Dediche. A Leopardi

di Antonio Sagredo

 
 

Io devo dire a Silvia il tuo rancore 

Ho barato con l’ignoto e la veggenza, 
l’urna e la clessidra si sono rivoltate
per un vomito di versi e di visioni -
il gallo ha beccato la rugginosa banderuola
  
L’Apocalisse se n’è venuta come una troia
turrita di merletti, anatemi e nastri funebri.
Non ha gradito la tragedia come una finzione
ché nello specchio la sventura non ha valore di rovina.
  
Io so che i sogni di quel borgo ti hanno tradito,
sapevi che la luce bovina non aveva spazi per te,
che erano meno finti del tuo infinito come gli zibaldoni,
che l’immensità era una vana e spietata farsa libertina.
  
E quando una marionetta abiurò i fili dinoccolati
per una stecca della Storia ma non del tuo pensiero
ferrigno io devo dire a Silvia il tuo rancore, la grazia 
di quel Nulla che mutò la tua ragione in fatale canto.
  
  
  
 Maruggio-Campomarino, 22-23 agosto 2016
  
  
  
  
   

10 pensieri su “Dediche. A Leopardi

  1. Già il titolo di questa poesia dedicata a Leopardi tradisce l’autore, e questo vale per chi da tempo conosce il piglio e i versi di Antonio Sagredo.
    Le prime due strofe sono in sotto tono (ma non tanto) e sono una premessa per le ultime due strofe, in cui esplodono i sentimenti e i desideri più profondi del recanatese.
    Sagredo si fa sodale intimo e interprete di tutto ciò che gli fermenta nell’ interiore – non so se è soltanto simpatia e empatia fuse insieme – certo è che lo conosce anche troppo bene (gli dà del “Tu” disinvoltamente!) se il verso della terza strofa dà l’incipit: “Io so che i sogni di quel borgo ti hanno tradito” e che “la luce bovina” non è altro che l’occhio di bue della cinematografia incapace di centrare e illuminare Leopardi: un occhio vano ripeto incapace di rendere più luminoso o più oscuro il suo volto-pensiero: Non ne aveva bisogno. Come faceva il borgo a contenere il Cosmo di Giacomo?!
    Da qui prosegue Sagredo svelando in fila i suoi : infiniti, gli zibaldoni, le immensità… le finzione e le farse che gli giravano intorno incessanti… e soltanto a una marionetta l’onore o il destino di rovesciare la Storia perché quella unica a comprendere il pensiero di Leopardi…
    Ferrigno diviene Sagredo – perché ci vuole forza inumana a riferire a Silvia ciò che Giacomo invece si tratteneva dal dirle (troppo sarebbe stato per la ragazza!), e cioè il rancore per il TUTTO che fin dalla nascita (“il dì natale”) gli covava dentro, e che solo la dolcezza (“la grazia”) del Nulla (NULLA/CULLA), a cui la ragione lo aveva condotto poteva far scaturire, e dalla ragione meglio mutarsi in FATALE CANTO.
    Come dire PENSIERO CHE SI FA CANTO E’ NON PIÙ PENSIERO, MA SOLTANTO MUSICA.
    Il pensiero non può essere mai fatale, come lo è invece il CANTO!

  2. MAIL DI SILVIA

    Io che in quel poco di vita
    All’opre femminili intenta fui
    Smossi talor col mio canto di tessitrice
    Messer Giacomo dalle sue sudate carte
    E lo feci meno aristocratico.

    Che ci fa allora il mio candore
    Di donzelletta, di femminetta
    Nelle grinfie di un aristocratico rancore
    E di un pensiero ferrigno?

    Dai non scherziamo!

    Ignoto, veggenza, Apocalisse?

    Su tela, su carte cantammo
    E ragionammo amorosamente insieme
    Persino in quel borgo sperduto.

    Il Nulla venne – come sempre – dopo.

