Oh pezzo di me che fosti

Tabea Nineo, Bassorilievo in creta 36×35 cm, 1980 circa

di Ennio Abate

 Oh, pezzo di me che fosti
 solo tra gli impiegati e gli sbandati
 quando poesia era un ricamo privato
 e la storia eco o rombo lontano di mare
 e  respirasti in camere di pensione 
 addossato a muri e gente sconosciuta. 
 La città intorno che saliva (con Boccioni!)   
 ora scendeva, si sgonfiava
 ma come ventre di Madre Balena
 ancora l’esploravo matto
 Pinocchietto pronto a innamorarsi
 e la scrivevo la disegnavo la graffiavo.

 Tutto sarebbe stato presto cancellato
 tutto sarebbe stato ripreso e sostituito  
 in altre figure in altro cuore.
 
 Sempre di donna, la donna
 e poi di lavoro,  un lavoro
 e di figli, politica, arte
 e di un invitto languore.
  
 Per l’amputazione necessaria che ho sposato 
 mai più ti ripescherò da solo a sola, Ann.
 Né mi travestirò da tuo incognito tutore.  
   
 Nella stessa città che muta ancora
 ma senza cercarti
 senza più rivederti.
 No, non Beatrice né salvatrice
 viva in altra aria e strade e sorrisi.
   
 Non ebbi le parole per dirti
 per afferrarti, sedurti.
  
 La luce era tutta violenta.
  
 (1962/2012)
 
 
 
 
   
 *da Riordinadiario
 

8 pensieri su “Oh pezzo di me che fosti

    1. Poesia romantica: un passato, che si sposta nel tempo e fra i luoghi, e si ancora, tematicamente, a un medaglione irrealizzato, Ann, di fronte a cui assumere solo un impossibile ruolo tutore.
      I termini significativi della poesia sono racchiusi tra il rassegnato “invitto languore” (preparato, perciò a mezzo il testo) e il rassegnato sconcerto di “La luce era tuttavia violenta”. (Perché, ora invece è morbida e diffusa?)

      1. @ Fischer

        Tranne l’accettabile definizione di “romantica” (che però avrebbe bisogno di essere precisata), la tua interpretazione di questa poesia mi pare distorta. E del tutto errata almeno in una affermazione: il preciso rifiuto di fungere da tutore della donna amata ( “Né mi travestirò da tuo incognito tutore”) vien scambiato addirittura per volontà di “assumere solo un impossibile ruolo di tutore” nei suoi confronti.
        C’è, invece, il riconoscimento pieno, fuori da ogni idealizzazione, della libertà femminile: “No, non Beatrice né salvatrice / viva [sei] in altra aria e strade e sorrisi.”
        Né viene colta l’accettazione piena del mutamento (esistenziale e storico) espressa qui:

        Tutto sarebbe stato presto cancellato
        tutto sarebbe stato ripreso e sostituito
        in altre figure in altro cuore.

        Infine, perché “l’invitto languore”, che accompagna, come pedale di fondo (soggettivo), il mutamento, dovrebbe essere qualificato come “rassegnato”? E neppure si può cogliere rassegnazione o sconcerto nella constatazione puntuale e circoscritta: “La luce era tuttavia violenta”. (Si parla di quel passato e si accenna a *quella* luce, senza alcun riferimento o paragone con quella attuale, che non è necessario).

        Sfugge soprattutto l’oggetto fondamentale della poesia: la ricerca (astratta, se si vuole, e perciò romantica) del giovane immigrato (o in fuga), che in quel ’62 (29 ottobre) scriveva in una lettera a un amico:

        “sono venuto a Mi per le stesse ragioni che altre volte mi hanno spinto ad andare all’Università o da una ragazza o alla scuola di ceramica: fare qualcosa di provvisorio, di diverso da quello che facevo prima perché ne ero stanco, perché non sapevo aspettare, perché non ci provavo piacere. Se me la sono preso con la gente, con i miei di casa, con i miei amici è stato perché essi ed io – per ragioni di educazione, di abitudine, d’inesperienza – non sapevamo uscire da questo stato di cose per me insopportabile: ho tentato con i miei discorsi, con le mie fesserie, con le mie allegrie sgangherate ( e lo sapevo) di fare una sola cosa: ottenere dagli altri che si muovessero e, poiché non mi è riuscito, avere da loro almeno quel tanto di simpatia che mi era necessario per tentare da solo: dove sarei andato a capitare non lo sapevo. Certo, da solo è come ricominciare tutto daccapo: io ho ricominciato e adesso sto come prima: non ho ottenuto molto ai vostri occhi, neppure ai miei: ma un po’ di solitudine più vera e meno ritrosa l’ho raggiunta”.

