Invito al cinema muto tedesco

di Giulio Toffoli

Tonteggiando 1

Una proposta per svagarsi con un qualche profitto

Sicuramente tutti voi avete in un momento della vostra esistenza amato il cinema. Pur con tutte le sue ambiguità la settima arte ha rappresentato un insostituibile strumento di espressione di passioni, di emozioni, di sentimenti e se si vuole persino uno strumento di acquisizione di coscienza di determinate realtà che tramite l’arte si possono intuire anche se non si ha sempre la capacità di elaborarne una interpretazione compiutamente razionale. Il primato del cinema è stato in qualche modo intaccato nel secondo dopoguerra da quando nelle nostre case si è introdotta, prima surrettiziamente poi in modo sempre più ampio, la televisione.

Ma andare al cinema era nonostante tutto un’altra cosa. Già solo entrare in quella sala buia costituiva una specie di ingresso in un altro territorio. Per un lasso di tempo più o meno lungo si lasciava la vita di tutti i giorni, la realtà quotidiana con la sua materialità, per entrare in una specie di universo di sogno. Sembrava di penetrare nel regno della fantasia, dell’immaginazione. Poteva essere una immaginazione di qualità o un prodotto di bassa cucina, della serialità industriale, ma rimaneva un viaggio in un mondo diverso e più libero.

Si entrava scostando una tenda nera, si sceglieva un posto, quello che si trovava libero e si iniziava a vedere. Se il film era avvincente si poteva perfino restare per una seconda proiezione.

Quella caverna primordiale che era il cinema ha offerto almeno fino agli anni novanta del XX secolo una specie di spazio quasi anarchico dove vivere ai margini di ogni costrizione in un proprio pur breve universo onirico.

Non so sevoi avete avuto la mia stessa sensazione. Con la fine del XX secolo l’ambigua eloquenza che aveva caratterizzato la storia del cinema nel suo primo secolo di vita è andata lentamente sfumando. Mi si potrà dire che era un processo di trasformazione che era già in atto da tempo, ma permaneva pur sempre qualche cosa di magico.

Nell’epoca del network e della virtualità, delle multisale e di una sempre più spinta trasformazione del prodotto filmico in una serialità ad altissima volatilità è come se si fosse definitivamente perduta quel poco d’aura che ancora sopravviveva in un mondo come quello del cinema che pur sapevamo essere dominato da una spietata logica commerciale.

Oggi se si vuole vedere un film, sperando che venga distribuito, dopo che ne viene annunciata l’uscita, bisogna rincorrerlo nelle sale ben sapendo che il suo periodo di sopravvivenza nei cinema è incredibilmente breve. In genere qualche giorno, nei casi di maggior successo una o due settimane poi scompare dal mercato. Diventa subito obsoleto.

Ma vi è qualche cosa di più su cui val la pena di fermare la nostra attenzione. Il cinema sin dalla sua nascita è stato terreno di sperimentazioni; il confine fra la semplice riproduzione della realtà e sperimentazione di nuovi linguaggi è sempre stato labile e proprio questa fragilità è stata uno degli elementi di forza della cinematografia. Oggi però un incontrastato dominio della tecnologia, l’invenzione di sempre nuove frontiere nella qualità dell’immagine mi sembra abbiano portato non solo a una esasperazione nel processo di sfruttamento globale dei nostri sensi ma anche a una perdita della qualità del prodotto filmico. Si potrebbe dire che la troppa qualità tecnica ha avuto come esito una caduta nella qualità culturale.

La domanda che mi pare ci si debba porre è: qual è oggi la differenza fra un prodotto che possiamo vedere in una sala cinematografica e uno che ci viene fornito con incalzante rapidità dalla televisione e dai network dell’intrattenimento come, tanto per fare un esempio, Netflix.

La risposta mi sembra possa essere: non c’è una differenza significativa.

Non so voi ma alla fine ho iniziato a provare un crescente disagio di fronte alla produzione seriale dei materiali realizzati dalla Marvel, con l’infinita ed esasperante duplicazione del mito del superomismo in tutte le possibili salse, maschile, femminile, variamente etnico, gay e dio sa cosa d’altro. Non riesco più a sopportare la riproduzione infinita dei soliti stereotipi dei “buoni” che grazie ai loro superpoteri sono pronti a salvare il mondo, in genere poi con una divisa a stelle e strisce. Individui che del culturismo fanno lo strumento per proporre un modello di essere umano del tutto fasullo dove a un piccolo cervellino corrispondono spalle erculee, bicipiti capaci di resistere a ogni tipo di proiettili e a distruggere tutti e tutto, un petto che sembra uno scudo di tartaruga.

