Lettura di «Ombre e vicende» di Eugenio Grandinetti

di Donato Salzarulo

                           Se incontro l’ombra che attrista il tuo viso, 
                            con questa torcia l’accerchio e confondo. 

Oltre che al poeta, desidero fare un omaggio al Grandinetti professore. Per l’occasione desidero ripetere ciò che lui ha fatto innumerevoli volte. Prendere una poesia e spiegarla, parafrasarla, commentarla. In questo caso sceglierne una sua fra le 3.500/4.000 (fonte Luciano Aguzzi) scritte in quaranta anni, mi è difficile. Anche perché onestamente non le conosco tutte. Sceglierò allora quella che Abate (un altro suo attento lettore) ha pubblicato sul sito di POLISCRITTURE nel giorno della sua scomparsa. Immagino che Abate l’abbia scelta perché abbia sentito in quei versi qualcosa di definitivo. Forse l’immagine di un ritratto. Forse l’immagine di parole, pensieri e sentimenti che riescono a comunicare, una volta per sempre, un’identità. La poesia ha per titolo “OMBRE E VICENDE” ed è tratta dalla raccolta “DISAMORARSI D’ESSERE”.

OMBRE E VICENDE

 1 L’albero intristisce, l’erba secca,
 2 e il giorno che s’inarca spinge in basso
 3 nuvole lasse come fumo ed umide
 4 come torba spugnosa di palude.
 5 Quale giorno vorrò se tu non sei
 6 e la luce del sole altro non mostra
 7 che ombre di fronda che incessante stampa
 8 sulla parete vuota della vita
 9 il vento dei desideri e che ogni nuvola
 10 che si frappone al sole poi cancella?
 11 Passano per solitudini incertezze
 12 di cose caduche. Tornano  
 13 come foglie sugli alberi, come erbe,
 14 come nuvole, a farsi ed a disfarsi
 15 speranze e desideri che non durino
 16 ed attese che il tempo poi deluda.
 17 E sempre torna
 18 il sole per tramonti a farsi esangue,
 19 a spegnersi,
 20 nel punto dell’arco ove s’arresta
 21 la vita, ed ultimo barlume ancora resta
 22 una speranza forse, che si smemori  
 23 dalla fatica della vita il giorno,
 24 che duri senza limiti una notte
 25 dove alberi ed erbe e cielo e cuore
 26 non abbiano più ombre e più vicende. 

I primi quattro versi sono descrittivi; il poeta come un pittore disegna un quadro in cui sono rappresentati questi elementi: l’albero (della vita) che diventa triste, i fili d’erba (così simili alle fragilità dei nostri Io) sono rinsecchiti; la luce del giorno si flette e spinge in basso delle nuvole “lasse” somiglianti al fumo. Detto di nuvole, “lasse” è un aggettivo piuttosto insolito e particolare. Comunemente le nuvole le diciamo bianche, grigie, leggere, nere, minacciose, sparse, a pecorelle…ma “lasse”? Che significato ha…? A cosa dobbiamo pensare?…Sono nuvole allentate, poco dense? O sono nuvole stanche, misere?. (“Ahi, me lasso”!…) O sono forse nuvole che si dispongono in strofe poetiche? (le famose “lasse” della poesia epica medievale).

In altre poesie Grandinetti paragona le nuvole a parole. Del resto, nei fumetti le parole non sono disegnate dentro nuvolette?…Anche il paragonarle al fumo può spingere la nostra interpretazione in questa direzione. Quante volte diciamo che certi discorsi sono fumosi?…

Oltre che “lasse”, le nuvole di questa poesia sono «umide / come torba spugnosa di palude». La torba è un combustibile fossile che si estrae dal fondo di laghi e di paludi. Soffice e facilmente comprimibile, generalmente viene essiccata all’aria e utilizzata nella coltivazione dei giardini, per riscaldare, cucinare, ecc.

Nel nostro linguaggio metaforico quotidiano finire in una palude non è condizione augurabile. Ciò non toglie che la palude sia ambiente naturale tutt’altro che privo di vita. E la torba di palude, come dicevo prima, è abbastanza utile e ricercata.

A questo punto, è arbitrario pensare a questi quattro versi come elementi di “micropoetica”?… Di fronte all’inevitabile intristirsi dell’albero (della vita) e al rinsecchimento dei fili d’erba (fragili dell’Io), il giorno (personificato nel suo atto poetico) compie il suo movimento e, flettendosi come un arco, spinge in basso delle nuvole di parole poetiche (“lasse”) simili al fumo (risultato, comunque, di qualcosa che brucia) oppure umide come “torba spugnosa”, un combustibile povero, ma antico, frutto di sedimenti di resti vegetali e materiali organici (insetti, ecc.) che non riescono a decomporsi totalmente. La poesia come nuvole di fumo e torba…La poesia come povero combustibile fossile e risultato di fuochi e incendi più o meno domestici.

La sintassi di questi quattro versi è prevalentemente parattattica. La metrica è abbastanza regolare: il primo verso è un decasillabo, gli altri tre sono endecasillabi, col terzo sdrucciolo. Il tessuto musicale (quasi rime, allitterazioni, ecc.) è ottimo.