    1. ASPETTANDO IL FUTURO DÌ DI FESTA
      (Isaia 2:4)*

      Fra le macerie e accumulate miserie
      Non s’ode il canto, ma il pianto.
      Il partigiano “vien dalla campagna…
      In sul calar del sole”

      Dirige il suo passo verso il cimitero
      “e reca in mano un mazzolin di rose e viole”
      da deporre sul gelido marmo, o in terra.
      Finita è la sporca guerra!

      “Si appresta dimani, al dí di festa”.
      Cade a pezzi l’armatura,
      Nel prato ancor umido di sangue,
      e s’ode nel silenzio qualcun che langue

      “Ed a quel suon diresti che il cor si riconforta”.
      Ma in lontananza s’ode il pianto della vedova
      Vedi l’orfano smarrito e le sue piccole sorelle
      File di bare hai davanti agli occhi e dentro quelle:

      “È spenta ogni altra face, e tutto l’altro tace,”
      Greve si posa l’atmosfera.
      Mute e silenti l’armi or riposeranno
      Così che Crono e Ruggine le consumeranno

      Quei micidiali arnesi che recisero
      giovani vite non consumate.
      È iniziata la Pace, ma “è il più gradito giorno,
      pien di speme e di gioia?” O ci sarà un ritorno?

      Chiede il pensiero che ha inciso e fatto schiave:
      Le ere passate, le presenti e l’incerto futuro.
      “Altro dirti non vo’; ma la tua festa
      ch’anco tardi a venir non ti sia grave.”

      Vitaliano Vagnini (Obiettore di coscienza)

      *(Isaia 2:4) Iscrizione posta davanti al palazzo delle Nazioni Unite:
      “Trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falcetti per potare. Le nazioni non alzeranno la spada l’una contro l’altra, né impareranno più la guerra.”

  3. Di lettura difficile in apparenza come i testi scritti che si conoscono di Sagredo, in effetti sono chiari nella riflessione critica che ci dimostrano; più volte ci ha riferito che i suoi componimenti sono “anche” dei saggi, e questo dedicato a Leopardi è “anche ” questo.
    La quarta strofa, come ben evidenzia Marta Antonaci, è la chiave per comprendere non solo il componimento in se, quanto il momento storico in cui visse il poeta – meglio dire il contrario – altrimenti non si parlerebbe di “stecca della storia”. La storia ha steccato e si rivelata ancora una volta un fallimento nel suo trascorrere il Tempo – farsi trascorrere dal Tempo, mentre il poeta ne esce vincitore; forse per questo la risposta di Ennio Abate è accettabile per la sua dolce ironia che precisa ancor più l’affetto che proviamo per il poeta e Silvia, tanto che avrei intitolato questo testo “Mal di Silvia”.

  4. Speravo davvero in più interventi… questo vuol dire che Leopardi è più facile amarlo che comprenderlo… e comprenderlo bene e a fondo fa ancora paura, oppure si ripetono le solite stupidaggini.

  5. “Speravo davvero in più interventi…” (Sagredo)

    Vuol dire che non ti rendi conto di quale barbarie culturale (e politica) si sia abbattuta – e da tempo – su questo Paese (e non solo). E di Leopardi poi, al di là del turismo culturale a Recanati o del rituale ingessamento liceale scolastico, non so oggi chi se ne occupi più. Le ultime, anche se discutibili ma comunque importanti interpretazioni, a me paiono essere state quelle di Antonio Prete (Il pensiero poetante) e di Antonio Negri (Lenta ginestra).
    Su questo ultimo libro, pubblicato nel 1987, anno del 150° anniversario della morte del poeta di Recanati e riedito nel 2015 da Mimesi, ho letto (nel 2017) una gustosa recensione di Marco Moneta, che un po’ smonta un’immagine di Leopardi troppo “filosofo negriano” ma un po’ riconosce la forza e il merito dell’autore. (Cosa difficile da ammettere , visto che Negri continua ad essere odiatissimo e invidiatissimo).
    La segnalo (https://www.alfabeta2.it/2015/09/27/lenta-ginestra/) e copio questo stralcio dove Moneta parla di come Negri legge il “solido nulla” leopardiano:

    Il solido nulla – che Negri identifica con la marxiana ‘sussunzione’ del mondo al capitalismo trionfante – è un mondo indifferente in quanto ogni differenza è in esso negata. Dolore e morte rappresentano il ‘negativo’ che l’indifferente solido nulla non è in grado di togliere (aufheben). Tuttavia, sull’orlo di questo nulla, di questa dinamica dissolutiva, sorge la “materialistica speranza di rivoluzione gettata sul futuro” che “coniuga Spinoza con Nietszche, Machiavelli e Ariosto con Rimbaud, Hölderlin con Joyce” (291), che “rovescia le condizioni del nulla in condizioni di creazione” (289) e che assume le sembianze di una “nuova ontologia”, l’ontologia del soggetto etico-poetico. Il soggetto etico-poetico, il soggetto rivoluzionario – antistorico e antigramsciano – non è però garantito da nulla. La sua forza è solo il dolore e la speranza, l’apertura infinita del futuro, l’alterità. Esso dunque “costruisce contro il nulla, dal dentro del nulla” (299). Tutto ciò, si badi, non ha niente a che fare con l’utopia. Ernst Bloch è fuori questione, come anche Gramsci: “l’utopia è ambigua … è una forma della dialettica…l’alterità è qualche cosa che sta sui piedi e non sulla testa. Non è utopia ma ontologia” (358). Anzi, è “disutopia”, vale a dire, rovesciando il celebre detto gramsciano, ottimismo della ragione e pessimismo della volontà (“come dire: qui non c’è niente che io possa fare, ma l’ottimismo della ragione mi dice che tutta questa bruttura può crollare”). Ecco allora emergere la domanda decisiva sul soggetto etico-poetico: “Cerchiamo di vedere se – dice Negri – non ci sia possibile cogliere quel momento nel quale la critica, dopo aver distrutto ogni possibilità di conoscenza naturalistica e/o mediata ed aver indicato l’esigenza e la speranza di un altro terreno, diviene finalmente potenza positiva, costruttiva” (375). E qui, sorprendentemente (per me almeno) egli, commentando il canto Sopra un bassorilievo antico, introduce l’amore: “L’amore è altro dalla natura, è base etica di una conoscenza diversa. Se ‘da natura / Altro negli atti suoi / che nostro male o ben si cura’ (vv.107/109), così da amore altro si cerca: la natura non è più solamente l’ineludibile sfondo dell’esistenza, è anche un nemico, ed è contro la sua ferocia che viene man mano costruendosi una sorta di comunità d’amore comunque un soggetto che a quella terribile legge naturale non vuole sottostare” (376-377). L’amore dunque allude a una possibile comunità, rivela se stesso come speranza, ed è anche momento di “ribellione”, di “denuncia”, di “paradossale ricchissimo rifiuto”. Esso “si forma come ‘altro’, come soggettività sofferente ‘nella’ natura – ma di qui sviluppa, o almeno allude ad uno sviluppo che è ‘altro dalla’ natura – una soggettività contrapposta, un tessuto ontologico differente” (377). Occorre dunque percorrere il nulla, opporsi risolutamente a esso e scoprire la “potenza” di questa opposizione, “che non nasce da profonde e ascose origini”, ma che “si configura contestualmente nell’atto di opporsi” (394). Eccoci così alla Ginestra, canto non “progressista”, ma “disperatamente rivoluzionario”, che “presenta caratteristiche filosofiche di conclusività” (398). Una conclusività, ça va sans dire, che implica anche “un salto, un’innovazione, l’atto creativo di un nuovo equilibrio metafisico” (399), cioè un rovesciarsi del metafisico nell’etico, che, anticipando le filosofie della crisi contemporanee (è Cacciari nel mirino?), unifica “l’orizzonte della filosofia dentro l’esperienza dell’etico” (403). Ecco preparata la “grande mossa ontologica” della terza strofa del canto, in particolare quella dei versi dell’“umana compagnia” e della “social catena”, tanto care ai teorici del ‘progressismo’ di Leopardi e che invece Negri interpreta come ‘antagonismo rivoluzionario’: il soggetto, afferma, “tende ora verso la collettività”, “la separazione si costruisce, si autovalorizza”, “il limite diviene verità” (403). La