Su un versante diverso, ma sulla stessa lunghezza d’onda, non riesco più ad apprezzare i cartoni animati, tutti pervasi dai buoni sentimenti, tutti etnicamente articolati, tutti politically correct, in modo da poter inondare ogni mercato, tutti destinati a concludersi con il più zuccheroso happy end.

Ogni tanto mi vien da dire: “Ridateci Willy il coyote e Bip Bip …”.

E poi che dire dei serial che hanno come soggetto il mondo giovanile…

Mentre ripenso alla prima volta che ho visto i nanetti di Biancaneve mi vien da dire:

“Odio la Disney”.

Sia chiaro qualcuno potrebbe dirmi che c’è anche altro, film e prodotti della più varie cinematografie, film etnici, qualche film diverso… perfino qualche vecchio regista che crede ancora in una cinematografia che abbia qualche cosa da dire a chi la guarda.

Non lo nego, ma ora che sono arrivato a detestare i serial televisivi, a rifuggire le multisala dove bisogna entrare con il cappotto per sopravvivere al condizionatore e con le cuffie per salvarsi dal suono del super-dolby-surround e dal ruminare del vicino che mangia confezioni giganti di pop-corn, mi sono chiesto:

“Perché non fare un tuffo nel passato? Perché non rivedere i capolavori del cinema muto?”

Allora ho preso un DVD e ho fatto un semplice esperimento che ognuno di noi può fare senza difficoltà. Ho, dicevo, preso un DVD ed ho iniziato a vederlo eliminando il sonoro. Se proprio si volesse essere preziosi si potrebbe prendere un pezzo di musica, classica o jazz a scelta, da usare come generico sfondo. L’esperienza è stata davvero interessante. Alla fine ne ho ricavato la convinzione che la maggior parte dei nostri attori senza il supporto del vocale non sanno proprio recitare. I volti sono maschere quasi sempre uguali, l’unica cosa che si nota è un frenetico susseguirsi di scene, dove al posto della espressività c’è solo una dinamys esasperata.

Sia chiaro, mi si potrebbe rispondere:

“Che film hai scelto, un prodotto di quart’ordine? Allora l’esito era già iscritto nelle premesse…”.

“No – posso ribattere – ho fatto più esperimenti e debbo riconoscere che se esistono differenze di qualità fra attore e attore, fra recitazione e recitazione, la sensazione di fondo rimane sempre la stessa. E’ la parola, è il suono che guidano l’interpretazione e non l’opposto”.

Ecco perché propongo di immergersi in un altro tempo, un tempo ormai davvero perduto, fruendo di possibilità che sono fra le nostre mani per percorrere un itinerario che potremmo chiamare:

L’inesausta eloquenza del muto”.

Ovviamente affrontare la visione di pellicole realizzate prima del 1929 comporta un momento di preparazione psicologica. Si tratta certamente di prodotti segnati dal tempo ed in questo senso è davvero come immergersi in un altro mondo, ma superato un primo momento di possibile sconcerto, i nostri sensi infatti non sono più abituati a vedere immagini di quel tipo e non sentire in parallelo un copione recitato, si ha la possibilità di penetrare in una specie di spazio di libertà.

I testi sono ridotti a poche didascalie. E’ lo spettatore che può liberamente intuire quel che l’attore sta “dicendo” con la sua gestualità. Il primato è assegnato all’immagine, alla inquadratura, alla costruzione della scena in cui si muove l’attore. Ed è il gesto la chiave per guidarci nel labirinto dei possibili percorsi che seguiamo come se avessimo fra le mani una specie di filo di Arianna. Insomma si viene creando, quando si guarda un film muto, una specie di relazione fra l’immagine, la realtà di cui l’immagine è rappresentazione e la fantasia dello spettatore. Il film si presenta davvero come un originale esercizio artistico dove si fondono, in un indistricabile viluppo, arte, intrattenimento, manipolazione ma anche, insieme, una potenziale capacità di svelamento.

In questo contesto l’assenza del linguaggio, le poche didascalie, favoriscono la libera operatività della fantasia che viene stimolata dalla interpretazione degli attori.

Certo si tratta di un percorso di straniamento che è favorito anche dal fatto che quello che è rappresentato è un altro mondo da cui ci siamo definitivamente congedati e che è consegnato alla storia.

E’ in questo terreno “ai confini della realtà” che vi propongo di entrare.

