Socialismo e/o comunismo: storie morte, parole morte?

di Ennio Abate


La Risoluzione del Parlamento Europeo Sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa (qui) continua ad essere commentata e discussa. Ho riportato in POLISCRITTURE SU FB l’analisi (condivisibile per me) dello storico Claudio Vercelli (qui) e segnalo altre discussioni in corso: sulla pagina FB della storica Maria Grazia Meriggi (qui) e l’intervento di Anna Foa sul sito della Fondazione Feltrinelli (qui). Per invitare ad un ripasso di storia, riporto quattro schede che preparai per il volume sul Novecento “Di fronte alla storia” (Palumbo ed. 2009) per ribadire che quelle vicende non vanno cancellate dalla mente ma ripensate e studiate. (Come avevamo scritto nel n. zero della rivista cartacea (maggio 2005), Poliscritture  « pur memore della sconfitta delle esperienze di emancipazione o rivoluzione del Novecento e del fallimento delle dissidenze nei paesi del fu «socialismo reale», non rinuncia a costruire samizdat di critica elementare contro le menzogne dei potenti, anche quelle travestite da«senso comune» ».) Ma anche per capire – e lo dico con un po’ di sarcasmo – quali scoperte di altri documenti o riflessioni nuove abbiano messo in forse interpretazioni come queste riportate nelle mie schede, che paiono ancora oggi più chiare ed equilibrate di quelle prese da molti politici e studiosi odierni o addirittura del Parlamento Europeo [E. A.]



1.
Pietro Scoppola – I totalitarismi non sono “la stessa cosa”

Pietro Scoppola (1926-2007) è stato professore di Storia  contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e membro  della Commissione Nazionale dell’Unesco. Tra le sue  opere: La “nuova cristianità” perduta (1985), La Repubblica  dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1991  e 1997), La Costituzione contesa (1998), La democrazia  dei cristiani (2005), La coscienza e il potere (2007).



In questo brano tratto da una conversazione con studenti di un liceo, anche lo storico Pietro Scoppola sostiene l’esigenza di tenere distinti i totalitarismi del Novecento, pur sottolineandone le somiglianze o persino gli aspetti di piena coincidenza. I loro obiettivi storici non erano gli stessi.

Noi Italiani abbiamo conosciuto il totalitarismo fascista, che è stato un totalitarismo un po’ a scartamento ridotto rispetto al totalitarismo di destra nazista, che è stato, sicuramente, il più feroce mai conosciuto. Ma è esistito il totalitarismo di sinistra, il totalitarismo realizzato dal comunismo stalinista, che giustamente, va detto e sottolineato, ha contraddetto alla base gli ideali stessi di libertà ed eguaglianza. E questo – è difficile spiegarlo, mi rendo conto – ci permette di introdurre la necessità di una distinzione tra regimi di varia natura. I totalitarismi, dal punto di vista della struttura centralizzata di cui si valgono, sono tutti simili, così come dal punto di vista della organizzazione della società, poiché tutti i regimi tendono a mobilitare la massa, tutti reprimono il dissenso, tutti conoscono il fenomeno del confino, del gulag, ossia dei campi di concentramento, delle carceri per gli oppositori. Il gulag è un fenomeno che è esistito nell’Unione Sovietica. In Italia è esistito il confino, in Germania c’è stato quel che c’è stato con i campi di concentramento. E questi fenomeni tendono a rendere analoghi, simili, uguali, se volete, tra loro, i totalitarismi. Però i fini, gli obiettivi, che i diversi totalitarismi si sono proposti, sono stati tutti diversi tra loro. I fini che si è proposto il fascismo, che si è proposto il nazismo, non sono gli stessi che si è proposto il comunismo. Il comunismo è nato sull’onda di questa grande utopia dell’uguaglianza, della emancipazione totale dell’uomo, basata sul presupposto che il regime di produzione capitalistico fosse quello che aveva sempre reso impossibile la piena liberazione dell’uomo. Quindi il Comunismo ha sempre avuto al proprio interno, perlomeno ai suoi inizi, questa potente carica utopica, che è stata quella che poi, in qualche modo, ha reso spiegabile un fenomeno altrimenti inspiegabile: la durata di questa ideologia nel Ventesimo secolo e il coinvolgimento di centinaia di milioni, anzi, di miliardi di uomini alla sua proliferazione storica. Non solo, ma il comunismo è stata l’unica forma di totalitarismo che è “caduta” senza troppa violenza, perché il 1989 ha visto il crollo del comunismo avvenire soprattutto all’interno delle sue stesse strutture di regime. Quindi c’è stata, da parte di tutti questi regimi, una forte analogia nei mezzi, negli strumenti per il perseguimento del potere. Ma c’è stata, viceversa, una profonda diversità nei fini, negli scopi, che, oggi, non ci permette di dire, (come spesso si tende a fare): “Tutti i totalitarismi
sono uguali storicamente”. Capite? Siamo d’accordo sull’incontestabile fatto che i totalitarismi siano stati tutti quanti dei regimi negatori della libertà, negatori del pluralismo. Ma va sottolineato come essi abbiano, spesso, perseguito obiettivi storicamente (e profondamente) diversi. Scopi che oggi ci obbligano a fornire giudizi più articolati sulla realtà storica del totalitarismo. Io non mi sentirei di dire: “Il comunismo è uguale al nazismo, può essere messo sullo stesso piano, anche se il comunismo ha fatto più vittime”. Apprendiamo dal Libro nero, che è uscito in Francia, un libro molto discusso, discutibile per certe parti, che le vittime umane del comunismo nel mondo, nel corso del XX secolo sono state probabilmente molte di più delle vittime del nazismo. Quindi non voglio proporre nessuna difesa per il comunismo. Però va detto che il comunismo è riuscito a mobilitare delle speranze verso il futuro, mentre il nazismo è sempre stato rivolto ai tipici archetipi della “cultura ariana”, della superiorità della razza, che non avevano nessuna apertura verso il futuro dell’umanità intera, essendo rivolti ad un passato mitologico […].

(da  http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=133. Nota 6.10. 2019 – Mi accorgo che il link non è più accessibile.)

2.
Zygmunt Bauman – L’assunto di fondo dei totalitarismi: «alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne»

Zygmunt Bauman (1925) è un sociologo che insegna nelle Università di Leeds e di Varsavia. Nato in Polonia, fuggito nel 1939 con la famiglia in Urss in seguito all’invasione nazista per sfuggire alla persecuzione contro gli ebrei, ha combattuto in un corpo di volontari polacchi contro i nazisti. Oggi è considerato uno dei principali teorici della postmodernità. Tre le sue numerose opere: Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto (1987),  Modernità e olocausto (1999), La società dell’incertezza (1999), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (2000), La solitudine del cittadino globale (2000), Modernità liquida (2002).


Anche Bauman insiste sulle radici del tutto europee del nazismo («L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea») e mette a confronto il totalitarismo nazista con quello comunista. Una stessa ambizione modernizzatrice si manifestò per lui sia nel Centro (l’Europa) che alla sua periferia (l’Urss). L’attenzione del sociologo è tutta rivolta al lato oscuro di questi esperimenti, alle vittime: gli «inferiori». La loro distruzione, pur con motivazioni diverse (i nazisti uccidevano gli ebrei per quel che erano, i comunisti di Stalin eliminavano gli “inaffidabili” «per ciò che facevano o pensavano»), aveva in fondo un medesimo assunto in entrambi i casi: «alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne».

Gli stermini di massa del XX secolo erano esercizi di creativa; concepiti come salutari operazioni chirurgiche e perpetrati nel corso della pavimentazione di una strada verso una società perfetta, armoniosa, libera da conflitti. L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea, dentro la serra della scienza e dell’arte europee, nel luogo
che più d’ogni altro si avvicinava al perenne sogno moderno della “Casa di Salomone” di Francis Bacon. Nel frattempo, alla periferia della Modernità europea, era in atto un altro esperimento, quello comunista, che osservava il centro con un misto di soggezione e
invidia e sperava di “raggiungere e superare” qualsiasi cosa l’Europa avesse raggiunto nella sua storia moderna. Qui il sentimento umiliante dell’“essere lasciati indietro” aggiunse urgenza alle ambizioni modernizzatrici. Erano necessarie scorciatoie, si dovevano condensare i costi altrove distribuiti per decenni e secoli: solo una generazione doveva soffrire ciò che in altri luoghi avevano sopportato molte generazioni, ma la diminuzione della miseria doveva essere pagata con un incremento della sofferenza. Per i giardini fiorenti del futuro, la generazione presente non era nient’altro che concime. Nessun sacrificio era troppo per un fine così nobile. Si dovevano spaccare le montagne con la dinamite o costruirle artificialmente, disboscare vecchie foreste per piantarne di nuove, deviare i fiumi o fermare il loro corso, e la gente doveva venir trasportata dai luoghi in cui per caso abitava verso i luoghi assegnati dal progetto del giardiniere. E a ogni modo gli “inferiori” (nedobrokacestvennie), dovevano essere resi inoffensivi o completamente distrutti, o perché inadatti all’immagine del futuro, o perché covavano idee diverse di una buona società, o infine perché non affidabili nel sottomettere i propri desideri alle regole del nuovo ordine. La formula di legittimazione della distruzione portata avanti dai comunisti differiva dal massacro gestito dai nazisti. Se il piano nazista prevedeva che certuni venissero uccisi per ciò che erano e non potevano fare a meno di essere, il modello
comunista di costruzione del nuovo ordine richiedeva che le persone venissero assassinate per ciò che facevano o pensavano (la gente destinata al massacro era neblagonadeznie, inaffidabile, di cui non ci si può fidare). Ma l’assunto di fondo era lo stesso in entrambi i casi: alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne; l’idoneità o l’inidoneità al mondo in costruzione costituiva la differenza tra le due categorie. entrambi i casi si addice la descrizione dei governanti totalitari fatta da Hannah Arendt: «La loro fiducia nell’onnipotenza umana, la loro convinzione che tutto si può fare attraverso l’organizzazione, li spinge a esperimenti che l’immaginazione umana può aver descritto ma che mai l’attività umana ha certamente realizzato»

(da Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, in Nazismo, fascismo,
comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondadori, Milano 1998.)


3.
Francesco M. Cataluccio – La posizione di Primo Levi su Lager e Gulag

Francesco M. Cataluccio, studioso e traduttore della lettera letteratura dell’Europa dell’est, ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Genova.

Questo brano di Cataluccio – un intervento al già citato convegno di Siena del 1997 – riassume la posizione di Primo Levi, che misura sulla base della sua esperienza di deportato le testimonianze di Solženicyn e Šalamov. Levi non sfugge al confronto (per alcuni in quegli anni ancora inammissibile) tra Lager e Gulag, ma si attesta sulla posizione che esisteva una «differenza fondamentale» tra le due esperienze concentrazionarie: nei Gulag «la gente ci moriva egualmente», ma non erano fatti, come i Lager, con l’intenzione calcolata di «uccidere la gente».

