Su «Hybris» di Gianmario Lucini

di Ennio Abate

I

1.

«Hybris» è innanzitutto un libro che conferma il percorso di pensiero di Gianmario e quel compito, morale e culturale, che attribuiva alla poesia come ricerca della verità e dell’utopia. È anche uno dei suoi ultimi libri, pubblicato nel febbraio 2014, pochi mesi prima della sua morte nell’ottobre di quell’anno. Si carica, perciò, anche di un significato fin troppo testamentario.

2.

Nel primo testo, «Al lettore (“mon semblable et mon frère”)» (pag.11), evidenziato e distinto dagli altri anche per l’uso del corsivo, quella sua visione della poesia è programmaticamente ribadita. E in modi che accennano anche al nucleo emozionale contraddittorio da cui lui la vedeva nascere. Scrive, infatti, e proprio nel primo verso: «Difenditi da questa poesia, perché è nata bastarda». E perché mai difendersi, verrebbe da chiedersi. Perché, risponderei, Gianmario sa che nel fondo oscuro, da cui viene la poesia (o, meglio ancora, la sua poesia), si combattono – inseparabili e contrastanti a un tempo – due pulsioni: una amorosa («L’ha scritta forse perché t’ama») e una aggressiva («o forse per straziarti»; «È una poesia che non piange né ride ma s’avventa»). E sa quanto complicata sia la catarsi a cui invita il lettore, semblable e frère. Egli non ha né vuole offrirgli alcun moderno o disincantato piacere del testo. Anzi, rudemente l’avverte: «Vi troverai il tuo pianto inaridito/ nelle sabbie del deserto e lo scongiuro/ dei poveri che t’hanno maledetto/ e sentirai danzare serpenti e scorpioni/ sul giogo del collo e sulla schiena». C’è da notare che questi pochi versi sono già un altro indizio: della nostalgia per un mondo religioso e antico che pervade e domina tutti i componimenti di «Hybris». Lo stesso lessico e le immagini elementari evocate («pianto», «sabbie del deserto», «serpenti e scorpioni») rimandano immediatamente al linguaggio sublime e vigoroso della Bibbia.

3.

Nell’«Intermezzo» in prosa (pag. 51) Gianmario tocca un’altra questione oggi molto e spesso vanamente dibattuta: la crisi della parola poetica rispetto allo strapotere di quella dei mezzi di comunicazione di massa. Ma lo fa parodiando ambiguamente, a mio parere, i pregiudizi più ingenui del senso comune e quelli più perfidi e saccenti dei nemici della poesia che negano, da sponde diverse la complessità e particolarità del linguaggio poetico. Non capisco, ad esempio, perché abbia presentato proprio il poeta, tra i tanti che oggi potrebbero essere portati come esempi negativi, come «il gran peccatore» (pag. 51) o – secondo un abusato e infelice stereotipo – come «l’ultimo pazzo che sa di esserlo e vorrebbe che tutti i pazzi lo sapessero (pag. 52) o come uno strambo «che dall’alto della sua onda balorda vede cose insane urla contro tutti» o come «un dissociato» (pag. 51). Qui l’autoironia lamentosa e un sarcasmo masochistico gli prendono la mano. Al posto di una giusta difesa del bene-poesia o di una denuncia caustica e ben mirata dei suoi nemici, la sua voce, al di là delle intenzioni, mi appare indebolita dalla stanca e velleitaria ripetizione delle anafore: «Potremmo costruire interi poemi chiavi in mano»; «Potremmo costruire poesie e rivenderle ai poeti»; «Potremmo colmare la distanza fra calcolo e pensiero»; «Potremmo rifare il mondo con poco» (pag. 53). Che rivelano un disorientamento, un brancolare al buio.

4.