I versi 5-10 si concludono con un punto interrogativo. Sono portatori di una domanda (“quale giorno vorrò”) subito soffocata da una serie di segnali-condizioni negative:

A) “se tu non sei”. Questo “tu” non è probabilmente un tu veramente altro. E il Tu del monologo interiore, il Tu della scissione. Il Tu che non c’è, ci potrebbe essere. Ma se non c’è, destabilizza la domanda. La mina. Questo Tu che non c’è, non è forse un Tu ontologico, ma identitario. È il Tu del riconoscimento. Interpreterei cosi: “quale giorno vorrò se tu non sei (poesia)”. Nuvola di fumo o torba di palude, la scrittura poetica porta sempre con sé una domanda di riconoscimento identitario. L’atto poetico è giorno, è luce. O tentativo di far luce. Che succede, però, a questa poesia?

B) “e la luce del sole altro non mostra / che ombre di fronda”. Sempre la luce del sole mostrerà ombre. Non c’è ombra senza luce. Qui l’attenzione del poeta si fa unilaterale, non dialettica (“altro non mostra”). Si può dire che vede unicamente “ombre di fronda”. La luce del sole, lo sappiamo, non mostra solamente ombre, ma anche chiarori, zone bianche, illuminate, assolate…(Tra parentesi: Grandinetti poeta delle ombre?…)

C) “ombre di fronda che incessante stampa /sulla parete vuota della vita / il vento dei desideri”. A chi si riferisce quel CHE?… Alla fronda, sostantivo più vicino, o alla luce del sole?…Direi al sostantivo più vicino. La fronda è un ramo di quell’albero (della vita) del primo verso che “stampa” (riproduce, imprime) sulla “parete vuota della vita” (se la vita ha una “parete vuota” ne ha sicuramente altre che vuote non sono) “il vento dei desideri” (i desideri esprimono mancanze, vuoti…).

D) “e che ogni nuvola / che si frappone al sole poi cancella”. Frapporsi significa mettersi in mezzo, ostacolare. Ogni nuvola che si mette in mezzo tra il sole e la fronda cancella il vento dei desideri?…

I versi 5-10 non sono di facile interpretazione. Nulla di male. Molta poesia contemporanea ci ha abituati a una certa oscurità. Per quanto mi riguarda, tendo a leggere questi versi come espressione di un conflitto relativo all’atto poetico, ritenuto da un lato necessario per darsi identità ed essere, dall’altro indugiante, cancellante, ostacolante rispetto al “vento dei desideri”. Vi sono desideri che l’atto non realizza. La lingua poetica, per quanto particolare e specifica, non sfugge al suo destino di filtro, di torba spugnosa, di nuvola che si frappone alla luce del sole. Occorrerebbe forse accettarla come tale e darle il suo giusto peso. Così come la luce del sole non mostra soltanto ombre di fronda, l’atto poetico non coincide con tutta la vita e non ha il potere di cancellare il vento dei desideri. Anzi, ne può realizzare alcuni.

Fatto sta che in questa zona del testo la poesia tende a farsi più oscura ed il segnale è dato in primo luogo dalla sintassi che da paratattica, si fa prevalentemente ipotattica e alcune proposizioni s’incassano una dentro l’altra con una certa ambiguità (“e la luce del sole altro non mostra / che ombre di fronda che incessante stampa”). Anche la metrica, sebbene continui a prevalere l’endecasillabo, si fa più irregolare. La stessa annotazione si può esprimere sul tessuto metaforico: singolarmente presi i versi risultano abbastanza chiari e belli: “ e la luce del sole altro non mostra / che ombre di fronda”; “fronda che incessante stampa / sulla parete vuota della vita / il vento dei desideri”; “ogni nuvola / che si frappone al sole poi cancella”…Presi nel loro insieme, risultano oscuri, contraddittori, ambigui.

Le riflessioni, più o meno oscure sottese alla domanda, portano alle considerazioni o ai giudizi dei versi 11-16:

 «Passano per solitudini incertezze
 di cose caduche. Tornano  
 come foglie sugli alberi, come erbe,
 come nuvole, a farsi ed a disfarsi
 speranze e desideri che non durino
 ed attese che il tempo poi deluda.»

Le incertezze e le ambiguità segnalate come condizioni negative che quasi soffocavano la domanda, il testo stesso s’incarica di portarle in primo piano nel verso 11: “Passano per solitudini incertezze”. Ossia: le incertezze passano (per la mente) o l’attraversano grazie a condizioni di solitudini. Sono incertezze relative alla caducità delle cose. De rerum. Ma anche di sé stessi e delle proprie poesie. Quasi inevitabile, a questo punto, il riferimento o il richiamo al tempo ciclico della natura, tempo che cattura anche speranze e desideri. In questo forse simili al farsi e disfarsi delle foglie sugli alberi, delle erbe, delle nuvole. In questo campo di similitudini o, se si preferisce, in questo tessuto metaforico abbastanza tradizionale e scontato, la mia attenzione viene attratta dai due congiuntivi dei versi 15 e 16: “speranze e desideri CHE NON DURINO / ed attese che il tempo poi DELUDA”. Il congiuntivo non è il tempo oggettivo della realtà, è quello soggettivo dell’eventualità. È quello ipotetico dell’insicurezza, dell’incertezza, della possibilità. Le speranze e i desideri potrebbero durare, il tempo potrebbe non deludere le attese.