Levi definisce il gulag descritto da Solženicyn «schiavitù simile e diversa», con un’origine comune: «Lo sfruttamento massiccio della mano d’opera schiava era stato imparato da Hitler alla scuola di Stalin, ma in Unione Sovietica è ritornato moltiplicato alla fine della guerra» (1). Levi, però, ribadisce che c’è una differenza di “qualità”, di scopi. Nei lager tedeschi si cerca la morte del prigioniero, nei gulag essa sarebbe una sorta di “accidente”
il primo libro di Solženicyn, per vedere le affinità e le differenze tra i lager russi e quelli tedeschi e posso dire una cosa: nei lager russi la morte è un sottoprodotto, non è lo scopo. E fa una bella differenza» (2). Questa convinzione è rafforzata in lui dalla lettura del
libro di racconti di Varlam Šalamov (3): «Ho letto il libro di Šalamov sulla Kolyma: è impressionante e nello stesso tempo sorprendente; perché non è così totale il disfacimento dell’uomo, la speranza di poter uscire ce l’hanno pure, hanno pure una parvenza di vita legale per cui possono fare delle proteste collettive. E sono curati
quando si ammalano» (4). Levi coglie una “terribile debolezza” in Šalamov e paragona la sua posizione a quella dei reduci dai lager tedeschi: «Duole dirlo, e non è una scoperta: il terrore e l’isolazionismo staliniani trasmettono la loro infezione paralizzante anche ai loro
testimoni e ai loro contestatori. Uomini quali Šalamov meritano comunque il nostro rispetto, ma la loro statura è inferiore a quella dei loro corrispettivi che hanno combattuto il terrore hitleriano, o che oggi denunciano i delitti compiuti in Asia e in Africa dalla civiltà
occidentale. Le pagine di Šalamov destano commozione e simpatia per le cose che dicono, non per il modo in cui le dicono e tantomeno per le prese di posizione dell’Autore. Šalamov, in qualche modo, testimonia più di quanto vorrebbe, più di quanto sa di testimoniare, proprio grazie alle sue insufficienze e frustrazioni». Nonostante le sue resistenze personali, il tema del confronto tra lager e gulag era diventato ineludibile. Levi
sembra prenderne atto, nel 1985, durante la conversazione radiofonica Lo specchio del cielo, con Alberto Gozzi: «Non parlo dei lager sovietici perché non ci sono stato. Se ci fossi stato ne parlerei e ne parlo, anzi, fa parte della mia “droga” l’occuparmi di queste cose;
ho letto quanto ho potuto anche dei lager russi di allora di adesso. Sono stato in grado di fare un confronto, ho letto un libro che spererei fosse tradotto in italiano [lo è stato, nel 1994, col titolo di Prigioniera di Stalin e Hitler] di Margarethe Buber-Neumann, nuora
di Martin Buber, comunista, che era stata scaraventata in un lager da Stalin perché era un’attivista comunista al tempo delle grandi purghe, stava in Spagna col marito. È stata internata in Siberia a lungo e poi col patto Ribbentrop-Molotov ceduta ai tedeschi che
l’hanno rinchiusa nel lager […]. Credo che sia una delle cinque-dieci persone che abbiano potuto fare quest’esperimento, comparare il regime carcerario di internamento sovietico con quello hitleriano. Sarebbe stupido e ottuso dire che nei lager della Siberia si stesse
bene, non si stava bene affatto, però c’era una differenza fondamentale, che non erano fatti per uccidere la gente. La gente ci moriva ugualmente, anche molto, anche con quote di mortalità terrificanti, del 10-20-25 per cento, con tempi folli di detenzione, ne parla anche Solženicyn, in cui però la morte era in qualche modo accidentale, avveniva per il freddo, per la fame, per la fatica, ma non era l’obbiettivo. Mentre la novità finora unica, perché non credo che si sia ripetuta mai, salvo forse in Cambogia, lo scopo dello strumento lager nella Germania di Hitler era proprio quello di uccidere. Erano macchine per uccidere in cui invece si capovolgeva il lavoro servile, che era un sottoprodotto. Il prodotto principale era la morte e questo mi pare vada ripetuto, non per scagionare Stalin né i suoi successori, ma solo per segnare una differenza che ha la sua importanza».

(da Francesco M. Cataluccio, Lager e gulag in Primo Levi, in Nazismo, fascismo, comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondadori, Milano 1998.)

(1) P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
(2)P. Levi, Mago Merlino e l’uomo fabbro, intervista di S. Giacomoni,
«la Repubblica» 24 gennaio 1979. 
(3) V. Šalamov, I racconti della Kolyma, Adelphi, Milano 1995. 
(4) Levi, Tornare, mangiare, raccontare…, intervista di V. Lo  Presti,     «Lottta continua» 18 giugno 1979. 

 
4.
Tzvetan Todorov – La «tentazione del bene»

Tzvetan Todorov (1939), Critico letterario francese di origine bulgara. Tra le sue opere maggiori: I formalisti russi (1965), Michail Bachtin, il principio dialogico (1981), La conquista dell’America. La questione dell’altro (1982), Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (1989), Di fronte all’estremo (1991), L’uomo spaesato (1996), Memoria del bene, tentazione del male (2000).

In Memoria del male, tentazione del bene (2000), Tzvetan Todorov ha svolto un’approfondita indagine sul Novecento, un secolo per lui «tragico», proprio per «la nascita, lo sviluppo e la fine del totalitarismo». Pur richiamando i molti regimi autoritari e dispotici dei secoli passati, Todorov vede nei totalitarismi novecenteschi alcuni aspetti in comune del tutto particolari: essi nascono da «utopie che aspirano a realizzare il paradiso in terra, qui e ora, sfruttando un’ideologia scientista, per la quale il mondo è conoscibile in toto». In questo stralcio da un’intervista, lo studioso, muovendosi su tutt’altro piano rispetto alle tesi che tendono a mettere sullo stesso piano i vari totalitarismi, rivendica sì l’importanza di paragonare i due totalitarismi più importanti (comunismo e nazismo) per «vederne le differenze», ma, ricordando Hiroshima e la più recente guerra in Kosovo, accenna anche alle “tentazioni” totalitarie delle democrazie.

Negli ultimi anni il parallelo tra comunismo e nazismo è stato all’origine di molte polemiche. Qual è la sua posizione?

Questo parallelo era corrente negli anni Trenta, ma è diventato un tabù dopo la seconda guerra mondiale, per via del ruolo giocato dall’Unione Sovietica durante il conflitto e per il carattere eccezionale dello sterminio degli ebrei. Oggi questo tabù è caduto, e secondo
me ciò è un bene, perché solo paragonando i due totalitarismi è possibile vederne le differenze. Sul piano strutturale le somiglianze sono evidenti, mentre sono diversi i rispettivi atteggiamenti nei confronti dello sterminio dei prigionieri. Per i nazisti coloro che devono morire sono dei sottouomini e la loro morte diventa un fine. Nei Gulag dello stalinismo, invece, iprigionieri sono degli schiavi da spremere fino all’ultima forza. La loro morte, quindi, non è un fine in sé. Questa differenza tra i due totalitarismi mi sembra essenziale.

Analizzando il male presente nel secolo passato, a più riprese lei denuncia la “tentazione del bene”. Perché?

I pensatori cristiani si sono sbagliati mettendoci in guardia contro la tentazione del male, perché in realtà sono molto pochi gli individui tentati dal male. In compenso tutte le grandi sofferenze dell’umanità nascono dalla tentazione del bene, che ci si ostina a cercare con
tutti i mezzi disponibili, e perfino con la violenza e la morte degli altri. I totalitarismi hanno sterminato con la scusa di imporre un mondo perfetto. Ma la realtà umana, come diceva Montaigne, è un giardino imperfetto, destinato a restare tale. Il male in nome del bene
però non è una specialità esclusiva dei regimi totalitari. Anche le democrazie cadono a volte in questa tentazione, come è accaduto a Hiroshima o anche di recente con la controversa guerra del Kossovo.

L’eredità del Novecento da lei indagato è tutta negativa?

Nel secolo delle tenebre, per fortuna, esiste anche un versante luminoso dell’umanità, che spesso si manifesta nei singoli individui. Vasilij Grossman, Primo Levi, David Rousset ne sono un esempio, come pure Germaine Tillion o Margarete Buber Neumann, la quale ha conosciuto sia i gulag di Stalin che i campi di concentramento nazisti. Tutti costoro hanno saputo affrontare il male senza considerarsi un’incarnazione del bene. Si sono battuti, hanno resistito, hanno rifiutato la passività di chi si volta dall’altra parte e non vuole vedere, non dimenticando però che noi uomini saremo sempre un giardino imperfetto.

Erano animati da quello che lei chiama “l’umanesimo critico”?

L’umanesimo è il pensiero che soggiace alla democrazia, perché, affermando l’universalità del genere umano, rifiuta ogni discriminazione e sancisce l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge. L’umanesimo difende anche la libertà di pensiero e la responsabilità del
soggetto, come pure la sovranità popolare, non dimenticando che il benessere dell’uomo è il solo fine dell’uomo, senza altri fini superiori. L’umanesimo però deve essere critico, per evitare le derive del passato, quando è stato utilizzato in maniera distorta e al servizio di altre finalità. E’ ad esempio con l’universalismo che furono giustificati il colonialismo e l’imperialismo. Come pure non bisogna cadere in un ingenuo culto dell’uomo, ma occorre sempre avere coscienza del male che gli uomini sono capaci di fare.

(da Fabio Gambaro, Un bilancio del Novecento secolo dei totalitarismi, in «la Repubblica», 8 settembre 2001)

16 pensieri su “Socialismo e/o comunismo: storie morte, parole morte?