«Exodus» (pagg. 55-81) non è una storicizzazione della sapienza degli ignoti scrittori della Bibbia né un semplice omaggio al Libro per eccellenza. C’è sicuramente qualcosa di più intimo: il fascino per il linguaggio biblico ad un tempo inestricabilmente religioso, poetico, sapienziale. Eppure non si va oltre una amorosa parafrasi e una sintesi liricizzata del libro dell’Esodo. E’ un disperato e testardo tentativo di sfuggire una crisi esistenziale e gli scossoni traumatici del moderno o del cosiddetto postmoderno, riallacciandosi alle figure mitiche di un tempo lontanissimo e inafferrabile. Che, certo, Gianmario rivive nel suo animo poeticamente come in un sogno ad occhi aperti, mimando il linguaggio biblico o identificandosi con le figure di Moshe, delle rane «animelle dell’acqua chiara del fiume» o del faraone adirato. Non so se sono io solo, forse rimasto troppo esterno al sapere biblico, a sentire in questa sua rilettura dell’Esodo ma anche in quelle successive – «David» (pag. 71), «Nel segno di Qohèlet» (pag. 77) – più la disperazione e il rifiuto per un presente ostile, indecifrato e insidioso – sentimenti che s’annidano in tutti, anche nei più laici, tentativi di ritorno (compreso, sia chiaro, ogni ritorno a Itaca” o lo stesso “ritorno a Marx”), che la serenità del saggio antico o la determinazione del profeta. Al cattivo delirio del Logos Gianmario contrappone il buon delirio dell’antica sapienza. Nella convinzione che essa sia ancora accessibile e che ancora permetterebbe di rianimare nel lettore d’oggi la volontà di «far emergere dal fondo dei tempi, non gli idoli, bensì le anime, le credenze, i saperi sepolti per la fretta e la vanità dell’uomo occidentale»; e rispondere all’appello – posto in exergo a «Hybris» (pag. 9) : «bisogna trasformare il male in bene; bisogna estrarre dall’oscurità la luce» – di Maria Zambrano, filosofa e saggista spagnola sicuramente affine a Gianmario nella critica alla eccessiva fiducia nel Logos e nel sapere scientifico. A me questa prospettiva non pare più possibile.

5.

Anche «Nenia», in strofe di cinque versi liberi, mette in risalto «quel pensiero/ che un tempo sfidò gli dei e li vinse» ma che è oggi «murato in una culla di vento» (pag. 13). Perché l’uomo – dice Gianmario – è ormai un «estraneo alla sua casa, alla sua vita» e altrettanto «indefinito» e ammutolito è quel Dio che l’uomo ha «servito/ per cento millenni» ed è ridotto a «un’ipotesi smarrita» (pag. 14). All’uomo «la sua/ piccola scienza gli ha bevuto il cuore». Egli «non è più figlio della storia, né scopo/ suo la salvezza» (pag. 17). Il componimento sta tra la cantilena e il canto funebre, ma in fondo prevale il secondo elemento: «E tutto quel cantare l’epopea/ l’epigono, il tramonto, piangersi addosso/ e non fare niente – nenia d’occidente,/ falsa, gaudente, gaglioffo sognare/ l’eterno presente-» (pag. 17).i

6.

