I miei anni Settanta a Cologno (2)

di Donato Salzarulo

La seconda parte del racconto sui suoi anni ’70 di Donato Salzarulo. La prima si legge qui [E. A.]

7. – Dall’autunno del ’69 la mia partecipazione alla costituenda cellula di Avanguardia Operaia si fece assidua e sistematica. Non vivevo più in una stamberga o in una mansarda; la situazione economica della mia famiglia stava migliorando; mia sorella s’era iscritta al secondo anno dell’Istituto magistrale, al Virgilio di Milano; io continuavo a fare il doposcuola in Via Vespucci, avevo sistemato la valigia dei libri dalla casa di zio Peppe su uno scaffale di Via San Martino e, di tanto in tanto, sostenevo qualche esame all’Università. In verità, me la prendevo comoda e senza nessuna ansia di recuperare il ritardo accumulato. Sarei sicuramente finito fuori corso, ma non davo a questo fatto grande importanza. Avevo abbastanza introiettato la critica ai saperi borghesi, sebbene con la mia provenienza e la storia della mia famiglia alle spalle, continuassi a portare scolpita indelebilmente nel cervello la frase di «Lettera ad una professoressa», messa in bocca a Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla: «La scuola sarà sempre meglio della merda». D’altronde, non avevo letto in una poesia di Bertolt Brecht la lode dell’imparare? Non avevo letto che l’uomo all’ospizio, il carcerato, la donna in cucina, il senzatetto, l’infreddolito, l’affamato dovevano afferrare il libro come un’arma? Brecht diceva che «dovevano sapere tutto» perché «dovevano prendere il potere». Forse era venuto il loro e il nostro tempo. Non ho mai pensato ad una rivoluzione dietro l’angolo, ma ad un grande fermento sociale contro i padroni, a delle grandi scosse anticapitalistiche questo sì. Questo l’avevo sotto gli occhi. Dopo la riluttanza iniziale, mi buttai allora convinto nel periodo di preparazione, in quella che, secondo me, sarebbe passata alla storia come la fase di costruzione del partito rivoluzionario italiano.

Dallo scantinato di Via Petrarca eravamo nel frattempo passati a quello di Viale Lombardia 49. Non ricordo se ci fu una discussione sulla targhetta da appiccicare alla porta. Optammo per “Centro Studi” perché pensavamo che gli inquilini temessero di avere estremisti fra i piedi? Forse qualcosa di simile era successo con lo scantinato di Via Petrarca e ci davamo un nome di copertura per dissimulare, almeno inizialmente, la nostra presenza….O forse pensavamo alle due bombe scoppiate il 25 aprile del 1969 a Milano (una nel padiglione della Fiat della Fiera Campionaria, l’altra all’Ufficio Cambi della Stazione Centrale) e alle otto bombe scoppiate sui treni tra l’8 e il 9 agosto?…Gli inquirenti davano la colpa agli “anarchici”, ma noi avevamo dubbi e pensavamo ai fascisti e alla risposta che gli organi repressivi dello Stato stavano dando al Movimento studentesco. Chiamandoci così non volevamo finire subito nel mirino della locale stazione dei Carabinieri?…

Andò come andò. Fatto sta che in quel Centro Studi si studiava anche. Si leggeva «Lettera ad una professoressa», si studiava la rivoluzione. Soprattutto quella passata, quella per eccellenza: la rivoluzione russa. Poi c’era anche la rivoluzione cinese. Che era stata una lunga marcia. E quella cubana. Da qualche parte avevamo il manifesto del Che. Anche se noi leninisti non condividevamo la teoria fuochista del romantico barbuto. Studiavamo anche il libro di Del Carria sulla storia dei proletari italiani “senza rivoluzione”, il trattatello di Mandel sull’economia capitalistica e poi i Quaderni di AO, quelli con la copertina rossa: «Lotta di classe nella scuola e movimento studentesco» (1971), «Il revisionismo del PCI: origini e sviluppi» (1971), «Lotta continua: lo spontaneismo. Dal mito delle masse al mito dell’organizzazione» (1972), «La concezione del partito in Lenin: 1. Dai gruppi al partito 1895-1912», «La configurazione della sinistra rivoluzionaria», «I CUB: tre anni di lotte e di esperienze» (1972 o 1973), «La situazione politica e i nostri compiti» (1974). Insieme ai libri c’era la rivista: «Avanguardia Operaia» prima e «Politica comunista» dopo…

Basta ripassarsi i titoli di questi quaderni (per quanto mi riguarda, accuratamente conservati) per intuire quale marxismo-leninismo il gruppo dirigente ci offriva. Un marxismo centrato sui rapporti di produzione in fabbrica (soprattutto le grandi), sulla contraddizione principale capitale-lavoro, in cui il lavoro era quasi esclusivamente quello operaio (“centralità operaia”), mentre il processo di riproduzione sociale era garantito dallo Stato con gli “Apparati Ideologici di Stato” (AIS). La scuola era uno di questi apparati e i docenti costituivano una categoria sociale che poteva schierarsi dalla parte della classe operaia sostenendo la sua battaglia economica, politica, culturale ed ideologica; la necessità di questo sostegno nasceva dalla consapevolezza teorica che soltanto la classe operaia liberando sé stessa, avrebbe liberato tutti. Nell’incontro con gli operai noi militanti di AO (potenzialmente “rivoluzionari di professione”) dovevamo favorire il passaggio dalla “classe in sé” alla “classe per sé”. Il modello di partito rivoluzionario che dovevamo contribuire a costruire era quello proposto da Lenin nel «Che fare?» I CUB rappresentavano organismi di massa in cui si organizzava la parte rivoluzionaria della classe operaia e del proletariato. Lo Stato borghese andava distrutto, come insegnava (e insegna) il Lenin di «Stato e rivoluzione». Dopo il golpe cileno dell’11 settembre 1973, questa consapevolezza era diventata certezza. Il PCI era un partito revisionista, l’URSS un paese socialimperialista, ecc.

Questo era grosso modo il pentagramma. Ognuno/a poi ci metteva le sue note. Note che spesso diventavano collettive. Un esempio è il Volantone sulle Elezioni comunali del 1971 pubblicato da Ennio. Anch’io ne ho una copia. Ricordo benissimo d’aver scritto la prima bozza di quel volantone. Poi Ennio ci lavorò sopra: corresse, precisò, integrò. Ma non mutò il ragionamento di fondo: a) la società è divisa in sfruttati e sfruttatori; b) in fabbrica «si produce tutta la ricchezza che permette ad una società di andare avanti», c) il Comune è una rotella dello Stato, uno «strumento di controllo al servizio dei padroni»; d) gli attuali partiti sono tutti “partiti di governo”, e) manca il partito operaio, dei lavoratori, f) si è svolta una lotta al Quartiere Stella da cui ricavare insegnamenti.

Domanda: scriverei oggi un volantone così? Risposta: no. Il che non significa che lo rinnegherei. Anzi, per certi versi è ancora attuale. Nel senso che esprime esigenze ancora non soddisfatte. Ha dei contenuti di verità che, detti in altro modo, vanno ribaditi ancora oggi: a cominciare dall’esigenza di un partito dei lavoratori che, a quasi mezzo secolo di distanza, ancora non c’è.

A rileggerlo dopo decenni, c’è un punto, però, che mi colpisce più di tutti: in questo volantone non c’è un minimo accenno all’emigrazione. Stavo vivendo un processo che mi aveva sradicato dal mio ambiente e dai miei amici, un processo comune a tanti altri “colognesi” come me e non ne parlo. Come mai?…Forse perché la necessità di emigrare, per quanto straniante e dolorosa, la davo un po’ per scontata e, per certi versi, positiva. O forse perché la scoperta della classe operaia era troppo importante per me (per noi) che mettersi a parlare di emigrazione come frutto dello sviluppo ineguale e grande questione sociale appariva quasi secondario…O forse perché – ultima ragione – facevo (facevamo) discorsi un po’ “astratti” e non mi rendevo (ci rendevamo) conto che, se in 8 chilometri quadrati s’insediavano persone ad un ritmo medio di 2.000 all’anno, qualche problema anche un’Amministrazione rivoluzionaria l’avrebbe sicuramente avuto.

Ovviamente di emigrazione non si parla in quel volantone, ma in altre occasioni ne abbiamo parlato ampiamente.

8. – Su questo punto, sul “marxismo-leninismo” di AO e sul modo nostro di studiare nel Centro Studi, ci sarebbe molto da dire. Per quanto mi riguarda non ho vissuto male né l’uno né l’altro, anche se l’uno (il nostro modo di studiare) non mi sembrava molto diverso da ciò che poteva avvenire in un’aula scolastica di lavoratori-studenti di un istituto serale; l’altro (il “marxismo-leninismo”), per quanto ortodosso, veniva incontro ad una mia esigenza di studio, maturata verso la fine dell’adolescenza e accentuatasi nel Sessantotto (cfr. «In mare aperto: tra revisione e revisionismo» pubblicato su Poliscritture).

Oltre ai testi proposti da AO in quel periodo facevo letture selvatiche ed erranti (continuo a farle ancora oggi) che non corrispondevano ad un “piano di studi” sistematico per cui, ad esempio, poteva capitarmi di leggere «Potere politico e classi sociali» di Nicos Poulantzas o la «Vita di Marx» di Franz Mehring, il volumetto su Lenin di György Lukács o «La transizione all’economia socialista» di Charles Bettelheim. Questo per dire che non ho mai vissuto in modo dogmatico quelle letture e quegli apprendimenti. Certo fra Marcuse che sosteneva l’integrazione o l’inglobamento della classe operaia nel sistema e chi continuava a giudicarla centrale come soggetto rivoluzionario, io ero schierato coi secondi; ma non per questo ne abbracciavo fideisticamente le tesi.

Anche perché, se per l’apprendimento del marxismo-leninismo non seguivo un piano di studi, il piano, invece, dovevo seguirlo per gli esami all’Università. Per l’anno accademico 1968-69 il corso di pedagogia era centrato sul “metodo della ricerca”. Ricordo ancora la dispensa di Francesco De Bartolomeis (pubblicata poi da Feltrinelli col titolo «La ricerca come antipedagogia»). Lo dico perché, dopo averla studiata, gliela passai ad Ennio, quanto mai sensibile all’«inchiesta» sociale. A differenza di me tendenzialmente più “gramsciano”, Ennio era stato attratto dai «Quaderni Rossi» e dalle elaborazioni degli operaisti (Raniero Panzieri, Mario Tronti, Massimo Cacciari, Toni Negri)

Il mio amico trovò le pagine di De Bartolomeis illuminanti e abbastanza utili anche nel lavoro politico-sociale. Le letture comuni contribuiscono a costruire un linguaggio comune, pensieri e visioni, percezioni ed emozioni condivise…

Inchiesta e ricerca diventarono (e sono sempre state) due parole-chiave del nostro lavoro collettivo. Sono stati metodi che ci hanno permesso di ancorarci sempre più alla realtà sociale che vivevamo. Ricordo tante discussioni sul fatto che, essendo Cologno caratterizzato da un tessuto produttivo di piccole e medie fabbriche, era difficile promuovere la formazione dei Cub. Alla fine, infatti, costruimmo un Comitato Interfabbriche. Lo stesso dicasi per il nostro lavoro nella scuola. I comitati dei genitori non andavano bene perché il genitore era un “proprietario” di figli. Allora proponemmo il “Coordinamento tra i lavoratori per la democrazia nella scuola”.

Diciamo che facevamo funzionare la nostra intelligenza e il nostro marxismo-leninismo, per quanto ortodosso, era tutt’altro che religioso. Nelle nostre teste s’ibridava, si contaminava. Nella mia sicuramente. I miei apprendimenti universitari, infatti, interferivano parecchio col mio lavoro politico. C’era in me un continuo andirivieni fra saperi. Prendiamo, ad esempio, un autore come Freud. Non solo me lo ritrovavo nei miei esami di psicologia; ma lo sentivo all’opera nell’esperienza di Elvio Fachinelli, nel suo tentativo di promuovere, in un asilo autogestito nella zona di porta Ticinese a Milano, una pedagogia antiautoritaria. Esperienza poi confluita insieme a Lea Melandri nella rivista «L’erba voglio». Se era necessario per autogestire un asilo “anti-istituzionale” o “non-istituzionale”, si poteva costruire un partito rivoluzionario, senza tener conto dell’inconscio?…Boh!

9. – Quello del ’69 è passato alla storia come “autunno caldo”. Mio fratello mi informava su ciò che succedeva alla Candy. Peppino parlava della Pirelli. (Tutti e due intanto cominciavano a partecipare anche loro alle riunioni del Gruppo Operai e Studenti). Gerardo, che nell’aprile del 1969 si era sposato ed era andato ad abitare in un appartamento di Viale Romagna, raccontava della Breda.

Picchetti, spazzolate di crumiri, cortei, scioperi, manifestazioni vi furono anche nelle piccole e medie fabbriche di Cologno-Brugherio (Bravetti, Rolf, Siae Microelettronica, Manuli, ecc.). Cercavamo di stare dentro queste situazioni, rinsaldavamo contatti o ne prendevamo di nuovi.

Il 19 novembre ci fu uno sciopero generale sui temi della casa. Le organizzazioni sindacali avevano indetto un convegno al teatro Lirico in Via Larga. Alla fine ci furono scontri fra Polizia e militanti dell’Unione marxista-leninista, del Movimento Studentesco della Statale e dei gruppi anarchici. Per sciogliere i manifestanti la Polizia effettuò vari caroselli con le camionette e in uno di questi morì l’agente di polizia Antonio Annarumma. Lo ricordo perché era un giovane che proveniva dalle mie parti: da Monteforte Irpino, in provincia di Avellino.

Insomma, Milano era forse la principale città al centro dello scontro politico nazionale. Lo capimmo inequivocabilmente il pomeriggio del 12 dicembre quando nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, ci fu un’esplosione che procurò 17 morti e 88 feriti.

Era la risposta all’autunno caldo delle lotte operaie e alle lotte studentesche del Sessantotto. «Strage di stato» venne subito definita in un diffuso libretto di contro-inchiesta (Samonà e Savelli, 1970). Fu la strage più orribile e drammatica che restò nei nostri discorsi e nelle nostre canzoni («Il dooodici diceeeembre, un anno era passaaato…»), ma non bisogna dimenticare che lo stesso giorno nella sede della Banca Commerciale in Piazza della Scala a Milano fu trovata una borsa con dentro un altro ordigno esplosivo, mentre a Roma vicino alla Banca Nazionale del Lavoro quasi simultaneamente esplose un altro ordigno che procurò 17 feriti e altre due esplosioni ci furono vicino all’Altare della Patria che procurarono ferite ad altre quattro persone.

A quella di Piazza Fontana seguirono altre stragi: di Gioia Tauro (luglio 1970, 6 morti e 66 feriti), di Peteano (maggio 1972, 3 morti e 2 feriti), alla Questura di Milano (maggio 1973, 4 morti e 52 feriti), di Piazza della Loggia a Brescia (maggio 1974, 8 morti e 102 feriti), dell’Italicus (agosto 1974, 12 morti e 48 feriti). Lo stragismo: questa fu la risposta, della borghesia italiana e del suo Stato ai nostri bisogni e alle nostre lotte. Scrivo “borghesia” per semplificare. So che non vuol dire quasi nulla e che a cinquant’anni di distanza, sulla strage di Piazza Fontana, tanto per fare un esempio, sebbene rimangano ancora dei misteri, si conoscono gli organizzatori: furono i fascisti di Ordine Nuovo con la complicità di alcuni settori dello Stato (Sid, Ufficio Affari Riservati, ecc.) e ambienti internazionali legati alla Nato e alla CIA.

Ma allora il mondo per me (e non solo per me, come si capisce dal Volantone) era diviso in due: sfruttatori e sfruttati, capitalisti e lavoratori, borghesia e proletariato.

10.- La strage di Piazza Fontana rappresentò per noi giustamente un punto di svolta. Capimmo qual’era la posta in gioco. Capimmo che poteva esserci un colpo di Stato, una dittatura militare d’ispirazione fascista come quella che nel 1967 era stata instaurata in Grecia. (Ricordiamoci che in quegli anni in Spagna c’era ancora il caudillo Francisco Franco e in Portogallo la dittatura di Salazar). Avevamo visto il film di Costa-Gavras «Z – L’orgia del potere». Ci allarmammo. Poteva succedere durante la notte di ritrovarsi carabinieri e fascisti in casa. Eravamo pronti, se necessario, a dormire fuori casa…E vabbe’, questo era il minimo. Il problema, però, non era solo questo. Era che uno come me aveva già moglie (che non portava a casa un salario o uno stipendio) e due figlie (nata la prima nel 1972, la seconda nel 1974). Che fine avrebbero fatto?…Confidavo nella solidarietà dei compagni e nel sostegno dei miei genitori. Non posso, tuttavia, negare la preoccupazione.

Del resto, se lo scopo delle stragi e degli attentati era quello d’intimidirci e spaventarci, cedere su questo punto significava fare il loro gioco. Da qui la necessità di tener duro e continuare con rinnovata convinzione. Oltre a questi timori, più o meno collettivi e/o individuali, la “madre delle stragi”, come è stata opportunamente definita, aggiunse qualcosa al nostro discorso e ai nostri comportamenti: l’antifascismo militante.

I padroni in fabbrica andavano combattuti e lì le forme di lotta erano note: dallo sciopero tradizionale a quello “a gatto selvaggio “ o al “salto della scocca”. Ma come combattere i fascisti? A quelli che si limitavano a fare discorsi potevi opporre altri discorsi. Ma chi piazzava bombe per dar la colpa agli anarchici o agli estremisti rossi? Chi attentava addirittura ai carabinieri (strage di Peteano) per attribuire la responsabilità ad associazioni e movimenti extraparlamentari?…Come difendersi? Cosa fare contro questi?…

La parola “violenza” cominciò ad apparire nei nostri discorsi. Per tutto un periodo la violenza era stata sempre degli altri (dei padroni, della polizia, dei fascisti) e la nostra era per lo più resistenza passiva o, al massimo, difensiva; da un certo punto in poi, si pensò che fosse necessario un servizio d’ordine, che in corteo occorreva stare in fila con persone conosciute (del tuo stesso gruppo) per evitare infiltrazioni di provocatori, ecc. Si pensò, insomma, che non bastasse la forza della folla muta che partecipò il 15 dicembre ai funerali delle vittime della strage: migliaie e migliaie di persone (150 mila?…200 mila?…) in piazza Duomo, molte in tute di lavoro. L’antifascismo doveva farsi più militante. La resistenza era rossa e non democristiana. Occorreva disturbare i comizi dei caporioni fascisti. Ricordo un’azione di disturbo a Merate nel 1972 o 73. Mi pare che parlasse Almirante. Ci fu una carica della polizia e scappammo per strade e stradine…

Al di là di questa maggiore attenzione antifascista, devo dire, però, che il problema della forza in Avanguardia Operaia non si è mai posto sul terreno della “violenza offensiva” o delle “azioni dimostrative individuali e/o collettive”. Almeno così io ricordo. Sicuramente, per mia e nostra fortuna, non si è mai presa in considerazione l’eventualità o la possibilità di ricorrere ad “azioni terroristiche”.

Nel triennio 1969-1972, la violenza venne praticata in larga misura dall’estrema destra. Ma col passar degli anni e il continuar delle stragi, durante le manifestazioni alcuni settori dei cortei si fecero sempre più aggressivi (Autonomia Operaia, ad esempio). Peggio ancora cominciarono a svilupparsi una serie di azioni terroristiche da parte di un insieme di sigle che faccio fatica anche solo a ricordare: Brigate Rosse, Prima Linea, Nuclei Armati Proletari, ecc.

Le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica più nota, ebbe una fase iniziale di propaganda armata (attentati incendiari, sabotaggi, brevi sequestri di quadri e dirigenti aziendali come Hidalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens nel marzo 1972 o Ettore Amerio, capo del personale Fiat nel dicembre 1973) per poi fare un vero salto di qualità col rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi nel 1974, proprio durante la campagna referendaria per il divorzio. Il secondo salto avvenne nel 1976, durante la campagna elettorale, con l’uccisione del procuratore generale di Genova Francesco Coco e i due uomini di scorta e, infine, il 16 marzo 1978 con lo sterminio della scorta, il rapimento di Moro e il successivo assassinio.

