Da “Percorrenze”

di Anna Leone

 RIDATEMI QUEI GIORNI
 
 
 
 Ridatemi quei giorni in cui bambina aspettavo una  
 carezza che non venne.
  
 Rimanga intatta la memoria della mia prima età
 con voci e vite che mi appartengono come pelle alle ossa.
  
 
 MIO PADRE
 
 
 Era un costrutto ripido: ricognizione appostata e muta,
 oltre la piccola fronte,
 cercando la sua cellula sonora,
 accordata al diapason del ventre di mia madre.
 
 
 Anteriore a un bisogno circolare,
 salivo fino al bordo delle sue trincee,
 rigettata, ripiegavo fino al prossimo coraggio.
 
 
 Mai piegato a quel mio ardire,
 mi accresceva alla lezione del sangue che disdice.
 
 
 MIA MADRE
 
 
 È sequela di sguardi dimessi, per quel suo pudore schivo, di  
 composta solitudine.
 
 
 Eppure mi arriva un assalto di bellezza e un chiaro
  mi allaga gli occhi.
 
 
 Mia madre ha una fanciullezza, ancora viva, sugli zigomi,
 un accenno di dolcezza sulle labbra e, negli occhi, terre trascorse,
 giardini d’infanzia di cui so il racconto.
 
 
 Per un attimo indovino quella rassegnazione di foglie ai distacchi e sono già dentro la paura.
 
 
 Trasgredire lo strappo, le foglie, non sanno, ricucirlo, poi, con una poesia da dire sottovoce,
 non saprà bastare.
 
 
 PAGINE SBIADITE
 
 
 Recuperare il tempo lo può solo la clemenza dei ricordi;  
 squaderno giorni e una porta s’apre sull’infanzia.
 
 
 Balbuzie antica, disfluenze, per la voce arresa, tornano.
 
 
 L'orecchio teso al diverbio adulto, l'anima tremante,  
 mentre pettino la mia bambola muta,
 sciogliendo nodi di mancate premure.
 
 
 Figlia che mi accresceva al senso di madre,
 figlia che annacavo
 e poi, piano, adagiavo su una culla di speranza,
 calda di sogni, fra pieghe di tristezze custodite e segrete.
 
 
 Potessi predispormi ancora a quelle attese!
 
 
 Ma è vita che s’apre e presto si congeda nel solfeggio di pagine sbiadite.  
 
 
 SE MI VOLTO
 
 
 Come esser stata in fuga, sempre, senza mai voltarmi;
 le ruote dei giorni hanno ingoiato strade e, ad ogni curva,
 ho creduto di nascer nuova al paesaggio,
 dentro il battito di un cuore nuovo.
 
 
 Se mi volto, ora che il tempo è una lunga nostalgia,
 è darmi a quel ricorso,
 è cercarmi negli occhi di un’infanzia rimasta immobile.
 
 
 Con mani segnate di giorni stringo una mia fotografia e,sul bianco,
 oblitero immagini compiute, cresciute nella casa, accanto ad una dignitosa povertà.
 
 
 E ritrovo il volto che una fiaba condusse lontano,
 con tanto azzurro negli occhi.
 
 
 E mi par di sentire il battito di un cuore gonfio di attesa.
 
 
 Oh, certezza di esistere dentro ricordi!
 
 
 Scambio iniquo di grandi illusioni, brevi gioie e lunghi dolori.
 
 
 E una speranza mandata a memoria, nel gioco del tempo, mai naufragata.
 
 
 ABBAGLIO
 
 
 Sta nel riflesso a pelo d'acqua, mentre, in limine, l’onda frantuma ragioni.
 
 
 E un dispetto di voli lontani,
 retaggio d’ali
 su scapole stanche.
 
 
 Ci sono vele di gesti che gonfiano a dismisura,
 ma se tace il vento
 si piegano su derive
 di parole malferme.
 
 
 NOIA
 
 
 Un’abitudine di giorni,
 il non chiamarsi nuovi a nulla,
 abbarbicati a un’ora qualsiasi.
 
 
 Si rinserrano inquietudini
 in disadorni pensieri;
 un torpore lento preme.
 
 
 Prevaricano in confusa orgia
 disancorate parole.
 
 
 Macerano logore tristezze,
 inerzia sale
 guastando attese.
 
 
 Dialogano irragionate fughe,
 ma si rimane immobili,
 avidi di tempo.
 