Come è universalmente noto la cinematografia nasce in Francia ad opera dei fratelli Auguste e Louis Lumière e la sua data di nascita ufficiale è il 1895. In pochissimo tempo l’invenzione dei Lumière si trasforma però in un’industria che produce materiale di intrattenimento in grande quantità e che ottiene un incredibile successo di pubblico. Nascono vere e proprie imprese che producono per un mercato in continua espansione; in Francia, in Italia e negli USA, vengono realizzati film sempre più complessi fino ad arrivare rapidamente a dei veri e propri colossal.

Poi c’è stata in qualche modo la pausa della guerra.

Dopo la conclusione del conflitto l’espansione dell’industria cinematografica riprende con più forza che mai. Il pubblico è letteralmente affamato di intrattenimento e la cinematografia offre, per cifre irrisorie, la risposta a questo bisogno che è anche un bisogno di evasione dopo la lunga tragedia del conflitto.

Fra le cinematografie che si sviluppano in quegli anni una fra le più vitali è la cinematografia tedesca ed è su di essa che vi propongo di fermare la nostra attenzione. La cinematografia tedesca d’anteguerra era molto limitata. Durante il primo periodo bellico è proprio lo stato maggiore tedesco che, mentre mette sotto controllo le poche imprese del settore, favorisce la loro crescita. Sicché alla fine del conflitto, pur in un paese dilaniato da violenti contrasti politici e sociali e con un’economia disastrata, la cinematografia esplode con una ricca e differenziata produzione che cresce di anno in anno durante tutta la fase della Repubblica di Weimar.

Il destino della Germania fra il 1919 e il 1933 ha segnato la storia del mondo e anche la sua cinematografia ha in qualche modo dettato legge ottenendo un incredibile diffusione in tutti i continenti e un amplissimo successo di pubblico grazie alla qualità dei suoi prodotti e alla eccellenza di alcuni suoi registi.

Proprio a causa di questo successo è stata anche tema di indagini e studi critici fra essi almeno uno è universalmente noto per la sua qualità, quello realizzato da Siegfried Kracauer, che già nel titolo ben evidenzia la tesi dell’autore: Da Caligari a Hitler*.

Oggi abbiamo la possibilità di entrare nel mondo della cinematografia tedesca del primo dopoguerra grazie al fatto che almeno una parte di questi film è stata negli ultimi anni debitamente restaurata. Riversata su DVD e diventata anche accessibile in rete.

La proposta che vi sottopongo è di guardare “insieme a me” il film, per poi leggere la sintetica scheda che proporrò auspicando che possa diventare uno stimolo per discuterne insieme.

La meta ideale è di verificare con voi se davvero Kracauer aveva ragione o se la sua era una interpretazione molto forzata e che in qualche misura addebitava alla cinematografia responsabilità che non erano sue.

La cinematografia tedesca degli anni venti ha prodotto migliaia di film e come qualsiasi realtà industriale di diversissime qualità. Moltissimi, probabilmente la maggior parte, sono letteralmente andati perduti, la fragilità del supporto, l’incuria, il disinteresse di chi li aveva prodotti e dopo aver ricavato il profitto sperato non vedeva il motivo di conservarli, l’affermazione del sonoro dopo il 1929 hanno causato la loro distruzione.

Noi poi non abbiamo la possibilità di vedere l’intera gamma di film che Kracauer aveva visto. Ne analizzeremo perciò alcuni che sono universalmente riconosciuti come i più significativi ma che, proprio per questo motivo, non rappresentano la media dei prodotti cinematografici dell’epoca che spesso erano di qualità molto più bassa.

In più il percorso che vi propongo non segue una rigorosa traiettoria cronologica per cui a voi è poi demandato lo sforzo di ricostruire il senso complessivo del discorso che si è andato costruendo.

Ora concentriamoci.

Il primo film di cui vi suggerisco la visione per iniziare il nostro percorso è:

Il diario di una donna perduta di G. W. Pabst.

100 minuti di grande cinema.

Come si diceva una volta:

“Buona visione”.