Ma nel 1978 l’Avanguardia Operaia che avevo incontrato a 20 anni, nel 1969, non c’era più.

11. – Contro-informazione, contro-inchiesta, contro-cultura…Ecco un insieme di parole-chiave che definivano i nostri comportamenti. I contro-corsi erano cominciati all’Università. La contro-informazione era una necessità quasi quotidiana. Occorreva saper leggere tra le righe dei giornali. Occorreva domandarsi chi diceva cosa, quando, dove e perché (le famose cinque wh…). I più avvertiti non disdegnavano un’attenzione al come. E quindi alla forma e al genere. Di che si trattava?…Di una poesia, di un commento, di un’intervista, di un articolo di cronaca o di un reportage?…Dei giornali cosiddetti indipendenti meglio diffidare. Rappresentavano le istanze di chi li finanziava: borghesi o frazioni di borghesia. Potevano essere utili per capire la lotta che c’era tra di loro. Ad esempio, l’Espresso era antigolpista e democratico, ma il Corriere della Sera che accettava la propaganda democristiana sugli “opposti estremismi” era o no contro la “strategia della tensione”?…Per capire il vento che tirava negli organi dirigenti del PCI bastava leggere l’Unità. Quanto a noi, alla “nuova sinistra” (o “sinistra extraparlamentare” o “sinistra rivoluzionaria”…non è la stessa cosa, ma io usavo indifferentemente l’una o l’altra formula) Lotta Continua dal novembre 1969 aveva il suo settimanale, il Manifesto aveva la sua rivista mensile, noi anche, e poi bastava fare una passeggiata in una libreria Feltrinelli per trovarsi di fronte ad un vero e proprio mare magnum alternativo di fogli, settimanali, mensili, bimestrali, ecc. La contro-informazione non mancava. Sulla sua qualità non saprei dire. Posso dire ciò che leggevo io: Il Manifesto, Avanguardia Operaia, Quaderni piacentini, Nuovo Impegno, Critica marxista, Rinascita e l’Espresso. Non è che leggessi tutto! Leggevo gli articoli che mi interessavano.

Questo bisogno di contro-informazione mi rese (o forse ci rese) sensibili a discipline come la teoria della comunicazione, la semiologia, la semeiotica. Un nome per tutti: Umberto Eco.

Sulla contro-inchiesta ho detto a proposito del libretto sulla “Strage di Stato”. Fu un libretto che ci servì molto nell’immediato e che ci orientò. Anche se continuare ad insistere genericamente sullo Stato fa perdere di vista la responsabilità dei Servizi segreti italiani (Sid e Ufficio Affari Riservati) e dei fascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale.

Sulla contro-cultura, invece, o cultura alternativa, il discorso è più complicato. Su questo versante il marxismo-leninismo di AO non c’entra niente. La contro-cultura è Londra, New York, San Francisco. È la lotta contro la guerra nel Vietnam, quella degli afroamericani per i diritti civili, quella per i diritti delle donne. È la rivoluzione sessuale, i movimenti anti-autoritari, gli stili di vita alternativi, gli hippy. È il movimento non violento per i diritti civili, l’ambientalismo…

Durante il Sessantotto, nel mio anno torinese, avevo incontrato questi discorsi e avevo frequentato persone che li praticavano. La mia amica, che leggeva «On the road», di Jack Kerouac era una di queste. Io ho letto «La politica dell’esperienza» di Ronald Laing, ma non ho mai sperimentato sostanze stupefacenti. Non mi sono mai fatto una canna. Questo non significa che ho fatto bene e che sono un virtuoso. Di quel grande movimento ho fatto sicuramente miei la stragrande maggioranza del suo vasto programma e dei suoi obiettivi (la lotta per i diritti civili, contro la guerra nel Vietnam, ecc.), ma non me la sentirei di definirmi un hippy, un “controculturale” o qualcosa del genere. Come ho raccontato all’inizio avevo altre emergenze.

A Cologno lo sono stati in quegli anni i compagni del Circolo “La Comune”?…Forse sì. È probabile. Anche se io ricordo che l’intervento culturale cominciò a realizzarsi dopo l’occupazione del cinema all’aperto in via Don Pietro Giudici, occupazione che avvenne intorno al 1974, dopo quella della palazzina Liberty da parte del Circolo “La Comune”di Dario Fo e Franca Rame. Quello colognese faceva parte, in un certo senso, della rete dei Circoli che fiorirono un po’ qua e un po’ là.

Avanguardia Operaia aveva una “Commissione cultura” e ricordo che circolavano dei documenti istitutivi su compiti e funzioni. Uno dei temi di discussione era su quale cultura favorire, promuovere, realizzare. Alla visione artistica di Dario Fo rivolgevamo delle critiche (sul concetto, mi pare, di “cultura popolare”), ma noi tutti partecipavamo con entusiasmo agli spettacoli che allestivano. Soprattutto dopo la strage di Piazza Fontana, l’indagine pilotata sulla pista anarchica (arresto di Valpreda) e il “suicidio” di Pinelli, «Morte accidentale di un anarchico» ebbe un grande successo. Lo stesso dicasi di «Mistero buffo» e di altri spettacoli.

Oltre al teatro, un ruolo importante aveva in quegli anni la musica rock e la canzone politica: «Contessa», «Morti di Reggio Emilia», ecc. Controcultura era stato il festival delle arti di Woodstock nel 1969. Sulla scia di questo evento, ripetuto annualmente, nel1976, a fine giugno, si cercò di mettere insieme la parte hippy del movimento con quella più politicizzata. A Parco Lambro venne allora organizzato il “Festival del proletariato giovanile”, al quale quasi certamente parteciparono i nostri giovani.

Il Circolo “La Comune” di Cologno funzionò soprattutto come luogo di aggregazione; sicuramente furono organizzate delle mostre, dei concerti, ecc…Non saprei dire molto altro. Era un luogo prevalentemente giovanile e, se mi capitava di metterci piedi il sabato o la domenica, dovevo spostarmi con moglie e passeggini al seguito.

12. -Non ci volle molto per gli inquilini della scala G di Viale Lombardia 49 (e di tutte le altre scale) per capire quali attività si organizzavano nel “Centro Studi”. Vedendoci andare avanti e indietro con pacchetti di volantini sottobraccio o con striscioni e bandiere rosse, sentendo spesso il rumore del ciclostile in funzione o ascoltando il chiacchiericcio spesso vivace delle riunioni settimanali, dedussero presto di avere a che fare con dei comunisti più comunisti di quelli che frequentavano la sezione Di Vittorio, aperta dal PCI sullo stesso viale, nel marciapiede di fronte al condominio, una decina di metri più in su. A partire dalla fine del 1974, per la vendita militante del «Quotidiano dei Lavoratori», andando su e giù per le scale, poteva capitare che alla stessa porta bussasse prima il diffusore del PCI e poi noi o al contrario (per non farsi fregare sul tempo).

Dal 1974 (anno del quarto congresso) al 1976 fui segretario cittadino di AO. Fu il periodo del massimo sviluppo. Non per merito mio, si capisce. Ma fu anche il periodo in cui cominciò la spinta centrifuga, la disgregazione. Anche questo, non per colpa mia. Anzi, la scissione del gruppo dirigente nazionale ci piovve addosso e ci sentimmo “espropriati” di un lavoro che c’era costato fatica, notti insonni, attacchinaggi, volantinaggi, ore ed ore di discussioni, occupazioni (di case, scuole, sala comunale), blocchi stradali (ricordo quello in Viale Lombardia per chiedere al Comune di completare la costruzione di un edificio rimasto allo stato di scheletro), cortei, manifestazioni, ecc. ecc.

Comunque, nella fase di massimo sviluppo, la sezione di AO (articolata in una segreteria, direttivo, commissioni e assemblea degli iscritti) organizzava un Comitato Interfabbriche, un Coordinamento tra i lavoratori per la democrazia nella scuola, la locale Unione Inquilini. il Circolo “la Comune” e mi pare dei Comitati di Quartiere. Questi organismi di massa producevano volantini, bollettini, mostre, materiale vario di propaganda e agitazione.

Non ricordo il numero preciso dei tesserati. Eravamo sicuramente più di una trentina e la realtà sociale che in qualche modo orientavamo comprendeva più di un centinaio di persone: operai, impiegati, studenti d’istituti medi e universitari, insegnanti, casalinghe, qualche artigiano, ecc.

Quanto ha pesato nella storia di Cologno questa nostra esperienza? Che cosa siamo riusciti a costruire? Qual è stato il nostro contributo? Quali eventi abbiamo prodotto? Contro chi abbiamo lottato e per cosa?…

La prima cosa che mi salta in testa è semplice: prima accennavo al blocco stradale in Viale Lombardia. Beh, se la costruzione di quel palazzo è stata completata e sono state assegnate delle case comunali ai cittadini colognesi che ne avevano diritto lo si deve soprattutto a noi. Così come si deve anche a noi la ripresa dell’edilizia popolare…Ricordo che il primo piano regolatore fatto a Cologno dalla Giunta di centro-sinistra (se non ricordo male) fu analizzato dalla nostra compagna Graziella Marcotti. Teneva conto di molte cose che dicevamo noi e, nel complesso, era accettabile.

Il Patronato Scolastico fu abolito nel 1977 (DPR 616). Ma per buona parte degli anni Settanta, grazie anche alle nostre lotte nelle scuole, si organizzò sempre meno “doposcuola” e sempre più “attività integrative” che andavano nella direzione del tempo pieno. In alcune scuole funzionavano laboratori di ceramica, di fotografia, di pittura, ecc. Buona parte dell’iniziale sindacalizzazione delle scuole è dovuta a noi. Fui nominato rappresentante sindacale della CGIL-scuola nel 1973.

Abbiamo lottato contro lo sfruttamento e l’oppressione. Abbiamo lottato per i diritti dei cittadini. Abbiamo lottato per rendere meno “quartiere dormitorio” questa città. Molti immigrati, grazie a noi, presero la parola, impararono a riconoscere i loro diritti e lottarono per migliorare le loro condizioni di lavoro e di vita.

13.- Ho chiesto a Giuseppina: se dovessi riassumere in una parola chiave quel periodo quale sceglieresti? Mi ha risposto: “Solidarietà”. E pensa al clima che c’era tra di noi, alla fiducia reciproca, alla speranza viva in un futuro migliore che sembrava abbastanza realizzabile. Noi eravamo allora una giovane coppia e siamo stati aiutati in tanti modi concreti dai compagni. Quando abbiamo messo su casa e ci siamo trasferiti in Via Rossini, indimenticabile è stato per noi l’aiuto di Gigi Degli Abbati. Con la collaborazione di Fumagalli – allora non era il grande mobiliere che è oggi – disegnò un arredamento essenziale, multifunzionale che ci costò meno di cinquecentomila lire. I nostri due locali più servizi non avevano la tradizionale “camera da letto” (inutilizzabile durante il giorno) e il “salotto”, ma ambienti, spazi che potevano essere sempre utilizzati. Quando le nostre bambine andarono a scuola, quella casa diventò il luogo in cui tutte le bambine e i bambini della scala potevano facilmente ritrovarsi e giocare, con la possibilità di calpestare tutti i settanta metri quadri a disposizione…

Spesso Ennio e Rosa ci hanno aiutato a risolvere le nostre turbolenze di coppia e i nostri addomesticamenti. Per non dire di Enrico che, probabilmente stanco di vedermi chiedere passaggi, nel 1976 mi consigliò di prendere la patente e mi regalò la sua cinquecento usata. Non so se dovesse dismetterla. So che Ledo, mio cognato, da bianca la fece diventare giallo champagne e con quella macchina nell’estate del ‘77 feci il mio primo viaggio a Bisaccia. Al ritorno, di notte, a pochi chilometri dal casello di Modena Nord, si ruppe la frizione. Aspettammo il carro attrezzi e ci portò nella prima officina che s’incontra all’uscita. Il giorno dopo ci rimettemmo in marcia.

Tra le mie mani, però, quella macchina ebbe vita breve. Una notte d’autunno di quell’anno (o dell’anno successivo, non ricordo bene), alla fine di una riunione in zona centro, tornai e non la trovai più. L’avevo posteggiata in Via Cavour e girai a lungo per tutte le vie limitrofi. Niente. Me l’avevano fregata. Mi dispiacque molto.

Sempre a proposito di solidarietà. Ho un bel ricordo anche di alcune vacanze in tenda. Una a Palinuro. La tenda – una familiare a quattro posti – ci era stata prestata da un amico di Ledo. Durante questa vacanza incontrammo sulla spiaggia una giovane coppia di compagni tedeschi. Anche loro stavano costruendo il partito comunista rivoluzionario. Ci scambiammo gli indirizzi. Mi mandarono il programma politico del loro partito.

Sì, il clima era un po’ questo: di apertura, curiosità, fraternità, solidarietà…Questo almeno per tutta la prima metà degli anni Settanta. Poi ci furono i fattori di svolta.

14. – I fattori di svolta furono diversi: a) La “strategia della tensione” con relativo stragismo. Per tutta la prima metà degli anni Settanta la risposta di massa riuscì a contenerne gli effetti. Il “partito del golpe” in qualche modo venne tenuto a bada. Ma generò, comunque, discorsi che non escludevano ricorsi alla violenza da parte di settori di avanguardia del movimento. b) La “strategia dell’attenzione” di Moro nei confronti del PCI e quella del “compromesso storico” di Berlinguer nei confronti della DC che, dopo le elezioni politiche del 1976, diedero vita ai governi di “solidarietà nazionale”. Il primo governo doveva formarsi proprio il 26 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro. c) La perdita di egemonia delle formazioni politiche che promossero l’esperienza elettorale di Democrazia Proletaria (AO, PDUP, Lotta Continua) con l’obiettivo del “governo delle sinistre” e un generico invito a “cambiare” per mandare all’opposizione la DC; perdita di egemonia che si tradusse in una forte presenza di Autonomia Operaia nel movimento del Settantasette, che, a differenza di quello del Sessantotto, non escludeva il ricorso alla “violenza offensiva”. d) Il formarsi di un “partito armato” (della rivoluzione) che scelse il terrorismo come metodo di lotta. L’esito finale di questa “falsa guerra civile” (Fortini), che si sviluppò in Italia in quegli anni, fu la sconfitta dei movimenti (del movimento operaio, in primo luogo) e di qualsiasi ipotesi di costruzione di un partito rivoluzionario di massa.

L’unico movimento che, forse, si salvò fu quello femminista. Ma esso rappresentava un totale capovolgimento del pentagramma marxista-leninista di AO. Partire dalla “centralità operaia”?! Neanche a parlarne. La contraddizione principale è quella di genere, quella fra uomo e donna. Basta con la società patriarcale. Con i comunisti che fanno i comunisti in fabbrica e i padroni in casa. Che senso ha partire dalla “coscienza di classe”?…Occorre partire da sé, dall’”autocoscienza” di ognuno di noi…Di conseguenza, meglio separarsi e formare “gruppi di autocoscienza”; meglio prestare attenzione alla “differenza”, ecc. ecc. Cominciarono a circolare altri nomi e altri testi: Carla Lonzi e il suo libro «Autocoscienza», Luce Irigaray e il suo «Speculum», Elena Gianini Belotti e il suo «Dalla parte delle bambine», Juliet Mitchell e il suo «Psicoanalisi e femminismo»… Insomma, altra musica. A me, tutto sommato, suonava anche bene. Però, non è che si possono abbandonare le idee come se fossero vestiti. Dunque, il processo fu tutt’altro che indolore.

15. – Nel 1971, quando scrivemmo il Volantone sulle elezioni comunali, la nostra indicazione di voto fu per l’astensione o per l’annullamento della scheda. Non c’era il partito operaio.

Nelle elezioni politiche del 1972 non ci presentammo e anche questa volta l’indicazione di voto fu per l’astensione o per l’annullamento della scheda. Ricordo che, al mio primo voto politico, scrissi “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia”. Avrei potuto votare Il Manifesto, che leggevo ogni giorno e che aveva come candidato di bandiera Pietro Valpreda. Almeno avrei aiutato a liberare l’anarchico, ingiustamente accusato, dalle patrie galere. Avrei potuto votare anche il PSIUP che si era mostrato assai sensibile alle istanze sessantottine o il Movimento Politico dei Lavoratori di Livio Labor. Quelli di “Servire il popolo” (Partito Comunista Marxista-Leninista Italiano) mi erano indigesti e lasciamo stare. Per non dire del PCI che mio padre e mia madre sicuramente votarono, contravvenendo ai nostri discorsi filiali. Allora questo partito chiedeva “equilibri più avanzati”. Io, comunque, fui ligio ad AO.

Risultato: aspettative deluse da parte di tutti. A parte noi che sul terreno elettorale non ne avevamo. Il Manifesto, il MPL e il PCM-LI non presero nessun deputato, il PSIUP vide dimezzare i suoi voti e anch’esso non ottenne alcun deputato.

Da questa fallimentare esperienza nel dicembre del 1972 nacque il PDUP in cui confluirono il Nuovo PSIUP di Vittorio Foa e Silvano Miniati e Alternativa Socialista, che era una corrente di sinistra del MPL, di Giovanni Russo Spena e Domenico Jervolino. Nel luglio 1974 il PDUP si sciolse per dar vita insieme al Manifesto al PDUP per il comunismo.

Ai primi di Ottobre, dopo il IV Congresso, cominciò a mettersi in ballo anche AO, in vista delle elezioni amministrative del 1975. Una grande sorgente d’incoraggiamento era stata la vittoria referendaria sul divorzio del maggio 1974 che rappresentava una battuta d’arresto per l’area reazionaria e conservatrice. Per noi si trattava di fare un salto: fino a quel momento ci eravamo sforzati di unire l’«area leninista» dei vari gruppuscoli, ora dovevamo cercare di unire «l’area rivoluzionaria». PDUP per il comunismo divenne il nostro primo interlocutore e fu così che nel voto del 1975 in alcune regioni fu presentato la lista di Democrazia Proletaria e in altre il PDUP per il comunismo si presentò da solo. I risultati non furono granché, ma c’era molta fiducia nel percorso. In Lombardia, dove avevamo cercato di concentrare le nostre preferenze su Roberto Biorcio, venne eletto Mario Capanna. In questa occasione Lotta Continua diede indicazioni di voto per il PCI con uno strano ragionamento che non ricordo.

Nel 1976, quando ci furono le elezioni politiche, il simbolo di Democrazia Proletaria era già pronto: PDUP per il comunismo e AO erano le forze trainanti, a cui si aggiunse, dopo una notevole pressione da parte sua e un estenuante tira e molla, Lotta continua con i candidati posti in fondo alla lista. Del resto tra le forze principali del cartello la definizione dei capilista fu compito tutt’altro che facile. L’unica cosa certa era lo slogan: “Governo alle sinistre, potere a chi lavora”.

Purtroppo le elezioni andarono male: la lista totalizzò 557.025 voti, l’1,5%. Il PCI, invece, raggiunse il 34,4%, il suo massimo storico. Furono questi risultati elettorali a innescare la crisi che portò Lotta Continua a sciogliersi, alla fine del 1976, mentre nel PDUP per il comunismo e in AO si consumarono due scissioni e relative fusioni incrociate. La scissione in AO avvenne nel V congresso del marzo 1977: da un lato la maggioranza guidata da Vinci, dall’altro la minoranza guidata da Campi. Per quanto mi riguarda non presi posizione né per l’uno, né per l’altro. Mi sembrò di veder distruggere una casa alla cui costruzione avevamo lavorato per anni e mi pare che al Congresso presentammo un documento in cui denunciavamo la mancanza di chiarezza del dibattito in corso nel gruppo dirigente e l’espropriazione che veniva operata ai danni dei compagni di base e dei quadri intermedi. Anche le compagne femministe si arrabbiarono contro questo modo di fare politica.

Nel PDUP per il comunismo non ricordo cosa accadde. Ricordo che Campi e i delegati di minoranza si unificarono con la maggioranza di Magri e Rossanda, mentre Vinci e i delegati di maggioranza si fusero con la minoranza di Foa e Miniati. Risultato: ancora due formazioni politiche.

