Antonio Sagredo, La gorgiera e il delirio

Schena editore

In questo libro (170 pagine) appena pubblicato dall’editore Schena di Fasano (Brindisi), Antonio Sagredo ha raccolto sue poesie scritte tra 2003 e 2018. Alcune comparse in questi anni anche su Poliscritture. Ne segnalo volentieri l’uscita, proponendo tre testi da Legioni, presenti ne La Gorgiera e il delirio; e in Appendice la Prefazione di Donato Di Stasi. Su questa per ora mi soffermo con brevi appunti. Per continuare la mia precedente riflessione sui componimenti di Sagredo e confrontarla con un altro punto di vista, rispettabile ma antitetico al mio. Perché? Di Stasi, invece di tenere le giuste distanze critiche dal poeta, incita i lettori ad accogliere senza riserve la ricchezza teatrale e folleggiante di questa poesia, che diventa tout court la Poesia: «Ai poeti bisogna chiedere di essere inquietanti e eccessivi, di seminare disordine e illimitatezza, di suscitare perplessità e di affilare costantemente il crinale del dubbio». Eppure proprio i suoi tratti fondamentali e specifici (la “mercurialità” delle composizioni, che a Di Stasi «appaiono oscure e lampanti»; la drammaticità elisabettiana del poeta alle prese con i suoi numerosi alter ego; la sua volontà di addentrarsi nell’«orrore» pur di esplorare un «Oltre che reclama di venire alla luce e di farsi materia vivente e corruttibile») andrebbero interrogati e approfonditi. Cosa implica l’adesione – ingenua o raffinata – alle mitologie dell’io poetico sagrediano: il «poeta-rospo» che si tramuta in «minotauro »? O al suo vitalismo: «si toglie le gramaglie del lutto e inneggia alla vita sfolgorante dei sensi e ai salti mortali della ragione»? Oppure a un indeterminato «Oltre che reclama di venire alla luce» e che, non ricondotto alla sua dimensione storica, parrebbe offrirci una «vita sfolgorante dei sensi», mentre più che mai la cronaca quotidiana ci mette di fronte a una sempre più preoccupante «vita offesa» (Adorno)? La “meraviglia” per la mostruosità del Presente può, appunto, pietrificare e annichilire. E, dunque, non di altri «salti mortali della ragione» avremmo bisogno. Semmai di una uscita dalla sua sonnolenza, che – come si dice – genera mostri. E di quel suo camminare con passo lento e misurato. Anche in poesia. [E. A.]

                                   VIII
 
  Sommerso da madonne, gorgiere e bende, 
  che  io tra i vivi non lasci la mia morte
  agire con guinzagli, disperdere candele e torce
  negli oratori o l'intrìco dimenarsi nei turiboli,
  poi che il divenire è maculato di festini
  e i suoi errori sono portali di scoperta.
  Rattratto, cospiro sotto portici gordiani
  dall'iride alla selce per spandere garofani e lavande,
  resine e drappeggi, amuleti balsami e damaschi,
  simulare commiati, divinare dottrine da torbidi recessi.
  Sento il dominio di lucrose tiare violare alcove,
  sofismi bifronti e lamenti ungulati diffondersi
  nei laboratori, scienze e fermento ovunque
  entusiasmi agitazioni offrire un cantuccio per l'orrore.
  Volati via sigilli e scrigni!
  Accidia di lagune!
  Livido il pensiero se crivelli digitali frattali
  sono preludi virulenti, sterili pannelli... e più felice
  conforto la mia mente digiuna di chimere
  con altre ombre... da cardini aguzzi idiomi di sirene
  e falò s'ergono come verghe... posticcio vagare del sangue.
  Garrisce ai vespri, dietro cortine ricami
  e frange, il mio disdegno d'aconito e sidro: 
  venefica baldoria di fanali in fuga verso gli arenili,
  gonfie e verdastre le gote dei moli.
  Ah, Parche, con cetre arpe lire, non mi morite di suoni!
  Non voglio corone vaghe,
  criniere, balsami trascorsi...
 
 
 
 
 
                                IX
 
 
 