Gli altri film di cui vi proponiamo la visione:

Lulu. Il vaso di Pandora (1928) di G.W. Pabst. La scheda verrà pubblicata il 16 settembre

L’ultima risata (1924) di F. W. Murnau. La scheda verrà pubblicata il 30 settembre

Il dottor Caligari (1920) di Robert Weine. La scheda verrà pubblicata il 14 ottobre

Nosferatu il vampiro (1922) di F. W. Murnau. La scheda verrà pubblicata il 4 novembre

Il Golem (1920) di Carl Boese e Paul Wegener. La scheda verrà pubblicata il 18 novembre

Il viaggio di mamma Krause verso la felicità (1929) di Phil Jutzi. La scheda verrà pubblicata il 2 dicembre

La via senza gioia (1925) di G. W. Pabst. La scheda verrà pubblicata il 16 dicembre

Lo studente di Praga (1913) di Stellan Rye – Paul Wegener. La scheda verrà pubblicata il 7 gennaio 2020

La rotaia (1921) di Lupu Pick. La scheda verrà pubblicata il 20 gennaio 2020

Destino (1921) di Friz Lang. La scheda verrà pubblicata il 2 febbraio 2020

*S. Kracauer, Cinema tedesco, Mondadori, 1977. La prima edizione 1954 portava il titolo originale di Da Caligari a Hitler.

6 pensieri su “Invito al cinema muto tedesco

  1. Cinematografo

    Cinematografo. Tre panche.
    Febbre sentimentale.
    Un’aristocratica e ricca
    nelle reti di una ribalda rivale.

    Non si può trattenere il volo dell’amore:
    ella di nulla è colpevole!
    Con abnegazione, come un fratello,
    amava il luogotenente della flotta.

    Ed egli oggi vaga nel deserto –
    figlio adulterino del brizzolato conte.
    Così comincia il dozzinale
    romanzo della leggiadra contessa.

    E con frenesia, come gitana,
    ella contorce le mani.
    Commiato. Furiosi suoni
    di un tartassato pianoforte.

    Nel petto fiducioso e debole
    c’è ancora abbastanza coraggio
    per sottrarre importanti carte
    per lo stato maggiore del nemico.

    E per il viale di castagni
    un mostruoso motore si precipita,
    stride il nastro, il cuore palpita
    più febbrile e più allegro.

    In abito e sacco di viaggio,
    nell’automobile e nel vagone,
    ella teme soltanto l’inseguimento,
    estenuata da un secco miraggio.

    Ma quale amara sciocchezza:
    il fine non giustifica i mezzi!
    A lui – il retaggio paterno
    e a lei – la fortezza a vita.

    1913

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    (commento di A. M. Ripellino – Corso su Osip Mandel’štam del 1974-75 – Trad. della poesia è A. M. R. — le due note sono di Antonio Sagredo)
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    ù>>>> È una parodia dei soggetti dei film svenevoli dell’epoca 1912-13, dell’inizio del secolo che erano ugualmente smancerosi e banali in tutte le cinematografie del mondo e notevolmente in quella russa, che in parte si specchiava su quella italiana. Ci riferiamo in un’epoca in cui la stessa parola cinematografo era contestata, si diceva bioscop, biograf, illusione. Questa poesia secondo una critica di Gumilëv rispecchia:” il romanticismo dozzinale dei soggetti cinematografici dell’epoca”. Basta elencare qualche titolo a caso per farsi un’immagine del cinema di allora e di come Mandel’štam lo rifletta precisamente. Per esempio: Una storia fra tante, 1912: una povera sartina diventa cocotte; Il calice della vita e della morte, 1912 : una ragazza di famiglia intellettuale perisce sedotta da un conte. Sui lastroni di pietra, 1913 : una povera modista vittima della città. Seguono: E tutto è stato pianto, deriso ed infranto; Il marchio delle passate passioni, 1913; La vita com’è, 1913; La passione dilettosa; Da tempo sono fioriti i crisantemi in giardino, 1916; Eppure la felicità era così possibile; Concedimi questa notte .
    Il cinema di allora ha suscitato diverse poesie; i diari di Blok sono continuamente segnati da questa parola cinematografo, egli dice:
    Il cinematografo è oblio, l’arte è ammonimento.

    Andreev dice nelle Lettere sul teatro:

    Meraviglioso cinema! Sa l’alta e suprema e santa finalità dell’arte che è di creare una comunione tra gli uomini e le loro anime solitarie, quale enorme infinito social-psicologico compito è dato da realizzare a questo artistico apache del nostro tempo. Che cosa sono accanto al cinema: la navigazione aerea, il telegrafo, il telefono, la stessa stampa, questo piccolo strumento portatile, che si può mettere in una scatolina, si può mandare per tutto il mondo con la posta, ed è meglio della comune gazzetta .