La tentazione, comunque, è quella di ridurre il tempo storico (individuale e sociale) a quello naturale delle stagioni.

I versi conclusivi (17-26) ribadiscono il motivo della ciclicità del tempo naturale col sole che, grazie ai continui tramonti, impallidisce e si spegne. La vita si fa immobile in un punto dell’arco (giornaliero) e alla poesia rimane come “ultimo barlume” una speranza «che si smemori / dalla fatica della vita il giorno, / che duri senza limiti una notte /dove alberi ed erbe e cielo e cuore / non abbiano più ombre e più vicende.»

Per quanto negativa, è una speranza, non una certezza. E i due congiuntivi stanno lì a ribadirlo.

Concludendo: sul fondo di una memoria classica, antica (spie lessicali: “s’inarca”, “lasse”, “caduche”, “esangue”, “smemori”, ecc.), questa poesia è orchestrata prevalentemente in endecasillabi (17 su 26 versi), ma non si stabilizza e oscilla dal verso più breve di cinque sillabe (“E sempre torna”) a quello più lungo di 13 (“la vita, ed ultimo barlume ancora resta”).

Evocate, quasi al centro del testo, ho l’impressione che le incertezze siano le vere protagoniste di questi versi, per altro di ottima fattura e musicalità.

Non so se durante il giorno un poeta come Grandinetti avrà mai potuto dimenticare “la fatica della vita” con le sue delusioni, tristezze, seccature, solitudini, caducità. La poesia dice che nei suoi versi ha soffiato il vento dei desideri (poi cancellato, forse represso) e la luce delle speranze (forse poco durevoli).

Sicuramente soltanto una notte senza limiti, come quella cantata da Catullo nel famoso carme a Lesbia («nox est perpetua una dormienda») e qui riecheggiata, cioè la morte, gli ha sottratto la visione di alberi, erbe, cielo e cuore e gli ha tolto il piacere o dispiacere di affrontare le alterne vicende del vivere sociale e delle sue ombre. Peccato.

Peccato che abbia tolto anche a noi il piacere di leggere, oltre a questa, altre belle poesie.

Quelle che ancora avrebbe scritto.