  L'odio ha illustri antenati: 
  volti gordiani, colori sfigurati.  
  Sono giallastri ospizi e culle:
  succhiano bava, risibili ossa.
  Non mi resta che ebbrezza delle ceneri, 
  fittizie profondità, disfatte crapule.
  Troneggiano carcasse, parati di liquami.
  Infògnati di quinte e di loggioni                             
  il trucco assapora, lo smorire di fanfare,
  nel nudo dilaniare conta i ferrigni
  ludìbri e cesella litanie, arringa  
  i neutrini a trapassare fondali e prosceni.
  Vien meno l'oracolo se un ghigno ha parvenza
  di querimonie e di coboldi, e nel sinedrio
  le smorfie del tetrattico corazzano di sego
  adulatori, se nei cunicoli con aguzze gobbe
  imbonitori predicano gemiti opulenti
  e prezzolati.
  Ah, non ho che suppliche di opali, mattinali
  rovine, anfiteatri!
  Nel sacrario ossuti sogghigni,
  spartiti, come tafani, succhiano suoni,
  archetti blasfemi, sonate di basalto.
  Tetri, in ceppi, anacoreti corvini
  udivo marciare nell'estasi cava. 
  A chi darò la mia luce? Anima è eresia!
  Pure sul palco, tra rinunce e approdi,
  tu registri grifi e doccioni, sospesi
  dai loro gozzi  trenodie e zelanti decreti,
  bellurie conversari convegni.
  Sofferenza è sbadiglio, ferialità.
  Deforme vaghezza il ventre. Lusinga,
  svilisci il diaframma! Scrigno: agorà
  di bisbigli, di crucci - manciata di sonagli!
  Amo le scissioni, le scadenze, le fini che giungono
  e a cui tendo, i ferini appelli, i luminosi
  geli di finti vuoti, di trafitti nulla.
  Aver fede è un orrore recidivo.
 
                                    
 
 
                                 X
 
              
  Iene non nate, Orfeo muore!
  E mi congedo dai dettagli e dagli elogi,
  dalle sinistre bontà, come un negarsi
  ai tragitti e ai banchetti. Sono consunto
  dagli arcani. In ceppi, ginestre e palpebre
  sotto tumuli di riti.
  Consacro la gioia! Celebro la grazia!
  Altari di stupori! Scabrosi miti, leggende!
  Vigilia, epifanie, attutite le cadute!
  Narciso, affossa gli specchi e scanna  
  l'angelo!
  Respiro, io sono figlio della mia Parola!
  Come poco c'importa dove mai siamo, e come.
  Non più essere e avere, non più canto,
  sognare non più... noi vivi, siamo fatti di scongiuri
  e di presagi. Sulla soglia la  Nemesi...
  il sangue ritorna a scudisciate.
  Ignaro, trangugi spirali, da secoli, flagelli!
  Come (ti) sperona la vita: il gril-let-to sentilo!
  Senti come rumina il tamburo e il becchino!
  Padre, l'anello dal dito adunco t'ho sfilato, semivivo!
  Come la morte è chiusa al canto e al pane raffermo,
  e risacche di nerastre risa s'avvolgono, non in bende
  ma in nodi e cera, sputo di nero sperma, morbido
  sudore di denti. Come smania la bara che ho ingannato!
  Come il seme è mùtilo di spirali, di balsami!
  In gramaglie, nel pozzo, fuori!
  La mia risposta è: riti, riti! Mi ha sorpreso il Caso!
  Come sparviero la croce mi artiglia e una giostra
  di suoni mi governa. Ascolto gemiti e massacri,  
  evangeli e cantici interdetti, surrogati di spine,
  e oltre gli argini, le misure e i limiti
  ti berrò a visioni, a fuochi, a ori,
  e nella tua mano sarò il volo,
  io, nella tua maschera... ròsa! 
 
 
 Roma, i trentuno  giorni di  ottobre 1989
 
 
                                             
 
 

Appendice

PREFAZIONE di Donato Di Stasi

Ai poeti bisogna chiedere di essere inquietanti e eccessivi, di seminare disordine e illimitatezza, di suscitare perplessità e di affilare costantemente il crinale del dubbio.

Ai poeti bisogna imporre di essere originali, di risalire dalla scaturigine dei fenomeni, materiali e psichici, per contrastare perinde ac cadaver l’acquiescenza al Nulla imperante.

Chi meglio di Antonio Sagredo, Tamerlano e montone, demone e madre di se stesso, può assolvere al compito di alleggerire la pesantezza del non-pensiero e di sragionare contro l’inerzia della parola-manipolazione?

Il Nostro si presenta in questa occasione con un libro antistilnovistico, un dramma elisabettiano recitato da un poeta-rospo che chiama al proscenio una teoria di alter ego folleggianti. La gorgiera e il delirio figura come un libro fossile, per la quantità di sedimenti letterari ivi contenuti, e nello stesso tempo un opus modernissimo, contemporaneo delle nostre ubbie e dei nostri risentimenti, delle angosce più abissali e del dolore più sovrumano che si possa concepire.

Il Bardo, Cristopher, il Golgota, la Misericordia e Medusa animano, attori e luoghi, una landa desolata battuta da qualsiasi tempesta, dove si aggira rintronando con i suoi latrati la Bestia Divina, scontrosa a sé medesima, oscena e visibile con i suoi artigli che squartano e sgozzano ( se è vero che nelle strofe è un fiottare continuo di sangue caldo e un ristagnare cupo di coaguli).

La gorgiera e il delirio appare come un lavoro eccentrico, del tutto estraneo alle risapute e obsolete orbite letterarie ancora oggi à la page (sic!), e a un tempo mostra una straordinaria misura compositiva, un’invidiabile capacità di entrare e uscire dal Canone, perché chi scrive ha contezza del peso musicale e semantico delle parole utilizzate.