A distanza di più di quarant’anni non so cosa dire di questi pessimi risultati che dovevano essere vissuti come tappe di formazione del partito comunista rivoluzionario. Evidentemente la storia di ognuno e la cultura di riferimento fecero aggio su qualsiasi altra considerazione: così Magri e Rossanda che provenivano dal PCI probabilmente s’intendevano di più con uno come Campi che aveva tradotto «Leggere il Capitale» di Louis Althusser; persone come Vittorio Foa o Silvano Miniati che provenivano dal socialismo italiano e conducevano una limpida polemica antiriformista non risultavano convincenti. Così come non risultava convincente la rilettura leninista di chi proveniva dalla IV Internazionale (Gorla) e così via. Immagino la discussione fra un Magri o una Rossanda e un Capanna!…

16.- Il 20-21 giugno del 1976 si votò anche a Cologno per il rinnovo del Consiglio Comunale. Per la prima volta ci presentammo alle elezioni e lo facemmo come Democrazia Proletaria. Nella nostra città non avevamo problemi, non c’erano riunioni di Intergruppi da fare, non dovevamo contrattare il capolista con qualcuno del PDUP per il comunismo, né avevamo esponenti di Lotta Continua da mettere in fondo. Per il semplice fatto che in sette anni l’unica formazione organizzata che si era sviluppata era la nostra. Avanguardia Operaia aveva compiuto, in un certo senso, un “miracolo”: di tenere tutto dentro di sé. Quindi, se c’erano iscritti o simpatizzanti del PDUP per il comunismo e c’erano (ne ricordo qualcuno nel sindacato e nei quartieri di Via Rossini o di Via Toscana), non si fecero vedere. Lo stesso dicasi per i lottatori continui.

Pure la definizione della testa di lista suscitò tra di noi qualche problema. Io ero il segretario cittadino e avrei dovuto essere il capolista, per così dire, senza discussione. Discussioni, invece, ci furono. Risolti, a colpi di maggioranza. Non ricordo se votammo. Forse non ce ne fu bisogno perché l’esito apparve scontato dalle prese di posizione dei singoli compagni. Comunque, fui il capolista e conducemmo la nostra prima, impegnativa campagna elettorale. Il risultato fu significativamente migliore di quello politico-nazionale. Prendemmo intorno al 3,5% e fui eletto consigliere comunale. Affrontai il nuovo impegno con entusiasmo e curiosità, ma il sentimento positivo durò poco. A marzo del 1977, dopo la scissione in AO e le fusioni incrociate con il PDUP per il comunismo, da un giorno e l’altro, mi ritrovai “cane sciolto”. Un gruppetto di compagni (tra cui il sottoscritto) cercò di far nascere un Collettivo “Bandiera Rossa” e uscì qualche numero di un Bollettino, ma il “miracolo” di AO non si ripeté. Le divergenze tra di noi affioravano ad ogni incontro. Le più importanti riguardavano i nostri giudizi sul Movimento del Settantasette, composto come qualsiasi movimento da tante anime: da quella anticapitalista del “rifiuto del lavoro” e dell’”esproprio proletario” a quella degli Indiani metropolitani, da quella underground, pacifista, creativa, non violenta a quella dura, intransigente che inneggiava alla P38 (veramente alcuni sparavano anche)… Non eravamo poi d’accordo sul rapporto da tenere nei confronti del PCI e del Sindacato. Ad esempio, per quanto mi riguarda, non condividevo nel modo più assoluto azioni come quelle della cacciata di Lama dall’Università “La Sapienza” di Roma. La critica al PCI e al Movimento operaio tradizionale non poteva passare alle vie di fatto e risolversi in scontri a suon di slogan del tipo: “Via, via la nuova polizia”. Per me la strategia del “compromesso storico” andava contestata con azioni di massa, democraticamente, non con azioni dirette e violenti. Autonomia Operaia militarizzò il conflitto e il “partito armato” fece il resto. Le Brigate Rosse con il rapimento di Moro e lo sterminio della scorta rappresentarono il punto di svolta. Dover distinguere la propria posizione rivoluzionaria da quella dei “compagni che sbagliano” o da chi ripeteva che non era schierato “né con lo Stato, né con le BR” era abbastanza facile. Ma non era facile da capire agli occhi di chi era interessato a fare di ogni erba un fascio. Così poteva capitare di ritrovarsi addosso l’etichetta di “fiancheggiatore delle BR”. Anzi, di “brigatista”. Cosa che puntualmente avvenne.

Ritrovatomi “cane sciolto”, avevo ripreso a fare esami all’Università. Quindi mi accadeva di chiedere dei permessi di studio. Dopo che arrestarono come brigatista un insegnante di Via Boccaccio e ci fu l’esplosione di una bomba vicino alla caserma dei Carabinieri di Cologno, esplosione rivendicata da Prima Linea, qualcuno nella segreteria della scuola pensò che andavo a compiere chissà quali attentati. Diventato suo direttore, anni dopo, me lo confessò. Questo per dire il clima che si creò in quegli anni. A me scoccia definirli “di piombo” e scoccia ancora di più pensare che possano caratterizzare tutti gli anni Settanta. Comunque, quelli di fine decennio (’77-80), non furono anni belli e soffocarono abbastanza il respiro di liberta e il desiderio collettivo di fare politica che il Sessantotto e l’”autunno caldo” avevano suscitato.

Quando nell’aprile del 1978, Democrazia Proletaria da cartello elettorale si trasformò in partito, il mio disagio aumentò. Fra la maggioranza guidata da Vinci e la minoranza guidata da Campi, io mi sentivo più vicino alle posizioni del secondo. Anche se scartai subito l’idea di continuare un’esperienza militante nel PDUP per il comunismo. Figurarsi continuare in DP. I suoi dirigenti erano per me ottime e stimabili persone (Vinci, Gorla, Calamida, Molinari, Biorcio, Foa, Miniati, Russo Spena, Jervolino, Giovannini, Lettieri, Luperini), ma trovavo le loro posizioni ancora meno convincenti di quelle di Campi, di Magri o di Rossana Rossanda.

Dopo la brevissima esperienza del Collettivo “Bandiera Rossa”, provai per un po’ coi compagni di “Leggere Cologno”, ma il “miracolo” di AO era davvero finito. Ricostruire il clima del passato era impossibile e improponibile: i gruppi dirigenti nazionali di AO e della Sinistra rivoluzionaria avevano mostrato chiaramente tutti i loro limiti. Facevamo di tutto per non ammettere che avevano fallito e noi con loro. Ci sforzavamo di far sopravvivere l’esperienza vissuta. Ad un certo punto, ritenni mio dovere cercare di chiarire la mia posizione. Così, il 30 marzo del 1979, misi nella macchina da scrivere due fogli bianchi con in mezzo la carta velina e scrissi al Sindaco e al Consiglio la mia lettera di dimissione da consigliere comunale: «Sono stato eletto in Consiglio Comunale sulla base di un progetto politico che il 20 giugno 1976 aveva un senso ed uno scopo, anche se con segni incipienti di crisi. Nel giro di questi anni, questo progetto politico si è andato sempre più sfilacciando sino al suo quasi completo fallimento.»

Scrissi “quasi” per rispettare i compagni che nel PDUP e in DP continuavano la loro militanza. Ma per me quell’esperienza era finita.

17.- Una sera andai a casa di un operaio della Rolf. Doveva raccontarmi ciò che era successo in fabbrica per scrivere un volantino e denunciare la situazione. Mentre stavamo per accomodarci in salotto, mi guardò in faccia e mi disse: «Come fate voi?…Come fate?…Avete una fede!…Vi ammiro…Ma io non ci riesco. Io voglio vedere anche la partita, voglio guardarmi la televisione, voglio andare al bar con gli amici…Voi, invece, sempre sulla breccia!…» Non seppi che rispondergli. Sorrisi…Naturalmente anche a noi capitava di fare la domenica qualche partita al Parco Lambro, di guardare la televisione, di andare al cinema a vedere, che so?, «Queimada», meraviglioso film di Pontecorvo o «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Elio Petri. Così come ci capitava di andare al Paoletto, il bar su Corso Roma all’altezza di Via Negrinelli. Almeno, qualche volta è capitato anche a me…Ma il senso dell’osservazione ammirata dell’operaio della Rolf era forse un altro. Lui leggeva in noi una “fede” che sicuramente c’era. Una fede nella costruzione di un partito rivoluzionario che, in certe condizioni favorevoli, avrebbe sfruttato l’occasione per modificare radicalmente i rapporti di potere sociale. La nostra militanza era sostenuta da questa fede e aveva sicuramente i tratti dell’integralità e della totalità. Per fortuna, non celebravamo i matrimoni comunisti come “Servire il popolo”, ma stavamo abbastanza attenti anche alle nostre vite individuali. Tolto il lavoro, lo studio o gli impegni familiari, gran parte del tempo era dedicato alla militanza: lotta, propaganda, agitazione, discussioni, manifestazioni…

Così con l’obiettivo di lottare contro i padroni e smascherare i revisionisti abbiamo trascorso migliaia di ore con spezzoni di classe operaia di Cologno e dintorni, con strati proletari immigrati, con studenti e insegnanti…È stata un’esperienza straordinaria, meravigliosa, ma anche molto “afferrante”, “stritolante”…Io ho imparato molto. Non posso, però, negare che quando mi sono ritrovato “cane sciolto” per un po’ ho respirato, Mi è dispiaciuto tantissimo. Ma quel collettivo e quella militanza si erano fatti per certi versi soffocanti. Un solo esempio per capirci: fin dall’adolescenza avevo il “vizio” di scrivere qualche poesia. Era la “parte femminile” di me che chiedeva di essere ascoltata. Fino al 1969-70 scrivo. Poi quella parte sostanzialmente tace per sei anni. Non si può dire che stavamo costruendo un COLLETTIVO capace di sviluppare tutte le nostre potenzialità individuali…Ma non ho rimorsi. Evidentemente in quegli anni era prevalente in me la voglia di capire la sostanza del fare politica: offrirsi come “struttura di servizio”, comprendere i bisogni e le esigenze dei singoli e dei gruppi, sistemarli in proposte e richieste collettive, aprire su di esse una lotta o una vertenza con chi ha il potere di soddisfarle, ecc…Insomma, l’ABC della politica come azione collettiva.

18.- Avrei ancora molto da dire: sui compagni (e sulle compagne) che non riuscirono a superare la delusione della crisi e si suicidarono (penso a Linda); sul diffondersi verso la fine degli anni Settanta della droga che colpì col suo carico di morte diversi giovani colognesi (anche nostri compagni e compagne); sulla crisi del petrolio del 1973 con le indimenticabili domeniche a piedi, crisi che diede il là al processo di decentramento produttivo e ristrutturazione capitalistica (verso la fine di quegli anni molte fabbriche e fabbrichette cominciarono a chiudere anche a Cologno), e tante altre belle e brutte cose di quel periodo.

Sul piano strettamente individuale sono stati gli anni della mia “strana gioventù”. Ho cominciato che avevo venti anni (1969) e ho finito che ne avevo trenta (1979). È stato il periodo del mio inserimento in questa città e della mia integrazione. Il periodo in cui ho messo su famiglia. Il periodo della mia socializzazione politica. Un periodo di fervori e di grandi entusiasmi, ma anche di timori e preoccupazioni. Non ho nulla da rimpiangere o da rinnegare. Ho compiuto con tanti altri compagni azioni giuste, necessarie e doverose. Ho commesso anche errori. Ma è soltanto così che si cresce e si impara. La mia gioventù come la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia maturità sono delle grandi miniere. Ad esse ritorno quasi quotidianamente per dare un senso e una direzione alla mia vita, per continuare ad affrontare il futuro. Sotto questo profilo potrei dire che non mi sono mai allontanato dal patrimonio di azioni e di valori di quegli anni. Volevamo fare la rivoluzione?… Penso di sì, se ci fossero state le condizioni. Ma queste non c’erano e poi…leggevamo «Proletari senza rivoluzione»!… Forse quel libro ci portava sfortuna. Col suo titolo ci annunciava lo stesso destino dei nostri padri, dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. Succede.

Giugno 2019

30 pensieri su “I miei anni Settanta a Cologno (2)

  1. Grazie Donato, per questa puntuale analisi su una parte di storia Colognese che non conoscevo. La storia di una famiglia e quella più ampia del nostro paese… è un punto di vista lucido , una partitura ben articolata di una persona che , si capisce , ha dedicato tanto amore nella città che lo ha accolto, arrivando dal sud come tanti di noi hanno fatto in quegli anni e nei successivi. Migranti di ieri per non dimenticare quelli di oggi.

  2. Grazie a te, Angela. Purtroppo, credo, che abbiamo dimenticato la nostra storia di migranti. Non è un caso che Sindaco della nostra città sia oggi un leghista.

  3. Appunti (1)

    IERI/OGGI: CONTINUITA’ O DISCONTINUITA’?

    «abbiamo dimenticato la nostra storia di migranti. Non è un caso che Sindaco della nostra città sia oggi un leghista» (Donato)

    «Ma nel 1978 l’Avanguardia Operaia che avevo incontrato a 20 anni, nel 1969, non c’era più» (Donato).

    Sì, abbiamo dimenticato la nostra storia di migranti, ma anche – aggiungerei – quella della sinistra (in senso largo) degli anni ‘70, la cui sconfitta è iniziata allora – questa è la mia tesi – con la scelta del compromesso storico, che ha poi portato, passo dopo passo , al disastro politico (e non solo elettorale) d’oggi, che compare dolorosamente nella seconda parte di questa testimonianza di Donato. (Ma anche in molte di quelle già raccolte dal gruppo «On the road again. Anni ‘70 a Cologno» ).

    E questo rende difficile il bilancio anche solo personale che deve riassumere il senso (fino ad ora) delle nostre vite.

    Donato il suo lo riassume così: «Sotto questo profilo potrei dire che non mi sono mai allontanato dal patrimonio di azioni e di valori di quegli anni. Volevamo fare la rivoluzione?… Penso di sì, se ci fossero state le condizioni. Ma queste non c’erano».

    Sottolinea, cioè, una continuità (ideale) tra azioni e valori di allora e azioni e valori ancora professati oggi. È lo stesso atteggiamento che ho ritrovato in molti altri compagni con cui ho avuto modo di confrontarmi. Quasi tutti tendono a sottolineare la continuità tra ieri e oggi. Ho molti dubbi verso una lettura di questo tipo.

    Se ci fosse stata continuità con le posizioni di allora (le posizioni di AO), non è detto che avremmo vinto e non saremmo stati sconfitti. Ma la sconfitta sarebbe stata così disastrosa e quasi insuperabile (così a me pare)? La sconfitta è stata forse senza conseguenze? Il lutto per quella sconfitta è stato davvero positivamente rielaborato?

    E ancora. Al momento della scissione di AO, le scelte fatte immediatamente e successivamente dai singoli compagni sono forse equivalenti? (Sarebbe davvero “miracoloso” che si fosse mantenuta inalterata quella spinta rivoluzionaria (« il miracolo di AO», come lo chiama Donato) indipendentemente dal fatto che alcuni di noi siano entrati nel PCI- DS- PD, altri nei Verdi, altre (nel caso delle compagne) abbiano optato per il femminismo e non più per il comunismo, altri siano rimasti isolati, ecc.

    E perciò mi pare inevitabile porre due questioni:
    1. Tra le varie scelte compiute successivamente, dopo la fine del “miracolo di AO”, quale quella più densa di futuro o che ha saputo conservare (continuità, dunque) meglio la verità di quell’esperienza? Potessimo tornare indietro, rifaremmo tutti le scelte compiute al momento della scissione di AO (entrare nel PCI, fare DP, passare coi Verdi. Essere femministe, ecc.)?
    2. E se, invece, la discontinuità tra oggi e ieri fosse tale che nulla o quasi più abbiamo a che fare con quel che fummo negli anni ‘70?

  4. Appunti (2)

    SULLA VIOLENZA

    «La parola “violenza” cominciò ad apparire nei nostri discorsi. Per tutto un periodo la violenza era stata sempre degli altri (dei padroni, della polizia, dei fascisti) e la nostra era per lo più resistenza passiva o, al massimo, difensiva; da un certo punto in poi, si pensò che fosse necessario un servizio d’ordine, che in corteo occorreva stare in fila con persone conosciute (del tuo stesso gruppo) per evitare infiltrazioni di provocatori, ecc. Si pensò, insomma, che non bastasse la forza della folla muta che partecipò il 15 dicembre ai funerali delle vittime della strage: migliaie e migliaie di persone (150 mila?…200 mila?…) in piazza Duomo, molte in tute di lavoro. L’antifascismo doveva farsi più militante» (Donato). 

    Per approfondire questo punto, riporto qui alcuni stralci di miei interventi fatti nel gennaio 2019 in occasione della cattura di Cesare Battisti:

    1.
    Nessuno è uscito puro e pulito dagli anni ‘ 70. Chi non ha partecipato in persona ad un atto di violenza, ha accettato che lo facessero altri al suo posto: suoi compagni o camerati o amici. O li hanno fatto le “forze dello Stato” (deviate o meno deviate) che per diritto hanno il monopolio della violenza, ma spesso oltrepassano senza farsi troppi problemi i limiti stabiliti ( vedi scuola Diaz a Genova). E la violenza fino all’uccisione degli avversari l’hanno fatto anche alcune formazioni armate in dissenso con i Partiti maggiori. Provenienti dalla tradizione della Destra come Ordine Nuovo. Provenienti dalla tradizione dalla Sinistra come le BR e altre più piccole formazioni.

    E’ stato un bene, è stato un male? Si potevano evitare certi “eccessi” o erano “necessari”? Qui siamo nel campo delle scelte a seconda delle storie e degli ideali o valori che ciascuno, con diversa consapevolezza, professa. C’è chi crede nella democrazia e nel voto e c’è chi crede che la democrazia sia una gabbia. C’è chi crede che in politica si debba difendere *questa* democrazia malgrado i suoi limiti e chi vuole costruire una democrazia più estesa o addirittura assoluta o chi crede che si debba costruire un regime autoritario fondato su un Capo e sull’obbedienza al Capo. Questi dilemmi continuano a riproporsi e a farci polemizzare in cerca di una soluzione.

    E allora che etichetta dare a Battisti?
    Non certa quella del criminale o del criminale comune. Per quel che si sa – e come tanti – non ha agito per suoi interessi individuali. Era un militante politico, rispondeva ad un’etica politica. Ha scommesso sulla rivoluzione e sulla lotta armata. Come altri hanno scommesso sul ritorno del fascismo o sulla democrazia cristiana o sulla socialdemocrazia, ecc. Ha partecipato a rapine e ha ucciso. Ci sono versioni controverse sugli episodi a cui ha partecipato e la magistratura in base alle leggi vigenti l’ha condannato. Ed ora è stato catturato. Gli si dia la pena ritenuta giusta secondo le attuali leggi, ma non ci si renda ridicoli vantandosi di chissà quale risultato straordinario da sbandierare alla TV dedicandogli circa 20 minuti della programmazione del telegiornale (ieri sera). E soprattutto chi commenta non dia sfogo indecoroso alle proprie frustrazioni di piccoli uomini, spesso vili, che godono delle sconfitte altrui. Tanto i morti, i tanti morti degli anni ’70 non risorgeranno. E i problemi irrisolti (crisi, disoccupazione, ecc.) di questo Paese sono tutti là ancora da risolvere.

    2.
    A PROPOSITO DEL CASO BATTISTI (UN CONFRONTO DEL GENNAIO 2019 CON FRANCO CALAMIDA, EX DIRIGENTE DI AO)

    Franco Calamida 

    Desidero precisare che alcune delle cose dette e scritte in relazione alla cattura di Battisti sono inquietanti. “Deve marcire in carcere” Salvini. Frase breve, eppure cancella secoli di conquiste del diritto. Nel paese di Beccaria. Ma anche :”È un assassino. Punto e basta”. No. La questione terrorismo è assai complessa. Non dobbiamo rinunciare a comprendere che non significa, è ovvio, sotto nessun aspetto giustificare. Con la sintetica definizione “criminale” ho solo inteso dire : “Noi siamo stati altra cosa, nulla in comune”. Non il nome. Stessi ideali perseguiti in forme diverse? Per nulla Questo è il punto : Il fine non giustifica i mezzi. Io comunque non condivisi neppure il fine. Cioè il modello di società. Sono contro l’ergastolo e ho partecipato al movimento contro la necessità del carcere. Una cosa molto giusta è stata scritta : i criminali terroristi di destra non sono stati perseguiti e non lo sono oggi. Per il terrorismo nero è una pacchia.