 
 POESIA
 
 
 Lasciami scivolare
 lungo i pensieri
 lascia che io vada
 nei sogni.
 
 
 Per te dò ombra
 alle mie illusioni
 e trasparenza
 a cristalli sbiaditi
 d’incanto.
 
 
 Sei il fiato
 in questa vicinanza
 di specchi,
 il respiro che risuona
 nel delirio di un soffio.
 
 
 Lascia che mi perda così,
 mentre mi sopravvivi negli occhi
 senza domanda.
 
 
 I POETI
 
 
 Nel muto carnevale notturno
 si cambiano le vesti,
 si dipingono visi;
 qualcosa di vero lasciano,
 forse una lacrima
 o l’inimitabile solitudine.
 
 
 Il buio si illumina di ariose stelle,
 splendori fragili e lontani,
 sulla via dell’alba
 una brezza sparge parole.
 
 
 Hanno occhi appiccicosi di sogni, al mattino,
 son stanchi di poesia
 i poeti.
 
 
 Soli se ne vanno,
 col passo incerto, crescendo di cruda verità,
 man, mano.
 
 
 NUDA COSÌ
 
 
 E’ mostrar la grazia
 che non esibisce;
 in similitudine di voli leggeri di ampiezza e profondità.
 
 
 Per te sarò nuda così,
 come il trasparire dell’aria.
 
 
 Ad entrarti negli occhi,
 ma piano, senza fretta,
 maggiormente nel cuore.
 
 
 POLENA
 
 
 Nuda agli approdi,
 fronte prodiera
 tra due infiniti blu.
 
 
 Esule tronco,
 muto di canti di fronde e nidi,
 orfano della terra che lo nutrì.
 
 
 Immobile simula sull’acqua passi scalzi,
 carezze tra varchi d’azzurro,
 danza di fianchi e ventre
 senza consegna,
 di figlia mai nata al mondo.
 
 
 L’ombra dei velacci
 è il suo sol riparo
 al tremore di derive.
 
 
 Va lungo sfide d’acqua
 e il corpo va sognando,
 si bagna fino al buio
 poi offre seni tesi
 alla luce dell`alba.
 
 
 Polena sui marosi
 di tutti i mari,
 sotto tempeste di desideri.
 
 
 GERLA DI ORTICHE
 
 
 Nel sobbalzo epocale
 spersero lo sfalcio della stagione buona;  
 portatrici carniche fino in prima linea.
 Poi fiori da deporre,
 medaglie da appuntare .
 
 
 Ma intanto dimmi:
 come sono morta ancora?
 Lungo un canale, nuda,
 fra mura domestiche
 divenute arsenali di vendetta
 o forse franando
 nello strazio del restare,
 comunque restare?
 
 
 Dammi un sillabario vergine
 su cui riscrivere don - na
 libera dalla genia della colpa,
 dai chiodi di dovere.
 
 
 Sono Ishshah derivata dal fianco che mi volle schiava, condannata a nascondere desideri in seno.
 
 
 Invano sollevo il velo del rito che ci unì; ho una gerla d’ortiche sulla schiena, ma nelle mani, per te, Ish,
 uomo mio, ho sempre un fiore.
 
 
 ALLA VENTICINQUESIMA ORA
 
 
 Sull’onda lunga della memoria
 c’è un largo richiamo alla coscienza,
 un appello degli assenti senza volto:
 -Non dimenticate,
 che il ricordare vi sia di monito-
 
 
 S’ alzano canti di viola omelie,
 evocazioni di moltitudini sparse
 senza più voce,
 brucia nei turiboli l’incenso
 non di acre odore.
 
 
 E l’aspersorio
 non placa quelle seti
 dentro i vagoni
 di un’umanità tradita.
 
 
 Figli della rappresentazione
 e orfani del vero
 ritornano alle proprie case
 nel nome del padre
 che lasciò i suoi figli morire.
 
 
 Alla venticinquesima ora
 tacciono le voci
 delle agonie del mondo.
 
 
 Solo il vento
 ha perenne memoria
 di ciò che disperse.
 
 
 PESAH (passaggio)
 
 
 Sicuro oro il triduo raggio:
 grigio pesah di nubi meste santifica giorni parimenti bestemmiati.
 
 
 Brunito il bronzo muto dell’ultimo rintocco.
 Rosso anemico il labbro al bacio dei giuda, già dopo colazione.
 Verde ulivo, più bandiera, la mano, tesa al giubilo,
 per l’ultimo venuto senza mulo.
 