  1. Delle quattro schede la più “evoluta” e penetrante mi pare la quarta, quella di Tzvetan Todorov, che meglio centra il problema della «tentazione del bene», cioè l’origine utopica del totalitarismo, direi di qualunque totalitarismo, compresi quelli antichi (se si può anche a questi, in qualche misura, applicare il concetto come categoria storica), ad esempio le imprese di Alessandro il Macedone o di Giulio Cesare o di Napoleone.
    Il totalitarismo riguarda anche la democrazia, di ieri e di oggi. Certo, non ci sono lager o gulag, ma c’è una ideologia che si presenta come ideologia di progresso e di bene che, invece, da ideale morale e civile diventa ideologia di conquista e di conservazione del potere, con tutte le conseguenze oppressive che ne seguono.
    Il problema è proprio questo: l’utopia è un ideale che si allontana dal realismo e dal pragmatismo, che può essere una spinta importante e utile sul piano morale ma che si trasforma, sempre, in distopia quando dal piano dell’ideale morale passa a quello del progetto politico da attuare anche con la violenza o comunque con la costrizione “legale” basata sulla forza.
    Ci sono pertanto elementi di identità e anche di differenza fra i diversi totalitarismi e certamente nelle prime tre schede è corretta la distinzione fra i lager nazisti e i gulag sovietici. Tuttavia questa lettura rimane alla superficie, perché non indaga a sufficienza le motivazioni di partenza e non indaga nemmeno altri aspetti della questione.
    1) Uno di questi aspetti riguarda un fondamento del bene utopico che si vuole realizzare. La patologia principale (non unica, ma principale) dell’utopia nazista sta nel vedere la sorgente del bene nella purezza della razza. Da qui viene la spinta “ideale” al massacro degli ebrei e degli zingari. Quando questa spinta è assente non abbiamo più i lager dello sterminio ma quelli del lavoro forzato dove la morte è frequente, ma non è lo scopo. E questi lager sono assai simili ai gulag sovietici e le percentuali di morte inferiori. Così, ad esempio, è stato per i campi di concentramento dei militari e civili deportati in Germania e usati come forza lavoro.
    La patologia principale dell’utopia sovietica / bolscevica sta invece nell’ideale della purezza ideologica. E non è vero che questo “ideale” non porti alla morte come finalità, ma si dà il caso che i destinati alla morte vengano uccisi subito e non rinchiusi nei gulag. Sono milioni i morti ammazzati subito, che non hanno visto i gulag. In un certo senso potremmo dire che la condanna al gulag era, per i bolscevichi, una condanna minore. Chi era condannato a morte veniva ucciso subito. E di questo gli storici delle prime tre schede e di tante altre schede possibili avrebbero dovuto tener conto meglio.
    2) Un altro aspetto non indagato a sufficienza è l’uso propagandistico del programma utopico / politico. Sia Hitler sia Lenin usano abbondantemente lo strumento della menzogna. Non è possibile dire in che misura essi credano davvero nel programma che propongono, ma è sicuramente possibile dire che molti loro seguaci non ci credono affatto, ma vivono nella menzogna per comodità, per opportunismo, per trarre vantaggi dalla situazione e così via dicendo. Infatti, e anche questo aspetto si riscontra fin dai tempi più antichi, l’ideale utopistico degenera, nei tentativi di realizzazione, non solo a causa dell’uso della violenza ma anche a causa dell’uso della menzogna, sia nella forma della propaganda sia in quella della dissimulazione opportunistica.
    In questo modo, qualunque siano le motivazioni ideologiche e le forme narrative che esse assumono, i risultati pratici sono sempre assai simili.
    *
    Simili, ma non identici, perché la storia non si ripete mai in “forme identiche”, sebbene si ripeta troppo spesso in “forme analoghe”. Le circostanze di tempi e di luoghi, di persone e di idee, differenziano le forme specifiche, ma queste sono poi riconducibili, per molti loro aspetti, a modelli più generali. Ed è così che i totalitarismi nazista e sovietico sono riconducibili a un modello analogo, al cui interno si articolano forme specifiche con tratti simili e altri tratti diversi.
    O, se si volesse parlare di due modelli diversi, bisognerebbe aggiungere che questi due modelli sono descrivibili anche come sotto-modelli di un modello più generale. E sarebbe più o meno la stessa cosa.
    *
    Infine, va osservato che gli autori delle quattro schede si collocano in un arco che genericamente possiamo dire di sinistra e di centro-sinistra, i quali, pur mettendo in luce le analogie e criticando il totalitarismo bolscevico, non si sottraggono alla tentazione di vedere in questo qualche elemento positivo che non vedono nel nazismo. Naturalmente, se si prendono in esame storici di destra, magari ex nazisti diventati critici del nazismo (come tanti bolscevichi sono diventati critici del bolscevismo), troveremmo che nella loro condanna del nazismo e nel confronto col bolscevismo si salvano alcuni elementi considerati positivi, o almeno più positivi rispetto al totalitarismo bolscevico. Ad esempio che il totalitarismo nazista riserva alla popolazione tedesca di razza ariana maggiore libertà nella vita quotidiana: libertà economica innanzitutto. Per cui, mentre il totalitarismo sovietico ha comportato trasformazioni radicali nella vita quotidiana di tutti, quello nazista ha lasciato pressoché intatta una sfera di vita privata molto più ampia (esclusi gli ebrei, gli zingari, gli oppositori politici).
    Da questo fatto è derivato poi il rapido adeguamento e la rapida ripresa economica della Germania dopo il 1945, mentre la distruzione sovietica di ogni base dell’economia privata ha richiesto tempi molto più lunghi, più tormentati e più tragici di ripresa, anche dopo il 1990 e ha segnato e determinato percorsi diversi solo in parte giustificati dal diverso livello di partenza già antecedente il potere totalitario, cioè antecedente alla conquista del potere da parte dei bolscevichi e dei nazisti. Insomma, la palingenesi (la rinascita) tentata dal bolscevismo è stata molto più radicale e distruttiva di quella tentata dal nazismo.
    La macchia inobliabile del nazismo è il razzismo e il massacro degli ebrei. Per tutto il resto, il regime nazista rassomiglia a molti altri regimi autoritari (e criminali) del passato e del presente. Non si può dire lo stesso del totalitarismo bolscevico che non esclude nessun aspetto della vita privata e pubblica e fra i regimi autoritari e criminali emerge per la sua singolare capacità di sconvolgere capillarmente ogni aspetto e ogni momento della vita dei suoi sudditi.
    Sarebbe davvero difficile cercare di tirare le somme e dire quale dei due totalitarismi è peggiore, pur sforzandosi di tener conto di tutte le diversità. In termini storici e quantitativi, il totalitarismo bolscevico, per la sua influenza mondiale assai più vasta e durata più a lungo (e che ancora sopravvive in alcune realtà, ad esempio a Cuba), ha causato e continua a causare più danni di quello nazista. In termini psicologici è il massacro degli ebrei che sentiamo come follia pura e come male assoluto, mentre la lucidità bolscevica trova in molti sotterranee giustificazioni e anche simpatie.
    *
    Il titolo dell’articolo pone la domanda: «Socialismo e/o comunismo: storie morte, parole morte?». Credo che la risposta possa essere: parole vive nella storia della cultura e della politica, vive come ideali, ma morte (spero) come programmi rivoluzionari, cioè come programmi politici da realizzare con la forza spinta fino all’annientamento fisico degli avversari.

  2. Il primo “rovescismo” (così’ l’ha chiamato Angelo D’Orsi) la Risoluzione europea lo compie sulla valutazione del patto Molotov-Ribbentrop, che avrebbe spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Infatti si legge:
    « Considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l’unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere d’interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale…»
    E un po’ più avanti: «sottolinea [sempre il Parlamento europeo] che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d’Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov -Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano l’obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l’Europa in due zone d’influenza.»
    Queste affermazioni sono semplicemente FALSE. Questo patto non venne fuori come un coniglio dal cilindro dei dittatori Hitler e Stalin. Va ricostruito il contesto.
    Nel gennaio 1934 la Polonia aveva sottoscritto un patto di non aggressione con la Germania nazista. E perché l’aveva sottoscritto? Perché stavano risultando sempre più evidenti le intenzioni aggressive ed espansionistiche di Hitler. Obiettivi che diventarono sempre più tangibili con la rimilitarizzazione della Renania (1936), l’annessione dell’Austria (marzo 1938) e l’occupazione dei Sudeti (1938). Prima di rivolgersi direttamente alla Germania, l’Urss aveva continuato a proporre, sin dal 1937, un patto antitedesco a Gran Bretagna e a Francia, ricevendone un netto rifiuto. Perché? Perché questi due meravigliosi “paesi liberi” non vedevano di malocchio l’espansionismo nazista in funzione antisovietica. Tant’è che nel settembre 1938 sottoscrissero il trattato di Monaco con cui diedero copertura diplomatica all’invasione nazista dei Sudeti e allo strangolamento della Cecoslovacchia. Del resto, il governo polacco continuò a rifiutare fino a metà agosto del 1939 l’aiuto militare che l’Urss gli propose…
    È chiaro che nei rapporti di forza politici e geopolitici, nulla è gratis. Ma è altrettanto chiaro che Stalin e i suoi generali avevano capito che l’Urss sarebbe diventato il vero bersaglio delle mire espansionistiche naziste. Col patto Molotov-Ribbentrop prese tempo e cercò di assicurarsi la difesa della prima cintura (di paesi) esterni ai suoi confini…Comunque, sicuramente non fu questo patto a produrre la Seconda guerra mondiale…
    Ciò detto, possono i parlamentari europei dimenticare che il maggiore contributo di sangue per sconfiggere l’esercito nazista fu dato dall’Urss?…Quello stalinista era un regime “totalitario”, d’accordo. Ma possiamo dire che i signori in giacca e cravatta che predicano oggi libertà, un po’ (tanto) di questa loro libertà la devono ai soldati sovietici?…Poi il “comunismo da caserma” sovietico è crollato, ma non mi risulta che abbia richiesto tanto contributo di sangue quanto il crollo della Wehrmacht…
    Insomma, non si può scrivere la storia a proprio uso e consumo. Se è vero che questi abusi li compiono i regimi totalitari, il Parlamento europeo non si comporta un po’ da “regime totalitario”, quando si mette a riscrivere POLITICAMENTE la storia?…Se sente il bisogno scrivere una Risoluzione contro la Russia di oggi, lo faccia; ma non stravolga i fatti di un passato in cui le “nazioni liberali” non brillarono certo per coraggio e lungimiranza…I fascisti e i nazisti furono coccolati in nome dell’anticomunismo. Oggi che in Europa non esiste più uno Stato comunista, invece di prendersela con le “democrazie illiberali” che stanno rivitalizzando fascisti e nazisti, si fanno proclami non si sa bene per cosa. Quali sono gli “Stati totalitari” attivi in Europa?…La memoria serve a qualcosa se possiamo utilizzarla soprattutto nel presente.

  3. …sono stata anch’io colpita, come Luciano Aguzzi, dalle riflessioni di T. Todorov sulla “tentazione del bene” che portò alla nascita dei regimi totalitari nazista e sovietico…Però, secondo me, bisognerebbe anzitutto procedere alla chiarificazione del pensiero o ideologia che stavano alla base del concetto di “bene”: il progetto nazista che ne derivava era la realizzazione di un impero dominato dalla razza pura, che comportava l’eliminazione di interi popoli e la gerarchizzazione di altri…mentre il pensiero comunista delle origini nutriva il progetto di affrontare le ingiustizie sociali con un piano di ridistribuzione delle ricchezze e dei mezzi di produzione, per affermare l’uguaglianza concreta degli esseri umani…Nel primo progetto- nazista o fascista- la guerra e i campi di sterminio erano strumenti indispensabili per il loro fine … nel secondo progetto, dove davvero la parola “bene” corrispondeva al suo significato, non c’era nulla di implicito in quanto agli strumenti, anzi il pensiero socialista escludeva le guerre capitalistiche e imperialistiche come possibili risolutrici dei problemi dei popoli, quindi anche della violenza gratuita, capace solo di avvantaggiare i potenti nelle loro mire espansionistiche. Nella Russia zarista e oppressa si arrivò allo strumento della Rivoluzione, partecipata e purtroppo anche sanguinaria. Se ne poteva fare a meno? Il seguito, certo, non fu come si sperava, con lo stalinismo si travisò il pensiero originario e si arrivò a una forma di dittatura totalitaria, con le sue numerosissime vittime…

  4. APPUNTO 1/ PROBLEMATICITA’ DEL TERMINE ‘TOTALITARISMO’

    Nella premessa delle schede ora proposte, intitolata ‘Totalitarismi’, cercavo di avvertire i lettori (studenti, insegnanti, a cui il manuale si rivolgeva) che la parola e il concetto, tuttora usati acriticamente, nel dibattito storiografico, filosofico e politico è sempre più traballante, dubbio e per alcuni storici quasi inservibile. E scrivevo:

    Per tentare di definire i caratteri inediti dei regimi politici del Novecento (fascismo, nazismo e comunismo) rispetto alle dittature del passato, si è fatto ricorso al termine ‘totalitarismo’, che è ormai entrato nel linguaggio comune e designa, secondo
    l’interpretazione datane da Hanna Arendt nel suo celebre *Origini del totalitarismo* (1951), una politica che ingloba l’individuo fino al suo annullamento. È bene sapere, però, che ‘totalitarismo’ non è parola neutra o “oggettiva”, ma controversa e, per alcuni studiosi, fuorviante. L’uso propagandistico fatto di tale termine durante la «guerra fredda» in funzione antisovietica e quello più recente da parte di storici “revisionisti” che se ne sono serviti per cercare di “assolvere” il nazismo ha finito per
    annullare differenze non trascurabili tra i vari totalitarismi.
    Combattere, come nel caso del fascismo e del nazismo, per affermare il primato di una razza o nazione ritenuta superiore contro altri popoli giudicati inferiori o incivili non è la stessa cosa che combattere per affermare il diritto all’eguaglianza, alla solidarietà, alla libertà degli individui e dei popoli, come nel caso del liberalismo o del comunismo, anche se i mezzi violenti usati sono stati simili. Inoltre non può essere trascurato che tendenze totalitarie si erano già manifestate in Europa durante la Grande guerra del 1914-1918, una guerra divenuta presto «totale», né che siano affiorate nella stessa democrazia americana (Hiroshima è un simbolo distruttivo da collocare accanto ad Auschwitz e ai Gulag), né che orrori simili a quelli avvenuti nei Lager e nei Gulag abbiano avuto dei precedenti nell’epoca del colonialismo ottocentesco e anche prima.
    Per mantenere, dunque, aperta e vigile la riflessione sulla violenza presente nella storia umana, nella scelta dei testi qui proposti abbiamo fatto nostro l’invito di vari storici a un uso cauto e critico del termine ‘totalitarismo’.