    Franco Calamida

    Caro Ennio , molto condivido , qualcosa no. Ho scritto “criminale” per una scelta precisa , per chiarire che è stato ed è “altro da noi” . Criminale lo è stato. Criminale comunista , come afferma Salvini? No certo. Ha scommesso sulla rivoluzione e la lotta armata? Come scrivi.? Non la nostra, noi eravamo i nemici principali e siamo stati le vittime politiche , cioè un ‘altra cos , altri ideali , altra etica . Il terrorismo ha arrecato danni al movimento operaio ancor più del fascismo. L’ elenco delle violenze dello Stato , dei padroni , della borghesia ecc ecc è corretto. Ma non giustifica in nulla il terrorismo. La lotta armata , che volle sostituIrsi ai milioni di lavoratori e studenti in lotta, aveva le armi puntate su di loro. Su di noi. Il terrorismo nasce dalla sconfitta del movimento operaio e vi contribuIsce. Non è figlio del 68/69 . Tutti noi in qualche misura coinvolti? Si. Ma già allora ci fu uno scontro politico tra i fautori della violenza ( e della forza) e quanti erano contrari. Oggi penso che anche gli slogan e varie forme di esaltazione della violenza siano state un errore. Da non ripetere. Il 68 fu anche violento, ma oggi vien descritto solo in quella dimensione. Fu innanzitutto solidarietà, conquista di diritti , progetto di eguaglianza. So che questo lo condividi. Va rivendicato riconfermando una scelta di campo : la cultura della non violenza. Ho apprezzato il tuo contributo. franco calamida.

    Ennio Abate 17 gen 2019

    @ Franco Calamida

    Grazie delle tue precisazioni, Franco. Tuttavia, ci ho ripensato e vorrei soffermarmi sul “qualcosa” che dici di non condividere del mio intervento precedente. 
    Il nodo, che secondo me troppo facilmente sciogli (ma solo in teoria), è quello della violenza/non violenza nella lotta politica. 
    D’accordo su quanto dici: «l’ elenco delle violenze dello Stato, dei padroni, della borghesia ecc ecc è corretto. Ma non giustifica in nulla il terrorismo». Ma tu marchi troppo drasticamente la diversità della “nuova sinistra” (chiamiamola ancora così per comodità) dalle formazioni che scelsero la lotta armata e vollero « sostituirsi ai milioni di lavoratori e studenti in lotta». 
    Resta il fatto che un conflitto inedito nella storia italiana del dopoguerra, una «falsa guerra civile» (per usare la definizione di Fortini) in quegli anni ci fu. E non possiamo dimenticare però che quell’inatteso fenomeno fu chiamato «terrorismo» da quanti vi si opposero per stroncarlo (e senza neppure porsi il problema del perché era sorto), ma fu vissuto come «lotta armata» – necessaria, inevitabile – da chi vi partecipò o vi simpatizzò. (Pochi numericamente certo, ma i pochi non sono mai da disprezzare come troppo facilmente si fa; anche noi che oggi sosteniamo certe posizioni sui migranti o sulla disoccupazione, etc. siamo pochi).

    A me tuttora preme capire perché questa «falsa guerra civile» ci fu. E perché non poté essere fermata o neutralizzata *da “noi”*. E finì, invece, per neutralizzarci e catalizzare attorno al suo discorso anche una parte delle forze dei gruppi preesistenti.
    Questo mi pare il punto decisivo. 
    Tu, col senno di poi, sembri pensare che la si sarebbe potuto fermare o neutralizzare o limitare i danni che fece con la non violenza («Oggi penso che anche gli slogan e varie forme di esaltazione della violenza siano state un errore.»).
    Io non lo credo. 
    Per una ragione storica profonda: dati gli assetti squilibrati della società capitalistica, non è mai possibile che il confine tra violenza e non violenza possa essere stabilito a priori e nettamente una volta per sempre. Si è sempre di fronte al dilemma del «far torto o patirlo» («Adelchi» del Manzoni).
    E chi questa scelta della non violenza fa una volta per sempre, affermando che mai si deve passare alla violenza perché la Causa migliore non può essere abbassata all’uso di certi strumenti che comportano comunque ferocia, si condanna a subirla. E, in caso di minacce nei suoi confronti, sarà in fondo costretto a uscire di scena o a fiancheggiare quelli che comunque la eserciteranno per loro scopi (e magari anche per difenderlo). Com’è accaduto di fatto a “noi”, che finimmo per attestarci o nell’impotenza del «né con lo Stato né con le BR» o nel fiancheggiamento del PCI. Che a sua volta aveva deciso e da tempo di fiancheggiare con tutto il grande peso conquistato lo Stato contro il «terrorismo» e lo fece (con intelligenza o ottusità politica?) anche di fronte al caso Moro.

    Non si può, secondo me, dire – come tu fai – che i terroristi/lottarmatisti (accosto le denominazioni per sottolineare l’ambiguità) erano del tutto «”altro da noi”». Sì, erano in un certo senso «un ‘altra cosa», avevano un’«altra etica», ma non si può cancellare il problema di chi erano e cosa erano affermando – come qui in un commento si dice – che «non avevano nulla a che fare con il comunismo e neanche con gli anarchici». Certo un Lenin fu contrario al terrorismo. Certo, «gli anarchici quelli che sostenevano la necessità di atti terroristici si riferiscono al potere e facevano atti contro re o dittatori» (Dapavo),
    Ma era così facile negli anni Settanta stabilire in determinate circostanze qual era il confine tra violenza e non violenza (o tra un certo grado di violenza difensiva e offensiva: vedi servizi d’ordine, etc.)? O quando alcune gesta dei lottarmatisti erano vero terrorismo?
    Anche se rischio di passare per avvocato del diavolo, mi sento di escludere o almeno pongo in dubbio che i terroristi/lottarmatisti di quegli anni fossero i nostri «nemici principali». O che “noi”fummo soltanto le loro «vittime politiche». O che quel terrorismo/lottarmatismo abbia « arrecato danni al movimento operaio ancor più del fascismo». 
    Sono giudizi affrettati e superficiali. 
    Credo, invece, che aver dichiarato subito “fascisti” quanti – per formazione o tradizione familiare o per fascino dell’immaginario resistenziale – intrapresero discorsi sulla lotta armata e pratiche conseguenti non fu un scelta politicamente saggia da parte delle dirigenze dei gruppi extraparlamentari di allora. E impedì qualsiasi possibilità di capire e di influire su un’area politica e sociale che oscillava tra cultura della violenza e cultura della non violenza; e finì poi, a compromesso storico ormai blindato, per fiancheggiare Br e gruppi armati.

    Il dilemma tra violenza e non violenza e sulla scelta dei gradi di mediazione e di violenza nei rapporti conflittuali tra dominati e dominanti per me resterà sempre aperto. E sto con chi non ha, come i fascisti, il culto della violenza e della bella morte, ma l’ affronta caso per caso, analizzando il contesto realisticamente, per evitare sia un passo troppo lungo e azzardato o avventuristico sia una conservazione pigra e paralizzante delle”conquiste” o delle posizioni raggiunte.

  5. Non posso parlare di Cologno, ma di quegli anni sì, posso.
    Era forse il 1978 o 1979. A scuola, durante l’intervallo, la segretaria ci raccontava delle spedizioni di loro compagne dell’autonomia con la pistola per azzoppare i medici abortisti, i “cucchiai d’oro” (era appena passata la legge sull’aborto) ma anche per dimostrare ai compagni maschi che erano capaci di fare azioni. Non è che lo raccontasse a voce spiegata in sala professori, ma a un gruppetto di colleghe sì. Nessuna di noi disapprovava, anzi si ammiravano iniziativa e coraggio. L’azione era “giusta”, antielitaria, perchè la legge, frutto di discussioni e lotta politica, c’era!
    Su violenza e non-violenza: l’intimidazione è utile!
    L’intimidazione in generale veniva considerata utile da un largo strato di opinione di sinistra. Era lecita per difendersi, data l’esperienza fatta negli anni precedenti della feroce violenza di apparati “deviati” di stato. L’opposizione si intendeva infatti tra la destra oscuramente sostenuta dallo stato democratico, e una sinistra vivace e reattiva anche con uso di violenza “punitiva”.
    Poi, con la morte di Moro, la distinzione tra apparati “deviati” (secondo noi) e lo stato scomparve. E già la violenza “educativa” era trascesa in violenza fine a se stessa. Tra i miei studenti al Cattaneo c’erano stati i ragazzi con la pistola di via De Amicis, non nelle mie classi, ma vicini. Molti dei ragazzi nelle classi erano estranei, ritirati, lunari.
    Chi li gestiva, chi li mandava a massacrarsi così ciecamente? Non l’ho mai saputo, ma *quella* violenza era diventata un conflitto a due, stato contro ribelli. Confusamente richiamavano la resistenza. Ma non c’era il nemico occupante, e per fare la rivoluzione mancava un partito (e, di nuovo, la guerra).
    Quando poi, dopo il rapimento e i due mesi di attesa in cui non si immaginava l’esito drammatico (si poteva leggere sui muri la scritta: Moro libero e nonricordochi centravanti) alla fine fu fatto trovare il cadavere di Moro, la certezza fu totale: lo stato nella sua interezza era sceso in campo, che altro fare se non ritirare ogni coinvolgimento? Ecco perchè “né con lo stato né con le br”, la libreria di via Dogana restò aperta mentre piazza Duomo, all’angolo, era piena di sdegno dolore e adesione allo stato e al PCI. Da allora lo stato con il pci condusse i giochi. E fu scontro a due, stato contro sinistra, scontro solo militare.

    A Donato Salzarulo voglio dire che la frase “La contraddizione principale è quella di genere, quella fra uomo e donna” non ha luogo per quegli anni. Il genere è espressione nordamericana (e oggi ne comprende tanti, di generi, LGBTI…) che usava genere dove noi in europa usavamo sesso, e viceversa. Ma la stessa espressione *contraddizione principale* poco riguardava il femminismo, essendo espressione, allora eredità maoista, di cui il femminismo poco si curava. Non era la lotta al maschio l’obiettivo, ma la raccolta tra noi -da cui il separatismo- per individuare e costruire insieme la nostra libertà femminile.

  6. 1) IERI/OGGI: CONTINUITA’ O DISCONTINUITA’?…

    A) Abbiamo dimenticato anche la storia della «sinistra (in senso largo) degli anni ‘70, la cui sconfitta è iniziata allora – questa è la mia tesi – con la scelta del compromesso storico, che ha poi portato, passo dopo passo, al disastro politico (e non solo elettorale) d’oggi».

    La strategia del compromesso storico fu elaborata, come è noto, dal segretario nazionale del PCI, Enrico Berlinguer, dopo il golpe cileno. L’unico a mostrare interesse per questa strategia rivolta alla DC fu Moro. Tutti gli altri soggetti politici di sinistra la criticarono aspramente: a partire dal PSI per finire a noi di AO e a tutta la sinistra rivoluzionaria di allora. Noi eravamo dei critici democratici. Volevamo dimostrare la fallacia di questa strategia democraticamente, smascherandola agli occhi delle masse. Altri (il “partito del golpe” o il “partito atlantico” della DC insieme a vari settori dello Stato e servizi segreti USA e internazionali; il “partito armato” delle BR addestrati in Cecoslovacchia insieme a KGB e servizi segreti vari) orchestrarono “la falsa guerra civile” culminata nel rapimento e successiva uccisione di Moro con relativo sterminio della scorta. La strategia quindi venne sconfitta a suon di bombe e kalashnikov. A novembre del 1980, Berlinguer abbandonò questa strategia e propose quella dell’”alternativa democratica”. Non so se il disastro della sinistra sia dovuto a questa strategia. Ciò che so è che il PCI nel 1976 raggiunse il suo massimo storico con il 34,4% dei voti, mentre DP (che criticava quella strategia in nome del “Governo alle sinistre e potere a chi lavora”) si vide attribuire l’1,5% dei voti. Risultato che scatenò la crisi di LC, di AO e del PDUP. Cosa sarebbe successo se Berlinguer non avesse elaborato quella strategia in risposta al golpe cileno?…Come sarebbero andate le cose?…Non lo so. Ciò che so è che quelle forze che volevano “costruire il partito rivoluzionario” italiano non l’hanno costruito nel 1976, non l’hanno costruito dopo la caduta del muro e non lo stanno costruendo neanche ora. Eppure, ti assicuro, alle ultime elezioni ho votato “La Sinistra” e l’anno scorso alle politiche ho votato “Potere al popolo”…Più continuità di questa!

    B) «Se ci fosse stata continuità con le posizioni di allora (le posizioni di AO), non è detto che avremmo vinto e non saremmo stati sconfitti. Ma la sconfitta sarebbe stata così disastrosa e quasi insuperabile (così a me pare)? La sconfitta è stata forse senza conseguenze? Il lutto per quella sconfitta è stato davvero positivamente rielaborato? »

    Come si poteva avere continuità con le posizioni di AO di allora se il gruppo dirigente si divise?…Per quanto mi riguarda, mi sentivo più vicino alle posizioni di Campi, ma, come ho scritto, non me la sentii di continuare una militanza col PDUP. Anche se, ad onore del vero, bisognerebbe dire che questo partito nell’elezioni politiche del 1979 elesse 6 deputati, mentre DP non riusci ad eleggerne nessuno. Se le elezioni sono un indicatore, vuol dire che chi aveva avuto la “minoranza” al congresso, forse aveva una “maggioranza” tra gli elettori…Ma queste sono questioni di lana caprina!…Il fatto per me indiscutibile è che quel gruppo dirigente si era dimostrato fallimentare. LC nel 1976 addirittura si sciolse: centinaia di militanti andarono ad ingrossare le file di Autonomia Operaia…

    C) «Al momento della scissione di AO, le scelte fatte immediatamente e successivamente dai singoli compagni sono forse equivalenti? (Sarebbe davvero “miracoloso” che si fosse mantenuta inalterata quella spinta rivoluzionaria (« il miracolo di AO», come lo chiama Donato) indipendentemente dal fatto che alcuni di noi siano entrati nel PCI- DS- PD, altri nei Verdi, altre (nel caso delle compagne) abbiano optato per il femminismo e non più per il comunismo, altri siano rimasti isolati, ecc. »

    È chiaro che, dopo la scissione di AO, le scelte fatte dai singoli compagni non sono equivalenti (almeno dal loro punto di vista) Per quanto mi riguarda, dal 1977, data della scissione, cercai di fare delle scelte sicuramente individuali, ma che avessero una dimensione collettiva: il Collettivo “Bandiera Rossa”, l’esperienza di “Leggere Cologno”, ecc…Prendendo atto del loro fallimento, a fine marzo del 1981, quindi dopo l’abbandono da parte di Berlinguer della strategia del compromesso storico, insieme ad altri cinque compagni (Tagliaferri, Picozzi, Ricciardi, Gioiosa e Maggioni), decidemmo di collaborare col PCI. Ovviamente chi decise di continuare nel PDUP o in DP, di entrare nei Verdi o di optare per il femminismo fece una scelta diversa dalla mia. Avremmo potuto fare altre scelte?…Astrattamente si, ma se non le facemmo significa che non c’erano più le condizioni. Il “miracolo” di AO era finito…

    «1. Tra le varie scelte compiute successivamente, dopo la fine del “miracolo di AO”, quale quella più densa di futuro o che ha saputo conservare (continuità, dunque) meglio la verità di quell’esperienza? Potessimo tornare indietro, rifaremmo tutti le scelte compiute al momento della scissione di AO (entrare nel PCI, fare DP, passare coi Verdi. Essere femministe, ecc.)?»

    Non so quale scelta abbia saputo conservare meglio “la verità” dell’esperienza di AO. Bisognerebbe mettersi d’accordo su questa “verità”. Per me era il bisogno di costruire un partito rivoluzionario. Questo bisogno lo ritengo ancora vitale, ma sono convinto che le risposte teoriche date da AO e dalla sinistra rivoluzionaria a questo bisogno siano state sbagliate. Ancora più sbagliate e completamente inaccettabili quelle del “partito armato”…
    Non ho scelto di collaborare col PCI “al momento” della scissione di AO, ma dopo quattro anni dalla scissione. Quando ormai ero convinto che di partito rivoluzionario ne avremmo riparlato chissà quando e che la marcia dei quarantamila alla Fiat (ottobre 1980) annunciava una sconfitta di portata storica. Sconfitta alimentata non solo dalla strategia del compromesso storico (tanto è vero che Berlinguer l’abbandonò proprio dopo questa marcia), ma da sabotaggi, gambizzazioni, violenze diffuse che crearono un clima di rigetto in fabbrica.
    Se potessi tornare indietro, rifarei le scelte che ho fatto?…Sì.

    «2. E se, invece, la discontinuità tra oggi e ieri fosse tale che nulla o quasi più abbiamo a che fare con quel che fummo negli anni ‘70?»

    Beh, insomma, sul piano della memoria individuale non mi sento così dissociato. Capisco bene che oggi il clima è tutt’altro. Ma io non dimentico di essere stato un emigrante (come il padre e il nonno) e di essere un comunista amante della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità e della solidarietà. Un comunista democratico, non stalinista. Il che mi ha reso (e mi rende) vaccinato contro il virus dei 5Stelle, della Lega, di Forza Italia, di Fratelli d’Italia, ecc. ecc. E ci sono compagni della sinistra rivoluzionaria finiti in una di queste forze. Sono vaccinato anche dal virus del PD. Il che non mi rende così cieco da non cogliere le differenze tra un Renzi (che non ho mai amato) e un Salvini…Ti dirò di più: quando un liberale come lo scrittore Mario Vargas Llosa propone il premio Nobel per la comandante Carola Rakete riceve tutta la mia stima. Disprezzo invece certi marxisti stalinisti, geopolitici, che hanno lo stesso linguaggio dei fascisti e dei salvini.