 
 Rosa frammisto all’avorio le bocche aperte nell’osanna .
 Chiaro scuro d’ala, spiegata al presagio di morte.
 Pellucido l’ocra punteggiato di rosso vivo, combinato alla polvere, man mano, suppurando, per tanto blu precipitato, rapprendersi; crosta d’obbedienza su ginocchi pesti.
 
 
 Ebano di lignea corona allo scherno proclama.
 Certo , violaverde la pelle abrasa
 nel breve grido di orgasmo animale.
 
 
 Grigio opalescente che irrora, non irida, irride innocenza.
 Vero nera la fame, alabastrino il freddo, diamantina la sete, più buia del buio la notte sola.
 
 
 Ditelo, almeno, ai poveri cristi,
 che sarà un graduale liquefarsi nel fiato di fiele, giallo di bile la fine.
 Trasmutazione lenta, lenta, fino al bianco dell’osso,
 mentre ancora e ancora acclameranno il risorto.
 
 
 COME SE
 
 
 Come se vi fosse sempre un conto in sospeso, una storia da riscrivere in fretta, con retro attive ragioni e postulati antichi su lingue infuocate atti a redimere Popoli e Nazioni.
 
 
 Icore e fiele d’odio
 mischiati al sangue degli irredenti
 per una tensione al martirio
 sancita e sacra.
 
 
 Austri e Vestri
 a reggere lembi opposti
 di uno stesso cielo
 e catene dorsali; frontiere di secoli,
 sotto notti manguste
 seguite da acuti risvegli
 dei rimasti.
 
 
 Come se dovessimo ancora e ancora contare i morti,
 dare nome ai corpi mutilati
 ai visi con le gole aperte alla paura,
 con gli occhi immobili all’assalto di fuoco
 sui selciati estivi della festa.
 
 
 Forse si può ancora credere
 che anche un sole obliquo possa toccare mattini
 e sciogliere i bordi freddi di tutti i fronti.
 
 
 Come se vi fossero solo orli d’incontro
 in asole di braccia e calme albe pacate ai risvegli.
 
 
 14 AGOSTO 2018
 
 
 Prima che fosse pioggia e un cielo elettrico tramasse, di belva ferita, il latrato,
 avevamo un viaggio azzurrissimo nella testa
 e il cuore in subbuglio come di festa.
 
 
 Prima che il destino non rimandasse neppure di un secondo l’abisso,
 figli avevano pupille troppo belle
 per brillare adesso, soltanto, nella notte delle notti,
 come inconosciute stelle.
 
 
 VECCHIEZZA
 
 
 Nel computo dei giorni
 riecheggia
 il tempo andato.
 
 
 A volerlo raccontare,
 trattenere nelle parole
 è l'escamotage
 per ricucire gli strappi,
 per imbastire i giorni
 dimenticati e persi.
 
 
 Sull'abaco del tempo
 le tante sottrazioni
 e le addizioni minime
 nel fiato corto
 della vecchiezza.
 
 
 Se ricordare è l'istinto
 vivere è l'usura
 e una pena lunga
 per l'affanno degli anni.
 
 
 Con l'amen
 del giorno dopo giorno,
 sempre più disancorati
 verso un altrove.
 
 
 Ma qui, prima,
 a misura d'uomo
 ad immaginarsi
 il marmo.
 
 
 Si vive, tutti, col tempo
 che brucia lento
 dentro gli occhi.
 
 
 Poi, tutto il respiro della vita
 in un istante,
 mentre fugge nel vapore di un alito
 e resta muto.
 
 
 PRESAGI
 
 
 Sbava la costa,
 un vento umido muove il canneto,
 sale la querula nenia dei gatti,
 trema il glicine sul muro
 
 
 Conversano le case,
 con le poche luci della notte,
 rotolano passi sconosciuti sulla strada,
 s’aprono lunghe forre
 di lugubri parvenze.
 
 
 Il passo lontano è un agguato,
 un indugio, una fuga…
 
 
 Si torce l’anima
 da dietro i vetri,
 come nei giorni d’assedio,
 vilmente attorta a un filo di speranza.
 
 
 Se ne dirà domani,
 ne leggeranno gli scampati.
 
 
 Che non è neppure detto;
 si muore anche così,
 poco a poco,
 nel presagio d’altre morti
 
 
 E non è neppure così scontato,
 un nuovo cielo di sole,
 domani.
 
