse qualsiasi… le parole si riferiscono a Venezia (doge) quasi senza senso, anzi non hanno senso… e le note sono straziate perché non riescono a darsi una armonia se non alla fine forse…

  4. Talvolta bastano pochi versi ha definire grande un poeta senza sbagliare affatto il giudizio. Leggo i versi di Antonio Sagredo da oltre dieci anni e ogni volta ne sono affascinato, perché la progressione fonica del verso va di pari passo col senso (significato) e per me questo vuol dire dare al senso stesso vari significanti, che a loro volta assumono ciascuno il proprio suono-ruolo di appartenenza all’interno del verso stesso. Non c’è dubbio che la “fascinazione acustica”, come afferma una acuta poetessa, Letizia Leone, del verso di Sagredo è unica nella poesia italiana, e quel concetto di “spartiacque” espresso più sopra da Dario Pella è preciso e definitivo.
    In pochi versi sappiamo tutto di Gesualdo da Venosa perché il poeta concentra tutte le tappe importanti della vita del musicista, da far pensare alla capacità di sintesi mandelstamiana; è davvero cosa rara trovare ne l panorama europeo odierno e del passato prossimo tale qualità.
    Il verso finale di questo componimento ” La mia vita fu santa, sublimata dall’inchiostro, e dai delitti!” testimonia in poche parole, appunto, la vita del musicista.
    E poi dicono che Sagredo è incomprensibile, oscuro, ma proprio perché è anche poeta di citazioni parafrasate, e se non si ha una cultura solida, ebbene di fatto difficilmente si possono gustare appieno i suoi veris.

    A. C.

  5. SEGNALAZIONE

    Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono
    di Mario Barenghi
    https://www.doppiozero.com/materiali/andrea-tarabbia-madrigale-senza-suono

    Stralcio:

    È questo il caso dell’ultimo libro di Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, pp. 376, € 16,50). In prima istanza si tratta di una biografia di Gesualdo da Venosa, compositore vissuto a cavallo fra il XVI e il XVII secolo. Il suo nome è legato da una parte al fondamentale contributo che egli fornì allo sviluppo della musica polifonica, dall’altra al drammatico episodio dell’uccisione della prima moglie, Maria d’Avalos, e del di lei amante Fabrizio Carafa. La storia del principe madrigalista e uxoricida non è però narrata direttamente, bensì attraverso una presunta cronaca d’epoca, attribuita a un servo deforme di nome Gioachino, che capita fra le mani del riscopritore novecentesco dell’opera di Gesualdo, niente meno che Igor Stravinskij. Ecco dunque la struttura del romanzo: una cornice, nella quale Stravinskij, intento alla composizione del suo Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD Annum (eseguito per la prima volta a Venezia nel 1960), scrive al musicologo Glenn Watkins del suo rapporto con Gesualdo, e gli invia la (immaginaria) Cronaca della vita di Carlo Gesualdo principe di Venosa del Signor Gioachino Ardytti servitore fedele. In conclusione, Glenn Watkins (che di Gesualdo è studioso autorevolissimo) risponde a Stravinskij, formulando alcuni commenti che esplicitano la chiave di lettura della vicenda.

    Gioachino è di Gesualdo «servo, e compagno, e ombra»: è presente ad ogni momento della sua vita, incluse le circostanze più intime, e, come se non bastasse, alcune delle opinioni che esprime corrispondono al contenuto di scritti del compositore studiati solo di recente. Più che un personaggio autonomo, si direbbe quindi un doppio del protagonista, come del resto suggeriscono sporadiche allusioni («se lui muore, io muoio»). Nella storia compare una lunga serie di figure storicamente documentate: il padre Fabrizio, lo zio cardinale Alfonso, l’infelice Maria (uccisa e straziata a Palazzo San Severo a Napoli il 17 ottobre 1590), la seconda moglie Leonora (Eleonora d’Este), nonché i due figli Emanuele e Alfonsino, che gli premuoiono entrambi. Ma il più importante tra i personaggi di contorno è un’altra figura inventata, cioè Ignazio, il secondogenito di cui Maria era incinta, estratto dal suo ventre in quella notte di sangue e tenuto poi sempre segretamente recluso, senza alcuna forma di cura o di educazione, in una prigione sotterranea della fortezza di Gesualdo, alla stregua di una feroce, ferina incarnazione della colpa. La vicenda narrata è ovviamente assai cupa. A parte il delitto, commesso per salvare l’onore del casato quando la notizia dell’adulterio già dilaga per Napoli, l’intera esistenza di Gesualdo sembra svolgersi sotto il segno di un tormentoso rovello; l’elemento gotico caratterizza non solo la presenza di Ignazio, tanto più conturbante quanto più nascosta, ma anche la tresca con una dama di compagnia di Leonora, donna Aurelia, che finirà in un losco intrigo di pozioni magiche e stregonerie. Del resto, è lo stesso Gesualdo, dopo la morte di Alfonsino (che provoca il ritorno di Leonora a Ferrara), a confessare che dal dolore si aspetta nuovo alimento per la sua ispirazione creativa; non a caso, egli dichiara di avere per questo, in passato, provato invidia per il Tasso. Un nodo indissolubile lega a suo giudizio genio e sofferenza.

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