  7. SULLA VIOLENZA
    La citazione che tu hai fatto dal mio scritto continua così: «Al di là di questa maggiore attenzione antifascista, devo dire, però, che il problema della forza in Avanguardia Operaia non si è mai posto sul terreno della “violenza offensiva” o delle “azioni dimostrative individuali e/o collettive”. Almeno così io ricordo. Sicuramente, per mia e nostra fortuna, non si è mai presa in considerazione l’eventualità o la possibilità di ricorrere ad “azioni terroristiche”.»
    Parlo di “problema della forza”, non a caso. Perché io tendo a distinguere “forza”, “violenza” e “terrore”. Non so in quale mondo vivrei se non sapessi che tra classi, gruppi, partiti, individui esistono dei “rapporti di forza” più o meno legittimi. Esistono classi dominanti e classi dominate, gruppi dirigenti e gruppi sociali subalterni…Gramsci che ha prestato particolare attenzione a questi problemi parla di “egemonia”, cioè della capacità di raccordare il momento del “consenso” con quello della “forza” (egemonia civile e politica connessa a quella ideologico-culturale). Salvini, ad esempio, che ha dalla sua parte la forza (elettorale) e quella legittima di ordinare a PS e guardie di finanza la chiusura dei porti, non usa soltanto la forza, costruisce consenso. La “forza” ha una sua fenomenologia e vari modi di manifestarsi. Può essere la “forza” di una folla muta che si oppone alla strategia della tensione, può essere anche la “forza” (autorità) di un Papa che ripete a Salvini “nessuno è straniero”, la “forza” (coraggio) di una capitana che disobbedisce a ordini ritenuti ingiusti, ecc. Può essere anche la “forza” di una troika che costringe un paese indebitato (la Grecia) a tagliare le prestazioni del suo sistema sanitario aumentando la mortalità dei suoi abitanti (violenza implicita). La forza nuda, senza il raccordo col consenso, non dura a lungo. La forza può essere accumulata, strutturale, funzionale. La “violenza” può essere un sottoinsieme della forza e il “terrore” un sottoinsieme della “violenza”…Forza, violenza, terrore sono, comunque, dei MEZZI per raggiungere dei fini. Non sono assolutamente dei VALORI. Se lo diventano, persone con la nostra storia devono suonare il campanello d’allarme,
    «E’ stato un bene, è stato un male? Si potevano evitare certi “eccessi” o erano “necessari”? Qui siamo nel campo delle scelte a seconda delle storie e degli ideali o valori che ciascuno, con diversa consapevolezza, professa. C’è chi crede nella democrazia e nel voto e c’è chi crede che la democrazia sia una gabbia. C’è chi crede che in politica si debba difendere *questa* democrazia malgrado i suoi limiti e chi vuole costruire una democrazia più estesa o addirittura assoluta o chi crede che si debba costruire un regime autoritario fondato su un Capo e sull’obbedienza al Capo. Questi dilemmi continuano a riproporsi e a farci polemizzare in cerca di una soluzione.»
    Quali valori professavano le BR?…Il terrore?!… Non credo. Scommettevano sulla rivoluzione per costruire una società comunista?…E questa rivoluzione come la dovevano fare? Qual era la strategia?…Io non ho ancora capito qual’era questo disegno strategico. Mentre ho capito bene (e non ho condiviso) la strategia del compromesso storico. Non ho capito nulla di questa strategia rivoluzionaria. Quanti magistrati bisognava uccidere? Quanti uomini politici? Quanti operai sindacalisti?…Non so, tanto per farti un esempio la strategia dell’ISIS mi è più chiara. Si occupano delle zone (le si “libera”), le si governa e giorno dopo giorno si cerca di estendere il controllo militare e politico ad altre zone “liberate”. Ma l’obiettivo delle BR qual’era? “Disarticolare lo Stato?”…Ridicolo. L’hanno semplicemente articolato meglio e reso più repressivo… Va bene fare “l’avvocato del diavolo”, ma forse occorrerebbe entrare più nel merito e capire che cosa volevano questi soldati del partito armato. Coi loro “tribunali del popolo” immagino cosa sarebbe successo se avessero conquistato il potere…Avrebbero “terrorizzato” la società. Non credo assolutamente che si possa raggiungere il comunismo attraverso un simile metodo… E penso di no, non soltanto perché così pensavano già Lenin e Gramsci; penso di no perché una società comunista costruita attraverso il terrore e tenuta in piedi col terrore la ritengo una gabbia peggiore di qualsiasi democrazia liberale…
    Detto questo, non credo che la forza, la violenza e il terrore scompariranno a breve dalla storia. Perciò come giustamente dice Manzoni nell’Adelchi “Non resta che far torto o patirlo”. Sempre di torto però si tratta. E chi è costretto a farlo, prima di compierlo, è meglio che ci pensi bene su. Gramsci che ci aveva pensato bene in carcere si pose il problema della “rivoluzione in occidente” e si pose il problema dell’egemonia, della guerra di posizione, delle casematte, ecc. ecc…Durante il IV congresso di AO furono diffusi un po’ di questi documenti. Ma si disse che si trattò di una “svolta opportunista”. Domanda: Dopo il crollo del comunismo reale, come si fa la rivoluzione in occidente?…

    1. Caro Donato,

      vedi che il problema che ho posto non è quello di valutare quanto fosse realistica o “rivoluzionaria” la strategia delle Brigate Rosse (“Quali valori professavano le BR?…Il terrore?!… Non credo. Scommettevano sulla rivoluzione per costruire una società comunista?…E questa rivoluzione come la dovevano fare? Qual era la strategia?…Io non ho ancora capito qual’era questo disegno strategico”), ma quanto fossimo realistici e “rivoluzionari” *noi di AO*.
      A me interessava e interessa capire, dunque, quest’altra *cosa*.
      E l’avevo così espressa commentando il libro di Luca Visentini, un nostro compagno del servizio d’ordine di AO, che ha scritto un suo romanzo-testimonianza su quegli anni, “Sognavamo cavalli selvaggi”:

      Visentini insiste legittimamente sul carattere esclusivamente difensivo che avevano i servizi d’ordine e quello di Avanguardia Operaia in particolare. E va ricordato che tale carattere difensivo era coerente con l’analisi politica della nostra organizzazione, che rifiutava come deliranti le ipotesi di quanti parlavano di una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria. Ma se poi tutti hanno dovuto riconoscere, come scrive Visentini, che «le altre formazioni armate di cosiddetti combattenti per il comunismo sono sortite dallo stesso movimento e hanno contribuito in modo significativo ad affossarlo» (pag. 216), proprio perché il peggio è accaduto e non si è stati in grado di evitarlo, la rimozione e la sottovalutazione da parte di Avanguardia Operaia e di tutta la “nuova sinistra” di quel che si preparava da parte dei lottarmatisti a me appaiono ancora oggi limiti gravissimi. Contribuirono, come minimo, anch’esse allo stritolamento delle nostre militanze nello scontro tra lottarmatismo e Stato. Proprio perché leninisti e convinti che nei conflitti sociali la violenza sia inevitabile, il fatto di non essere riusciti a impedirla nelle forme “pazze” che assunse, fu una tragedia. Per dirla con una metafora semplice, è come se noi fossimo saliti su un treno, sapendo che ad un certo punto del suo percorso dovesse entrare in una galleria buia e piena di rischi; e, proprio allora, ci fossimo addormentati e fatti sottrarre la guida di quel treno, dai “pazzi” appunto. Almeno per noi che vivemmo quella tragedia interrogarla non è neppure oggi un esercizio accademico. Luca Visentini conclude il suo romanzo rivendicando una sorta di realistica e disperata impotenza: «Con obiettività, avremmo perso ugualmente, con le nostre analisi ancora parziali e sopravvalutate avremmo procurato chissà quali disastri se fossimo andati al potere, con tanti errori e diverse responsabilità stavamo nondimeno dalla parte giusta». Io – è qui forse l’unico punto di dissenso – ricordo quel che scrisse Fortini nel 1985: «Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto».[16] Quest’affermazione riguardava anche noi di Avanguardia Operaia. E scuoto perciò la testa, limitandomi a dire che no, non fummo «dalla parte giusta», anche se non so dire quale lo fosse allora. O come si poteva fare a difendere «un intero decennio di amori, amicizie e lotte alla luce soprattutto del sole» dall’«incattivimento successivo». (pag. 216).

      ( da https://www.poliscritture.it/2018/04/05/da-sognavamo-cavalli-selvaggi/?fbclid=IwAR0gAc2jq6eqOL1dL0bOTg3ktA17bIlbv5GTwQT_xqvj1CpPgxuS0pdvVqs)

      1. La conclusione “no, non fummo ‘dalla parte giusta’, anche se non so dire quale lo fosse allora” farebbe credere che una parte possa essere giusta per sé, in nome dei significati immessi da alcuni in certe circostanze.
        Potrebbe però non essere ancora giusta, in altre circostanze. E cosa vuol dire “giusta”, se poté non esserlo per tutti in quelle circostanze stesse?
        Ma ha senso puntare sulla “giustezza” della parte che si era scelta? La mia visione, più chiara a posteriori, ma implicitamente già acquisita allora, è che ad un certo punto, e per iniziativa dello stato, lo scontro fu portato sul piano militare.
        Questo piano i movimenti o dovettero accettarlo, ma non potevano che perdere, o dovettero ritirarsi e sciogliersi.
        Rino Formica, intervistato da Walter Veltroni sul Corriere di lunedì 8 luglio parla di “masse popolari anti-Stato in Italia” e del decreto Trabucchi che nel 1960 “durante i fatti di Genova con il governo Tambroni, accettò una richiesta degli americani, evidentemente molto preoccupati, che ottennero, con una circolare del ministro delle Finanze, che … negli uffici doganali delle basi americane venissero sostituiti i doganieri italiani con quelli statunitensi. Di lì passò tutto l’armamento in Italia”.
        L’iniziativa a un certo punto la prese lo stato, e costrinse le sinistre avversarie a misurarsi su quel terreno. La guerra durò una decina d’anni e la sinistra fu sbaragliata.

        1. “La conclusione “no, non fummo ‘dalla parte giusta’, anche se non so dire quale lo fosse allora” farebbe credere che una parte possa essere giusta per sé, in nome dei significati immessi da alcuni in certe circostanze.” (Fischer)

          “Bisogna volere ben altro; e anzitutto credere, come Lenin diceva, che ad ogni situazione esiste *una* via d’uscita e la possibilità di trovarla. E cioè che la verità esiste, assoluta nella sua relatività. ” ( F. Fortini, Verità in Non solo oggi, pag 315, Editori Riuniti 1991)

          1. Sì, bella la frase di Fortini, per cui la verità è nel mondo e del mondo. Allo stesso modo, la verità è cercata: “la possibilità di trovarla”. Materialismo e idealismo si corrispondono.
            Però la frase precedente propone solo una ricerca “non so dire quale fosse allora (la parte giusta)”.
            A cui la storia oggi vorrebbe rispondere. Nella sua costitutiva ambiguità comunque, per cui oggi sembra di capire come avrebbe dovuto essere, e contemporaneamente la storia trasmette che così non è stato.
            Un bel casino!
            Uscire dallo storicismo? Be’, è comunque quello che avviene.

  8. Cara Cristiana, ti ringrazio per l’appunto che condivido. Ho “tradotto” nel mio linguaggio la lotta contro la società maschilista e patriarcale condotta allora dalle compagne.

  9. …ringrazio tutti voi per i vostri racconti di impegno concreto e schierato durante quegli anni, soprattutto, riflettendo, ora mi sembra importante il ruolo svolto dai lavoratori e dagli studenti -lavoratori, in quanto conoscevano e affrontavano per intero e di persona i problemi: sociali, lavorativi, di classe…Parteciparono anche molti “figli di papà”, molti illuminati, perchè le origini non si scelgono, ma altri , invece, contestavano i padri, ma ne erano in qualche modo protetti e furono loro, secondo me, i primi ad allontanarsi dalla causa e a rientrare nei ranghi borghesi…Tra loro anche dei capi. Comunque anch’io faccio l’autocritica, in quanto all’epoca aderii di fatto a idee di cambiamento, rivoluzionarie se vuoi, ma non entrai mai nell’azione collettiva: vuoi perchè fino al ’74 abitai in provincia, vuoi che dopo mi ritrovai nella situazione per me totalizzante di gestire il lavoro e una neonata, vuoi che nessun Ennio arrivò a lasciare volantini alla mia porta…Ciò non toglie che nella scuola mi impegnai sempre con un senso di giustizia a favore degli ultimi…Oggi ho sempre meno fiducia nei partiti, anche dopo aver raccolto le vostre testimonianze…

    1. Cara Annamaria, è molto interessante il tuo commento, sia rispetto al mio, sia rispetto alle lunghe riflessioni di Ennio Abate e Donato Salzarulo sulla fine di AO. (La possibilità -secondo Ennio, mi pare di capire- che una reale democrazia di base si potesse realizzare nel nostro paese; mentre -mi pare ancora, dato che non facevo parte effettiva di movimenti di sinistra extraparlamentare- già escludeva nel 1979 una possibilità di cambiamento radicale quella di Donato.)
      Interessante, invece, che sia tu che io possiamo avanzare uno stesso stato “mi ritrovai nella situazione per me totalizzante di gestire il lavoro e una neonata”, ma tu rimpiangi di non aver ricevuto volantini mentre io ne avevo letti già parecchi.
      Un altro tratto che condivido con te lo dici così “nella scuola mi impegnai sempre con un senso di giustizia a favore degli ultimi”. Io però ero più settaria: gli “ultimi” per me erano quelli chiusi, superbi, in difesa (i bambini mostrano presto carattere e personalità) pronta però a diventare accusa. Non li curavo con particolare affetto. Preferivo gli ultimi più consapevoli, perchè così ero io. (Qui c’è un tratto dell’epoca -era la morale “rivoluzionaria” dei gruppi!- per cui questo mio distacco sarebbe stato interpretato come una piccolo-borghese che aspirava ad assimilarsi a un ceto superiore.)
      E oggi, riguardo all’impegnarsi “con giustizia a favore degli ultimi”? Oggi io sono meno disposta di te a sentirmi contenta della buona volontà singolare, anche generalizzabile. Eppure, vedere la crudezza della realtà, e le infinite vie del suo lento cambiamento -che è impegnativo considerare miglioramento: rispetto a chi?-, anche uno sguardo realistico sui legami, le ragioni, le costanze, che è il mio atteggiamento, è coerente con apertura e solidarietà: all’incontro, quando occorre, quando richiesta.
      Certo io vedo crudo, forse tu idealmente abbracci.
      Distacco e benevolenza è un’etica antica. Eppure tu concludi, più duramente di me, “Oggi ho sempre meno fiducia nei partiti, anche dopo aver raccolto le vostre testimonianze…” Invece io nella politica credo, parteggio.

  10. PER ENNIO
    «Per dirla con una metafora semplice, è come se noi fossimo saliti su un treno, sapendo che ad un certo punto del suo percorso dovesse entrare in una galleria buia e piena di rischi; e, proprio allora, ci fossimo addormentati e fatti sottrarre la guida di quel treno, dai “pazzi” appunto.»…
    Certo, eravamo saliti sul treno della lotta politica di classe portando con noi degli strati di operai, degli impiegati, degli insegnanti, degli studenti, ecc….Ed eravamo saliti con i nostri attrezzi culturali e teorici (il marxismo-leninismo-maoismo di AO, cfr. il mio punto 7) da “riusare” creativamente nella situazione data per raggiungere l’obiettivo della costruzione di un partito rivoluzionario che, in una situazione rivoluzionaria, avrebbe guidato la rivoluzione delle masse…Ma sul treno Italia non eravamo da soli. Anzi, era abbastanza affollato. Per restare nel campo della “sinistra rivoluzionaria” l’elenco dei gruppi e gruppuscoli riempirebbe varie pagine. Comunque, se all’interno di questo campo, a partire dal 1970, dopo la strage di piazza Fontana, un gruppo decide di costituirsi in Brigate Rosse, passare alla clandestinità e, mentre noi facevamo bollettini, mostre, tazebao, volantini, cortei, manifestazioni, ecc. si dà alla “propaganda armata” con attentati dimostrativi all’interno delle fabbriche, sequestri di dirigenti industriali, ecc. ecc. non vedo come Avanguardia Operaia (o il PDUP) avrebbe potuto fermarlo. Avevamo un’altra visione della situazione. Non la pensavamo come Renato Curcio, Margherita Cagol o Alberto Franceschini. Siccome era questo il nostro caso, il nostro dovere era uno soltanto: lottare politicamente e culturalmente contro le loro posizioni. Così come lottammo contro la strategia del compromesso storico del PCI, contro il PSI, contro la DC, contro i fascisti del MSI, ecc. L’abbiamo fatto a sufficienza?…Se l’abbiamo fatto non abbiamo sbagliato…Se non l’abbiamo fatto, allora sì che abbiamo sbagliato. A 50 anni di distanza, e col senno di poi, possiamo anche chiederci se eravamo dalla “parte giusta” o “sbagliata”…ma per me non ha molto senso. Pensavamo di essere dalla parte giusta, altrimenti non l’avremmo fatto. Ma lo eravamo davvero?…Non capisco in base a quale prospettiva o esito successivo, dovremmo dire di essere dalla parte sbagliata. Perché non abbiamo raggiunto l’obiettivo di costruire un partito rivoluzionario e di fare la rivoluzione?…Allora, con questa “logica” i russi non dovevano fare nessuna rivoluzione visto il fallimento successivo del “comunismo reale”.

    1. APPUNTO 1

      MA TU CREDEVI ALLA RIVOLUZIONE?

      Nel 2006 Antonio Benci, amico di Attilio Mangano, preparò una tesi sul ’68 francese e interrogò alcuni che avevano partecipato agli eventi, tra cui anche me. Stralcio due punti dall’intervista:

      Qual era lo scopo della creazione del partito rivoluzionario ? La scelta era influenzata a tuo avviso anche da avvenimenti esterni ?

      “Fare la rivoluzione” si potrebbe dire, ma sarebbe banale. Qui entravano in gioco le spinte provenienti da eventi inattesi anche internazionali (la guerra in Vietnam , la rivoluzione culturale cinese, la scelta di Che Guevara, i Black Panther, ecc.) e le scelte di dottrina, che cercavano di interpretarne il senso. AO interpretava secondo un leninismo operaista. Ma si era tutti grosso modo operaisti allora, seppure con varie sfumature: c’era quello del PCI (non per caso vi aderì poi Tronti), quello più stalinista del Movimento Studentesco della Statale di Milano, quello populista di Lotta Continua e quello, più elaborato teoricamente, di Potere Operaio. Cosa volevamo ? L’idea del partito che si basava sulla teoria di Lenin sembrava ancora una soluzione non anacronistica. Il leninismo era anche più rassicurante rispetto allo spontaneismo di LC, che in AO fu sempre visto negativamente. AO era più (forse troppo) con i piedi per terra. Ripeto: l’oscillazione tra movimento e organizzazione – il dilemma di sempre – mi ha sempre angustiato. L’altra scelta – ancora più rassicurante ma a patto di cancellare la novità del ‘68’-’69 – era scegliere il PCI. E molti poi l’hanno fatto. Per uno che voleva fare la politica come professione era una scelta comoda. Ma si è visto che fine ha fatto il PCI. A un certo punto le scelte sono state quelle: o il PCI o DP (un’eco epigonica del ’68-’69) o il lottarmatismo o il cosiddetto “privato”.

      Ma tu credevi nella rivoluzione ?

      Nel ’68-‘69 io non ero più giovanissimo, avevo circa 28 anni. Non ero neppure nella condizione eccitante (o delirante) di coloro che erano ancora soltanto studenti. Avevo avuto una dura esperienza da immigrato, due figli, e una situazione lavorativa ancora instabile: ero in una condizione “proletarizzata” insomma e non ho mai pensato di uscirne tentando in qualche modo una carriera (neppure nella scuola, dove poi ho insegnato fino al ’98). Per risponderti più meditatamente, forse dovrei ripescare i miei appunti di allora, il mio “diario da militante”. Posso dirti al momento che ho condiviso la possibilità di una rivoluzione o almeno di una grossa trasformazione degli assetti di potere. Non dico però che ero convinto che l’organizzazione in cui militavo fosse in grado di orientare un processo del genere. Mi sono trovato nella situazione pascaliana della scommessa. Ho rispettato la mia scommessa, cercando di vedere fin dove si poteva arrivare assieme agli altri. Mano a mano ho sentito che tutta quella fatica di organizzare diventava un fine invece che uno strumento. La discussione interna perdeva il contatto con i fenomeni esterni e non teneva dietro alle trasformazioni. Coglievo più chiaramente l’inerzia degli operai, ma anche degli studenti e il loro avvicinamento alle soluzioni moderate del PCI. Lo sentivo stando con la gente, sul posto di lavoro, e nel rifiuto crescente dei modelli e persino delle mode venute dal biennio ’68-‘69. Percepivo anche di più la forza dei nemici. Non voglio dire che li sentivo invincibili, ma mi accorgevo di più della quantità di potere che avevano: non solo quello repressivo di polizia, ma di persuasione e manipolazione. Negli anni successivi ho constatato ancor più la rozzezza delle nostre teorie e la complessità della realtà empirica con cui avevamo a che fare. Io a stento avevo imparato alcuni aspetti della piccola fabbrica come me li raccontavano gli operai, ma le dimensioni economiche generali, il peso dei legami tra politici e imprenditori mi erano rimasti oscuri. L’entusiasmo si fletteva. Ho visto diversi compagni che ad un certo punto mi hanno manifestato la loro crisi e si sono ritirati e riciclati diventando dirigenti di imprese più o meno piccole o accettando incarichi professionali non certo neutrali. Io non sono stato mai tentato da queste soluzioni. Non sono passato dall’altra parte perché ci ho ragionato e ho guardato le cose sempre più storicamente.