    Qui Mandel’štam gioca sul dramma salottiero del cinema di allora, dove ricorrevano continuamente baroni, baronesse, conti che avevano poi straordinarie, terribili notti, sempre nelle alte sfere, palazzine aristocratiche, ricchi saloni borghesi, studi di scultori cattivi, mobili sfarzosi, fiori esotici; e costoro si innamoravano, coltivavano amanti, uccidevano rivali; gli attori recitavano con gli sguardi fissi nel vuoto, con lunghe pause, proprio mostrando se stessi. Tutto accadeva nelle alte sfere perché questo attraeva un’umanità desiderosa di migliorare il proprio stato.

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    nota 196 –

    “La diva maggiore del cinema muto russo Vera Cholòdnaja, morta di spagnola a 26 anni, a Odessa il 16 febbraio 1919, fu la protagonista principale di decine e decine di film (si dice, una settantina) con titoli similari a quelli su citati, che già dicevano tutto di una trama… lacrimevole, languida, sentimentale e passionale fino all’eccesso, fatale, svenevole… Subì il fascino di due grandi attrici: la Komissarževskaja e Asta Nielsen. Tanto fu lo straordinario successo che ebbe questa diva del muto da non saper, essa stessa, distinguere più la sua realtà cinematograficamente muta dalla realtà della vita che la circondava (sdoppiamento e identità erano in fatale conflitto e la dominavano). Così Ripellino in “Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia”, (cap. V , Storia di una cimice. ) , op. cit. p. 175 : “È chiaro che, nel dipingere le figure della commedia, Majakovskij ebbe in mente certe vedette del cinema muto, come Vera Cholòdnaja”. Nei primi anni’70 del secolo scorso (XX°!): con la sceneggiatura di Andrei Končalovskij, il regista e pittore russo Rustam Chamdamov, non finì di girare il film Le gioie casuali (o: Verità fortuite), poiché pare non rispettò affatto la sceneggiatura e perciò fu estromesso e diffidato dal continuarlo; ma sulla traccia di questo film un altro regista russo Nikita Michailkov (fratello minore dello sceneggiatore), girò nel 1975 il film Schiava d’amore; questo film tratta della dis/avventura di una troupe cinematografica che si trovava in Crimea, dove era in corsa una spietata lotta fra bianchi e rossi, per realizzare un film che avrebbe avuto quel titolo; ed è in questo evento bellicoso che si innesta la vita sentimentale, privata ed artistica, della prima attrice-eroina di questo film, che allude alla vita di Vera Cholodnaja. Per quanto riguarda il problema dei due registi russi, questo mi fu riferito in primavera (2011) a Roma da un regista cinematografico italiano “irregolare” molto noto (che a Mosca incontrò il secondo dei due, ma ebbe l’informazione da una terza persona). Egli non ha voluto che io, qui, facessi il suo nome! ////// [Riporto una annotazione (p. 9 del testo in cirillico delle poesie) della slavista Claudia Scandura dal Corso su Mandel’štam: “Romanticismo dozzinale… (ЛУБОЧНЫЙ РОМАНТИЗМ)…. ЛУБОK era la corteccia di betulla su cui i contadini nel ‘600 e ‘700 dipingevano le immagini delle feste e che vendevano in ceste di tiglio. E che l’inizio del cinema è legato al baraccone e alla fiera”]. La corteccia di betulla già gli antichi slavi usavano per dipingere o per iscrizioni; mentre le ceste possono essere sia di tiglio che di betulla; l’uso di questa corteccia è usuale anche nell’800. ////// Motore sta anche per automobile (sesta strofa); e sciocchezza sta per assurdità (ottava strofa). Recentemente sull’attrice in: “eSamizdat 2005(III) 2-3 pp. 133-149, “Divismo e morte nel cinema russo degli anni Dieci-I funerali di Vera Cholodnaja- di Andrea Lena Corritore.”

    nota 197

    Leonid Andreev, Lettere sul teatro,… ////// G. Adamovič . citazione p. 78…..

  2. Ma perché Giulio Toffoli non commenta?
    Posso affermare che tutto ciò che ha scritto (o quasi) lo si trova già nelle analisi dei formalisti russi di Pietroburgo e di Mosca, nonché degli strutturalisti russi; in primis Sklovskij, e nelle analisi di Ejzenstejn, di Dziga Vertov e di altri cineasti e registi, che analizzavano sul capo vivo delle sperimentazioni cinetiche-visive gli sviluppi della nuova arte: p.e. lo sviluppo del “montaggio” e dei “primi pianti” ecc.
    Riguardo le tematiche del cinema muto europeo erano eguali se non simili poiché i tecnici e artisti del cinema muto si passavano costantemente informazioni; libri su questi temi ve ne sono a centinaia e quasi tutti tradotti in italiano.