virtù nasce dal riconoscimento del nemico, dalla “affermazione di una pratica solidale che permetta di vincerlo”. Così, dalla separazione, nasce, in positivo, il soggetto etico, la “comunità etica”, la comunità del futuro, che si distende in sentimenti d’amore (“tutti abbraccia con vero amor”). L’ontologia si è immersa nella prassi! una prassi fatta di comportamento etico, di resistenza e di quotidiana costruzione. Insomma, pur affondando nella “tragedia dell’etico”, la Ginestra, secondo Negri , rivela l’etico come “potenza risolutiva della tragedia” (412). Questo eroico “essere insieme dentro e contro la tragedia” rappresenta, a suo giudizio, “il momento più alto del pensiero di Leopardi e uno dei momenti più significativi nella storia del pensiero del secolo decimonono” (412). Precorrendo le ragioni del nulla, soffrendo la crisi dell’illuminismo e della dialettica, Leopardi rifiuta di chiudersi nell’inerzia del pensiero negativo, e, con un “atto di rottura ontologico profondissimo e assolutamente alternativo”, erge prometeicamente “un’altra etica (e necessariamente un’altra politica) contro il nulla dell’universo etico-politico presente” (429). A fronte di un “trasformarsi impietoso dell’utopia in disperazione, della speranza in prigione dello spirito, come altro poteva esprimersi questo atto di rottura, si chiede retoricamente Negri, se non come atto di “denuncia poetica”? “Doveva essere ben difficile comprendere, quando la rivoluzione era finita, sconfitta … che a tale sconfitta non seguiva un processo dialettico, bensì una radicale alternativa … e che solo poesia ed etica potevano identificare una via che non fosse ripetizione della recente tragedia” (431) Siamo così giunti alle pagine terminali del libro, dove Leopardi passa, per così dire, in secondo piano e la narrazione negriana, forte di un’asserita “paternità leopardiana”, irrompe, tra accenti ispirati, linguaggio criptico e toni apocalittici, nella contemporaneità. Bisogna rompere con un mondo in cui “il vuoto di significati è totale, ogni esperienza è … un bagno nel nulla e una approssimazione alla morte”. Ma come può accadere tutto ciò? “Il mistero di questa rottura è lo stesso della poesia. È poesia. È costruzione di nuovo essere”. Questo “grande gioco della rottura è necessario, è la necessaria ipotesi di rovesciamento che attraversa l’attuale condizione di disumanità del mondo. Poi vi sarà il lungo cammino di costruzione etica. Infine, su questa costruzione, potremo persino cominciare a pensare di aver fatto la verità. Per ora non ci resta che questo cammino da iniziare: con una rottura fondamentale, che ci dica altro, che instauri altrove la nostra umanità … Il Leopardi ci è vicino in questo suo presago soffrire” (ma come non pensare al Leopardi di De Sanctis: “E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore”?). La poesia è “rottura dell’esistente, del solido esistente che ci abbraccia”. La poesia è il sole, pardon “la porta dell’avvenire”, è “questo andare al punto più profondo, è questo scavare e scoprire un tesoro vivo … La poesia è il mondo che diviene nostro, per un attimo, per un tratto … consapevoli che quel rischiaramento dell’essere che si è determinato è solo una possibilità di avanzare, e guardare, e costruire le deboli resistenze di un amore che si vuole enorme e su questa enormità si prova. La poesia rompe la crosta dell’essere – per costruire nuovo e più universale essere. Leopardi ci insegna questa divinissima umana atea via di liberazione” (434-438). Scusate se è poco. Al culmine di questa poderosa, avvolgente e vertiginosa ricostruzione del pensiero di Leopardi, a dispetto del sentimento di meraviglia che suscitano la cultura e la capacità di astrazione e di affabulazione dell’autore, nasce tuttavia spontanea la domanda: ma è proprio questo Leopardi? Forse lo è. Tuttavia, la mia impressione, ormai trasparente, è che il pensiero poetico di Leopardi sia infinitamente distante da quello di Negri.