Il testo di «Hybris» (pag. 21), centrale anche perché dà il titolo alla raccolta, è un poemetto di dieci sezioni in strofe di diversa lunghezza. Ma è un discorso ancora parodistico della vulgata massmediatica ma molto, forse troppo, vario. Gianmario vi inserisce – brutalmente e a volte in un modo persino sgangherato – cenni sarcastici e a volte rabbiosi verso la condizione dell’umanità contemporanea, che ha negato o smarrito Dio, accanto a termini latineggianti medievali che trattengono invece gli echi di un francescanesimo stupito e assorto in Dio. Eppure ogni inizio di preghiera, che sembra possa essere pronunciata alla vecchia maniera («Pater filius noster che dentro le stelle riposi»), è quasi subito interrotto, soffocato e contraddetto dalla incombente e minacciosa evocazione del Male mondano («il ciarpame che c’imbriglia/dentro la tomba del mondo/nostro efebico e gelato», pag. 21). Sul piano linguistico Gianmario qui si spinge verso punte di espressionismo convulso. Soprattutto quando accatasta furiosamente verbi, impersonali e infinitivi: «Necesse igitur la critica e/ l’intromettersi, l’interporsi, l’invadere, l’intrudersi/ e il perforare,/ l’accasarsi dentro come cimici/ dentro la carne delle parole» (pag. 22). O s’abbandona ad una amarissima ironia: «urge leggiero fingere oscillare come canna al vento/che annuncia riscossa e ballare,/ ballare propriziando la resa ballare/ del tempo ballare fino a/ quando l’ultimo raggio/ dell’occaso ballando/ non cada/ disfatto/ nel fango» (pag. 23). Eppure la sua feroce nostalgia di un Dio, che dava senso all’uomo e al mondo, entra in urto sempre troppo bruscamente con l’indifferenza degli uomini. E a me pare che sia essa a occupare troppo spazio nel discorso poetico di Gianmario rendendo quasi flebile la sua indignazione. Si veda, ad esempio, la sezione IX di questo poemetto. «Nella volta negra de la notte», la voce del poeta viene distratta e sopraffatta da ignote «voci abrase dall’alcol che schiamazzano». E «sono voci operaie, giovani voci/ baritonali nasali ubriache/ per sentirsi vive, voci di puellae/ con l’ombelico che straripa/ da troppe strette brache/ e col terrore negli occhi sguaiati// ora che il nibbio del futuro cala/ in ogni sguardo che incrociano,/in ogni ipotesi di amplesso e di coito» (pag. 31).

7.

«Et verbum caro» (pag. 35). È un altro poemetto della raccolta. Suddiviso sempre in dieci sezioni, alcune titolate ed altre no. Torna l’immagine, carica di un simbolismo antichissimo, della «notte gelida et longa/ et stolida» (pag. 35), già comparsa in «Hybris», ora come «volta negra della notte» ora come «gran buco nero che avanza» (pag. 31). E abbondano, ma senza trovare alcuna risposta, domande incalzanti e piene d’ansia: «Che sia la voce di cani notturni/ l’estrema nostra / prima che tutto s’imbotti nel ghigno d’un silenzio / nel quale Tu in disparte/ non hai più nulla da dire oltre il già detto/ il ridetto e contraddetto? (pagg. 35-36) ». Prevale lo sconforto, un sentimento di sconfitta e di morte. Il mito dell’Eden perduto («Conoscevamo un tempo la nudità dei corpi/ et etiam dello sguardo», pag. 37) è richiamato, ma subito irrimediabilmente accantonato da immagini di un tempo opprimente, nel quale «la carne della terra geme di parti apocalittici» (pag. 37). E lo stesso accade ad una citazione, anch’essa dal tono biblico, di Mahler contro la «sordide vanità di questa terra» (pag. 38) a cui seguono le immagini raggelanti di un «gioco/paradossale dei sessi di pietra» o di una carne che «va esibendo la nostra/morte ingurgitata, aspirata, fagocitata, spalmata come olio/ su antichi disfatti gladiatori» (pag. 39).

8.

Persino un componimento come «Identikit», il quarto di questa sezione, che credo prendesse spunto da un fatto reale di cronaca – un attentato mafioso ad una scuola media di Brindisi del 2012 ricordato tra parentesi – è fagocitato in una contorta e interiorizzata meditazione sull’inestricabile coesistenza degli opposti: «quella rabbia/ che in un unico afflato confonde/ peccatore e peccato/ la voce di Dio e il ringhio/ di Satana Trimegisto» (pag. 40). La disperazione è rassegnata e inconcludente: «andiamo/ a piangere le lacrime dei folli e a bestemmiare/ vanitas vanitatum» (pag. 41). E forzati e stridenti mi paiono gli accostamenti: tra «slancio/tomistico ed ermeneutico» e «logica spietata del mercato» (pag. 43); tra lessico medievale e parlato politicizzato e quotidiano d’oggi. Anche se caricati di ironia o di sarcasmo, mi sembrano impacciati.

9.