      1. APPUNTO 2

        DA UN’INTERVISTA A PAOLO VIRNO

        Stralci:

        1.
        L’anno scolastico ’67-’68 fu interamente genovese, con questo tipo di esperienza importante come per tutti gli altri, però fatta nell’ambito di una città operaia del triangolo industriale, quindi con rapporti con le fabbriche di Sanpierdarena: comunque, la realtà operaia pesava immediatamente sulle cose degli studenti. Invece, nell’autunno del ’68, sempre per un trasferimento della famiglia, sono venuto ad abitare a Roma, e di lì a non molto ho preso contatti e rapporti con il gruppo che sarebbe diventato Potere Operaio, che allora sostanzialmente nella capitale era il gruppo delle facoltà scientifiche, del discorso scienza e produzione, quello del Comitato di base alla Fatme. Soprattutto quest’ultimo tra l’autunno del ’68 e l’inizio del ’69 fu un’esperienza di massa che aprì e chiuse alcune lotte vincenti, quindi gli operai portarono a casa delle cose concrete su cottimo, orario, ritmi e via dicendo. Questo Potere Operaio a Roma all’origine non si chiamava ancora così, poi l’esperienza decisiva è quella de La Classe della primavera del ’69 a Torino. Sono anni della storia italiana in cui c’è veramente un punto che è storiografico ma anche di paradigma teorico: mentre sul ’68 si trovano mille voci e altre mille sul ’69, se ne trovano poche, o comunque poche attente, a quello che accadde fra l’estate del ’68 e l’estate del ’69, che è invece il punto di massima maturazione delle tematiche della rivoluzione italiana. E’ l’anno dei comitati di base, delle vertenze autonome nelle grandi e medie fabbriche. Dunque, l’autunno caldo sono i consigli di fabbrica del ’69 ecc., il ’68 si sa: mentre questa stagione di mezzo, che invece è il vero laboratorio, anche da un punto di vista teorico, il più paradossale, il più complicato da capire, resta in generale perfettamente ignorata, se non per quei pochi che rivendicano una tradizione critica. Quindi, io presi contatto con quelli del comitato di base della mia scuola, si tratta di forme di avvicinamento collettivo anzitutto attraverso le tematiche, quelle de La Classe, il salario, l’orario, questo materialismo contro tutte le storie sulla coscienza, l’antiautoritarismo, cose pelose, cose francofortesi, ineffabili: invece, lì c’era una radicalità intellettuale, in realtà anche teorica, che però faceva cortocircuito immediato con le condizioni materiali. Entro in Potere Operaio dopo gli episodi cruciali della primavera ’69 a Torino, dopo il convegno nazionale dei comitati di base di fine luglio, e dunque alla fine di agosto del ’69 quando, dopo la rottura con Lotta Continua, si sta per formare realmente Potere Operaio come organizzazione. Come tanti altri, mi colpì questa apertura teorica e culturale, il fatto che si prendesse sul serio la grande cultura borghese, che si prendesse sul serio il pensiero negativo, che si prendesse sul serio la filosofia classica e la grande economia, Keynes, Schumpeter, in una situazione in cui viceversa la cultura e i riferimenti correnti nel movimento erano quelli che si sanno. Ciò naturalmente provocava anche dei vizi (narcisismo, quelli che…), e ovviamente non tutti i compagni di Potere Operaio leggevano quelle cose, non è questo il punto: ma una cosa è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il Libretto di Mao. Ovviamente i comportamenti parodistici e millantatori ci sono stati lì come dovunque, però francamente di ciò che viene millantato c’è anche una qualità diversa e che conta.

        2.
        Ci fu una prima puntata a Torino nell’autunno ’71 con un’operazione un po’ brutta di Potere Operaio, che aveva fatto il convegno, si era radicalizzato, c’erano le tematiche di rottura della crisi come si diceva allora, di rottura dell’andamento della crisi e di forzatura prima che ci fosse il riassestamento dell’organizzazione capitalista, tutte cose mal riassunte poi nel termine dell’insurrezione: quindi, ci fu una specie di spedizione politica che è la cosa meno opportuna rispetto ad una realtà come Torino, una di quelle cose rapide, di resa dei conti nel gruppo. Fu insomma una cosa che non ricordo volentieri, comunque per me fu importante questo primo rapporto sia con i compagni di Torino, sia con l’impatto anche visivo e percettivo con la Fiat. Questo nell’autunno ’71. Fui di nuovo Roma nel ’72, sono stato più o meno nelle strutture dirigenti, nel direttivo e nella segreteria della sezione di Roma. Dal marzo-aprile del ’72 sono nell’esecutivo nazionale. I gruppi si ossificano e avvengono tutte queste cose che si sanno a memoria. Per esempio, io non sono uno di quelli che dà un giudizio negativo sui gruppi. Fatemi credito sul fatto che potrei parlare per due ore sulle parodie, le schifezze, le riprese di vecchi modelli ecc.; detto questo, ritengo che dopo il ’69 si pone un problema specifico, non lineare (mettendola in termini matematici) del potere politico. In termini banalissimi, si potrebbe dire che è il problema dello sbocco politico di un movimento che per la prima volta (per dirla con Gramsci contro Gramsci) non cerca la rivoluzione contro Das Kapital ma cerca la rivoluzione in accordo con Das Kapital: dunque, non contro la miseria e l’arretratezza, ma contro il rapporto di produzione capitalistico e contro lo stesso lavoro salariato. E’ una cosa che non ha avuto precedenti e che cercava le sue forme politiche; ciò era avvertito fra i quadri di base del sindacato, della FIOM, era un dibattito politico generale. A mio parere le posizioni come quelle di Capanna a Milano (per dirne una fra le più famose allora, poi ovviamente il dibattito attorno a metà degli anni ’70 sarà diverso, sarà il dibattito dell’autonomia), sostenevano: “no, per carità, movimento politico di massa”, poi fiancheggiava il PCI e faceva da servizio d’ordine di là a poco alla UIL. Quindi, là c’era un problema, che nelle sue versioni migliori è stato secondo me elaborato e raccolto da Lotta Continua e da Potere Operaio, poi anche in certa misura e a loro modo (un modo diversissimo e lontanissimo dal mio) da Avanguardia Operaia e da altri. Però, mi pare (certamente storiograficamente ma forse anche da un punto di vista politico-teorico) una semplificazione indebita anche a distanza di tanti anni dire che si è passato dall’eden delle assemblee del ’68 e dei comitati di base della primavera del ’69 ai piccoli ritualismi aridi e inconcludenti dei gruppi: io su quello sarei più cauto e ricorderei qual era la posta in palio. Che poi sulla posta in palio si sia fallito, è un conto; che però ci fosse questa posta in palio con la sua specificità, con la sua discontinuità rispetto all’andamento lineare dei movimenti, secondo me va ammesso.

        3.
        Poi c’è Rosolina, la rottura, sto con la parte di Piperno. Penso che la discussione non fosse pro o contro le assemblee di fabbrica di Milano, su queste come riferimento centrale vi era accordo generale in tutte le organizzazioni, tra tutti i compagni, in tutte le sedi di dibattito non vi era dubbio alcuno; il punto, in realtà, riguardava alcune funzioni specifiche soggettive, in particolare rispetto all’impiego della violenza, un problema teorico e non soltanto un problema pratico di come uno fa o non fa. Allora, il problema era: c’è già chi in Italia risponde in maniera soddisfacente a questa questione politica, organizzativa e anche teorica, che sono le funzioni di rottura o come le si voglia chiamare? Se così è, ovviamente possono essere delegate a coloro che già le assolvono in una forma essenzialmente soddisfacente, viceversa resta il problema di elaborare il come, le forme di queste funzioni. Questo era il dibattito. Naturalmente, chi sosteneva che già c’erano diceva: “allora lavoro direttamente con le assemblee autonome, a questo ci pensano altri”. Altri pensavano non che non ci fossero in assoluto, ma che il modo in cui queste funzioni di rottura venivano elaborate fosse dentro una linea sostanzialmente interna al vecchio movimento operaio, cioè una prosecuzione radicale dell’antifascismo militante, della Resistenza rossa, se si vuole una lotta armata per le riforme (si può fare anche questo, alla fine il problema della forma di lotta conta ma non è decisivo). Quindi, il dibattito su Rosolina fu quello, poi naturalmente su tante altre cose: composizione di classe, andamento della crisi, rapidità della riorganizzazione capitalistica, che naturalmente era la vera posta in gioco nella rivoluzione italiana. Io penso (e questo invece è punto storiografico e teorico) che nel ‘900 ci siano state due rivoluzioni fallite, e chi, come Tronti o altri, dice che ce n’è stata una, cioè quella che tutti sanno negli anni ’20, sbaglia. Ci sono state due rivoluzioni fallite e non si capisce niente del secolo (per usare questo linguaggio un po’ magniloquente alla Tronti) se non si tiene conto di tutte e due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni ’20 (in Germania e altrove), l’altra la rivoluzione in senso proprio degli anni ’60 e ’70, la prima che è contro il modo di produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e di cui il postfordismo è sostanzialmente la replica in grande, la controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molti gridassero parole d’ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi interessa. O si dice che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non esistono, e si può dirlo, è una maniera se si vuole di igiene mentale; oppure, se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un criterio sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii dei soggetti di allora) di che cos’è una rivoluzione fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per un consistente e lungo lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali. Questo lungo blocco fra due poteri sociali contrapposti in Italia (e talora più in generale, in certi anni e in certi luoghi dell’Occidente capitalistico) c’è stato. In questo senso io parlo di rivoluzione fallita, di situazione rivoluzionaria: non mi importa assolutamente nulla delle convinzioni, delle ubriacature, delle ebbrezze, ne parlo in quel senso. E per controrivoluzione non intendo ritorno all’Ancien Regime, ricostituzione di quello che già c’era; penso la controrivoluzione come une rivoluzione al contrario, come una cosa straordinariamente innovativa e che, per giunta, fa proprie e utilizza molte delle spinte, delle istanze, dei modi di essere, delle inclinazioni che avevano nutrito di sé la rivoluzione.

        (da INTERVISTA A PAOLO VIRNO – 21 APRILE 2001
        Di Walter Simonetti,
        http://simonettiwalter.blogspot.com/2012/09/intervista-paolo-virno-21-aprile-2001.html#.XQAF3IgzbIU)

        1. APPUNTO 3

          AO AVREBBE POTUTO “FERMARE” LE BR?

          «nel campo della “sinistra rivoluzionaria” l’elenco dei gruppi e gruppuscoli riempirebbe varie pagine. Comunque, se all’interno di questo campo, a partire dal 1970, dopo la strage di piazza Fontana, un gruppo decide di costituirsi in Brigate Rosse, passare alla clandestinità e, mentre noi facevamo bollettini, mostre, tazebao, volantini, cortei, manifestazioni, ecc. si dà alla “propaganda armata” con attentati dimostrativi all’interno delle fabbriche, sequestri di dirigenti industriali, ecc. ecc. non vedo come Avanguardia Operaia (o il PDUP) avrebbe potuto fermarlo. […] il nostro dovere era uno soltanto: lottare politicamente e culturalmente contro le loro posizioni. Così come lottammo contro la strategia del compromesso storico del PCI, contro il PSI, contro la DC, contro i fascisti del MSI, ecc. L’abbiamo fatto a sufficienza?…» (Donato)

          No, non l’abbiamo fatto *bene*. Non l’abbiamo fatto da “rivoluzionari”. Cioè da persone che si dichiaravano o si sentivano (anche confusamente) tali. E non perché avessero ricevuto una sorta d’investitura dalla gente per fare la “rivoluzione”. O perché avessero una strategia chiara dalla A alla Z del processo storico comunque in movimento rispetto ai decenni precedenti, che come alcuni pretendono andrebbe spiegata in anticipo e approvata, non so, all’unanimità.
          Non l’abbiamo fatto da “rivoluzionari”, perché l’analisi di AO sulle Brigate Rosse fu la fotocopia di quella sbagliata e ottusa del PCI. Che, già spiazzato dallo scoppio imprevisto del ‘68 e ancor più dall’”autunno caldo”, continuò a pensare di arginare il passaggio diretto alla violenza dello Stato con Piazza Fontana (o, se si vuole ridimensionare la cosa per non apparire marxisti troppo veteri, di alcuni suoi settori detti “deviati”) e dai neofascisti di Ordine Nuovo con la sola “mobilitazione democratica” contro la “strategia della tensione”. E appena vide affiorare una risposta persino militarizzata da parte del movimento e di sue schegge (quali erano le BR) sbrigativamente etichettò come “fascisti” i brigatisti, mentre erano comunisti “leninisti-militaristi” e membri a pieno titolo dell’”album di famiglia” della Terza Internazionale, di cui era pieno lo stesso ( Cossutta, etc).
          AO adottò quella stessa analisi sbagliata. E credo di averlo detto con chiarezza dialogando con Calamida: «A me tuttora preme capire perché questa «falsa guerra civile» ci fu. E perché non poté essere fermata o neutralizzata *da “noi”*. E finì, invece, per neutralizzarci e catalizzare attorno al suo discorso anche una parte delle forze dei gruppi preesistenti. Questo mi pare il punto decisivo». 
          Ma come – mi chiedo ancora aderso – volevamo diventare il partito rivoluzionario e non avevamo analisi nostre e indipendenti e, duqnue, capacità egemonica nei confronti di altri “concorrenti” dell’area di nuova sinistra o sinistra rivoluzionaria?
          Dichiarare anche noi di AO “fascisti” i brigatisti rossi precludeva ogni possibilità di influire sulla loro strategia sbagliata e sulle avanguardie di fabbriche che essi influenzavano.
          Quando mi chiedo se eravamo dalla “parte giusta”, intendo riferirmi a cose come queste. E non al fatto che «non abbiamo raggiunto l’obiettivo di costruire  un partito rivoluzionario e di fare la rivoluzione». Sbagliammo l’analisi dei nostri “concorrenti”, delle BR. Non volemmo riconoscere che erano “comunisti militaristi” e prendemmo la scorciatoia propagandistica di definirli “fascisti” e neppure – come altri fecero – “compagni che sbagliano”. Per tappare la bocca ad ogni dubbio. Rimuovendo il problema tremendo della violenza (anche armata) o della capacità di giudicare l’effettivo grado di “rivoluzionarietà” della situazione e di governare (egemonizzare) le forze del *nostro* campo, anche quelle estremistiche o “folli”. Rinunciammo anche ad usare, ammesso che fossero stati utili nella situazione in cui ci trovavamo – certezze nella lotta politica non ce ne sono mai – gli strumenti teorici della storia del movimento operaio rivoluzionario. (Ad esempio ricorrendo al Lenin dell’estremismo malattia infantile del comunismo per arroccarci invece – come afferma Calamida – sul discorso della non violenza).

  11. «La mia visione, più chiara a posteriori, ma implicitamente già acquisita allora, è che ad un certo punto, e per iniziativa dello stato, lo scontro fu portato sul piano militare.
    Questo piano i movimenti o dovettero accettarlo, ma non potevano che perdere, o dovettero ritirarsi e sciogliersi.»
    Cara Cristiana, sono d’accordo con te. Ricordi l’intervista a Cossiga del 31 ottobre 2008?…Consigliava Maroni di fare con gli studenti universitari ciò che faceva lui da Ministro degli interni nel 1977-78 «Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco la città…Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri…Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti all’ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero tutti in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano.»
    Lo Stato ha una tale forza militare accumulata che, se non si danno divisioni, disarticolazioni, costituirsi di frazioni al suo interno che stanno dalla parte del movimento organizzato, la repressione, l’assassinio e l’incarcerazione sono assicurati.
    Ho letto anch’io l’intervista di Formica a Veltroni. La circolare Trabucchi consentiva agli USA di sostituire doganieri americani con quelli italiani negli uffici doganali delle loro basi. «Di lì passò tutto l’armamento in Italia. Passò attraverso le basi militari americane.» Da qui vennero le armi per il partito italiano della “strategia della tensione” e dello stragismo. Oltre a questa notizia, mi hanno colpito le risposte date sull’assassinio di Moro.
    Alla domanda di Veltroni: «C’è stato un momento in cui Moro stava per essere liberato?», la sua risposta è: «Io credo di sì. Noi socialisti, gli amici di Moro e persone spinte da una preoccupazione umanitaria, come Vassalli, cercammo di spingere per la liberazione del presidente dc. La nostra azione era alla luce del sole e gli incontri con le persone che pensavamo potessero essere tramite con le Br avvenivano all’aperto. Insomma ti pare possibile che Pace, esponente dell’estrema sinistra che dialogava con le Br attraverso Morucci, si incontra con i socialisti alla luce del sole, si vede più volte nel bar con Morucci e Faranda…E tutti questi non sono controllati? Non sono ascoltati? Seguendo lui sarebbero arrivati alla prigione.»
    «Ci si è sempre chiesti se voi informaste il governo dell’epoca…»
    «Non è vero che non informavamo, tutti erano informati. Cossiga era informato, il Quirinale era informato, il Quirinale e chi stava al Quirinale oltre il Presidente, erano informati, tutti erano informati. Ora come è possibile che ci sia stata tanta voluta trascuratezza? A mio modo di vedere il covo era conosciuto. Se poi metti in connessione che oramai è quasi certo il fatto che Mennini il prete andò a confessarlo e poi andò via dall’Italia, fu mandato lontano dalla Chiesa…»
    Sono convinto che le BR non fossero eterodirette, ma sono altrettanto convinto che gli apparati (più o meno deviati) dello Stato, insieme al partito atlantico e a quello del golpe hanno lasciato fare…Probabilmente uccidere Moro era obiettivo comune.

    1. APPUNTO 4

      RIVOLUZIONE FALLITA ?

      “La mia visione, più chiara a posteriori, ma implicitamente già acquisita allora, è che ad un certo punto, e per iniziativa dello stato, lo scontro fu portato sul piano militare” (Fischer)

      E dunque?
      Messa così, viene solo da pensare che con lo Stato Leviatano non ci sia mai nulla da fare. E che, al massimo, per non cadere nelle sue “mille trappole” ( “lo scontro fu portato sul piano militare”… Si può chiamare piano militare quello che accadde a Piazza Fontana?), bisogna stare cheti.

      Anche l’osservazione di Donato (“Lo Stato ha una tale forza militare accumulata che, se non si danno divisioni, disarticolazioni, costituirsi di frazioni al suo interno che stanno dalla parte del movimento organizzato, la repressione, l’assassinio e l’incarcerazione sono assicurati.”), a prima vista, sembra andare in questa direzione “quietista”.

      Se si avesse voglia di studiare, io suggerirei di tornare a riflettere sul quadro d’insieme del ‘68-’69 (e poi degli anni ‘70, che solo in Italia videro resistere un movimento che in Francia e in Germania fu liquidato quasi subito). Altrimenti non si coglierà mai più la posta in gioco di quel decennio. Una strage come quella di Piazza Fontana avrebbe dovuto essere “risolutiva” per chi l’architettò e l’attuò. E invece non fu così. Il movimento, anche se non fiammeggiante come nel biennio ‘68’-’69, resistette a quel colpo tremendo, si diede forme organizzative (politiche e culturali) indipendenti, si articolò anche sul piano militare minimo e difensivo (servizi d’ordine) e, in alcune schegge (come le BR e poi altri “lottarmatismi”), anche su un piano offensivo.
      I rapporti di forza “normali” erano stati intaccati. Bastava per sfidare lo Stato? No. Mi chiedo però se davvero BR e lottarmatisti si posero questo obiettivo. Subito no, di sicuro. Anche a voler leggere il rapimento Moro come un “assalto al cielo” o allo Stato – e non è così, perché per il rilascio erano state poste condizioni che settori della DC avevano preso in cosndierazione – si deve ricordare che avvenne nel 1978, cioè quando ormai il compromesso storico aveva macinatotutta la sua strada e il grande PCI era disposto pienamente a “farsi Stato”. Cioè a concludere la sua ambigua storia (togliattiana). E credo che fu la cattiva coscienza dei “concorrenti” delle BR – specialmente il PCI e i gruppi dirigenti della “nuova sinistra” (ma non in toto: Lotta Continua era più di AO e del Pdup investita da istanze combattive e tentennava) a dipingerle esclusivamente come folli e avventuriste ( o peggio “fasciste”).