    E avevo preparato anche una scheda, poi espunta per volontà dell’editore timoroso di essere “impallinato” da critiche “nemiche”, in cui esemplificavo questa vaghezza del termine anche quando lo si riferiva al periodo stalinista:

    Il termine totalitarismo fu inventato negli anni Venti del Novecento dal fascismo italiano per descrivere i propri scopi e fino alla Seconda guerra mondiale venne usato quasi esclusivamente per criticare sia il fascismo sia il nazionalsocialismo. Esso indicava un sistema di potere centralizzato che imponeva un controllo su ogni aspetto della vita sociale per mezzo del monopolio della propaganda e dell’istruzione. Il romanzo di Georges Orwell 1984 (scritto nel 1948) espresse nella forma più incisiva l’immagine di una società totalitaria: una società di masse sottoposte al lavaggio del cervello sotto l’occhio vigile del «Grande Fratello», dal quale dissentiva sporadicamente solo qualche individuo isolato.
    La storiografia revisionista ha ripreso il concetto di totalitarismo e l’ha applicato alla storia dell’Unione sovietica, assimilando il comunismo staliniano al nazismo hitleriano e al fascismo di Mussolini. Essa ha insistito su alcuni loro tratti politici comuni (ruolo centrale del capo, organizzazione fortemente gerarchica dello stato, compenetrazione tra partito e Stato, repressione delle opposizioni, limitazione delle libertà individuali, ipernazionalismo), occultandone però le differenze: il razzismo, per esempio, che è assente nel regime di Stalin ed è invece fondamentale nel nazismo. I dubbi però sulla piena applicabilità al regime staliniano del termine totalitario sono vari. Innanzitutto un dato storico: pur essendo totalitario nelle intenzioni, il sistema staliniano non riuscì a esserlo nella pratica e non raggiunse mai l’organicità ideologica e la razionalità persecutoria e genocida del regime nazista, tanto fu pieno di contraddizioni, improvvisazioni, automatismi. La stessa storia dell’Urss successiva a Stalin, conclusasi con l’implosione nel 1991 di quello Stato, fa ritenere che, sotto la cappa relativamente totalitaria del regime, molte lotte individuali e sociali furono condotte in forme atipiche (resistenza, assenteismo, rifiuto di collaborare, fuga), anche se sono state poco o per niente documentate. Il presunto Moloch non era riuscito a essere davvero così pervasivo; e lo storico Lewin (Cfr. prima…) ha dimostrato ampiamente quanto il mondo contadino, vittima principale delle scelte di Stalin, abbia a sua volta “ruralizzato” il regime di Stalin. Questo non vuol dire negare le nefandezze di quel regime o assolvere in qualche modo il terrore staliniano, ma semplicemente rifiutare un’equivalenza nazismo-stalinismo che distorce la realtà e cercare, invece, la difficile spiegazione del terrore staliniano nella storia specifica di quel tempo e di quel paese. Si ricordi poi che questa equivalenza si è imposta negli studi dopo la caduta dell’Urss e soprattutto per iniziativa di storici tedeschi (Nolte, ecc.), che hanno cercato così di relativizzare il regime nazista e dimostrare che la sua violenza era una risposta a un male uguale o peggiore. Prima – e precisamente durante la Seconda guerra mondiale – le grandi democrazie occidentali (Inghilterra, Francia, Stati Uniti) si erano alleate con l’Urss di Stalin per combattere nazismo e fascismo, non ritenendola evidentemente in quel momento totalitaria quanto la Germania nazista e l’Italia fascista; e allora la differenza fra comunismo (inteso come regime di Stalin) e nazismo era a tutti evidente: l’Urss aveva versato il contributo sicuramente più alto di sangue (le ultime stime danno fra i 26 e i 27 milioni di morti) nel combattere proprio contro quel nazismo oggi considerato “equivalente”. Inoltre, l’uso del termine totalitario viene facilmente esteso anche al periodo di Lenin, motivandolo con l’uso del terrore che accomunerebbe Lenin e Stalin. Anche in questo caso si distorce la realtà storica. Nei primi brevi anni della rivoluzione russa, infatti, il potere sovietico condusse la repressione degli avversari sempre o quasi improvvisandola: l’Armata rossa fu inventata da Tročkij durante la guerra civile e la famigerata polizia politica (Ceka) era allora uno strumento rudimentale. Nulla a che vedere con l’immenso potere repressivo di cui dispose Stalin nel suo lungo periodo di incontrastato dominio (1927-1953). Si pensi anche che non solo Lenin non fece eseguire le condanne a morte dei menscevichi, ma che «la quantità di processi e di esecuzioni, compresa la guerra civile, sono in tutti gli anni Venti inferiori a quelli del solo 1930» (Rossanda).
    Discutere se l’Urss staliniana è stata totalitaria in assoluto o totalitaria in modi specifici, è del resto secondario rispetto al problema di giudicare se avesse effettivamente costruito il comunismo come pretendeva. Questo innegabilmente non si è verificato, anche se una buona parte del proletariato mondiale ha effettivamente confuso la «patria del socialismo» con un paese dove si costruiva il comunismo. I miracolosi risultati dell’industrializzazione sovietica proprio negli anni in cui i paesi capitalisti subivano gli effetti disastrosi del crollo di Wall Street (1929), la resistenza vittoriosa dell’Urss a Hitler e poi la capacità di tenere testa negli anni della guerra fredda alla potenza degli Stati Uniti hanno alimentato un mito che – com’è proprio del mito – accoglieva in sé elementi contraddittori, reali e immaginari. Perché una certa realtà sovietica (gli orrori dei gulag, la repressione dei cittadini) fosse davvero riconosciuta e si vedesse quanto fosse in contrasto con l’ideale comunista è dovuto passare quasi mezzo secolo. Per accettare e considerare veri i fatti più sconcertanti del periodo di Stalin e non rimuoverli ricorrendo all’ideologia o all’immaginario comunista, moltissimi hanno dovuto aspettare che avanzassero processi culturali capillari (letture, film, resoconti di viaggi, ecc.) che hanno mutato dal basso la mentalità e i modi di vedere la storia. Non era bastata la conoscenza di fatti realissimi come l’espulsione di Tročkij, uno dei massimi dirigenti, dal partito bolscevico nel 1927 o le “purghe” del 1936-‘38 o la firma del patto fra Germania hitleriana e Urss (24 agosto 1939). Né più tardi, nel 1956, bastarono il rapporto di Kruscev contro il «culto della personalità» tributato in Unione sovietica a Stalin, e poi, sempre nel 1956, le rivolte operaie e popolari in Polonia e in Ungheria; e poi ancora la «primavera di Praga» nel 1968. Le giustificazioni, i tentativi di distinguere nell’Urss un socialismo «buono» da un socialismo «cattivo», le controdenunce continuarono fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli esodi di massa dai paesi dell’Est. Ora che quelle popolazioni sono uscite dall’isolamento sia pur attraverso un processo storico terrificante, pagato innanzitutto dai lavoratori, che hanno dovuto subire sotto un regime “socialista” livelli molto alti di sfruttamento, forse comincia per tutti una storia che non segue più né le strade del defunto «modello socialista» né meccanicamente quelle del «modello capitalistico». E forse proprio i frammenti di storia “non totalitaria” dell’ex Urss potrebbero essere preziosi.

  5. Ennio scrive: «Il termine totalitarismo fu inventato negli anni Venti del Novecento dal fascismo italiano per descrivere i propri scopi e fino alla Seconda guerra mondiale venne usato quasi esclusivamente per criticare sia il fascismo sia il nazionalsocialismo». Ciò è in parte vero e in parte no e l’affermazione va articolata. Il termine fu inventato dal fascismo e usato dal fascismo per descrivere in positivo la propria concezione dello Stato. Si pensi, ad esempio, all’opera di sintesi di Paolo Orano pubblicata nel 1939/1940 in due grossi volumi, sullo Stato fascista, il primo dedicato allo Stato corporativo, il secondo allo Stato totalitario (“Rivoluzione delle camicie nere. Lo stato totalitario” ). Sono gli avversari del fascismo e del nazismo che riprendono il termine e lo usano in senso critico. Il fascismo e il nazismo, a differenza del bolscevismo, non negano il carattere totalitario dello Stato che costruiscono, ma propongono un’idea positiva del totalitarismo (secondo la loro filosofia e dottrina politica).
    E questa è un’altra delle tante differenze fra i totalitarismi “neri” e “rossi” e un altro aspetto dell’ambiguità del termine. Ma la politica, e la storia, sono intrisi di termini ambigui e non se ne esce restando all’interno del piano delle circostanze storiche, perché gli eventi storici, su questo piano, sono tutti diversi e mai identici.
    Per interpretare e capire la storia è però necessario passare al piano dei modelli, delle generalizzazioni, dei raggruppamenti per analogie. A questo livello la categoria “totalitarismo” ha svolto una funzione utile e ha messo a fuoco (certo, ripeto, con ambiguità irrisolvibili) un tipo di potere autoritario e criminale distinguendolo utilmente da altri tipi di potere autoritario e criminale. La costruzione di modelli mette insieme, necessariamente, realtà individuali diverse, ma serve a estrarne gli elementi comuni e a studiarli meglio. È un lavoro di “generalizzazione” che però poi ridiscende sugli eventi storici con compiti di “specificazione” (anche di tipo giuridico e sociologico). Se, ad esempio, anziché “totalitarismo” si usassero solamente i termini “dittatura” e “regime autoritario” saremmo ancora più nel generico. Il totalitarismo è un regime dittatoriale che presenta alcune caratteristiche che lo distinguono da altri tipi dittatoriali.
    Detto questo, è certamente vero che ogni totalitarismo presenta una sua specificità, non solo per quel che riguarda l’ideologia, le motivazioni e le finalità proclamate (almeno come propaganda), ma anche per l’intensità con cui ha realizzato gli aspetti del proprio totalitarismo. Il fascismo non è riuscito a realizzare veramente il suo proclamato e perseguito Stato totalitario e, quasi in senso derisorio, è stato definito un totalitarismo imperfetto o, peggio, all’acqua di rose. Il nazismo lo ha realizzato in misura maggiore e anche il bolscevismo si è realizzato in misura maggiore.
    Ma, si oppone che il nazismo perseguiva il “male” come propria finalità, mentre il bolscevismo perseguiva il “bene” e il “male” che ne è seguito è stato frutto di circostanze, di deviazioni, di degenerazioni non previste.
    I concetti di “bene” e “male” sono però molto ambigui, più ambigui ancora del concetto di totalitarismo. Cosa vuol dire perseguire il “bene”? Il fatto è che il nazismo e il bolscevismo hanno idee molto diverse del bene da perseguire, ma che il loro “bene” è comunque il “male” per chi la pensa diversamente e per chi viene ucciso perché la pensa diversamente.
    La lezione di Todorov sulla “tentazione del bene”, come la lezione della tradizione libertaria, ci dice che ogni concezione particolare del “bene”, imposta con la violenza, in realtà è “male”. È male in teoria e in pratica perché viola le basi del vero bene comune, che è la libertà e il rispetto degli altri. Il vero bene comune è, in sintesi, il principio di non aggressione, mentre tutte le forme di aggressione sono “male”. Per la vittima uccisa perché difende la propria libertà è davvero indifferente la distinzione fra l’essere ammazzato in nome dell’ideale nazista o esserlo in nome di quello bolscevico. Chi ritiene che i morti ammazzati dal nazismo abbiano più peso di quelli ammazzati dal bolscevismo e che gli assassini nazisti siano ingiustificabili mentre su quelli bolscevichi ci si può ragionare sopra e in parte giustificarli, si pone su un piano morale per me non accettabile, perché dà per scontato che l’uccisione di innocenti possa essere, in qualche circostanza, una utile opportunità politica (talvolta mascherata da immaginaria necessità).
    In quanto alla vecchia domanda se la degenerazione bolscevica cominci già da Lenin o sia sopravvenuta solo con Stalin, i critici del marxismo hanno risposto fin dalla seconda metà dell’Ottocento, attribuendo al pensiero politico di Marx le caratteristiche di una dottrina che, se realizzata, sarebbe immancabilmente sfociata in una tirannia. Facile ed esatta previsione. La distinzione fra Lenin e Stalin non verte sul carattere dello Stato che hanno in testa, per entrambi “dittatura del proletariato”, cioè Stato totalitario, ma piuttosto sulla quantità di cadaveri che sono disposti ad ammucchiare per realizzarlo. Lenin, forse, si fa qualche scrupolo di più; ha una concezione meno personale della gestione del potere; ha un maggiore equilibrio umorale. Se fosse vissuto altri vent’anni probabilmente la storia dell’Urss avrebbe registrato meno morti. Ma ciò non giustifica Lenin (né Trockij né altri), che comunque ha firmato di suo pugno ordini di morte per migliaia e migliaia di persone colpevoli di non pensarla come lui.
    Del resto anche i concetti e gli eventi hanno una loro genealogia e la “dittatura del proletariato” nasce dalla “dittatura popolare” proclamata dall’ala estrema del terrore giacobino negli anni 1789-1793. Il massacro degli avversari come strumento politico e il programma di uno Stato totalitario sono già contenuti in quell’esperienza alla quale Marx si è rifatto seguito dalla tradizione marxista.
    Il “Bene” perseguito dal bolscevismo era già un “male radicale” prima ancora che il termine bolscevismo fosse stato coniato.
    Un “male radicale” antico e che si è realizzato nella storia ogni volta che il potere si è sentito legittimato a uccidere in nome del “Bene”. Comunque fosse definito il “Bene” (Dio, Paradiso, Pace sociale, gloria dello Stato, Patria, Fratellanza, Umanità, Uguaglianza, Razza, Impero, ecc. ecc.).