 
 RUNA
 
 
 Sussurrami il segreto, dimmi dei risvolti del tempo e di tutti gli irrisolti, parlami all’orecchio buono, quello che non perde neppure un sibilo di speranza.
 
 
 Chè domani, se anche pioverà,
 mi chinerò su una pozza
 a sorseggiare il primo raggio
 per vederlo crescere di misura,
 salire fino agli occhi.
 
 
 Sussurrami il segreto,
 dimmi del dolore intagliato nell’ogham, narrami l’inverosimile di un cielo capovolto a sfiorarmi il viso con carezze d’azzurro.
 
 
 Chè c’è più verità
 in un gesto di dolcezza,
 che in una parola cruda
 dietro una porta chiusa
 a tutti venti.
 
 
 DISSOLVENZE
 
 
 Il tutto lì composto,
 il tutto coincidente
 come linea fedele all’orizzonte.
 
 
 Poi l’occhio crea dissolvenze
 spogliando atomi di verità.
 
 
 E così nei tramonti si intravedono aurore,
 nidi rassicuranti di luminose albe.
 
 
 La pioggia nella pozza si svapora e, già,
 l`iride si volge verso il sole.
 
 
 La chiave ruota nella toppa ed è già casa,
 già il dentro le consuetudini che rassicurano.
 
 
 Posticcia funzione nell’esiguo spazio,
 gesto minimo che s’apre
 su rispondenze che verranno.
 
 
 Di giorno in giorno,
 contro venti o bonacce talvolta disperate.
 
 
 FUGA PROVVISORIA
 
 
 C’è un tutto stabilito,
 il levar del giorno all’ora esatta, ma potrebbe essere in anticipo su una vita,
 se le palpebre sono ancora pesanti
 e le labbra non son pronte
 per l’assillo di nuove seti.
 
 
 C’è un punto preciso, un’altezza prefissata da dove il sole
 dipana ombre d’esproprio
 e noi a passare, tra gli altri,
 inosservati.
 
 
 Non a caso rincasiamo
 soli.
 
 
 E nessuno può giurare d’averci visto,
 chiusi alle spalle da un dolore,
 scivolare nell’antro
 di una fuga provvisoria,
 fino a domani.
 
 
 DEDALO INFINITO
 
 
 Costruttori di labirinti confinati in meandri di non senso.
 
 
 Chi, poi, a voler fuggire
 improvvisando il volo;
 icari caduti per troppo sole contro.
 
 
 Chi, drone lanciato verso il meridiano del nulla.
 
 
 Il viluppo si snoda
 in vortici di inganni; condanna a vagare
 mal fermi sugli sguardi,
 in poliedri di luce al neon
 e pareti di esproprio
 senza codice d’incontro.
 
 
 Nomadi, provvisori,
 a cercare ovunque presidi d’ombra,
 finché l`ultimo caino
 alzerà la mano per incanto omicida .
 
 
 E un dio tradito per genesi avversa,
 lancerà coaguli di umana appartenenza
 nel dedalo infinito di vuoti siderali.
 
 
 Tedoforo in eterno
 delle sue scomparse sembianze,
 lui, unico superstite, non più pensato,
 dio solo e sperso.
 
 
 PICCOLI FUTURI
 
 
 Si vive l’incipiente espugnando roccaforti di memorie,
 tesi nell’arco del possibile,
 senza indizi o previsioni.
 
 
 Il futuro è poco più in là,
 svoltato l’angolo di una consuetudine.
 
 
 Il poi è diceria da dire sottovoce,
 tempo custodito tra ossa svogliate
 e bocche declinate
 su indicibili desideri.
 
 
 Si vive nel tempo eroso,
 occhi tratti da piccole visioni,
 coi fiati agonizzanti
 ad accarezzare talee
 di parole malferme
 su gambi di improbabili fioriture .
 
 
 Mancata aderenza
 al grembo di un tempo solo nostro,
 a sentirlo scivolare via.
 
 
 FRAPPORSI
 
 
 È un frapporsi fra mEtutto il nominabile,
 a lasciarmi su un limite precario.
 
 
 Quanto il perdurare sul bordo
 fa capaci di gettare gli occhi oltre,
 per una misericordia, un perdono,
 una fiducia che apra braccia a farsi incontro?
 