      A me pare che il problema dello sbocco politico a cui allude Paolo Virno nello stralcio che ho pubblicato (“un problema specifico, non lineare (mettendola in termini matematici) del potere politico”) ci fu davvero. Non so dire se proprio nei termini in cui lui lo pone (“ non cerca la rivoluzione contro Das Kapital ma cerca la rivoluzione in accordo con Das Kapital: dunque, non contro la miseria e l’arretratezza, ma contro il rapporto di produzione capitalistico e contro lo stesso lavoro salariato”). Ma che allora fosse in atto “una cosa che non ha avuto precedenti e che cercava le sue forme politiche; ciò era avvertito fra i quadri di base del sindacato, della FIOM, era un dibattito politico generale”, che magari a noi di Cologno arrivava troppo confusamente, a me pare vero. Come mi pare vero che l’atteggiamento che Virno rimprovera a Capanna ( ““no, per carità, movimento politico di massa”, poi fiancheggiava il PCI e faceva da servizio d’ordine di là a poco alla UIL”) era presente anche in AO.

      E torna il problema dell’indipendenza di pensiero “da rivoluzionari” prima ancora che quello organizzativo o di analisi della realtà. E la necessità di ripensare – purtroppo solo *storicamente* ora – le varie ipotesi concrete che vennero affacciate. Ao voleva fare il partito rivoluzionario ma che rivoluzione voleva?Come accenna ancora Virno: “Altri pensavano che […]queste funzioni di rottura venivano elaborate […]dentro una linea sostanzialmente interna al vecchio movimento operaio, cioè una prosecuzione radicale dell’antifascismo militante, della Resistenza rossa, se si vuole una lotta armata per le riforme”.

      Ci fu, dunque, una “situazione rivoluzionaria” o no? Se lo schema per rispondere lo si va a cercare nel passato ( ad es. nel modello della Rivoluzione del ‘17) si può dire tranquillamente che non ci furono le condizioni. Ma cos’è prestabilito nella storie delle rivoluzioni? Non possono presentarsi in forme non riconoscibili?

      Io, perciò, l’ipotesi di lettura di Virno (“ Io penso (e questo invece è punto storiografico e teorico) che nel ‘900 ci siano state due rivoluzioni fallite, e chi, come Tronti o altri, dice che ce n’è stata una, cioè quella che tutti sanno negli anni ’20, sbaglia. Ci sono state due rivoluzioni fallite e non si capisce niente del secolo (per usare questo linguaggio un po’ magniloquente alla Tronti) se non si tiene conto di tutte e due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni ’20 (in Germania e altrove), l’altra la rivoluzione in senso proprio degli anni ’60 e ’70, la prima che è contro il modo di produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e di cui il postfordismo è sostanzialmente la replica in grande, la controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molti gridassero parole d’ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi interessa. O si dice che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non esistono, e si può dirlo, è una maniera se si vuole di igiene mentale; oppure, se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un criterio sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii dei soggetti di allora) di che cos’è una rivoluzione fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per un consistente e lungo lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali.”) non la scarterei e ci penserei su.

      1. Potrei darmi pace concludendo che il quietismo fu la mia scelta personale, ma non è in realtà così perchè negli stessi anni feci parte di un movimento collettivo femminista, e quindi continuai sempre a occuparmi di politica. Politica “separata”, perchè il femminismo non riguardava l’oppressione esercitata sulle donne sottraendo loro uguaglianza di opportunità, ma riguardava ben altro: l’esistenza femminile a partire dal riferimento delle donne alle altre donne, e non ai ruoli alle immagini alla soggettività stessa “ricevuta”, quindi non libera. La mia libertà femminile solo altre donne me la possono garantire.
        Questa scelta politica che fummo in tante a fare, e il numero cresceva, e dappertutto, tolse anche fondamento alla politica dei gruppi, che della nostra politica non sapeva che farsene. Il nostro separatismo fu cecità per i maschi.
        La stessa idea di rivoluzione quindi va rivista. Una o due, nel ’20 o anche nel ’68-69? Ma la politica delle donne non c’era, che rivoluzione avrebbe potuto essere? Parziale, monca.
        Tra noi qualcuna lodava la bonifica delle strade dai fascisti che faceva l’MLS, si discuteva con una certa cognizione di causa sulle BR infiltrate o no. Alcune avevano la casa invasa dai carabinieri ogni 2×3 perchè avevano studiato a Trento con Curcio. Altre avevano il compagno di potop. Ma non era la nostra politica, che comunque ora non sto a raccontare.
        Però il quietismo non è pertinente.
        Quanto al piano militare: credo che si debba distinguere tra gli attentati avvenuti con il favore dei servizi (e i paralleli rapimenti dei br che esercitavano una violenza difensiva e “educativa”); e la successiva direzione dell’antiterrorismo di Dalla Chiesa e la rottura del delitto Moro.

    2. Ti indirizzo un ulteriore commento, Donato (e noto il “caro” di qua e il “cara” di là, qualche anno dopo la rottura del “noi” di Poliscritture si legge qualche minore linea di confronto).
      Riprendo la mia frase “Uscire dallo storicismo? Be’, è comunque quello che avviene”, per dire che non funziona più lo schema di una storia unitaria che procede attraverso le contraddizioni. (Quante contraddizioni occorrono? E quali?)
      La stessa frase “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”, con i plurali di lotte e di classi nega la storia filounico, e anche un unico tipo di Soggetto all’opera (Soggetto scisso nelle due parti, dominante e oppresso).
      Gramsci scriveva del Principe che era il nuovo partito, e doveva diventare stato.
      Gli stati sono molto aumentati negli ultimi decenni, sono un campo autonomo per lotte interne e poi c’è un campo di lotte tra stati (si pensi oggi ai trucchi che fa la propaganda nel campo dell’ideologia: chi ha messo il trojan a Savoini e soci? o ai partner russi?).
      La politica, stato e intenzioni soggettive dei movimenti, era più complessa di quanto riuscissero a pensarla i movimenti, e anche la teoria politica allora non la abbracciava (pensiero negativo, l’operaismo).
      Dopo vengono grandi anni di studio e di preparazione, per saper reggere un nuovo mondo, anche durante la conquista. Perché secondo alcuni sta comunque avvenendo, e tocca di interpretare, senza incredulità preconcette, perfino gli schemi millenaristici, per individuare altri percorsi da “interpretare” (si veda il post di Fagan oggi su fb: “Regola Aurea, di cui esistono formulazioni attive e passive. Essa compare (in ordine cronologico-storico) in: Pittaco ovvero uno dei Sette Sapienti dell’Antica Grecia (ed altri Greci a seguire), Confucio, Buddha, nel Janismo, Induismo, rabbi Hillel, Gesù Cristo, Muhammad e Kant. Il Parlamento delle religioni mondiali animato dal teologo Hans Kung, l’adottò nel 1993, come “principio per una Dichiarazione dell’etica mondiale”, sottoscritto da 143 rappresentanti di altrettante religioni. Tale filosofia si basa sulla reciprocità, questa è l’ipotesi fondazionale di uno stato di convivenza planetaria. Molte novità ne discenderebbero … )
      https://www.facebook.com/pierluigi.fagan?__tn__=%2CdC-R-R&eid=ARBfZvnLgVY0RfHwsin28_6fMCGInXe2kEyXmelUcs5_vzKGtK4lhcOVdLQlR14EWZ0UiChr7llsRAz_&hc_ref=ARTzjYrXTa-Pw7B42ipryLdoQ9D2eVMQ8fsWBIiP3Hwyt1JUIkBIrZN9rt6Z81mCklE&fref=nf

  12. Cara Annamaria, grazie per le tue osservazioni. Io dico “figli di papà” richiamando la poesia di Pasolini. Ma sono d’accordo con te. Il Sessantotto fu un grande movimento e durò a lungo in Italia proprio perché coinvolse figli di papà e figli di contadini, operai, studenti, borghesi, professionisti, ecc. Fu un periodo in cui molta società si mise in movimento.

  13. Che dire?…Ad ogni nuovo intervento il dibattito si arricchisce e si mette altra carne al fuoco. Evidentemente gli anni Settanta sono ancora vivi e il giudizio su fatti e scelte personali e collettive ancora controverso. Anche se il paesaggio sociale e lo scenario culturale e politico in cui viviamo è così mutato che vien da chiedersi: ha senso tutto ciò?…Francamente non so. Forse l’avrebbe se volessimo scrivere un libro di storia. Allora ci mettiamo a pesare col bilancino quanta indipendenza politica e culturale AO (ad esempio) ha avuto rispetto al PCI oppure quanta “spontaneità rivoluzionaria” manifestarono gli studenti nelle scuole e la classe operaia nelle fabbriche durante il biennio ’68-’69 (“rivoluzione” intesa come rifiuto oggettivo del modo e del rapporto di produzione capitalistico- fordista, se intendo bene Virno); “spontaneità rivoluzionaria” che avrebbe richiesto, quindi, uno sbocco politico “rivoluzionario” per evitare (o prevenire) la controrivoluzione successiva. Nei “miei anni settanta” mi sono sforzato di raccontare la mia situazione, le mie scelte e la mia storia (che era anche, a quanto mi pare – grazie Anna Maria – una storia collettiva di migranti). Ovviamente, sono disponibile ad approfondire tutti i problemi sollevati. Due fatti mi sembrano indiscutibili:
    a) Gli anni Settanta non sono identificabili con gli “anni di piombo”. La storia di quegli anni non può essere ridotta alla storia del “partito armato”. Sono stati anni di conquiste sociali, di cambiamenti culturali, di modifiche istituzionali importantissime: Statuto dei lavoratori, Riforma del sistema sanitario nazionale, Legge sul divorzio e sull’aborto, Riforma del diritto di famiglia, ecc. Senza “psichiatria democratica” non avremmo avuto la legge Basaglia (di chiusura dei manicomi) e la legge di inserimento degli alunni portatori di handicap nelle scuole. Senza “magistratura democratica” non avremmo avuto quell’attenzione all’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo che ancora oggi è invisa al Salvini di turno…E potrei continuare. A partire dagli anni Ottanta, il partito integralista, conservatore e reazionario esistente nella nostra società ha cercato di rimettere in discussione le conquiste di quegli anni.
    b) Lo sbocco politico di quella “spontaneità rivoluzionaria” del biennio ’68-’69 e di tutto quel fermento sociale anticapitalistico (antiautoritario, controculturale, ecc.) non poteva essere rappresentato dal compromesso storico (del PCI) e fu insufficiente (o fallimentare) la strategia del “governo alle sinistre, potere a chi lavora” di Democrazia Proletaria (AO, PDUP e LC); ma ancora più fallimentare fu la strategia dal “partito armato” (nelle sue varie gradazioni e componenti). Il movimento del ’77, postosi sul terreno della “violenza offensiva” ebbe vita assai più breve di quello del Sessantotto (fece, per così dire, il gioco di Cossiga. Cfr. la sua intervista più sopra), quanto alle BR e alla galassia dei “lottarmatisti” bisognerebbe analizzare e distinguere. Fermiamoci per il momento alle BR. Quelle di Moretti non sono quelle di Curcio. La pratica degli omicidi, se ricordo bene, comincia con Moretti e con l’uccisione nel 1976, durante la campagna elettorale, del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due uomini di scorta. L’assassinio di Moro e lo sterminio della sua scorta, al di là di chi si innamorò della sua “geometrica potenza”, rappresentò il punto di svolta. Politicamente cominciarono a morire con lui. Io non sono Sergio Flamigni e non ho letto i sedicimila libri raccolti nel suo “Museo dei misteri italiani” né ho letto i faldoni dei processi delle varie Commissioni d’inchiesta sul caso. La sua tesi principale è questa: «Il sequestro Moro è stato un golpe, per mettere fine alla collaborazione fra PCI e DC, le due grandi forze popolari degli anni Settanta.» (cfr. Il Venerdì di Repubblica, 12 luglio 2019, pag.51). Per quanto mi riguarda, sono d’accordo con questa tesi. L’obiettivo che il partito atlantico (del golpe e dei Servizi deviati) non era riuscito a realizzare con la “strategia della tensione” (e dello stragismo) lo raggiunse con le BR di Moretti (e compagni). Lo Stato e i vari Servizi, se avessero voluto liberare Moro, l’avrebbero potuto fare. Formica nella sua intervista a Veltroni (cfr. sopra) lo dice chiaramente: «A mio modo di vedere il covo era conosciuto.» Dopo l’assassinio di Moro, il clima sociale e politico italiano cambiò enormemente. Ho raccontato la mia esperienza di consigliere comunale di DP e il fatto che mi diventò difficile anche solo prendere la parola.
    Conclusione: discutiamo quanto vogliamo, leggiamo libri, cerchiamo di capire meglio ciò che è stato, ma non credo che una sinistra anticapitalistica e antiliberista riprenderà quota continuando a sbandierare la necessità della “violenza proletaria”. Il mondo è già abbastanza violento per aggiungerne altra. Forse occorre lottare per ridurne il tasso.
    PS. Sono in partenza. Ringrazio Ennio, Cristiana e Anna Maria per i loro interventi. Se ne faranno altri e non riceveranno risposta, conoscono la ragione. Buone vacanze.

    1. Io, invece, a differenza di Donato, sono convinto che gli anni ‘70 sono il nostro “passato che non passa”. (Come non è passato il fascismo. E soprattutto il capitalismo). In questo post non ci siamo interrogati su una faccenda solo generazionale, anche se ad intervenire sono stati solo due ex militanti di AO più Annamaria Locatelli e Cristiana Fischer. Rivoluzione fallita (tesi di Virno) o ammodernamento mancato dell’ Italia (Guido Crainz, Il paese mancato) e successiva Restaurazione (Fortini) o salto epocale (postmodernità o ipermodernità secondo le etichette degli specialisti) in gran parte oscuro e tutta indecifrabile, ma che suggerisce le ipotesi più varie: futuristiche, post-umane, apocalittiche, “moltitudinarie” (Negri), “benecomunistiche”, “patriottiche” (sovranismi vari) o di una “inoperosità decostituente” (Agamben) , lì si consumò e rivelò “qualcosa”, che prima o poi si riaffaccia sotto altre vesti, sotto altri slogan e richiede di essere pensato e di diventare politica: o in direzione più democratica o in direzione oligarchica e persino tirannica.

      Per me l’interrogazione sugli anni ‘70 (e sul passato più in generale) non può, dunque, essere lasciata tranquillamente agli storici (in particolare poi agli storici eruditi, che dovrebbero mettere in ordine personaggi e vicende della cronaca giornalistica e massmediale di quel decennio che il singolo o il “noi” ricorda in modi incompleti o ripensa secondo una propria, personale soggettività. Scrievere “i miei anni settanta”, come ha fatto Donato, va benissimo. Sincera o accomodata, improvvisata o meditata. La testimonianza di un singolo, che in quegli anni “c’è stato”, va però considerata come primo passo da svalutare o minimizzare, come ci ha insegnato la recente tradizione della *storia orale*, ma dopo il primo ce ne vogliono altri di passi. Dobbiamo puntare a una visione più completa e ragionata del decennio, come qui si è appena tentato di fare. Non può essere questo il punto massimo della ricerca. Che, in fondo, ha anche il suo lato noioso ed è slegata dal “presente”. Ma attenzione: per la sconfitta subita!
      Quindi io spero che la ricerca (degli storici e dei militanto o degli ex militanti) metta proprio «altra carne al fuoco», susciti dibattiti anche complicati e controversie. Non importa se molti non sono più sufficientemente motivati a continuarla o fanno fatica a seguire e delegano agli addetti ai lavori (agli storici).

      Il dibattito svoltosi in questo post si è forse ridotto a un duetto tra me e Donato ed è venuto fuori
      un contrasto di interpretazioni. Io lo manterrei aperto. Non condivido, infatti, i suoi due punti fermi: «Gli anni Settanta non sono identificabili con gli “anni di piombo”. La storia di quegli anni non può essere ridotta alla storia del “partito armato”. Sono stati anni di conquiste sociali, di cambiamenti culturali, di modifiche istituzionali importantissime» ; «una sinistra anticapitalistica e antiliberista riprenderà quota continuando a sbandierare la necessità della “violenza proletaria”. Il mondo è già abbastanza violento per aggiungerne altra. Forse occorre lottare per ridurne il tasso».

      Quelle conquiste sono state, infatti, tutte azzerate o quasi; e il discorso della violenza nella storia (“proletaria” o “statale”) non è affatto accantonabile, si ripresenta di continuo. Solo che adesso non c’è manco un pizzico di quella “proletaria” e quella “statale” appare inarrestabile.
      Quindi concordo sull’invito: « discutiamo […], leggiamo libri, cerchiamo di capire meglio ciò che è stato». E aggiungo: perché in forma diversa i problemi degli anni ‘70, se afferrati nel loro significato, ci permetteranno di capire meglio l’oggi. Non necessariamente di agirvi meglio. “Storia adesso”, dunque.

  14. Non è davvero facile aggiungere qualcosa di sensato non solo al saggio di Salzarulo, ma anche ai commenti successivi. Tanto più che sullo stesso argomento più o meno Ennio, Paolo Rabissi ed io ci siamo espressi mesi fa con un dibattito altrettanto lungo e complesso. Evitare di ripetere cose già dette è quasi impossibile e allora proverò a dire poche cose partendo proprio dall’ultimo commento che si conclude proponendo una sorta di slogan – Storia adesso -che faccio mio come lo feci mesi fa negli interventi miei e di Paolo, ma aggiungendovi subito una domanda. Cosa significa storia adesso per chi non ha rinunciato a una critica anticapitalistica radicale ed è al tempo stesso critico radicale dei modelli alternativi novecenteschi e che non coltiva dunque alcuna speranza in ciò che residua delle nomenclature esistenti che si rifanno a tutte le correnti ortodosse ed eterodosse del marxismo novecentesco? Significa prima di tutto darsi un compito teorico, ma anche guardare al tempo stesso ai movimenti che ci sono e cercare di imparare da loro, smettendola di guardarli con gli occhiali che pure sono stati i nostri in passato. Un compito assai difficile lo riconosco, ma che mi sembra sia il solo utile. Quanto alla violenza su cui molto si soffermano sia Salzarulo sia i commenti. A me non stupisce affatto che ci sia, solo la rimozione seguita al terrorismo e il culto del politicamente corretto, hanno portato a un atteggiamento da struzzi impauriti, ma mi pongo una domanda: perché una violenza così efferata, senza limiti, gratuita sia esercitata militarmente e dai poteri statuali sia diffusa e sociale in un momento in cui non esiste praticamente una opposizione pericolosa? Di che cosa hanno paura i padroni del vapore? Oppure c’è dell’altro?

  15. STORIA ADESSO/APPUNTO 1

    Pubblico la scheda che avevo preparato per il manuale”Di Fronte alla storia” della Palumbo (prima ed. 2009)

    La memoria storica tra custodia del passato e progetto per il futuro.

    Documenti:

    “Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. E’ così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere ed il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato… L’uomo chiese una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità? L’animale voleva rispondere e dice: Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre accanto al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. E’ un prodigio: l’attimo, in un lampo è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via – e improvvisamente rivola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice ‘mi ricordo’.” F. NIETZSCHE. Considerazioni inattuali – Sull’utilità e il danno della storia per la vita 1884

    “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quello delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione”. E. J. HOBSBAWM, Il secolo breve, Milano 1997

    “Mai si è parlato tanto di memoria storica da quando è caduto il muro di Berlino nell’autunno ’89, e tuttavia questo discorrere concitato restava ingabbiato nel nominalismo: i fatti riesumati non erano che flatus vocis, il cui significato sembrava essere destinato a sperdersi (…) La storia recente dell’uomo europeo si riassume in questa incapacità di cadere nel tempo e di conoscerlo. Di lavorare sulla memoria, ma anche di oltrepassarla per estendere i confini e costruire su di essa (…) Quel che ci salva, che ci dà il senso del tempo, è il nostro “esser nani che camminano sulle spalle dei giganti”. I giganti sono le nostre storie, i successivi e contraddittori volti che abbiamo avuto in passato, e in quanto tali personificano il vissuto personale e collettivo che ci portiamo dietro come bagagli. Dalle loro alte spalle possiamo vedere un certo numero di cose in più, e un po’ più lontano. Pur avendola vista assai debole possiamo, col loro aiuto, andare al di là della memoria e dell’oblio”. B. SPINELLI, Il sonno della memoria, Milano, 2001

    “La memoria è il rombo sordo del tempo, scandisce il distacco dal passato per tentare di capire quel che è accaduto”. E. LOEWENTHAL, “La Stampa”, 25.1.2002

    Riassumiamo le tesi sostenute dai vari autori, facendo attenzione anche ai titoli e alle date delle opere da cui i brani sono tratti:

    1) F. NIETZSCHE. Considerazioni inattuali – Sull’utilità e il danno della storia per la vita 1884 Esiste una differenza tra animale e uomo rispetto allo scorrere del tempo: l’animale vive nell’attimo, solo nel presente, e subito dimentica, l’uomo no (non sa dimenticare, è “incatenato” al passato, che «torna come fantasma» conturbante e lo rende infelice). Il titolo dell’opera di Nietzsche è particolarmente indicativo della sua posizione scettica verso la storia: la storia (la memoria storica) può essere utile, ma anche dannosa per la vita.