19 giugno 2019

6 pensieri su “Lettura di «Ombre e vicende» di Eugenio Grandinetti

  1. Eugenio Grandinetti non è mai un poeta ermetico e non usa parole e frasi per vocare immagini, alludere a stati d’animo, suscitare sentimenti, indicare fatti al di fuori di una costruzione grammaticale e sintattica precisa e non criptica e soprattutto senza vuoti. Potremmo dire che è un poeta “realista”. Partendo da questa considerazione, possiamo spiegare facilmente e realisticamente i versi 5-10 che Donato Salzarulo considera di non facile interpretazione. La mia è una interpretazione che potrei dire “comparativa” perché tiene conto della biografia dell’autore e delle tante poesie in cui dice qualcosa di analogo o comparabile. Leggiamo i versi:
    *
    5 Quale giorno vorrò se tu non sei
    6 e la luce del sole altro non mostra
    7 che ombre di fronda che incessante stampa
    8 sulla parete vuota della vita
    9 il vento dei desideri e che ogni nuvola
    10 che si frappone al sole poi cancella?
    *
    Il “tu” è un’altra persona rievocata nel ricordo e fa parte del dialogo continuo fra il poeta e i suoi ricordi, i suoi fantasmi esistenziali. Ma è un “tu” reale con il quale dialogo, anche se non possiamo dargli un nome e cognome. In questo caso escluderei che si tratti del padre o della madre, a cui si riferisce il “tu” di altre poesie, o di un amico o familiare. È un “tu” reale che però è assente, ormai definitivamente assente e vivo solo nel ricordo. Ma ancora molto vivo, molto presente e attivo (come ricordo, con tutto ciò che implica) nella vita interiore del poeta. Ipotizzo che questo “tu” sia la ragazza che ha amato e che poi ha perduto restandone letteralmente traumatizzato, in una forma mai del tutto superata.
    Il poeta non sa che giorno desiderare, cioè che cosa desiderare per la sua giornata, se lei non c’è. Non sa cosa desiderare perché l’assenza di lei lo priva di altri desideri. Con questo stato d’animo di annichilimento della volontà coglie la natura che lo circonda come metafora e allegoria della sua condizione esistenziale, pertanto il sole altro non gli mostra che ombre che stampa e vanno e vengono sulla parete vuota della vita, cioè sul suo stato mentale e sentimentale, sentito come vuoto. I desideri, che anche nella condizione di depressione, di annichilimento, si fanno sentire, sono deboli e non organici (organizzati) e vengono facilmente cancellati da ogni nuvola, cioè da ogni oscillare di pensiero e di sentimento che in questa condizione esistenziale sono inconsistenti e mutabili proprio come nuvole mosse dal vento.
    La poesia è realistica, ma tutta interna a un realismo interiore, a una esperienza esistenziale vissuta come sempre presente. Il mondo reale è, per Grandinetti, in gran parte della sua produzione, il mondo dei ricordi, delle emozioni e delle speranze perduto. Un mondo che rimane come fantasma del passato e come unica realtà del presente.
    La realtà è vista come effettivamente reale solo nei verso con riferimenti direttamente politici e sociali o in quelli satirici e scherzosi. In sostanza i versi, non molti, che ha scritto per interagire con la cronaca mosso dal desiderio di critica, dallo sdegno morale, da quello di testimoniare una sua presa di posizione su un fatto politico noto. Tutti gli altri versi, che sono di gran lunga la maggior parte della sua produzione, presuppongono uno sdoppiamento della personalità e della realtà di Grandinetti. Alla superfice c’è la sua vita quotidiana reale (insegnante, marito, amico, cittadino ecc.) che è quasi totalmente regolamentata dal dovere e da un senso di empatia / filantropia generale, di fratellanza e di uguaglianza, di desiderio utopistico. A questo livello non troviamo passioni e sentimenti particolari (amore, erotismo, paura, ecc.) calati nelle sue poesie. La vita quotidiana è ridotta all’abitudine, appena increspata da legami di affetto e amicizia e di “amore” in senso generale. C’è poi la sua vita interiore, che corre parallela e diversa. Qui, il Grandinetti che nella vita reale si sente sempre fuori posto, trova il suo posto. Ma tutto ciò che appartiene a questa esperienza esistenziale assume obbligatoriamente il carattere di un’esperienza generalizzante, che diventa filosofia per tutti e che si concretizza sia in poesie “filosofiche”, dove i concetti generali sono più o meno direttamente espressi; sia in poesie più liriche dove i particolari stati d’animo (osservazioni, idee, immagini, esperienze) perdono la loro concretezza, il loro realismo, per diventare metafora ed esempio del “vero” filosofico.
    Il riferimento realistico al presente, come ad esempio a presenze e fenomeni della natura, si fa pretesto per dire altro. Anche in questa poesia commentata da Salzarulo non è la descrizione della natura a costituire il tema, ma la sua interpretazione allegorica, che rimanda agli stati interiori del poeta. Ed è la vicenda del poeta che prende forma e che si racconta, non quella della natura.
    Quelle «incertezze di cose caduche» che passano per «solitudini» non appartengono più alla natura ma al poeta. È nella sua mente e nel suo cuore, nella sua inquietudine, che «speranze e desideri» tornano a farsi e disfarsi, come foglie sugli alberi, come erbe, come nuvole. Speranze che non durano, attese che il tempo delude. La vita interiore delle persone è vista in modo analogo alla vita della natura: ciclica, dove nulla dura, dove tutto muore. Tanto che il barlume di speranza a cui accenna non riguarda la speranza vitale di uscire e dominare il ciclo naturale, ma quella opposta che il giorno perda memoria di sé e diventi come una notte senza limiti:
    « 25 dove alberi ed erbe e cielo e cuore
    «26 non abbiano più ombre e più vicende».
    In sostanza, dove si perda la consapevolezza del vivere con tutto il dolore e la fatica che vivere comporta. È una speranza di annientamento, non di uscita dal chiuso della vita interiore.
    Questo mio commento, diverso da quello di Donato, vorrei che fosse preso non come alternativo ma come complementare.

  2. …sempre rileggendo i versi della poesia di E. G. dal 5 a 10 che pongono la domanda: “Quale giorno vorrò se tu non sei…?”, a me sembra che da una parte rievochino la donna-sole, alla maniera di Dante, che se una nuvola adombra (“si frappone”, molto più forte)) la si perde insieme alla visione, al vento dei desideri, all’amore ( Orfeo che perde Euridice?)…Dall’altra, senza la donna-luce, diventa molto parziale o nulla la stessa conoscenza: non può essere la visione della fronda stessa (la realtà), ma neanche la sua ombra “sulla parete vuota della vita”, ombra che la nuvola, spento il sole, cancella (il mito della caverna di Platone?)
    Riguardo agli ultimi versi: 25 26…” …dove alberi ed erbe e cielo e cuore/ non abbiano più ombre e più vicende”, penso lo consideri il capitolo ultimo del ciclo naturale della vita -nascita, morte, rinascita, morte- in cui finalmente trovare l’annientamento (la quiete?)…Forse per il poeta lo stadio più doloroso stava nella rinascita, che segue alla nascita e alla morte, perchè accompagnato dal rinnovarsi delle eterne dolorose illusioni o magari anche per un sentimento di tradimento verso un’esperienza assoluta e irripetibile… Così leggo anche il significato dei due congiuntivi nei versi 15 16, come l’espressione di un forte desiderio che non si rinnovino ombre e vicende…Certo poi lui nella sua vita si è molto impegnato, ma forse non c’è contraddizione