  6. Caro Ennio,
    di barbarie (quella che intendiamo noi due giusto per chiudere il cerchio intorno) ne parlo e scrivo da 50 anni!
    Mi intendo e come: proprio quella cui Ti riferisci! –
    Interventi: ma mi riferivo alle sole persone che di solito, seriamente, intervengono sul Tuo blog, e a qualche altra persona diciamo “sensibile”… gli altri che vuoi che ne sappiano: non ho mai subìto la storia, ho subìto parecchio dalla gente, ed io non ho perso tempo con gli sciocchi, anche se questi gli storici dicono che fanno la storia denominandoli “grandi” uomini; p.e. Napoleone alla sua epoca “il macellaio d’Europa”.
    Antonio Prete lo conosco di persona e bene: più volte abbiamo avuto discorsi – e insieme a lui e altri come Il buon diavolo di Cortellessa organizzammo un evento sul 40° di Ripellino (1978 -2018). L’altro Antonio non lo conosco, ma dovrebbe leggere i mie “CAPRICCI” e fra pochissimo tempo i versi de “la Gorgiera e il Delirio”, sperando che li comprenda.

    adieu Ennio

    sono a Brindisi per mia madre 95-enne, che non accetta che io sia anche un “anziano”, ma solo il suo giovane figlio.

    1. Caro Antonio,
      il problema che davvero dovrebbe assillarci è uno solo: è possibile e come eliminare o almeno ridurre la barbarie (capitalistica, aggiungo io)?
      È sempre bene anche parlarne, piuttosto che tacerla, d’accordo. Ma il muro vero e inaggirabile, di fronte al quale tutti – sciocchi o intelligenti, poeti o non poeti – siamo oggi bloccati è questo.
      Rosa Luxemburg lo disse: socialismo o barbarie. Quelli che una volta sembravano d’accordo su questo aut aut, purtroppo, non lo sono più. E o ripropongono « la correzione delle distorsioni del capitalismo», come se da metà Settecento ad oggi non lo si fosse tentato con le varie socialdemocrazie e dottrine sociali della Chiesa. Oppure hanno liquidato ogni prospettiva di “uscita dalla preistoria”( che tra Ottocento e Novecento aveva preso il nome di socialismo/comunismo) e, ripristinando visioni da darwinismo sociale o utopie post-umane o la più cinica Realpolitik dei Grandi (leader o Stati) liquidano come sogno, utopia o peggio vaneggiamento ogni cenno di ribellione della gente comune, auspicando semmai l’avvento di un Macellaio che metta a posto le cose, non più solo a livello europeo ma mondiale.

      In queste condizioni dire: qui si fa *civiltà*[un salto di civiltà] o si muore più o meno anestetizzati (dal quotidiano, dalle scienze politiche e sociali, dal Web, dalla stessa Poesia) è, purtroppo, solo un avvertimento doveroso, indipendentemente dalle nostre capacità di agire.

      Del silenzio delle persone “sensibili” su questo blog o su altri non mi rammarico più. Che commentino o meno non m’importa. Avendo esaurito tutti i tentativi di tenere insieme la (oggi defunta) redazione di Poliscritture.
      Se *pensare insieme* non è più possibile ( e non so per quanto tempo, ma la vecchiaia incombe o è arrivata per quasi tutti noi), resta l’obbligo dei messaggi in bottiglia. Finché – ah, La ginestra! – mente, cuore e occhi resisteranno.