  1. Virile testimonianza di un disagio esistenziale patito, in un’ottica diacronica. Il lessico piano ma vibrante, la sintassi comunicativa veicolano un sincero messaggio. Concordo con l’interpretazione attenta e puntuale di Fischer, specialmente sul fatto che non ci troviamo di fronte a uno spirito romantico. Mi sarebbe piaciuto, ma si tratta solo di un mio personale desiderio, leggere almeno una parola di speranza a conclusione, anche per evitare il pericolo di piangersi addosso, considerato che tutti viviamo nella gioia e nel dolore. Rimarco, tuttavia, che in questo testo trovo accenti di verità e di poesia.

  2. Che bello, una difesa tematica della propria poesia (che io non ebbi pubblicando le mie con alias in certe circostanze…) Ma sono d’accordo, il tema è essenziale nelle presenti ardite circostanze. A più tardi, distesamente.

  3. La definizione di romantica per la poesia si riferisce al soggetto individuale che vi campisce, alle sue peculiarità personali, agli eventi biografici stessi. Il soggetto individuale mercantile illuminista diventa -romanticamente- palcoscenico per un teatro personale. Conflittuale, non necessariamente tragico, nella dismisura di un indefinito appetire e la non consistenza del raggiunto.
    Il mutamento siglato da “tutto sarebbe stato presto…” avviene comunque prima del riferimento ad Ann. Ho chiamato quindi medaglione il richiamo ad Ann, in quanto sostanzialmente riferisce al soggetto della poesia ancora una pennellata di ritiro e rinuncia. A parte le spiegazioni biograficamente motivate, i tre passaggi: “necessaria amputazione”, “mai più ti ripescherò” e il di seguito “né mi travestirò da tuo incognito tutore”, fanno supporre un “mai più” anche fra “né” e “mi travestirò”, e quindi un precedente essersi già travestito da tutore incognito. La figura a questo punto diventa generica, “viva in altra aria e strade e sorrisi”, è cioè “altra”.
    La luce violenta, in contrapposizione all’invitto languore (langue la luce), illumina un passato puntuale, fissato e concluso, come in un film neorealista il bianco e il nero a linee nette.

  4. …una poesia carica di commozione, uno sguardo retroattivo, a tratti nostalgico, sofferente, ma sostanzialmente di simpatia sul proprio percorso di vita. Molti i compagni di viaggio, le incomprensioni reciproche, le amputazioni, le storie che non si sono potute sviluppare, Ann, ma comunque tutti, credo zoppicanti, hanno potuto riprendere il loro cammino e, forse la cosa più importante, accettarsi nei propri limiti umani invalicabili…Grazie

  5. SEGNALAZIONE

    Frammenti sull’amore di María Zambrano

    Stralcio:

    viene in chiaro che l’amore apre (al)la conoscenza, come ben avevano capito i greci (p. 18). Se è questo autentico agente di libertà, esso scalza l’uomo e lo mette in movimento («perché essere uomo è essere fisso» ‹p. 22›): «L’amore trascende sempre […] apre il futuro» e alla speranza; e apre all’altro, fa posto all’altro (cfr. anche M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996, p. 94), fino al sacrificio di sé («è un vero apprendistato per la morte» ‹p. 21›). Certo, anche per restarne deluso, perché amore conosce la delusione e non si acquieta, non si dà pace, sopprime ogni compimento. Agente di libertà e «agente di distruzione» (p. 19). Con ciò scopre e fa conoscere i limiti. E tutto ciò è assolutamente necessario perché l’amore possa agire «come conoscenza»

    (da https://lorenzoleone.blogspot.com/2018/01/frammenti-sullamore-di-maria-zambrano.html?fbclid=IwAR3dMmCEphqW3ovXlsRXpPAvkm5KH-B70VX2KyZ96lvERktqLfdBmB6Xuqg)

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