  3. Le poesie sono strani organismi. Non sempre dicono quel che sembrano dire. Sono viaggi mentali prodotti in particolari condizioni. Essendo mentali drenano emozioni, pensieri, fantasie, immagini, conoscenze consce e inconsce, presenti e remoti, ricordi, ecc. Ma sono viaggi. Il che significa che partono da un verso iniziale e si concludono con un verso finale.
    Sono sicuro che Eugenio quando ha scritto il primo verso (“L’albero intristisce, l’erba secca”), non avesse la benché minima idea di cosa avrebbe scritto al verso sette (“che ombre di fronda che incessante stampa”), dodici (“di cose caduche. Tornano”), o venti (“nel punto dell’arco ove s’arresta”). Non penso che sapesse di dover chiudere la poesia al verso ventisei con “non abbiano più ombre e più vicende”.
    Se non ci piace la metafora del viaggio, diciamo che scrivere poesie è un atto, un processo, un iter compiuto in particolari condizioni psichiche. Questo, come qualsiasi altra scrittura. Con una serie di differenze: la metrica, l’attenzione al legame musicale delle parole (“la musique avant tout chose” diceva Verlaine), la scelta delle immagini (“ut pictura poësis”, diceva Orazio), ecc. Queste differenze favoriscono l’emergere delle zone inconsce della mente. Ad esempio, Eugenio non dice che l’albero è triste, ma che “intristisce”. È un processo, non uno stato di fatto. Certo l’albero gli avrebbe potuto suggerire forza, gioia, vitalità. Ma probabilmente non sarebbe stata la psiche di Eugenio. Il fatto, però, che il verso suggerisca un processo, non è secondario. La tristezza, l’augurio che “alberi ed erbe e cielo e cuore / non abbiano più ombre e più vicende” verrà alla fine. Ma anche qui, usare il congiuntivo, invece che l’indicativo non è privo di significato.
    Il legame musicale tra le parole è ottenuto con le rime, le allitterazioni, ecc. Ma prima di tutto con le ripetizioni. Prendiamo la parola “giorno”. La troviamo al verso 2 (“e il GIORNO che s’inarca spinge in basso”), al verso 5 (“Quale GIORNO vorrò se tu non sei”) e al verso 23 (“dalla fatica della vita il GIORNO”). Nei versi 2 e 23 IL GIORNO è personificato. Nel verso 23 coincide chiaramente con la figura del poeta, la cui speranza negativa è quella di smemorarsi dalla fatica della vita. Operazione, evidentemente, che non riesce, se continua ad augurarsela. Nel verso 2 mi sembra coincidere con l’atto poetico, un atto che chiarifica, illumina, porta luce. Non c’è dubbio il giorno che s’incurva, si flette, “porta in basso / nuvole lasse come fumo”. Cioè, non c’è nessuna petrarchesca ascesa al monte Ventoso, c’è la registrazione, invece, di un clima da bassa pressione. Vogliamo parlare di uno stato psichico depressivo?…Ebbene, sì. Si tratta probabilmente di questo. Ma quelle “nuvole lasse come il fumo” sono le sue poesie e sono cariche di questo suo stato emotivo-cognitivo. L’aggettivo “lasse” gli viene suggerito per quasi rima con “basso”. Una volta finito nel verso, noi non possiamo, comunque, esimerci dal notare che lo spettro semantico di questa parola va da “allentato, poco denso, non compattato” a “misero, infelice” per finire con le famose “lasse” della poesia epica medievale. Le nuvole-poesie sono inoltre “umide / come torba spugnosa di palude”. E devo dire che questo verso m’intriga assai. In fondo, perché pensare che la poesia debba nascere ascendendo sul monte o guardando in alto e non anche sentendosi simili a torba di palude? Spugnosa vuol dire proprio capace di assorbire l’umidità e l’acqua dei nostri stati psichici. Io non so, però, quale valenza – se positiva a negativa – Grandinetti abbia dato a questi suoi stati depressivi. Tendo a pensare negativa, se subito dopo viene il quinto verso con la nota domanda: “Quale GIORNO vorrò se tu non sei”. Aguzzi ci informa che quel TU è una donna di cui il poeta era (ancora) innamorato. Notizia indubbiamente importante sul piano biografico, ma secondaria per la comprensione di questi versi e di questa poesia. A me interessa la parola “GIORNO” che nei versi 2 e 23 è personificata e quasi coincide con la persona del poeta, mentre qui diventa l’oggetto delle sue eventuali volontà e desideri. “Quale giorno vorrò” è un po’ come dire “quale giorno sarò”. La domanda è sintomo di un’incertezza relativa al fare poetico. Che quel Tu sia un amore assente o mancato è, comunque, un tu relazionale, interiorizzato che destabilizza la poesia, che mina la propria identità poetica e, come sostiene Aguzzi, esistenziale (è un trauma che perdura). Ciò che noto io è che nel procedere del testo (poesia come viaggio mentale), la domanda sulla propria identità poetica (e sul suo riconoscimento amoroso) viene quasi soffocata, cancellata perché la poesia – metaforizzata come “nuvole lasse” e “torba spugnosa di palude” nei primi quattro versi – viene assunta ancora come “nuvola” nel verso 9 (“ogni NUVOLA”), ma evocata per frapporsi alla luce del sole e cancellare il vento dei desideri (“e che ogni nuvola /che si frappone al sole poi cancella”). Le “nuvole” (poetiche) tornano al verso 14 come similitudine del farsi e disfarsi delle speranze e dei desideri (“come nuvole, a farsi e disfarsi”).
    Quando sostengo che nei versi 5-10 il movimento è oscuro, di non facile interpretazione, non voglio dire che Eugenio è un “poeta ermetico”. Non l’ho scritto da nessuna parte. Anzi, ho detto che i versi presi singolarmente risultano abbastanza chiari. È l’insieme del movimento che si pone sotto il segno dell’incertezza, della difficoltà di scegliere per il poeta (e per noi) “quale giorno vorrò”.
    Sappiamo da cosa nasce questa difficoltà: dal non essere di quel Tu, ma anche dall’unilateralità della “luce del sole che altro non mostra / che ombre di fronda”. Questo è il sole dei malinconici, di chi sta vivendo degli stati depressivi. È un po’ come l’albero che s’intristisce, come il giorno che spinge in basso “nuvole lasse”. Anche queste “ombre di fronda” sono strane. Prima di tutto perché le OMBRE sono richiamate nel titolo (e dovrebbero essere uno degli argomenti di questa poesia, l’altro è rappresentato dalle “vicende”) e poi perché, associate a “fronda”, fanno così tanto pensare alle fronde (d’alloro) dei poeti. Infatti, neanche a farla a posto, questa “incessante stampa”…Stampa?!…Stampare non è un verbo relativo a scritture, magari, di poesie?…Ecco, questa fronda “incessante stampa / sulla parete vuota della vita / il vento dei desideri”. Diciamo che queste “ombre di fronda” non sono così negative, qualcosa di buono lo fanno. Peccato, che ogni nuvola che si frappone al sole cancelli poi questo vento. Come fa ogni nuvola a cancellare il vento dei desideri, Dio solo lo sa. È una metafora ardita. Non tanto, però, se la nuvola è questa poesia che, a differenza dei sogni, non realizza desideri, ma li assorbe, li manda in fumo, li rende torba di palude.
    Il problema forse dei poeti “ombrosi” (malinconici o depressi che siano) è di non riuscire a fare delle proprie ombre le protagoniste vere dei loro versi. In una poesia che s’intitola “Ombre e vicende”, un lettore si aspetta che si dica qualcosa di più su queste Ombre che forse affliggono, ma potrebbero anche ristorare. Invece, qui sono evocate soltanto due volte. Una, per fortuna, positivamente; un’altra (verso 26) perché non vi siano più. La sorte delle “vicende” è peggiore: sono evocate nel titolo e in chiusura con l’augurio che scompaiano per sempre. Ma a quali vicende allude il poeta? A quali eventi? A quali avvenimenti?…L’unica vicenda resaci nota da questa poesia è l’andirivieni dello sguardo: nel primo verso è l’albero che s’intristisce (diciamo il paesaggio che si antropomorfizza), nei versi 12-15 sono le speranze e i desideri che si naturalizzano e tornano a farsi e disfarsi “come foglie sugli alberi, come erbe / come nuvole”. Per concludere nei versi finali con una circolarità fra soggetto ed oggetto, fra uomo e paesaggio “ dove alberi ed erbe e cielo e cuore / non abbiano più ombre e più vicende”.
    Il senso generale della poesia è chiaro. Ma forse occorre entrare più nel merito del COME questa poesia si presenta, del suo movimento, della sua forza (anche se spinge in basso). Occorre prestare più attenzione al suo assetto metaforico, alle sue similitudini, alle figure del suono: a cominciare dalle parole che si ripetono. In questa poesia sono molte, così come sono molte le incertezze che la percorrono. “Passano per solitudini incertezze / di cose caduche”. Chissà cosa pensava Grandinetti delle sue poesie. Che appartenessero anche esse alle “cose caduche”?…