  6. APPUNTO 2/ DEMOCRAZIA, FASCISMO, COMUNISMO. CHE ALTRO?

    Dire che la realtà umana «è un giardino imperfetto, destinato a restare tale» (Montaigne) o che «da un legno storto com’è quello di cui l’uomo è fatto non può uscire nulla di interamente diritto» (Kant) equivale a sostenere, appoggiandosi a grandi pensatori, che la realtà è immutabile. Ce la dobbiamo tenere così… con tutti o molti dei suoi aspetti che ci fanno soffrire o fanno soffrire milioni di uomini e donne che resteranno insanabili?

    Lo scontro tra dominatori e dominati – continuo, spesso sordo e sotterraneo e a volte con improvvise o impreviste fiammate – attraversa le epoche storiche delle società umane (il mondo antico e quello feudale, quello moderno e poi industriale e ora post-moderno, secondo le periodizzazioni in uso) ed è in fondo riconducibile a quello tra essere e divenire, conservazione e innovazione. E però, dall’industrializzazione in poi, quello scontro secolare, oltre ad accelerarsi e a definirsi meglio (da scontro tra ricchi e poveri a scontro tra lavoratori e capitalisti e poi nel Novecento, dopo la Rivoluzione russa del ‘17, tra fascisti e comunisti; mentre nell’epoca che stiamo vivendo sembra frammentarsi e complicarsi e rendersi quasi indecifrabile) ha fatto balenare anche delle prospettive o utopie *totali*, di cambiamento generale. (“Totalitarie” è il termine negativo attribuito da pensatori liberali – la Arendt tra loro – a fascismo e comunismo, come se la democrazia (liberale) fosse di per sé esente o in parte o in toto immune da queste “patologie totalitarie” (come le chiama Aguzzi); e potesse crescere gradualmente, senza scossoni verso un futuro di progresso e libertà.

    Ma è davvero la democrazia (nelle forme reali o ideali) superiore da una parte al fascismo e dall’altra al comunismo? A me pare che non si possa rispondere in astratto. Ho però l’impressione che stanno maturando scelte individuali e collettive. Si affermeranno a livello quantitativo (quello decisivo) nel senso di un allargamento della democrazia? O nel senso di un suo restringimento? O nel senso di una sua sostituzione con ipotesi che – direttamente o indirettamente – si riallacceranno alle esperienze del passato (fascismi o nazismo, comunismi vari)?
    Non so dirlo.
    So che ogni regime permette ad una parte maggioritaria ( realmente o nell’immaginario e i due aspetti sono complementari) della popolazione di godere direttamente o indirettamente di vantaggi (molti o pochi). Che saranno invece, ridotti o infimi o nulli per quanti ne sono ai margini o esclusi o eliminati.
    Anche le prospettive oggi escluse o in apparenza non più praticabili nelle vecchie forme (fascismo e comunismo) hanno offerto dei vantaggi. In uno dei suoi commenti Aguzzi ha giustamente ricordato che il nazismo, razzista e massacratore degli ebrei (e degli zingari, omosessuali e handicappati), ha riservato «alla popolazione tedesca di razza ariana maggiore libertà nella vita quotidiana: libertà economica innanzitutto.». E vantaggi simili offrì ad una parte della popolazione anche il regime del comunismo stalinista.

    Quanti sono o saranno quelli che dovranno sopportare le conseguenze negative (dall’emarginazione, all’esclusione, all’eliminazione fisica) dei vari regimi che domineranno nella nostra epoca e dopo? Quale regime, almeno in teoria, prevede la loro esistenza dignitosa o una loro maggiore libertà?

    Se è ancora vero quanto scrive Aguzzi: «Per la vittima uccisa perché difende la propria libertà è davvero indifferente la distinzione fra l’essere ammazzato in nome dell’ideale nazista o esserlo in nome di quello bolscevico» ( ma per completare il quadro, tengo ad aggiungere anche le vittime in nome dell’ideale democratico’ o delle “guerre democratiche”), per noi che riusciamo ancora a riflettere su questi aspetti dilemmatici e spesso tragici della storia umana e non siamo ancora costretti a scelte immediate o di sopravvivenza resta forse un compito: rifiutare e combattere soluzioni che si richiamano al fascismo e al nazismo o alle democrazie autoritarie e “sovraniste”.

    Aguzzi, nella discussione con me che dura da tempo, si è nuovamente pronunciato per una soluzione chiamiamola “non violenta” : «Il vero bene comune è, in sintesi, il principio di non aggressione, mentre tutte le forme di aggressione sono “male”»
    E’ possibile?
    Io ho molte riserve. E resto legato all’idea di comunismo nell’accezione fortiniana: non come volontà di «imporre un mondo perfetto» (come dice Todorov) ma come ««POSSIBILITÀ (QUINDI SCELTA E RISCHIO, IN NOME DI VALORI NON DIMOSTRABILI) CHE IL MAGGIOR NUMERO DI ESSERI UMANI – E, IN PROSPETTIVA, LA LORO TOTALITÀ – PERVENGA A VIVERE IN UNA CONTRADDIZIONE DIVERSA DA QUELLA OGGI DOMINANTE» ( https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/ ). Continuiamo a confrontarci.

  7. …se si pone il dovere di non usare violenza sugli altri, ed io ne sono molto convinta, per rispettare libertà e dignità di ogni essere umano e vivente, contemporaneamente ci poniamo il problema di non subirla perchè anche noi abbiamo diritto alla libertà e alla dignità…Così è facile evidenziare rapporti di forza molto squilibrati tra individui e popoli…c’è quello che può avvalersi di strumenti di “difesa” (che si trasformano in offesa) assolutamente non affrontabili, come armi micidiali capaci di ridurre al silenzio, altri che hanno a disposizione parole spuntate o un mucchietto di sassi…La “democrazia” finisce per diventare così per i più deboli -dei senza armi, dei senza voce- una forzata accettazione dello stato di fatto…Secondo me una delle armi più subdole, e solo apparentemente non violente, di cui si avvalgono le “democrazie” di oggi è la cultura di massa, un totalitarismo che crea modelli autodistruttivi e distruttivi, ma anche conservativi di uno stato di cose

  8. SEGNALAZIONE

    La memoria europea del comunismo
    di Alberto Leiss

    https://ilmanifesto.it/la-memoria-europea-del-comunismo/

    Stralcio:

    Proprio chi non rigetta il nome comunismo, vedendo ancora in questa parola la radice di un bisogno alternativo allo “Stato delle cose presenti”, dopo aver denunciato grossolane falsificazioni e respinto inaccettabili equiparazioni con il nazifascismo, non può rimuovere il problema della costruzione di una memoria rigorosa su che cosa ha significato per l’Europa, e per il mondo, la tragedia di regimi politici che, nati invocando una nuova pacifica “internazionale futura umanità”, hanno dato luogo a costruzioni statali autoritarie e violente, e nel periodo staliniano in Urss a una vera e propria forma di totalitarismo.

    Parlo prima di tutto per me, naturalmente. E questo riguarda non solo il passato, ma un presente in cui una grande potenza, una potenza sempre più grande come la Cina ci offre il connubio abbastanza mostruoso tra la parola comunismo e un regime basato su un intreccio inedito tra capitalismo aggressivo e autoritarismo politico e statale.

    Moltissimi anni fa, maneggiando tra gli altri quel testo di Mao intitolato “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, mi ero illuso per un breve periodo che dalla seconda maggiore rivoluzione socialista potesse nascere un modello diverso da quello sovietico.

    In quel testo si diceva, in fondo, una cosa molto semplice: se la violenza è ammissibile nella battaglia contro il nemico, non lo è invece nel conflitto con chi, pur stando dalla tua parte, la pensa diversamente da te. Era una critica manifesta al “metodo” stalinista di eliminare fisicamente chiunque non seguisse la sua linea, in un assetto sociale in gran parte condizionato dalla paura e dalla delazione.

    Da tempo credo che la violenza non possa mai essere davvero legittima.

    E da tempo cerco di saperne di più di chi ha subito la violenza dei regimi comunisti.

    Non mi piacciono le “giornate della memoria”, specialmente se in date sbagliate, tantomeno condivido la rimozione dei monumenti del passato. Di tutti i passati.

    Ma coltivare la memoria onesta di una tradizione che ci appartiene mi sembra necessario se si vuole costruire una vera alternativa.