    2) E. J. HOBSBAWM, Il secolo breve, Milano 1997 A fine Novecento si è avuta una crisi dei «meccanismi sociali» che finora hanno formato e trasmesso la memoria storica del passato. C’è il rischio di una frattura irreparabile tra passato e presente, tra adulti e giovani, perché questi ultimi vivono interamente nel presente e ignorano quasi del tutto il «passato storico». Indispensabilità del lavoro degli storici, «il cui compito è ricordare ciò che gli altri dimenticano».

    3) B. SPINELLI, Il sonno della memoria, Milano, 2001 La caduta del muro di Berlino nel 1989 ha svelato anche la gravità della crisi della memoria storica. Esigenza del suo recupero: i nani (le nuove generazioni), salendo sulle spalle dei giganti (gli antenati), potranno «vedere un certo numero di cose in più, e un po’ più lontano».

    4) E. LOEWENTHAL, “La Stampa”, 25.1.2002 Solo il funzionamento della memoria permette il «distacco dal passato».

    Nota
    Il tema della memoria è generale. I materiali necessari per svolgere l’argomento (eventuali esempi) potrebbero essere tratti da qualsiasi periodo storico e in modo discreto anche dal proprio vissuto personale e familiare. Una particolare attenzione andrebbe data ai periodi di trapasso da un’epoca all’altra (ad es. Rivoluzione francese/Restaurazione), dove si coglie con più facilità la spinta contraddittoria tra custodire o dimenticare il passato.

    Dati e concetti utili

      Nietzsche: il passato incatena l’uomo; l’oblio caratterizza l’animale;
      Hobsbawm: i giovani hanno perso un rapporto significativo con il passato e rischiano di vivere in un presente permanente; gli storici devono con il loro lavoro ribadire l’importanza della memoria;
      Spinelli: la crisi del rapporto con il passato in Europa è databile al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino e dell’inizio del declino dell’Urss.

    Schema

    Introduzione
    Alla fine del Novecento il tema della memoria storica è tornato drammaticamente attuale. Cosa intendiamo per ‘memoria storica’: definizione, funzionamento, problemi.

    Argomentazione
    Analisi delle tesi (soprattutto di Hobsbawm e Spinelli) contrapposte a quella di Nietzsche) sostenute nei brani proposti. Alcune ragioni della crisi della memoria storica alla fine del Novecento con particolare riferimento ai giovani: la fine dell’equilibrio politico tra Usa e Urss; la caduta del mito sovietico; l’influsso della “rivoluzione informatica” nel rapporto dei giovani con il passato; gli effetti della mondializzazione sulla memoria storica.

    Conclusione
    Oblio del passato o salvaguardia della memoria storica? Quello che ancora ci può insegnare la storia, anche se non è più magistra vitae. Quello che può occultare l’elogio dell’oblio. Per un ritorno alla storia e al recupero della memoria storica in modo critico e problematico.

    Un possibile svolgimento del tema:

    Introduzione
    Il tema della memoria storica ha avuto un grande rilievo in ogni epoca, ma negli ultimi decenni del Novecento è tornato alla ribalta in modo quasi drammatico. E due dei brani qui proposti (di Hobsbawm e della Spinelli) ne sono la prova. Prima di discuterne, però, è utile chiarire cosa intendiamo per ‘memoria storica’. Possiamo dire, semplificando, che la memoria storica è il ricordo del passato che si sedimenta negli individui e nei gruppi sociali di un Paese. Anche se parente della storia, la memoria storica è meno intellettuale, precisa e sistematica e più carica di mito, affetti e passioni politiche. Questa combinazione di conoscenze più o meno esatte, di sentimenti, ragionamenti e giudizi comincia a formarsi in noi a un certo punto della vita, quando, attraverso le testimonianze di genitori o parenti, lo studio scolastico e, oggi, la visione di film e trasmissioni televisive, incontriamo eventi e personaggi memorabili della storia che ha preceduto la nostra nascita. La memoria storica è influenzata più o meno vistosamente dal lavoro di sistemazione del passato compiuto dagli storici, che, specialisti del “ricordo pubblico”, con saggi, articoli, manuali scolastici e dibattiti orientano anche le nostre opinioni. È influenzata pure, indirettamente, dai metodi della ricerca storiografica prevalenti in un certo periodo (una volta gli storici erano attenti esclusivamente alla storia dei grandi personaggi e delle idee, poi hanno riconosciuto l’importanza dell’economia, poi quella della vita sociale o dell’immaginario, ecc.) e dallo stato degli archivi, che possono essere ben amministrati o trascurati o, a volte, manomessi e persino distrutti. E dipende molto anche dall’andamento della vita sociale e politica. Negli ultimi decenni, ad esempio, in Italia si è parlato spesso di un disinvolto «uso pubblico della storia» specie da parte dei mass media, che in modi propagandistici o scandalistici hanno usato per fini politici immediati o di parte i risultati della ricerca storica specialistica. Infine la memoria storica non sempre è un hobby per eruditi che contemplano tranquilli e distaccati il passato. I ricordi di un periodo storico o di un personaggio o di un movimento politico sono spesso oggetto di dispute. Di fronte al passato o ad un certo passato scomodo o controverso ora prevale la tendenza a cancellarlo ora a recuperarlo e magari a esaltarlo. C’è poi chi auspica che la ricerca storica e la cura della memoria storica siano affidate a pochi esperti e chi vorrebbe democratizzarle. E, nei periodi di profonde e difficili trasformazioni, accade che interpretazioni storiche consolidate e memorie in apparenza condivise (almeno dalla maggioranza dei cittadini di un Paese: era il caso da noi della Resistenza) non lo siano più. Succede allora che i monumenti storici di un Paese, prima vantati o venerati, e i documenti, che davano autorevolezza alle sue istituzioni, vengano visti sotto un’altra luce; che (pensiamo al crollo dell’Urss) personaggi storici o leader, prima esaltati, vengano abbassati al rango di cattivi maestri; e che le forze politiche e sociali al potere emarginino o criminalizzino gli avversari sconfitti, cambino i nomi delle vie prima a loro dedicate, abbattano statue, ne erigano altre, riscrivano i manuali di storia per la scuola. Interi continenti di ricordi s’inabissano e altri li sostituiscono.

    Argomentazione
    A questi complessi problemi rimandano i testi degli autori proposti, che a parte Nietzsche, insistono tutti sull’importanza di salvaguardare la memoria del passato, nella convinzione che senza di essa non si riesca a progettare nessun futuro. Allo storico Eric Hobsbawm, infatti, appare pericoloso che i giovani alla fine del Novecento, essendosi spezzato «ogni rapporto organico con il passato» crescano «in una sorta di presente permanente». E la giornalista Barbara Spinelli indica il 1989 – anno simbolo della fine dell’equilibro tra le due superpotenze (Usa e Urss) dominanti dopo la Seconda guerra mondiale – come il momento in cui in Europa questa rottura tra passato e presente e tra adulti e giovani è divenuta più palese. I due brani inducono a chiedersi perché proprio alla fine del Novecento la memoria storica risulti così danneggiata e in declino. Possiamo brevemente richiamare alcune cause. È evidente, innanzitutto, che l’indebolimento del rapporto tra i giovani e il passato ha ragioni politiche. Per una buona parte di loro il crollo dell’Urss, evocato dalla Spinelli, ha significato il venir meno del mito della Rivoluzione russa e del prestigio dello Stato sovietico a livello mondiale, che si erano in vari modi conservati per buona parte del Novecento presso nonni e genitori, ma dai quali già i movimenti giovanili del ’68 e del ’77 si erano staccati. Ma non si è persa o è stata rifiutata solo quella memoria storica. Alla fine del Novecento la “rivoluzione informatica”, vissuta da moltissimi giovani “in contemporanea” e intensamente (si può dire che alcune generazioni di giovani e giovanissimi si siano formati più sui mass-media e Internet che sui libri), ha imposto un nuovo tipo di memoria, basata su gigantesche «banche dati» elettroniche, impadroneggiabili da chiunque. Esse hanno sostituito e svalorizzato il precedente tipo di memoria storica. Il diverso rapporto col passato di adulti e giovani è un problema drammaticamente serio. Gli adulti si sono formati una memoria storica attraverso ricordi coerenti sistemati in una narrazione ragionata e all’interno di istituzioni (università, partiti, scuola, ecc.) ancora capaci di plasmare una visione abbastanza unitaria della realtà. I giovani, avendo imparato a percepire la realtà soprattutto attraverso cinema e TV e ora attraverso Internet, strumenti che parlano direttamente all’inconscio, sfumano o confondono il confine tra reale e virtuale e dilatano il «presente» in modo quasi totalizzante, hanno un tipo di memoria occasionale, frammentata, involontaria: quella indagata dagli psicanalisti o dalle opere letterarie di Proust e dei surrealisti, tanto che lo scrittore Franco Fortini non esitò a definire questo fenomeno dilagante già negli anni Ottanta col termine di «surrealismo di massa». Per ultimo è da tenere presente che la mondializzazione ha mostrato, tra l’altro, anche i limiti di una memoria storica fondata finora quasi interamente sulle storie nazionali (o, spesso, eurocentriche); e che almeno una parte dei giovani d’oggi che hanno più opportunità di viaggi nei cosiddetti “paesi extraeuropei” o che entrano in contatto con i migranti dei vari paesi che arrivano in Italia, sentono anche in questo campo l’angustia di un certo provincialismo.

    Conclusioni
    Il divario tra adulti e giovani, tra memoria storica degli adulti e memoria “involontaria” (o “surrealista”) dei giovani andrebbe riconosciuto come un dato. Ci si potrà poi chiedere se esso comporti davvero il pericolo paventato da Hobsbawm e se sia auspicabile e possibile sanarlo. Su questo punto i brani proposti sono in netto contrasto. Quello di Nietzsche, pur scritto nell’Ottocento, sembra in piena sintonia con il rifiuto della memoria storica prevalente oggi tra i giovani. Egli sottolinea che il passato è una catena e fa un implicito elogio dell’oblio, contrapponendo la condizione dell’animale che dimentica a quella dell’uomo ossessivamente catturato dai fantasmi del passato. Da questo punto di vista, tanto vicino al Leopardi del Canto notturno di in pastore errante dell’Asia, la fatica di un Enea, che, in fuga da Troia distrutta, appesantendo e rallentando il suo cammino, si carica sulle spalle il padre vecchio, Anchise – quasi un’allegoria del lavoro dello storico e di chi non vuole abbandonare il passato ma portarlo in qualche modo con sé nel futuro – appare controproducente e quasi ridicola. Hobsbawm e la Spinelli (ma anche la breve frase della Loewenthal) ribadiscono invece l’esigenza della memoria storica (e quindi il rifiuto di ogni oblio); il primo affidando il compito di salvaguardarla soprattutto agli storici; la seconda ricorrendo alla nota metafora dei nani (le nuove generazioni) che, solo salendo sulle spalle dei giganti (gli antenati), potranno «vedere un certo numero di cose in più, e un po’ più lontano». Evitando il moralismo di chi vede nell’atteggiamento dei giovani verso il passato solo un rifiuto dei padri o un rifiuto di crescere, ma anche il nichilismo (o il disincanto cinico di chi crede di abolire il passato con un colpo di spugna), va detto che oggi non è facile per tutti (storici o meno) scegliere con certezza se sia utile conservare o disfarsi di un certo passato o se, come dice Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali, la storia sia utile o dannosa. Anche se non più magistra vitae, la storia, comunque, insegna almeno che non esistono risposte preconfezionate al dilemma drammaticamente riapertosi alla fine del Novecento. Essa, infatti, ci dà le prove che a volte il “nuovo”, il “moderno”, il “rivoluzionario” s’è dimostrato peggiore del “vecchio”. In altri casi ci fa capire – si pensi alle scelte da compiere per arginare le catastrofi ambientali- che sembra davvero più “rivoluzionario” conservare che cambiare. Altre volte dimostra che la nostalgia per un passato troppo idealizzato o imbalsamato ha paralizzato le energie di un Paese. E riesce a farci capire che persino il «presente» o lo stesso «futuro» possono produrre chiusure narcisistiche o addirittura mummificazioni in anticipo di quello che potrà avvenire. L’elogio dell’oblio, desumibile dalla filosofia di Nietzsche, invece, rischia di esasperare la frattura tra passato e presente e tra generazioni. Ed è bene ricordare che l’oblio non porta di per sé “felicità” (Nietzsche stesso, tra l’altro, parla dell’animale come essere impenetrabile, immerso nell’attimo, «né triste né annoiato» e incapace di parlare della felicità). Se poi l’oblio del passato diventa rimozione degli orrori, delle ingiustizie, dei colonialismi, dei fascismi apparsi nella storia dell’umanità, di sicuro non produrrà né riconciliazione, né armonia; e neppure la pace che da esso ci si potrebbe aspettare. “Fare i conti” col passato, porsi di fronte alla storia pare, perciò, ancora utile. Si è visto, infatti, che se tanti hanno applaudito la caduta del muro di Berlino illudendosi di essersi lasciati alle spalle il passato (gli orrori del Novecento vissuti dai loro padri e nonni), presto, smentendo le tesi ottimistiche della «fine della storia» e le speranze di un “nuovo ordine mondiale”, altri orrori non dissimili (le guerre ad es.) sono tornati in altre forme. Bisognerà, dunque tornare, in modo critico e problematico alla storia e in una dimensione mondiale più complessa che in passato, per confrontare e ricomporre memorie storiche diverse: quelle della propria nazione, quella degli europei e quelle dei popoli fuori dall’Europa. Lavorando sulla memoria e, rielaborandola, si potrà oltrepassarla, come suggerisce la Spinelli. Sapendo in partenza, magari, che oggi, per vedere più cose e più lontano, bisognerà salire non soltanto sulle spalle dei giganti del nostro Paese, ma anche sulle spalle dei giganti di altri Paesi, meno noti o trascurati in Europa o in Occidente.

    mercoledì 11 febbraio 2009.

  16. STORIA ADESSO/ APPUNTO 2

    Dal fiume, nuotando, erano usciti in due: lo storico e Samizdat. Lo storico s’era asciugato e seduto. S’era messo in disparte sotto un albero, aveva inforcato gli occhiali e, aperta la sua borsa ancora gocciolante, aveva cominciato a riordinare i volantini, i documenti, le cassette con le registrazioni delle voci di quegli anni. La sua mente ora già lavorava solerte. Non era del tutto insensibile al fluire che continuava. La separazione dall’elemento acquoso e torbido in cui fino a pochi attimi prima era stato immerso non lo allarmava.

    Samizdat, invece, s’era ritrovato sotto l’ombra scura di un arco che immetteva in un salone illuminato dal neon dove in tanti continuavano a parlare e ad agitarsi. Come prima nel fiume. Ma senza più nuotarvi. Ora erano solo discorsi, grida, urla. Era un convegno nel quale lo storico si preparava anche lui a parlare. Samizdat temeva quel convegno. Appena ascoltava al microfono alcune voci e le riconosceva – erano di quelli che avevano nuotato con lui nel fiume e che ora rievocavano ricordi di allora – diventava di cattivo umore ed aveva solo un desiderio: ritirarsi in un cerchio di solitudine e di silenzio.

  17. STORIA ADESSO/APPUNTO 3

    «Cosa significa storia adesso per chi non ha rinunciato a una critica anticapitalistica radicale ed è al tempo stesso critico radicale dei modelli alternativi novecenteschi e che non coltiva dunque alcuna speranza in ciò che residua delle nomenclature esistenti che si rifanno a tutte le correnti ortodosse ed eterodosse del marxismo novecentesco?» (Romanò)

    Per approssimazioni. Io penso possa significare:

    1. Cercare nel passato (o in quella zona semioscura, che chiamiamo ‘storia’, cioè la somma di eventi che arriviamo in qualche modo a fissare e, in parte ancora minore, a trasmettere) “qualcosa” (un senso? un valore? la “realtà” non immediata? il “divino”?). In fondo e forse “la stessa cosa” che cerco nel presente.

    2. Accertarsi, per quanto possibile, delle continuità e discontinuità: degli eventi, delle istituzioni, dei problemi, delle interpretazioni che se ne danno (da destra o da sinistra, da questa o quella autorità). E, dunque, cogliere il salto, il mutamento imprevisto e innovativo – quando c’è (e si arrivi ad accertarlo) – rispetto alla routine, all’abituale, al normale, al regolare, al legale: aspetti della vita sempre sospettabili, perché risultati nello scorrere del tempo mai neutri, naturali, incontrovertibili, universali ma scelti e fissati dai dominatori sempre con un atto in fin dei conti arbitrario e sopportati/subìti dai dominati per conservarsi in vita.

    3. Mai sottovalutare il peso (la vischiosità) delle tradizioni, delle abitudini. Ma non occultare, manipolare, mistificare gli scatti di libertà (dei singoli o dei gruppi), le novità (da dimostrare e non solo da “sentire” soggettivamente), le rivoluzioni.

    4. Affaticarsi (perché ci vuole studio, non è mai una passeggiata) a conoscere la storia (insieme dei fatti, dei personaggi, delle situazioni) prima di tutto con il massimo di precisione o oggettività possibile e in circostanze da noi non scelte; ascoltando, dunque, tutte le campane; e sapendo, che nel tentativo di conoscenza, siamo condizionati (come singoli, come militanti, come studiosi anche specialisti) dalle nostre attese, dalle immaginazioni che ci costruiamo sull’ignoto o meno noto, dalle convinzioni maturate nel tempo; e depistati dalla incessante propaganda ideologica di partiti, fazioni, lobby che inevitabilmente ci raggiunge, seduce, paralizza, frena.

    5. Ma la fatica maggiore – una vera scommessa – sta nell’imparare a selezionare tra queste conoscenze accumulate (quasi sempre – e non per caso – disordinatamente) quelle in grado di far chiarezza nell’adesso; e cioè nel “presente”, e cioè di fronte ai problemi che ci assillano.

    6. La selezione tra le conoscenze comporta la continua verifica degli stessi occhiali (interpretativi) che siamo costretti ad usare. Comporta pure la scelta coraggiosa di saperli cambiare quand’è necessario (quando?); e il passaggio ad altri occhiali (ad altro “paradigma”), che non è questione di gusti o di moda, ma richiede un difficile mutamento di mentalità e spesso delle nostre condizioni di vita.

    7. La storia – viaggio (mentale e emotivo) nel nostro passato/presente – è comunque viaggio tra le interpretazioni che del loro passato/presente ci hanno lasciato tutti i nostri antenati; e in questo lascito, inevitabilmente confuso e contraddittorio, se non vogliamo rassegnarci ad una condizione di eruditi distaccati e disincantati o di “scemi di storia”, dobbiamo – ancora e al momento giusto (quale?) scegliere i nostri modelli di riferimento per l’adesso tra le opposte fazioni: patrizi/plebei; conservatori/moderni; liberali/socialisti-comunisti; fascisti/antifascisti; globalizzatori/sovranisti.

    8. Considerare il passato/presente finalmente e soltanto passato (obliabile, superato) solo quando lo scontro che dai nostri antenati si è trascinato sotto altre vesti nel nostro presente/passato può essere sentito e vissuto a ragione come risolto. (Ma è più probabile che si riproponga in altra forma ancora da capire nei suoi elementi di continuità/discontinuità).

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