  4. Solo una suggestione e un collegamento veloce scaturito dalla parola ‘torba’ ( Donato:
    “Le nuvole-poesie sono inoltre “umide / come torba spugnosa di palude”. E devo dire che questo verso m’intriga assai”).

    In una mia vecchia recensione del 2013 a Erminia Passannanti, “« Seamus Heaney. Poesie Scelte» di Erminia Passannanti” rileggo:

    “Il tema della memoria a me resta l’impressione che il noi comunitario e nazionale, ma ancora abbastanza storico, che caratterizza la prima produzione di Heaney col tempo si sia fatto sempre più di memoria, diventando un noi interiore, un noi ritrovato (proustianamente?) scavando soprattutto dentro di sé e nel mito del suo «paese senza recinti» e che «è palude», come Heaney lo definisce in Terra di palude. In questa poesia quel noi, proprio perché di memoria, somiglia parecchio allo scheletro della Grande Alce irlandese estratta dalla torba o al burro recuperato dopo essere «rimasto affondato/ per più di cento anni», di cui Heaney sempre in questa poesia parla. Con l’originalità di tali immagini egli sembra dire proprio che la memoria – in generale e non solo per lui – è proprio «burro nero», è proprio come un terreno «che si fonde e s’apre sotto i piedi,/e non si lascia fissare in una definizione/ da milioni di anni». Mi piace perciò pensare che i «nostri pionieri», che «continuano a colpire/ verso l’interno e verso il basso» a cui qui Heaney allude somiglino non solo a lui ma a tantissimi poeti di varie nazioni che conducono lo stesso tipo di scavo; e che questo verso: «il centro umido è senza fondo» alluda proprio all’inconscio. Ma ad un inconscio collettivo, che andrebbe forse inteso non tanto nelle forme romantiche e junghiane, ma in quelle di cui ha parlato Jameson nel suo libro «L’inconscio politico».

