Poesia dell’impensato o Opus servile?

Moltinpoesia/ Riletture/Un vecchio confronto con G. Linguaglossa

di Ennio Abate

 
 «[…] correlazioni, riscontri, figure metriche, forme significative e figure del discorso letterario, insomma tutti i livelli del cosiddetto testo, da quello fonematico a quello ideologico-culturale, sono comprensibili e apprezzabili non solo grazie al loro comporsi in sistema e struttura, ma anche per la relazione e interazione che ognuno di questi elementi stabilisce con qualcosa che testo non è, ossia con quel che chiamiamo “realtà”» (F. Fortini,  Opus servile. in Saggi ed epigrammi, pagg. 1641-1652, Mondadori, Milano 2003)  

Una vecchia discussione tra me e Giorgio Linguaglossa. Fu pubblicata sul blog «Moltinpoesia» nel breve periodo della nostra collaborazione col titolo: «Come leggere e interpretare la poesia. Due opinioni a confronto» il 28 febbraio 2013 e si legge per intero, assieme ai commenti, qui. E’ più facile cogliere oggi quanto già fosse netto il contrasto, poi risultato insanabile, tra noi. Linguaglossa usava il riferimento alla figura di Franco Fortini strumentalmente. Dichiarava di preferirlo a Sereni, per lui «l’inventore del riformismo moderato della poesia italiana», ma l’amputava del suo marxismo critico. Non lo comprendeva, l’osteggiava, lo confondeva con quelle che spregiativamente chiamava «le ferraglie del […] marxismo della terza internazionale e post»). E ha contribuito a cancellarlo anche dal residuo dibattito “militante”. Muovendosi successivamente, infatti, sempre più speditamente in direzione di quell’«impensato» heideggeriano [1] che, con la rottura dell’ ambigua e poi rimossa collaborazione con me e i *moltinpoesia*, lo ha portato alla fondazione del blog «L’Ombra delle Parole» e alle teorizzazioni di una NOE (Nuova Ontologia Estetica) monomane e involuta.

Io, invece, allora [2] e successivamente in tutti questi anni su Poliscritture sono stato un caparbio difensore – e non solo in poesia – della lezione del marxista critico (e comunista “speciale”) Franco Fortini. E ho condotto sulla sua traccia – in modo non scolastico, ritengo – una riflessione mai acritica sul fenomeno dei *moltinpoesia* e su una ipotesi di *poesia esodante* (qui). Ignorata (sovente da molti degli stessi “fortiniani”), silenziata, ma antitetica – soprattutto politicamente – non solo al postmodernismo heideggeriano e reazionario di Linguaglossa e della sua cerchia de «L’Ombra delle Parole» ma anche al postmodernismo o all’ipermodernismo dei più giovani e ben ferrati critici, i quali si sono lasciati con disinvoltura alle spalle l’eredità marxista e fortiniana per evitare – suppongo – di appesantire le loro precarie carriere accademiche. (Cfr. qui).

Conclusioni della rilettura. Sono pacatamente orgoglioso di continuare a interrogare le «buone rovine» fortiniane e marxiste. Anche da solo. Anche lontano da quanti – singoli o gruppi – si sono lasciati sedurre dalle forme di poesia commerciale, cantautoriale, leggera, a bassa definizione, meticciata o spettacolarizzata coi vari mass media o social. Contento di non stravedere per le «astratte potenzialità della poesia» e di non dimenticare mai «l’intreccio di “prosa” e di “poesia” in cui viviamo».

Note
Stralcio dalla discussione alcuni passi significativi del contrasto:

[1] Linguaglossa

«La poesia apre l’impensato al pensiero, frattura l’impensato, ma dice l’impensato tramite le categorie del linguaggio, e quindi è una attività altamente razionale-fantastica»;

«dobbiamo leggere e interpretare la poesia tenendoci a distanza da categorie dell’economia come rapporti di produzione e forze produttive e economicistiche come salario e capitale, non intendevo certo fare ritorno a Croce al concetto di poesia=lirica pura; dico soltanto che dobbiamo leggere la poesia come un particolare genere, come dire, una particolare forma di linguaggio»;

«Il linguaggio, qualsiasi linguaggio umano è metaforico e simbolico, e soltanto in ultima istanza e in ordine cronologico-storico è un fatto comunicazionale. La comunicazione è la coda del linguaggio metaforico».

[2] Abate

«credo di non poter condividere la concezione, che intravvedo nelle tue parole, di una poesia che, per così dire, apra, per via metaforica e simbolica, un (per me indefinito) «impensato». Certo quello della poesia è «una particolare forma di linguaggio» non riducibile a «un fatto comunicazionale». In altri termini, non risponde alle esigenze pratiche del linguaggio comune, quotidiano. Ma linguaggio resta. E di conseguenza – questo mi pare lo sbocco del tuo discorso – non capisco perché dovrebbe rompere i ponti con quello della comunicazione»;

«il compito del lettore e del critico della poesia a me pare  inizi proprio qui. Egli, più che “godersi la poesia” che ha inabissato,  attraverso la «formalizzazione», i conflitti, deve – per intenderla a fondo, per capire la sua funzione  ambigua (di occultamento di quei conflitti eppure di riproposizione ad un altro livello più “vero” e “grande”… rileggere sopra il passo [di Fortini] citato a p. 1643) – rintracciarli proprio nel testo, nella poesia »);

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