 
 Quanto il resistere
 fa capaci di muovere passo
 col molosso del passato dietro la schiena
 e un pretesto di futuro senza congedo
 dai luoghi, dai nomi…
 per un ritegno di libertà vera?
 
 
 Forse occorre rinominarlo il mondo,
 svestire le cose del loro significato
 lasciandosene solo impressionare,
 noi, sostanza sensibile, fino al nero.
 
 
 C’è questo frapporsi fra mEtutto il nominabile
 a confinarmi dove tutto è raccontato,
 ma c’è la luna, questa notte,
 e nel suo luogo franco mi tira dentro,
 fino a doverlo dire a quanto splendore il buio soggiace.
 
 
 CON GLI OCCHI AI TRAMONTI
 
 
 Sarà che i tramonti richiamano solitudini,
 rimandano a incertezze,
 per quel lento dipanare di rossi accesi in strisce tremule, cangianti fino al buio.
 
 
 E, se non mi stupisco più di nulla
 è perché ogni centro
 lo so smarrire il suo tripudio.
 
 
 Guarda come tutto muta, come nulla si ferma più di tanto;
 mi interpella un transito come di vento
 che scarnifica rami,
 d`acqua che confonde impronte.
 
 
 Solo i nomi resistono,
 somiglianti al respiro
 di un’ombra,
 per lo scarto di forme
 a non saperle ricomporre
 e l’ubiquità di corpi a non dire dove.
 
 
 Quale senso di lutto:
 diaspora sconfina
 dove non arrivano gli occhi.
 
 
 DOMANI ANCORA
 
 
 Sostare sul greto del mio fiume,
 mentre il sogno rimbalza sui ciottoli,
 chiuso in argini di senso
 e di cose compiute.
 
 
 Inventare trasparenze
 sull’alveo scolorito
 e, nell’umido graticcio
 di rami alla deriva,
 intravedere balzi di raggi.
 
 
 Evocazione di barlumi,
 di parole in frantumi,
 di spazi esigui,
 trappole di fiorame incompiuto.
 
 
 Ma ancora il vento muove
 la festuca
 e riverbera rivoli di luna.
 
 
 Ancora, nello scatto
 di immensi voli,
 del senso scordato mi torna l’immagine.
 
 
 Arriverà domani!
 
 
 Sulla vita a strapiombo,
 nuovi sentieri m’incalzeranno il passo
 verso il furore di voci,
 su tagli accesi di esistenze.
 
 
 Ancora farsi vivo il senso
 del mio restare
 ancora aggrappata.
 
 
 SUGLI OBLIQUI ACCADIMENTI
 
 
 Assiepati dentro le nostre rassicuranti notti; ogni alba ci coglie impreparati.
 
 
 la chiamano paura,
 ma è solo stare
 nel desiderio vivo delle cose,
 che ancora devono cominciare.
 
 
 E chissà se oggi avrò mani da porgere, oppure resteranno lungo i fianchi.
 
 
 Avrò cura di questo nuovo giorno: sugli obliqui accadimenti
 intersecherò uno sguardo buono.
 
 
 Ad intercettare vite,
 delineare cunei di incontri, nicchie di cuori pulsanti, in cui esaurire il senso nudo del mio re- stare.
 
 
 VERRÀ L'INVERNO
 Poi verrà il lungo inverno: alberi nudi, fiori esiliati,  
 origami spezzati di foglie come parole rotte dal pianto  
 con lunghi silenzi da decifrare.
 
 
 Disorienta ciò che sottostà  
 all’ineluttabile.
 
 
 Verrà l’inverno… Ma c’è sempre una speranza appesa al ramo più alto e un nido di sogni.
 
 
 Bisognerà imparare a risalire il tronco coi germogli buoni  
 negli occhi per bagnarsi le mani fino alla luce.
 
 
 Ché il vento, da solo, non basta a dire rotte e destinazioni,
 ché così avvinghiata e nuda potrò sentire il corpo non solo  carne.
 
 
 Mi riconosco nell’alba scalza di chi abrasa fino al  
 seme, ridiscende e cammina sulla terra brulicante di radici.
 
 
 NEL BUIO DI SILENZI
 
 
 Gli scricchiolii che sento sono del legno che respira, per gli spazi che concede.
 
 
 Ora so, per somiglianza, che non sono assoluta, ma un reticolo dentro cui avvengo.
 