    (da https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/10/04/ennio-abatesu-seamus-heaney-poesie-scelte-di-erminia-passannanti/)

  5. Considero importante questo richiamo di Abate a Seamus Heaney. Io, infatti, leggendo “Ombre e vicende”, quando mi sono imbattuto nel verso 4 “come torba spugnosa di palude”, ho pensato proprio ad Heaney e mi chiedevo se Grandinetti sviluppasse un tipo di scavo (più o meno simile) verso l’inconscio individuale e collettivo. Continuando nella lettura, mi sono convinto di no. Almeno in questa poesia non lo fa. In questi versi mi pare che Eugenio rimanga all’interno della poetica baudelairiana delle “corrispondenze” («La nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles […]». Perciò non penso che questa sia una poesia allegorica. Mi sembra più d’impianto simbolistico perché, come ho già detto, nel precedente commento, il movimento mentale, che nel suo insieme compie, si può articolare in tre momenti:
    a) Si soggettivizza (o psicologizza) il paesaggio (la natura, ecc.): «L’albero INTRISTISCE, l’erba secca»
    b) Si naturalizza (o oggettivizza) la psiche (o la mente): «Tornano / come foglie sugli alberi, come erbe, / come nuvole, a farsi e disfarsi / SPERANZE e DESIDERI»
    c) Si fondono insieme i due momenti: «dove alberi ed erbe e cielo e CUORE / non abbiano più ombre e più vicende.»
    Scrive Anna Maria Locatelli: «Forse per il poeta lo stadio più doloroso stava nella rinascita». Direi che la “rinascita” (anche della natura) non la vede proprio. Pascoli, il poeta al quale, a prima lettura, l’accosterei per il tipo di sguardo analogico e metaforizzante, per bravura metrica e tessitura musicale, per amore dell’esattezza e del dettaglio naturalistico, conclude il suo “Gelsomino notturno” con la costatazione che dopo la notte c’è l’alba.
    «È l’alba: si chiudono i petali
    un poco gualciti; si cova,
    dentro l’urna molle e segreta,
    non so che felicità nuova. »
    Ecco per Grandinetti la poesia, sottolineo la poesia, non riesce a covare nessuna felicità nuova e la sua luce, come quella del sole, «altro non mostra / che ombre di fronda» .