  7. ASPETTANDO IL FUTURO DÌ DI FESTA

    Fra le macerie e le accumulate miserie
    Non s’ode il canto, ma il pianto.
    Il partigiano “vien dalla campagna…
    In sul calar del sole”

    Dirige il suo passo verso il cimitero
    “e reca in mano un mazzolin di rose e viole”
    da deporre sul gelido marmo.
    Finita è la guerra,

    “Si appresta dimani, al dí di festa”.
    Cade a pezzi l’armatura,
    Nel prato ancor umido di sangue,
    rilasciando nel silenzio un suono

    “Ed a quel suon diresti che il cor si riconforta”.
    Ma in lontananza s’ode il pianto della vedova
    E vedi l’orfano smarrito
    File di bare hai davanti agli occhi e dentro quelle:

    “È spenta ogni altra face, e tutto l’altro tace,”
    Greve si posa l’atmosfera
    Sulle mute e silenziose armi
    Il tempo e la ruggine consumeranno

    Quei micidiali arnesi che recisero
    giovani vite non consumate.
    È iniziata la Pace, ma “è il più gradito giorno,
    pien di speme e di gioia?”

    Si chiede il pensiero che ha inciso il passato,
    il lugubre presente e l’incerto futuro.
    “Altro dirti non vo’; ma la tua festa
    ch’anco tardi a venir non ti sia grave.”

    Vitaliano Vagnini (Obiettore di coscienza)

  8. LO VEDI ANCORA L’INFINITO?

    Escluso l’infinito all’orizzonte.
    Si vede già il tramonto
    Che presto oscurerà
    L’avidità del mondo

    Un traguardo senza premi,
    Senza celebrazioni
    Per la cieca corsa
    Di tutte le nazioni

    Se guardi l’orizzonte vedi,
    Con occhi d’una mente che ragiona,
    Calamità, timori e nubi nere
    E lotta di potere!

    Di là del colle, un vorace mare
    Ingoia corpi che hanno sperato
    Raggiunger l’opulenta riva.
    Così, l’umanità moriva!

    Non è affatto dolce
    Il naufragar in questo mare
    Per coloro che vedono le sponde,
    Mentre sono uccisi dalle onde

    Presagi di follie umane
    E di menzogne e inganni…
    Per l’amore del denaro.
    Un futuro amaro!

    Non piangere le morte stagioni.
    Non dire che “Il presente
    È peggiore del passato”.
    Sempre l’uomo ha dominato!

    Dirà così sol lo smemorato,
    Chi per vergogna vuol dimenticare
    La sua triste storia.
    Dirà così chi non ha memoria!

    Lascialo dire ha chi ha dimenticato
    I secoli bui e le sue stragi.
    A color che amano l’intrigo…
    Ai capi religiosi e ai Don Rodrigo.

    Il “Sapere”, era negato al volgo
    La “Conoscenza” era proibita,
    E chi ardiva sfidarla…
    Pagava con la vita.

    C’erano abbaglianti roghi
    Che diventavano braci
    Se cercavano “Sophìa” con amore
    Al fin di trovar l’errore.

    Immemore di secoli di guerre,
    Di campi di sterminio,
    La pazzia dei dittatori
    E tutti quegli orrori!

    L’uomo ha nei suoi geni il male
    Con poche eccezioni,
    Più uniche che rare,
    È quello che sa fare!

    Fra mentite promesse
    Questo fa il dominio umano
    Con il suo cuore diventato gelo.
    Speriamo che intervenga il Cielo!

    Or che l’uomo è così in basso,
    Che ogni orizzonte esclude,
    Volga lo sguardo alla Fonte della vita,
    Per risalir la china e la salita.

    Vitaliano Vagnini (31/12/2019)

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