 
 Se smaglio la rete, risalendo dal petto fino alla gola, nel  
 vocio del mondo straripo: Indifferenziata voce,
 crotalo senza canto.
 
 
 Ricongiungere vorrei
 anello su anello, il tronco,
 per sentirlo respirare oltre le fronde.
 
 
 Che il crepitio del legno è la riottosa voce dell’albero sacrificato al taglio, orfano di radici.
 
 
 La mia voce inconfondibile è il prana del mio intimo giardino,
 acqua del midollo
 della mia appartenenza.
 
 
 In questa notte che sfronda e svela,
 in questo buio di silenzio e radici
 che mi invadono e  
 risalgono fino alla bocca.
 
 
 DA LONTANO
 
 
 Sembra quasi bastare un verso per far dimora da scrivanie di  
 disordini, senza fogli.
 
 
 Viaggiare dietro retine sole con un’aporia d’orizzonti, ma d’emblé, farsi fronte di baci, palmi scoscesi in tenerezze.
 
 
 Come tutto fa ampolla da lontano e si tira dentro luna e stelle  
 e sussulti di maree
 
 
 Come da vicino è uno squittio di carenze necessarie,
 mentre il cuore duole.
 
 
 PER UN CON-DONO AZZURRISSIMO
 
 
 Sempre mi insisto
 -teso l’orecchio-
 fra il lemma cripto e l’altro che s’apre
 e, presto, si richiude.
 
 
 C’è un punto d’ascolto sotto un sigillo di neve, una  
 corruzione di gioia fra le crepe del dolore.
 
 
 Ecco: che ne sai, poeta,
 di com’io, poi, affondi le mani, per liberare steli dissanguati e abrasi,
 ché vibrino nel respiro di tutti,
 nel respiro del mondo
 in cui sciama,
 silenziosa, la speranza.?
 
 
 Se scrivi una plaquette,
 sia esemplare l’umana pietà;
 per ogni anima smagrita, esangue,
 sopra la neve precipitata, soffia una parola calda di  
 disgelo,
 per un con-dono, ancora,
 per un varco azzurrissimo di cielo.
 
 
 PAROLE SPALANCATE
 
 
 In tanta liquida dolenza, verdi sinestesie su paratie  
 senz’edera
 dove, azzurro, fiato
 non si annida,
 dolci e odorose acque dilavano.
 
 
 Sinesi indicono schiere d’occhi sognanti e orecchi fini in concordanza,
 in tanto afflato,
 di così poca vita d’altri.
 
 
 Calda voce trema,
 dando in pegno suoni indicibili,
 fino al labbro della commozione,
 per una subitanea turbanza di zigomi inamovibili.
 
 
 Che basta così poco, poi,
 a ricomporsi per svoltare angoli,
 sotto così piccola luce, di buio,
 con la luna in tasca.
 
 
 E con quale ferocia,
 oltre quel minuto, la solita, solida indolenza, tramortisce sguardo
 sugli alluci valghi o poco più in là, sul pavimento.
 
 
 Eppure fa così sorellanza sedersi a fianco, nelle stanze preposte agli altissimi pronunciamenti.
 
 
 ELOQUENZA
 
 
 Dite voi, nel rito collocate il fatto;
 poco importa l` antefatto di torti o ragioni, di quanti  
 caddero nel fango senza Salvezza o si rialzarono su paci di sabbie mobili.
 
 
 Sotto lingue di falsi soli,
 fate luccicare doni,
 mai le lance spezzate sulle teste dei renitenti.
 
 
 Osannate il frutto;
 ché non occorrono mani e neppure occhi, per farne  
 intercessione o ringraziamento.
 
 
 Stamburinate,
 a memoria delle cose vive, con crash e ride di miti fasulli,
 il marmo incorrotto pur scoperchiato e vuoto.
 
 
 Alla maniera degli artisti,
 l’edulcorare logos, il fare
 di sonnolente bacche gustosi acini, dite!
 
 
 Ché dire io non so:
 di folgore da Oriente
 a Parusia.
 
 
 Il MIO CANTO
 
 
 Non mi si addice il canto
 su alte note di incalzanti albe, di furenti soli, di mari in tempesta,  
 sotto cieli urlati da uccelli marini, col malaugurio stridulo di pioggia.
 
 
 Il mio canto è una nenia sul finire del giorno, una  
 malinconia, una nostalgia, un ricordo, un sibilo di  
 religioso vento col cuore che trema.
 