  6. I contributi di Salzarulo mi sembrano preziosi e li condivido. Il termine “ermetico” l’ho usato io per necessità di sintesi (e fretta nello scrivere improvvisando), ma non intendevo dire che Salzarulo considera Grandinetti un poeta ermetico. No, intendevo solo dire che Grandinetti ha uno stile di scrittura diretto, in cui tutto è comprensibile. E se qualche volta lo è meno, è perché fa riferimento a cose che il lettore ignora, ma che sono sempre cose reali. Non usa mai le parole in senso mistico, o per ambigue analogie con lo scopo di evocare immagini, sentimenti ecc. non espressi direttamente e chiaramente. Certo, l’intensità della scrittura poetica richiede comunque, anche leggendo Grandinetti, un lavoro di interpretazione, ma solo a partire e dopo la comprensione letterale.
    Ma sullo stile non ho ora tempo di dilungarmi. Vorrei invece tentare una prima risposta alla domanda di Salzarulo: «Chissà cosa pensava Grandinetti delle sue poesie. Che appartenessero anche esse alle “cose caduche”?…».
    Grandinetti ha sempre avuto, almeno nelle sue affermazioni esplicite, la convinzione che le parole non bastano a comunicare (sulla fragilità delle parole, della comunicazione, dell’impossibilità di uscire davvero dall’isolamento ecc. ci sono centinaia di sue poesie). Tuttavia riteneva necessario tentare di farlo.
    Sul valore della sua poesia Grandinetti ha sempre avuto un atteggiamento (anche in questo caso, almeno nelle affermazioni esplicite) di dubbio. O, per dire meglio, duplice. Da un lato difende la sua poesia dalle critiche (e qualche dibattito in Poliscritture ne fa fede), il che testimonia che credeva nel suo valore letterario; ma d’altro lato sembra incerto e agli amici e conoscenti che gli rivolgevano degli apprezzamenti rispondeva che, appunto, erano giudizi di amici, giudizi benevoli. In qualche modo sentiva la mancanza di un riconoscimento più diffuso e autorevole, cioè il favore dell’editoria e della critica letteraria “ufficiale”, e si chiedeva se ciò fosse dovuto alla disattenzione della critica o a una qualche insufficienza della sua poesia.
    L’8 gennaio 1993 nella dedica apposta a una sua raccolta autoprodotta e rilegata mi scriveva: «A Luciano, sperando che voglia continuare ad essermi amico anche dopo la lettura di questi versi. Eugenio Grandinetti». Segno di una timidezza non finta, non retorica.
    Nella raccolta, inedita, che stava preparando per la stampa nei giorni precedenti la morte, nella prefazione scriveva:
    «Il compito dei genitori è quello di curare i figli, di assisterli nei momenti di bisogno, di accompagnarli nel loro cammino e di cercare di assicurar loro un avvenire, per quanto possibile, sicuro.
    Le mie creature sono questi versi che scrivo ormai da tanti anni: ed ora, giunto al momento di lasciarli da soli, mi chiedo se ho fatto abbastanza per loro, se li ho sostenuti, se ho dato loro quella visibilità che avrebbe loro consentito di camminare tranquilli in mezzo alla gente, e mi rendo conto di non essere stato un buon genitore, di non averli aiutati a trovare la loro strada, di non averli presentati alle persone giuste che avrebbero dovuto capire e valutare le doti, incerto forse anch’io delle loro capacità di affermarsi e timoroso dell’eventualità che avrebbero potuto farmi fare una brutta figura.
    Ed anche ora, nonostante sia consapevole delle mie mancanze, non sono capace di porvi rimedio. La sola cosa che sono capace di fare è quella di raccogliere i versi degli ultimi anni in modo che non si disperdano come è avvenuto per le mie poesie giovanili e per quelle satiriche.
    Non cercherò di sistemarli in un qualche ordine se non quello cronologico, avvertendo però che tale ordine riguarda solo l’anno di produzione anche perché è capitato tanto volte che abbia lasciato in sospeso qualche poesia e che l’abbia portata a termine successivamente, magari dopo aver scritto frattanto altre poesie. Un’ultima avvertenza: ci sono altre poesie del 2014 che non compaiono nella raccolta, sia perché alcune le ho solo abbozzate e sia perché non ho ancora trascritto tutte quelle che ho scritto».
    Questo testo è una specie di testamento relativo al suo lascito poetico, ai suoi “figli”. Figli sostitutivi dei figli che non ha voluto per non mettere al mondo altri disgraziati, come si deduce da alcune sue poesie. Tuttavia, pur con qualche timore, la sua fiducia nella validità della sua poesia è cresciuta nel tempo e affidare a questi figli una sorta di sua sopravvivenza è anche segno che, nonostante tutto e oltre a ogni affermazione, non era indifferente alla speranza di essere ricordato, a una speranza – possiamo dire – che si apre al futuro e che dà un senso alla vita.
    L’atteggiamento esteriore, e la filosofia di Eugenio, mi sono sempre parsi (dopo i primi anni Novanta; prima non sapevo che scrivesse poesie e non avevo fatto caso a molte cose poi diventate più evidenti) quelli di chi riduce al minimo la propria presenza nel mondo, quasi a nascondersi, e vivere in rassegnata attesa della morte. Dove però la «rassegnata attesa» non vuol dire «purtroppo si deve morire», ma vuol dire «purtroppo si deve vivere». Insomma, rassegnazione a vivere. Due spie sono indicative: una è la mancanza di erotismo nella sua poesia (e negli atteggiamenti suoi personali), di amore erotico, di ricerca di piacere e felicità. La seconda è che, nei 37 anni in cui ci siamo frequentati, non l’ho mai visto ridere. Sorridere qualche volta sì, ma ridere divertito no, mai. E tanto meno scoppiare in una risata o partecipare a una risata collettiva.
    Le passioni di cui sembra fosse animato sono di carattere morale e legate sia a un suo forte senso del dovere, sia a un sentimento di empatia verso gli altri, sia allo sdegno politico e morale per molte cose dell’andamento sociale. Oltre all’interesse, e alla curiosità, per la natura, per lo studio, per la letteratura. Fra i suoi hobby, per qualche anno ha coltivato anche lo studio del sanscrito. Fra le sue attività vi è stato l’insegnamento, all’Unitre, fino all’anno della morte, di letteratura latina, o più precisamente di Lettura e commento dei classici latini.
    Una quieta – inquieta vita, visto che vivere era pur necessario.
    E si inalberava un po’ se si metteva in dubbio la coerenza della sua filosofia, replicandogli che se lo stato di morte è migliore della vita, perché non si suicidava? Dirgli questo era come offenderlo, e non rispondeva con ragionamenti filosofici ma con una reazione emotiva. Capivo, o mi sembrava di capire, che vivere era comunque per lui un dovere, un far fronte ai legami che la vita aveva costituito e alla solidarietà con gli altri viventi. Il suicidio era una diserzione. Credo che ci fosse anche dell’altro, anche una qualche forma di piacere a vivere. Ma del piacere di vivere, nella sua poesia, non resta nulla fuorché il ricordo, e la nostalgia, dell’infanzia e dei momenti in cui il piacere di vivere lo ha prima illuso e poi disilluso. L’illusione è nel ricordo e nella sua rievocazione, mentre la disillusione è nel presente. Un lungo presente.

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