Proseguendo nella stimmung definitoria, non farei mancare l’aggettivo mercuriale, tanto mi appaiono oscure e lampanti le composizioni che si succedono, tanto lancinanti risuonano i vagiti di un Oltre che reclama di venire alla luce e di farsi materia vivente e corruttibile.

La poesia creduta morta finalmente (con Antonio Sagredo) ha un sussulto: il poeta-rospo non arretra, “è pronto per l’orrore” (ogni realtà che nasce contiene in sé la mostruosità, il monstrum, la meraviglia che pietrifica e annichilisce).

Con la sua scrittura, solida e labirintica, come il palazzo di Cnosso a Creta, Antonio Sagredo metamorfosa da rospo a minotauro e ringhia contro i viventi-morti che si aggirano per le stanze senza fondo e senza uscita del suo labirinto, sigillati nelle loro plastiche. Altro sono i viventi-viventi, armati di umanesimo, ma anche di frattali e neurini, con le loro gorgiere di lino finissimo e merletti, ovvero quel che rimane del passato remoto, quel che avanza di un prossimo, imminente NeoRinascimento.

Il poeta-rospo divenuto minotauro metamorfosa ancora, muore e risorge: si toglie le gramaglie del lutto e inneggia alla vita sfolgorante dei sensi e ai salti mortali della ragione. Il lettore avveduto troverà di che ammutolire e di che applaudire fino a spellarsi.

Nereidi, maggio 2019 Donato di Stasi

4 pensieri su “Antonio Sagredo, La gorgiera e il delirio

  1. Leggendo oggi questo brano di Leopardi [1], in cui mi sono imbattuto per caso, e confrontando il suo atteggiamento con quello simile che richiederebbero i versi di Sagredo (anche solo i tre componimento che ho pubblicato)e di altri poeti, ho avuto la conferma di quanto sia ora diventata impossibile ( o quasi) quella mediazione, che Leopardi ancora esercitava con sicura convinzione, tra un poeta, di secoli a lui precedente come Petrarca, e i lettori dell’Ottocento.

    In passato (cfr. vari post di poesie di Sagredo) ho abbozzato tentativi di commento proprio in base ai criteri usati da Leopardi e da una secolare tradizione, ma devo riconoscere che è un lavoro ormai impossibile ( e non solo per la non collaborazione di Sagredo o la vastità e oscurità della sua produzione).

    Si è veramente spezzata una tradizione. Forse definitivamente o forse con una minima possibilità di “rinascita”. (Come mostrano gli allarmati interventi dei critici convenuti a Bruxelles agli “Stati Generali della letteratura italiana”, che di recente ho ascoltato, segnalato e commentato: https://www.poliscritture.it/2019/06/23/samizdat-e-la-morte-della-letteratura/).

    Se, fosse definitiva la rottura, quale destino attende la poesia italiana contemporanea? Quella di essere prodotta caoticamente e senza possibilità alcuna di essere letta o compresa? Di farsi *mostruosa* subendo o inseguendo un mondo che è sempre più *mostruoso*? Di attendere imperterrita dei lettori *mostruosi* capaci alla fine di trovare il giusto modo di rapportarsi ad essa?

    [1]
    In primo luogo questo Comento, che io chiamo più volentieri Interpretazione […] non è altro che una traduzione dei versi o delle parole del Poeta in una prosa semplice e chiara quanto io ho saputo farla. Ogni volta che ad intendere il testo sono necessarie nozioni storiche o mitologiche si porgono brevemente. Non è passata in silenzio nessuna difficoltà della quale io mi sia accorto e dovunque io non ho inteso, ho confessato espressamente di non intendere, acciocché il lettore, non intendendo, non si credesse nè più ignorante nè meno acuto dell’interprete […]

    ( da Le rime di Francesco Petrarca. Prefazione dell’Interprete, pag. 987, Poesie e Prose II, Mondadori 1988)

  2. …Antonio Sagredo ci accompagna nella lettura di una poesia visionaria molto elaborata e preziosa: “…oltre gli argini, le misure e i limiti,/ ti berrò a visioni, a fuochi, a ori…”, per me come entrare in un’immensa chiesa barocca, dove immagini e personaggi si susseguono in frenetico movimento a evocare demoni, angeli, meraviglie e orrori, ma anche scene comiche…così come uno spettacolo teatrale dalla regia sapiente si presenta alla nostra visione con un unico vitalissimo protagonista attore…Alla fine, però, ne esci come da uno spazio claustrofobico e ricerchi i tratti della realtà, gli altri, un paesaggio che manca…

  3. Cara Annamaria,
    se mi invii alla mia e-mail il Tuo indirizzo civico spedirò la Gorgiera e il Delirio, così potrai
    completare il giudizio…

  4. …va bene, grazie, Antonio Sagredo, lo leggerò volentieri. Bada però che sono una piccola lettrice

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