 
 Le mie immagini salgono dalla radice fino al tronco,  
 intrise di linfa,
 col rumore dei passi fuori
 a scandire il tempo, a imporre urgenze.
 
 
 S’inerpicano assetate di luce, sospinte da un trepido canto; fado remoto,
 sul tempo binario,  
 di vita e di morte. 

Nota di Anna Leone Nasco a Matera. Nella primissima infanzia mi trasferisco con i mie fratelli e mia madre a Genova dove tutt’ora vivo e lavoro. L’infanzia e l’adolescenza sono state costellate da piccoli e grandi abbandoni. Dai sei ai dodici anni sono cresciuta in collegio e ho frequentato gli studi in istituti religiosi, per cui, la mia è stata una formazione cattolica, una formazione fondante, anche se, in seguito ho preso le distanze dalla Chiesa come istituzione, pur mantenendo vivo un forte senso religioso, una religiosità che ha poco a che vedere con le giaculatorie, ma che tende al soprannaturale, all’infinito, all’oltre per una ricerca di un senso a questo mio vivere. Da qui quella propensione ad indagare la vita stessa, l’uomo e le sue istanze e sentire, sempre, quel senso di incompiutezza che sfocia in una inadeguatezza quasi disarmante. Nella mia scrittura, tutto questo è tangibile. Una, scrittura che prende le mosse dalla filosofia, o meglio dal domandarsi il senso della vita, del dolore, della morte, ma anche dal ricercare l’origine del male che l’uomo infligge a se stesso e agli altri. La mia scrittura, però, non è mai disperante; cerco di tendere, sempre, un filo di speranza, di dare un motivo per cui valga la pena provare, almeno, ad essere migliori e quindi verosimilmente felici. Un evento doloroso ha, segnato, da poco la mia vita. Michele, mio fratello gemello è morto in modo inaspettato e improvviso. Non sono più la stessa.

Le mie letture, ( Pavese, Kafka, Pessoa, Moravia, Calvino, Montale, Quasimodo, Ungaretti, e molti altri, fino agli autori contemporanei) ma anche gli ascolti musicali, prettamente di cantautorato (Guccini, De André, Vecchioni, Claudio Lolli, Ivano Fossati, Gianmaria Testa) mi hanno fondata. Come autrice ho cominciato a pubblicare dieci anni fa su vari siti di poesia: In Parole Semplici e il Sito Scrivere, fra questi. Ho curato diversi blog e pagine personali. Alcuni miei testi inediti sono comparsi su “La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta e su “Neobar” di Abele Longo. A cura di Massimo Sannelli, Poeta attore e sceneggiatore genovese, che si occupa di teatro, arte e letteratura, l’e-book “PER CERTI VERSI”, scaricabile gratuitamente sul mio blog intermittenze su WordPress (qui). A breve uscirà la mia prima raccolta cartacea PERCORRENZE, edita da Alessandro Prusso, poeta genovese e piccolo editore o meglio, come lui si definisce, artigiano del libro. Questo è tutto, anche se non è molto, ma avrò modo di crescere in sensibilità ed espressività. Buona lettura.

5 pensieri su “Da “Percorrenze”

  1. Bravissima!
    Sembra che la mancanza di tenerezza sia la presenza fondamentale di queste meravigliose poesie. Complimenti

  2. Grazie, Emilia . Nascono da un percorso di riappropriazione di sé e di riconoscimento e legittimazione del dolore ; capita ,sovente, che qualcuno cerchi di appropriarsi del proprio dolore, quasi a volerlo negare , con la frase tipica , di chi voglia giustificarsi : si , avrai anche sofferto , ma io di più , perché non potevo fare altrimenti . Perché dare una misura al dolore, quando il dolore personale non è assimilabile ad altri ed è anche la chiave di volta per poter dare un senso pieno anche alle piccole gioie? Da queste ed altre considerazioni , nascono i miei testi. Ringrazio Ennio per aver colto questa spinta .

  3. …veramente bellissime e potenti, per quel che può l’umano sentire, queste poesie di Anna Leone. Sembrano scaturire dallo smisurato dolore di un respinto amore innocente che però ha saputo trovare nella cura e nell’auto-cura le parole creatrici per raccontarlo…per farsi interprete e narratrice, a tutto campo, di sofferenza e bellezza: “Il mio canto” come “…fado remoto,/ nel tempo binario,/ di vita e di morte”. Grazie

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