  9. APPUNTO 3/ STORIA E (E’) VIOLENZA

    Sto rileggendo il commento che avevo scritto nel 2017 a ‘Comunismo’ di Fortini e vorrei segnalare questo brano che, pur con qualche ripetizione da ripulire, affrontava le questioni della violenza nella storia e – il tema non è contingente, ma forse “epocale” – dell’equiparazione comunismo-nazismo (fascismo). Lo ripropongo:

    E perciò quando in questo mio punto 6 del commento Fortini afferma che il combattimento per il comunismo «passa anche attraverso errori e violenze», tocca una questione ostica, quasi sempre travisata e rimossa dal pensiero e dal dibattito. Perché l’intera storia umana e non solo quella del comunismo otto-novecentesco presentato (assieme al nazismo) come il Male assoluto, s’è svolta, appunto, con errori e violenze quasi impensabili e ingiustificabili (per chi ragiona). L’orrore che la storia umana suscita – a volte Fortini l’ha paragonata a una testa di Medusa che pietrifica chi tenta di guardarla – rafforza la tentazione di esorcizzarla, di allontanarsene, di rifugiarsi altrove, di solito in piccoli o vasti mondi religiosi o ideali o utopici. E, da questi rifugi – oh! – com’è facile condannare errori e violenze. Spesso delle parti avverse a quella in cui ci si riconosce. Meno spesso, di tutti gli antagonisti indistintamente. (Un esempio: il Montale del «Piccolo testamento» di «La bufera», che di notte, nella «calotta» del suo pensiero, inseguiva qualcosa che «non è lume di chiesa o d’officina/ che alimenti/ chierico rosso o nero).

    Tali (moralmente rispettabili) condanne non hanno mai impedito né impediscono che errori e violenze continuino ad accadere. E oggi, sempre da noi in Occidente, tali condanne si presentano o nelle forme religiose delle varie Chiese o laicamente ricorrendo alla categoria del *totalitarismo* formulata da Hanna Arendt. Fascismo e comunismo – i Mali assoluti – vengono equiparati. Si tenga conto che sono stati gli unici movimenti che, da sponde contrapposte e per scopi diversi – il primo per riaffermare la dittatura di una élite aristocratica (e di un Capo); il secondo quella del “proletariato”- hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico. Sono stati gli unici movimenti che hanno tentato la *rivoluzione* e usato apertamente quella stessa violenza, che i loro avversari democratici (e i loro eredi odierni) usavano o usano in modi soltanto più velati. Accomunando fascismo e comunismo ed equiparandoli in un’unica condanna, cosa si ottiene, cosa si cancella? Ogni distinzione tra scopi completamente contrapposti. Perché anche se usassero gli stessi strumenti per affermarsi, dovrebbe essere chiaro che le lotte che puntano alla supremazia di una élite, di una razza o di una classe non sono la medesima cosa delle lotte fatte invece per abolire tale supremazia. O, nella versione “maoista” (memore del fallimento dell’esperienza sovietica) che Fortini dà qui del comunismo, per «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto». Il ricorso, dunque, al concetto di *totalitarismo* liquida e svilisce per sempre ogni discorso sul comunismo, come questo di Fortini del 1989, e esorcizza ogni possibile sua ripresa, perché fa della violenza, attribuita esclusivamente al fascismo e al comunismo, come se non fosse altrettanto presente in tutte le esperienze storiche (comprese quelle democratiche che la continuano ad esercitare ed in modi equiparabili a quelle esercitate da fascisti e comunisti), un tabù solo apparente.
    «Far torto o patirlo»? L’interrogativo manzoniano sta sempre davanti alle coscienze pensanti e ragionanti. Riconoscendo, come fa Fortini in questo articolo, che il comunismo « passa anche attraverso errori e violenze» ( o ricordando in suoi versi del 1958, da «Forse il tempo del sangue…» che bisogna « cercare i nostri eguali osare riconoscerli/lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare»), rifiuta, come fece lui fino agli ultimi suoi giorni, una visione irenica e pacifista della storia e, allo stesso tempo, della lotta per il comunismo. Errori e violenze ci sono e ci saranno. Riconoscere questa durissima verità non vuol dire però giustificare o assolvere i combattenti per il comunismo per gli errori e le violenze che *sicuramente* hanno commesso e commetteranno. O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunsti). E neppure appellarsi allo scopo giusto o alle “buone intenzioni” del comunismo per giustificare le “proprie” violenze.Neppure la formula abusata del *fine che giustifica i mezzi* spicci o brutali, dimostratisi sempre efficaci per la conquista o la conservazione del potere, può abbuonare errori e violenze compiuti a cuor leggero o magari vigorosamente e senza alcun scrupolo, nella convinzione che affretterebbero la realizzazione del comunismo.
    Chi sceglie di «far torto» invece che «patirlo», rischia errori e violenze, che resteranno errori e violenze. Nessuno potrà contrabbandarli come atti necessari o addirittura produttivi, utili alla costruzione del comunismo. Fortini non li “sdogana”, per usare un termine in voga. Dice soltanto che errori e violenze potranno – è ancora e solo una *possibilità* – diventare «intollerabili», come i pacifisti e non solo loro desidererebbero avvenisse. Ma solo «quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri». Sottolineerei che per «altri» Fortini intende *tutti gli altri* come si presentano nella storia (che possiamo apprendere) e nell’esperienza nostra quotidiana : amici, prossimi, stranieri, poveri, ricchi, avversari, nemici. Non dice mai – insisto – che bisogna fare il callo ad errori e violenze. Non esalta la violenza come unica norma di comportamento o la più efficace (come fa il pensiero di Destra). Respinge la visione hobbesiana dell’«homo homini lupus». Non ammette che la natura umana – cattiva in partenza secondo alcuni, buona secondo altri o mista- sia inalterabile e che ad essa ci si possa soltanto adattare, traendone il massimo vantaggio possibile (individualmente o per la comunità in cui ci si riconosce). Che è, di fatto, la logica di chi rifiuta la *possibilità* del comunismo o che si possa arrivare « a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante» ( cfr. ancora punto 2).
    No, se nel «combattimento per il comunismo» si ha – e non è detto che si abbia di sicuro! – una crescita di consapevolezza di noi e degli altri, anche la capacità di non tollerare errori e violenze crescerà. Ma allora non è che i pacifisti sono già, di loro, positivamente “intolleranti” ad errori e violenze? Direi di no, perché la loro intolleranza alla violenza è *fuori dalla storia*, si ferma davanti a quelli che continuano a praticarla sia nei rapporti sociali che personali . Certo i pacifisti si rifiutano di «far torto», di usare lo strumento della violenza che gli altri continuano ad usare, convinti che «patirlo» eviti il peggio.
    Siamo anche qui di fronte a una « scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili)», come quella per il comunismo o , per altri versi, quella per il fascismo.
    E, ancora, a differenza di quanti esaltano un’astratta libertà degli uomini o dei singoli, ritenendola invalicabile in teoria ma accettando in pratica che altri più prepotenti la calpestino, Fortini riconosce che « il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi». Un’affermazione scandalosa. Non fanno forse questo i capitalisti, i politici, i generali, i capi? I comunisti dovrebbero imitare costoro, strumentalizzare i loro simili? Sì, risponde Fortini spiegando la differenza netta tra l’uso capitalistico degli uomini e l’uso comunista degli uomini. Oggi, in un assetto sociale capitalistico, gli uomini vengono usati «per un fine che non è mai la loro vita», vengono usati per accrescere il dominio del Capitale, non per migliorare la propria vita. La lotta per il comunismo, anche se il raggiungimento del fine (il comunismo) non è garantito, prevede che gli uomini vengano, sì, ancora usati, «ma sempre meno» e per « un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi». Questo uso di altri uomini per tale fine o l’accettazione di essere usati per tale fine sono atti di responsabilità. E chi se li assume lo farà , ancora una volta, senza garanzie. Non è la necessità né la storia che potranno giustificare questi usi. Infine ci si chiederà: ma i comunisti nella storia del 900 hanno forse fatto questo? Non sempre. Ma molti si sono incamminati in questa direzione. E bisogna recuperare le loro «buone rovine».

    (https://www.poliscritture.it/2017/03/09/appunti-politici-6-comunismo-di-f-fortini/)

    *Nota

    Questo passo aveva ottenuto un commento critico da parte di Donato Salzarulo:

    « il lavoro messo in cantiere da Ennio: aiuta a sciogliere i nodi di un discorso pieno di rimandi, di echi, di altre voci, la cui sintassi è tutt’altro che facile e lineare. Ennio stesso in certi punti deve ammettere di trovarsi di fronte a dei veri e propri scogli interpretativi: ad esempio, punto 4 quando si parla del “limite da riconoscere”, del “nulla divoratore”, ecc.
    In generale, credo che il commento prodotto finora sia abbastanza condivisibile. Anche se, come è naturale, la lettura è abbastanza proiettiva e creativa. Nel senso, che si possono facilmente ricostruire le domande a cui Ennio cerca di dar risposte interrogando il testo di Fortini.
    Lo ritengo un procedimento legittimo, anche se può dar luogo a forzature.
    Una forzatura che non condivido è quella che mi sembra di intravedere in questo brano:[quello citato sopra]».

    Non venivano però precisate, a meno che mi siano sfuggite, quali erano per lui le mie ‘ forzature’.

  10. Riporto di seguito il mio intervento completo:

    Apprezzo molto il lavoro interpretativo che Abate sta facendo sul testo di Fortini riguardante il “comunismo”. È un testo che, letto e riletto, fin dalla sua prima pubblicazione su “Cuore”, supplemento satirico de “L’Unità” nel gennaio del 1989, continua a stupirmi per la sua assertività e stringatezza. Concentrare in poche migliaia di battute (per l’esattezza 5.484, spazi inclusi) l’essenziale di un movimento storico il cui “Manifesto” (di Marx-Engels) aveva quasi un secolo e mezzo di vita; condensare in poche decine di righe pensieri, opere, speranze, lotte, illusioni, delusioni, drammi, tragedie di milioni di persone rappresentava sicuramente una bella sfida. Teniamo presente che gli anni Ottanta sono quelli di Reagan (1981-89) e Thatcher (tre mandati: dal 1979 al 1990), di Solidarnosc, dei “nuovi filosofi”, della “crisi del marxismo”, ecc. Quando Fortini scrive questo testo, il muro di Berlino non è ancora caduto, ma cadrà nel novembre del 1989. Ripubblicandolo nel 1990 in «Extrema ratio», oltre a indicare la sede in cui era uscito la prima volta (un quotidiano umoristico: «amano volgere in gioco quel che è troppo doloroso assumere in serietà»), scrive: «Fuor dei nemici e degli avversari, nessuno definisce più il Comunismo». Fortini, invece, accettò la sfida di definirlo («come una scommessa metrica»), dando ai suoi enunciati la densità e la profondita di una «deliberazione conclusiva» (“extrema ratio”).
    Questo per sottolineare quanto sia importante il lavoro messo in cantiere da Ennio: aiuta a sciogliere i nodi di un discorso pieno di rimandi, di echi, di altre voci, la cui sintassi è tutt’altro che facile e lineare. Ennio stesso in certi punti deve ammettere di trovarsi di fronte a dei veri e propri scogli interpretativi: ad esempio, punto 4 quando si parla del “limite da riconoscere”, del “nulla divoratore”, ecc.
    In generale, credo che il commento prodotto finora sia abbastanza condivisibile. Anche se, come è naturale, la lettura è abbastanza proiettiva e creativa. Nel senso, che si possono facilmente ricostruire le domande a cui Ennio cerca di dar risposte interrogando il testo di Fortini.
    Lo ritengo un procedimento legittimo, anche se può dar luogo a forzature.
    Una forzatura che non condivido è quella che mi sembra di intravedere in questo brano:

    «Tali (moralmente rispettabili) condanne non hanno mai impedito né impediscono che errori e violenze continuino ad accadere. E oggi, sempre da noi in Occidente, tali condanne si presentano o nelle forme religiose delle varie Chiese o laicamente ricorrendo alla categoria del *totalitarismo* formulata da Hanna Arendt. Fascismo e comunismo – i Mali assoluti – vengono equiparati. Si tenga conto che sono stati gli unici movimenti che, da sponde contrapposte e per scopi diversi – il primo per riaffermare la dittatura di una élite aristocratica (e di un Capo); il secondo quella del “proletariato”- hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico. Sono stati gli unici movimenti che hanno tentato la *rivoluzione* e usato apertamente quella stessa violenza, che i loro avversari democratici (e i loro eredi odierni) usavano o usano in modi soltanto più velati. Accomunando fascismo e comunismo ed equiparandoli in un’unica condanna, cosa si ottiene, cosa si cancella? Ogni distinzione tra scopi completamente contrapposti. Perché anche se usassero gli stessi strumenti per affermarsi, dovrebbe essere chiaro che le lotte che puntano alla supremazia di una élite, di una razza o di una classe non sono la medesima cosa delle lotte fatte invece per abolire tale supremazia. O, nella versione “maoista” (memore del fallimento dell’esperienza sovietica) che Fortini dà qui del comunismo, per «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto». Il ricorso, dunque, al concetto di *totalitarismo* liquida e svilisce per sempre ogni discorso sul comunismo, come questo di Fortini del 1989, e esorcizza ogni possibile sua ripresa, perché fa della violenza, attribuita esclusivamente al fascismo e al comunismo, come se non fosse altrettanto presente in tutte le esperienze storiche (comprese quelle democratiche che la continuano ad esercitare ed in modi equiparabili a quelle esercitate da fascisti e comunisti), un tabù solo apparente.
    «Far torto o patirlo»? L’interrogativo manzoniano sta sempre davanti alle coscienze pensanti e ragionanti. Riconoscendo, come fa Fortini in questo articolo, che il comunismo « passa anche attraverso errori e violenze» ( o ricordando in suoi versi del 1958, da «Forse il tempo del sangue…» che bisogna « cercare i nostri eguali osare riconoscerli/lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare»), rifiuta, come fece lui fino agli ultimi suoi giorni, una visione irenica e pacifista della storia e, allo stesso tempo, della lotta per il comunismo. Errori e violenze ci sono e ci saranno. Riconoscere questa durissima verità non vuol dire però giustificare o assolvere i combattenti per il comunismo per gli errori e le violenze che *sicuramente* hanno commesso e commetteranno. O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunsti). E neppure appellarsi allo scopo giusto o alle “buone intenzioni” del comunismo per giustificare le “proprie” violenze. Neppure la formula abusata del *fine che giustifica i mezzi* spicci o brutali, dimostratisi sempre efficaci per la conquista o la conservazione del potere, può abbuonare errori e violenze compiuti a cuor leggero o magari vigorosamente e senza alcun scrupolo, nella convinzione che affretterebbero la realizzazione del comunismo.»

    1) Coloro che accomunano sotto l’unica voce di “totalitarismo” fascismo e comunismo fanno un’operazione sicuramente scorretta (sia dal punto di vista storiografico che politico), ma come si combatte questa scorrettezza?…Certo, distinguendo, le diverse idealità di fascismo e comunismo, ma non accomunandoli contro il liberalismo. In sostanza, una sorta di accettazione rovesciata dello schema liberale. Meglio analizzare con maggiore attenzione la questione.

    2) La categoria del “totalitarismo” non è stata formulata soltanto da Hannah Arendt. Leggo su Wikipedia che «Storicamente il termine è stato creato per indicare la dottrina politica del fascismo italiano e, successivamente, del nazismo tedesco. Simona Forti attribuisce [in “Il totalitarismo”, Laterza 2001] la primogenitura del termine a Giovanni Amendola, il quale lo usò a partire da un articolo del 1923 sulle pagine del quotidiano Il Mondo. In esse Amendola definì il sistema totalitario come “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa”. Su La Rivoluzione Liberale, nel 1924, Don Luigi Sturzo commentò la “nuova concezione di stato-partito” come causa di una “trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza morale, culturale, politica e religiosa”, mentre Lelio Basso ebbe a dire che “il totalitarismo fascista ha posto tutti i suoi principi: soppressione di ogni contrasto per il bene superiore della Nazione identificata con lo Stato, il quale si identifica a sua volta con gli uomini che detengono il potere”. Giovanni Gentile menzionò il totalitarismo nella voce “Fascismo (dottrina del)” che scrisse per l’Enciclopedia Italiana ed in cui affermò che “… per il fascista tutto è nello Stato e nulla di umano e spirituale esiste e tantomeno ha valore fuori dallo Stato. In tal senso il fascismo è totalitario…”
    3) Un liberale, un cattolico, un socialista e un fascista usano il termine “totalitario” per indicare un dominio assoluto dello Stato su ogni aspetto della vita sociale, culturale, morale, religiosa e politica di una comunità. “Tutto è nello Stato” sostiene Genitle.
    Il “totalitarismo” fascista non mette in discussione nessun “limite oligarchico” dello Stato liberale. Ne continua l’oligarchia. Tra Stato liberale e Stato totalitario fascista-nazista c’è continuità.
    4) Il “totalitarismo” non è una categoria politica (e/o filosofica) che attribuisce alla “violenza” il tratto distintivo fra Stato liberale e Stato totalitario. I teorici dello Stato liberale non hanno mai pensato che si potesse esercitare il potere senza ricorrere, se necessario, alla violenza (“monopolio della violenza legittima”, come lo chiamano loro). Gli Stati totalitari, a differenza di quelli liberali, sono Stati assoluti, sono “Stati del terrore”. Ambedue, però, sono Stati del Capitale
    5) Filosofi come Horkheimer, Adorno, Marcuse hanno definito “totalitarismo” lo stesso capitalismo perché, leggo sempre su Wikipedia, « in quanto sistema economico sociale, utilizza la cultura di massa (non la cultura prodotta dalle masse, bensì quella prodotta dai mezzi di comunicazione di massa) e l’industria culturale per massificare gli individui e controllarli psicologicamente e politicamente in ogni momento della loro vita e in ogni aspetto del loro pensiero. “L’industria culturale”, scrivono Horkheimer e Adorno, “è uno degli aspetti più caratteristici e vistosi dell’odierna società tecnologica; essa è il più subdolo strumento di manipolazione delle coscienze impiegate dal sistema per conservare sé stesso e tenere sottomessi gli individui”. Perciò, se l’800 è passato alla storia come il secolo delle rivoluzioni, il ‘900 passerà come il secolo dei totalitarismi.» Totalitario è quindi quel potere politico che invade la società soffocandone ogni autonomia.
    6) Mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo come gli unici movimenti che «hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico» (“O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunsti”) lo ritengo un grave errore. La “guerra civile europea” si è svolta fra capitale (liberale-fascista) e lavoro (comunista-stalinista). Quando però il “comunismo” si è trasformato in “stalinismo” si sono poste le basi per la rovina del comunismo.
    7) Vanno rifiutate come ideologiche e non corrispondenti alla realtà storica uguaglianze del tipo: capitalismo è uguale democrazia; e democrazia capitalistica è uguale libertà. Il capitalismo può tranquillamente fare a meno della democrazia e, quanto alla libertà, si preoccupa prevalentemente della sua “libertà proprietaria”; della democrazia e della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità non possono, invece, assolutamente fare a meno il comunismo. Se ne fa a meno, si affossa. La mancanza di democrazia e il suo non ampliamento hanno rappresentato uno dei buchi neri del “socialismo reale”. Questo non esclude che si possa usare la “violenza legittima” contro il nemico e non esclude che si possano utilizzare temporaneamente persone come mezzi.
    Del resto, – non ricordo dove l’ho letto – ma pare che anche in un rapporto d’amore (accoppiamento), il corpo dell’altro/a venga usato temporaneamente come “mezzo” per raggiungere il fine reciproco del godimento.
    8) Non so se Fortini su questo punto la pensasse come Ennio Abate. Per quanto mi riguarda, credo di no. «La disciplina mia non potevano vederla / Il mio centralismo pareva anarchia / La mia autocritica negava la loro”. Un supplemento di indagine, direi che sarebbe opportuno. Anche perché credo che sia proprio questo il punto (sottovalutazione della democrazia) che rende deboli le nostre difese comuniste e rende possibili certi innamoramenti nazional-comunisti per personaggi come Trump.
    9) Sul suo essere comunista, più di trent’anni prima, Fortini aveva scritto questa poesia:
    Il comunismo (1958)
    Sempre sono stato comunista.
    Ma giustamente gli altri comunisti
    hanno sospettato di me. Ero comunista
    troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
    Giustamente non m’hanno riconosciuto.
    La disciplina mia non potevano vederla.
    Il mio centralismo pareva anarchia.
    La mia autocritica negava la loro.
    Non si può essere comunista speciale.
    Pensarlo vuol dire non esserlo.
    Così giustamente non m’hanno riconosciuto
    i miei compagni. Servo del capitale
    io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
    E lavoravano essi, mentre io il mio piacere cercavo.
    Anche per questo sempre ero comunista.
    Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
    di questo mondo sempre volevo la fine.
    Ma la mia fine anche. E anche questo, più questo,
    li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
    Il mio centralismo pareva anarchia.
    Com’è chi per sè vuole più verità
    per essere agli altri più vero e perché gli altri
    siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
    Sempre dunque sono stato comunista.
    Di questo mondo sempre volevo la fine.
    Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
    da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
    Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
    Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità È necessaria,
    dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.
    [Una volta per sempre, Mondadori, 1963]

    1. Caro Donato,
      Era solo una richiesta di precisazione. Ora, rileggendo ancora, mi pare di capire che le “forzature” ( o la “forzatura”) in cui sarei incorso sarebbe indicata in questo passo, dove riporti virgolettate alcune mie affermazioni giudicandole “un grave errore”:

      “Mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo come gli unici movimenti che «hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico» (“O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunisti”) lo ritengo un grave errore”.

      Se è questa, vedi, però, che avevo replicato in un commento successivo in modo che mi pare sufficiente a diradare i dubbi o gli equivoci (questo il link: https://www.poliscritture.it/2017/03/09/appunti-politici-6-comunismo-di-f-fortini/#comment-66474).

      Ora però, a due anni di distanza, la mia esigenza sarebbe quella di un ripensamento complessivo sia del mio commento al testo di Fortini sia delle reazioni che suscitò. Spero di riuscirci.

  11. L’ampiezza del dibattito è tale che è difficile dire qualcosa di sensato. Se penso alle prime analisi anche a me quella di Todorov è parsa sempre non da oggi, quella più profonda: la tentazione del bene e i guai combinati dal BENE sono paradossalmente superiori o pari a quelli compiuti dal MALE: pensiamo soltanto ai crimini cristiani. Tuttavia affrontare le cose in questo modo porta quasi inevitabilmente alla natura umana, a Kant, a una visione del mondo in cui prevale la rassegnazione di fronte a qualsiasi progetto. e anche a una visione tutta ideologica del problema. Non mi stupisce che negli anni ’30 l’equiparazione fra comunismo stalinismo e nazismo fosse ovvia in quanto entrambe dittature senza ulteriore specificazione ed è altrettanto ovvio che nel dopoguerra questa analisi fosse diventata un tabù perché il contributo dell’Unione sovietica alla sconfitta di Hitler e anche la presenza di forti partiti comunisti imponeva una narrazione diversa; ma siamo sempre dentro una narrazione diversa e poco più. Credo che il limite maggiore del documento del parlamento europeo consista nel mescolare cose diverse fra loro attaccandole con un po’ di colla, mentre credo che occorra distinguere un discorso storico sulle cause della Seconda guerra mondiale e dell’unità antifascista da quello imprescindibile del nodo comunismo, stalinismo, socialismo reale che appartiene a un altro ordine del discorso

  12. Occhio! Non discutiamo solo di totalitarismi passati. C’è una “fenomenologia totalilitaria” in arrivo (in Occidente). [E. A.]

    LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO
    di Pierluigi Fagan
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    SEGNALAZIONE

     Stralci:

    1.
    il totalitarismo è un irrigidimento del potere politico e sociale (economico e culturale). Tale irrigidimento è evidentemente chiamato da minacce di disordine a cui si risponde con più ordine. Quando dosi incrementali di ordine non riescono a mettere ordine, la forma ordinante diventa sempre più rigida ed imperativa. Questa è l’origine del totalitarismo, origine che nulla a che fare in esclusiva col Novecento e che si ripete in vari modi e forme sin da quando sono nate le società complesse, cinquemila anni fa.

    2.
     il totalitarismo può anche essere una reazione di una élite che a fronte di una non decisiva pressione di forze esterne disordinanti o a fronte di semplici accenni di dis-adattamento o non più totalmente positivo adattamento, reagiscono irrigidendo le forme del proprio potere sull’intero sistema che vogliono dominare.

    3.
    Nell’Occidente contemporaneo, a partire dalla società guida del sistema ovvero gli Stati Uniti d’America, si contano tutte e tre queste dinamiche che precedono irrigidimenti totalitari.
    Ci sono pressioni portate da società concorrenti, quella cinese in sé ma anche a nome di una sorta di possibile fronte dei secondi livelli geopolitici che vorrebbero aprire il tavolo da gioco a dinamiche multipolari per giocarsela con, per loro, maggior condizioni di possibilità (unione spalleggiata dalla Russia con forza ma anche dall’India sebbene con più ambiguità che è poi strategia di bilanciamento). Si tenga conto che il peso percentuale degli occidentali sul totale mondo, negli ultimi centoventi anni di forte inflazione demografica, è sceso da più del 30% a meno della metà. Anche il loro potere qualitativo si sta -tendenzialmente- livellando.
    4.
    La dinamica di fondo del potere occidentale, tanto quello delle società occidentali nei loro rapporti di gerarchia di sistema (ordine interno alla civilizzazione occidentale), che quello del rapporto Occidente vs Resto del mondo (West vs the Rest), che quello ordinativo di una ben precisa élite che corrisponde ad un ben precisa forma sociale internamente ad ogni singola declinazione di società occidentale, disegna scenari tipici dell’approssimarsi di una fenomenologia totalitaria.
    Dannarsi dopo non ha alcuna utilità, pensarci prima sarebbe meglio.

  13. E, comunque, certi problemi se li sono posti anche altri prima di noi. Ho trovato quasi per caso sul Web ieri sera questo scritto che mi pare una sintesi ben fatta delle posizioni di Adorno.

    SEGNALAZIONE

    Adorno e un nuovo Manifesto. La rivoluzione senza proletariato e senza prassi
    di Valeria Ferraretto
    http://www.losguardo.net/wp-content/uploads/2018/01/2017-25-Ferraretto.pdf

    Stralci:

    1.
    Adorno e Horkheimer seguono la massima, secondo cui: «non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze».

    2.
    Adorno, che pur non nega che non ci sia la possibilità di una ricaduta nella barbarie, è convinto che ci sia una possibilità altra. Ho come l’impressione che il mondo orientale, sotto l’incantesimo del marxismo, riscatterebbe la civilizzazione occidentale. Così facendo si verificherebbe uno spostamento dell’intera dinamica storica.

    3.
    Da un lato, nel mondo ci sono sufficienti opportunità per riuscirci. Dall’altro lato, tutto è stregato, come sotto un incantesimo. Se si arrivasse a rompere questo incantesimo, riuscirci sarebbe una possibilità. Se qualcuno vuole convincerci che la condizionatezza [Bedingtheit] della natura umana limita l’utopia, dobbiamo reagire dicendo che non è assolutamente vero. L’utopia che Marx ed Engels criticavano come un sabotaggio e un intralcio nei confronti di un’«organizzazione umana della società» contiene per Adorno elementi che vanno recuperati: Ciò che Marx ed Engels, che volevano un’organizzazione umana della società, stigmatizzavano ancora come utopia che non faceva che sabotare tale organizzazione, è diventato una possibilità concreta ed evidente. E Marx ed Engels hanno avuto torto nel delineare progressivamente una storia in discesa, verso la realizzazione della società comunista, senza conflitto, in particolare Marx è stato troppo ingenuo: Marx è stato troppo ingenuo; probabilmente ha assunto ingenuamente che gli uomini fossero e rimanessero in fondo essenzialmente identici. E una volta rimossa da loro la seconda natura, tutto sarebbe andato bene. Non si è occupato di soggettività, non gli interessava veramente. Che gli uomini siano prodotti della società fin nel loro

    4.
    Sembra che Adorno voglia andare oltre Marx, ma rimanendogli fedele […] Sembra quasi che, da un lato, Adorno abbia paura di discostarsi da Marx, perdendo tutto il suo insegnamento, ma che, dall’altro lato, si renda conto che parte delle analisi marxiane hanno fallito[…] Obiettivo di Adorno non era quello di tornare a Marx, ma di andare oltre il suo insegnamento. La teoria critica di Adorno può essere definita una critica marxista del marxismo. E come tale rivela gli aspetti fondamentali del marxismo che altrimenti sarebbero rimasti sepolti.

    5.
    Non sono tanto le classi ad essere scomparse, per Adorno le classi sussistono e le divisioni fra di esse permangono ancora, ma quella che viene meno è la coscienza delle classi subalterne, che si identificano e si uniformano alla classe dominante: gli oppressi «non possono più sperimentare se stessi come classe».

    6.
    Se Marx ed Engels ancora non conoscevano l’imperialismo, Lenin si trova nel bel mezzo della rivoluzione proletaria. Se i primi, quindi, ancora nel periodo di preparazione alla rivoluzione, indirizzarono tutta la fiducia nel proletariato, Lenin può rendersi ben conto delle sue fragilità.

    7.
    Adorno vuole oltrepassare l’antagonismo di teoria e pratica, osservabile nella storia del marxismo, per poterlo trasformare e trascendere in una visione che marxianamente vada oltre l’annuncio della mera prassi e che leninianamente recuperi l’importanza della teoria. Per Lenin, infatti, la prassi è sempre legata a movimenti particolari e specifici di un certo paese, mentre è la teoria ad assumere il ruolo di esperienza madre, nell’orizzonte di una rivoluzione proletaria mondiale. La teoria, cioè, dà a tutti i movimenti proletari locali un orientamento e mostrandogli qual è la direzione in cui devono muoversi.

  14. Trovo condivisibile l’analisi storica, ma fiacco e formale l’obiettivo di questa assemblea (“Credo si debbano fare tutti gli sforzi possibili perché il Parlamento europeo torni sui suoi passi”). Come può tornare sui suoi passi un Parlamento che quei passi li ha meditati e decisi proprio cancellando verità storiche come queste qui ricordate e accettate fino a tempi recenti?

    SEGNALAZIONE

    Intervento introduttivo all’Assemblea dell’11-10-2019 PER LA MEMORIA E LA STORIA
    Di Guido Liguori
    https://www.transform-italia.it/intervento-introduttivo-allassemblea-dell11-10-2019/?fbclid=IwAR0xW5Dp6wPbKif_WsKsBu55_YqmTbm5M97ELry89qPNLBVPr8IG6rv8O4k

    Stralcio:

    È un punto – questo della equiparazione – che da alcuni commentatori è stato negato. Essi affermano che il documento in questione critica non il comunismo in generale, ma solo la sua versione dittatoriale.
    Non è vero.
    Esso alterna indifferentemente e ripetutamente i termini “comunismo” e “stalinismo”, a mio avviso proprio con lo scopo di favorirne l’identificazione.
    Esso appiattisce su una unica dimensione quello che è stato ed è un enorme e assai diversificato movimento di idee, di lotte sociali e politiche, di rappresentanza delle classi lavoratrici, dei ceti popolari, dei gruppi sociali subalterni e più poveri, che era mossa dalla ricerca di una società basata sulla collaborazione e la solidarietà invece che sulla competizione, sullo sfruttamento, sulla emarginazione dei più deboli.
    Non vogliamo ignorare – lo abbiamo scritto e lo ripetiamo, e il nostro è un giudizio politico, prima che storiografico – gli errori e gli orrori di alcune pagine di quella storia, in cui i comunisti «si macchiarono di gravi e inaccettabili violazioni della democrazia e delle libertà».
    Ma ribadiamo che, mentre vogliamo riflettere su tali pagine e imparare da tali errori, respingiamo con forza l’equiparazione con una ideologia e una pratica come quella nazifascista, che ha dato vita a una spietata dittatura la quale, abbiamo scritto, «nel negare ogni spazio di democrazia, di libertà e persino di umanità, nel perseguitare fino allo sterminio proclamato e pianificato le minoranze religiose, etniche, culturali, sessuali, cercò di realizzare i propri programmi», mentre i regimi comunisti, nei loro momenti peggiori, finirono per tradire «gli ideali, i valori e le promesse che aveva fatto».
    È vero, la “memoria” non è la stessa per tutti.
    La memoria del comunismo è, in alcuni paesi dell’Est europeo, anche, e in alcuni casi soprattutto – non lo nego –, la memoria di una invasione subita, di un regime imposto, di una situazione nella quale, in nome di un complesso di cause che bisogna ugualmente tenere presenti, non vi è stato spazio per l’autodeterminazione dei popoli, non vi è stato il tempo, o la volontà, per una vera “lotta per l’egemonia” che permettesse un adeguato sviluppo della ricerca del “consenso”, invece che del “dominio”.
    Ma tale fatto non può far dimenticare che anche il capitalismo ha ugualmente scritto pagine drammatiche e orripilanti, che anche i regimi liberaldemocratici hanno prosperato per decenni e decenni sulla schiavitù, sul colonialismo, e comunque sullo sfruttamento e sulla oppressione delle classi lavoratrici, sulla non rappresentanza formale e sostanziale delle classi non privilegiate della società.
    È bene che tutti oggi si voglia imparare da questo passato, che tutti oggi si intenda accettare il metodo democratico e il rispetto delle libertà fondamentali.
    Ma non è questa una richiesta che – alla luce della storia passata – possa essere indirizzata a senso unico.
    È vero, la “memoria” non è la stessa per tutti.
    E in molte realtà storiche e geografiche il comunismo, le comuniste e i comunisti, sono stati tutt’altro da ciò che dice la Risoluzione del Parlamento europeo.
    Per questo la memoria della presenza e dell’operato dei comunisti e delle comuniste nel nostro e in altri paesi europei non è quella che viene affermata dalla Risoluzione.
    E non si vede perché si debba privilegiare una parte della memoria europea per negare completamente un’altra sua parte – tra l’altro falsificando o distorcendo in questa operazione la storia del nostro continente.
    Andare oltre le memorie parziali è possibile solo se, in primo luogo, non si ha la pretesa di stabilire per legge una sedicente verità.

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