  3. un bel refuso :”primi pianti” (la muta arte era lacrimevole e svenevole, come la letteratura che si produceva allora) con “primi piani”.
    Aggiungo che la caratteristica sostanziale del cinema muto erano i gesti conclamati e il camminare a scatti degli attori: non c’era alcuna sospensione, nemmeno nei sentimenti che tentavano di esprimere, e li esprimevano tanto bene mentre si girava come anche nella vita che li raggirava…
    il trucco degli attori sovrastava quello delle “dive” per un solo motivo: gli attori erano più vanitosi e vanesi. Ricordate p.e. Rodolfo Valentino. Ma nel cinema muto tedesco erano le scenografie che si truccavano di più con squarci angolari suggestivi.
    ecc.

  4. Gentile Sagredo

    Mi scuserà, ma sono naturalmente lento.
    Ho letto con interesse le sue affermazioni che evidentemente non si possono che in gran parte condividere. Il cinema è stato fin dalla sua nascita un’industria e le regole dell’industria ne hanno segnato il destino, anche perché nella sua dinamicità ha sempre superato gli stretti confini nazionali.
    Forse posso solo farle notare che credo vi sia indubbiamente una articolazione nella storia del cinema che divide nettamente la fase inziale, diciamo fino al 1913/18, dalla successiva fase che va dal dopoguerra al 1929, e poi le pagine successive segnate da una continua evoluzione artistica e tecnologica.
    Ora non credo di aver compreso il senso profondo delle sue osservazioni e non vorrei sbagliarmi. Se non erro lei mi dice che anche per il cinema muto vale in gran parte il discorso del cinema odierno: divismo, uso delle tecniche più avanzate, manipolazione ecc. Non posso che essere d’accordo.
    Ciò nonostante continuo a credere che proprio la sua “arcaicità” consenta a chi abbia la voglia di vedere questi film di non cadere in tutte le trappole del cinema d’oggi, pura manipolazione in forma parossistica.
    Leggendo le mie righe certo avrà notato che quello che proponevo non era un itinerario accademico, ma una rivisitazione con l’occhio libero da pregiudizi e basato sul buon senso di quella esperienza definitivamente consegnata alla storia.
    Nelle mie intenzioni, una volta ogni quindici giorni, invitavo gli amici di buona volontà a passare al B/N e ritornare indietro di circa un secolo, invece che passare due ore con gli occhi fissi di fronte al televisore presi a guardare talkshow, serial e ogni altra diavoleria del genere.
    Fra troppi sapienti ogni tanto Tonteggiare un po’ non è peccato.

    Fra l’altro lei mi offre l’occasione di aggiungere una specie di addenda che era caduta nella versione presente su Poliscritture:

    In caso di difficoltà di reperimento dei film indicati nella scaletta potete scrivere a: g.toffoli@libero.it

    Infine lei potrebbe chiedermi: perché la scelta del cinema tedesco?
    Perché assieme a quella sovietica è sicuramente la più interessante esperienza cinematografica di quel decennio. Ma quella sovietica è una esperienza che faccio sempre più fatica a leggere, diviso come sono fra giovanili entusiasmi e successivo disincanto. Le potrei rispondere come Fantozzi che del cinema russo ne ho davvero “piena la testa” e soprattutto non mi convince quello che giudico un uso ideologico che è stato realizzato per troppo tempo di quella esperienza. Il cinema sovietico, credo si possa finalmente dirlo, ha vissuto una breve primavera e poi ha seguito la parabola del regime che ha governato quel grande paese. Forse si dovrebbe riprendere a vedere quei film partendo da questo punto di vista… Anzi, potrebbe essere una sfida che se le piacesse potremmo cercare di affrontare assieme mettendo a confronto due diversi punti di vista.
    Sperando di averla fra i partecipi di questo breve itinerario de “L’inesauribile eloquenza del muto” le invio un cortese saluto
    Giulio

  5. …ringrazio Giulio Toffoli per l’invito alla visione del film: “il diario di una donna perduta” di G. W. Pabst. Molto bella davvero la storia narrata…da dire poi, come novant’anni fa, oggi nei riformatori giovanili tutto si ripete

    1. Carissima ai primi di settembre pubblicheremo anche la scheda con critiche ecc. per poterne discutere più a fondo. In ogni caso grazie per il gesto di fiducia…
      Ammettilo… la Brooks è davvero grande

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