«Vadam ad portam inferi» (pag. 83) è, invece, l’unica sezione che ha toni più distesi e calmi. Inizia con una «Preghiera dubitosa» (pag. 83) dedicata ad Emilio Piccolo, che non conosco e forse è identificabile con il redattore del blog di poesia Vico Acitillo. A leggerla oggi, questa poesia pare attraversata fin troppo da presentimenti e meditazioni sulla morte: «Non so se il viaggio mi porti all’eterno/ o al niente o al miraggio dell’incanto» (pag. 83); «Scendi i gradini senza rumore, non battere di tacchi,/ rimbombi oltretombali prima della tomba […] Fra mobili in disuso vai a rovistare/ oggetti che t’accompagnarono la vita» (pag. 86); «Avanza il tempo della solitudine dei giusti/ che lasceranno il mondo in punta di piedi» (pag. 87); «Ma questo è il tempo del delirio e del silenzio/ gridato che divelle ogni certezza/ tempo di lenta agonia che finisce/ soltanto col finire della vita» (pag. 87); «sarà la sorella morte che mi chiama/ a un’altra esistenza che mi attende/ o verità che fingo d’ignorare» (pag. 88). Non mancano, però, immagini serene («Freme il gran luglio e imbastisce/ un desco di prati mossi dal vento», pag. 84). Qui è come se Gianmario avesse abbandonato per un po’ il tono sublime del poemetto che vuole insegnare e scuotere l’inerzia e l’indifferenza dei lettori. I testi sono più brevi e intimi. Le verità vengono dette fuori dalla sceneggiatura biblica. E in toni sicuramente più disincantati e pacati: «E non c’è libro, né poema./ Anche Dio nauseato guarda altrove/ e nasconde il capo nel mantello;/ non rimane speranza/ ma non posso disperare» (pag. 88); «Perché non saranno le parole malate/ dei poeti a fermare/ la paranoia che intride ogni potere/ dell’ossessione di morte» (pag. 90). Minor peso rispetto alla rivisitazione di «Exodus» ha quella di alcune figure dei miti greci condotta da Gianmario nella sezione «Il canto della nottola» (pag. 101). E trovo l’ultima sezione, «Ad epilogo».

II

Come ho ricordato altre volte, nel breve periodo in cui abbiamo collaborato assieme in Poliscritture, io e Gianmario ci siamo parlati da sponde filosofiche diverse e per certi versi contrastanti, riferibili – almeno in partenza e con approssimazione – ad Heidegger le sue e a Marx in versione critica fortiniana le mie. Interrotto purtroppo quel nostro confronto a causa della sua morte, anche questa mia lettura di «Hybris» non può essere più controllata in dialogo con lui e resta – bene o male – soltanto la mia interpretazione. Tuttavia penso che non gli sarebbe dispiaciuto leggerla. Mi sono anche chiesto se, a tenere presenti le nostre differenze anche nel momento in cui m’interrogo su questo suo libro da solo, non rischio di essere troppo severo verso un amico che non c’è più. Non credo, poiché il confronto con il suo pensiero e la sua poesia continua sul piano di parità e di rispetto di quando Gianmario era vivo ed entrambi avevamo consapevolezza dello stato di crisi in cui agivamo. Anzi sono convinto che, come io avevo colto che egli si dibatteva nella crisi del cristianesimo di fronte al mondo moderno e postmoderno, lui era altrettanto attento nei confronti della mia crisi rispetto al marxismo. Inoltre molte cose ce l’eravamo già dette in un confronto del 2012 a proposito di un altro suo libro «Il disgusto» (qui). Secondo me, la tensione religiosa e civile di Gianmario era da tempo indirizzata in senso mitico, apocalittico ed ecologista. Proprio – devo dire – in senso contrario a quella di Fortini (e alla mia). Le sue affermazioni si accostavano in buona parte a quelle di Pasolini: «la povertà sarà l’unica a salvarci»; «l’economia e il potere moderno […] sono fuori dalla razionalità»; «Io voglio che il potere sia a) razionale e b) innocente». Gianmario cancellava, con disinvoltura eccessiva a mio parere, tutte le vecchie categorie di pensiero: «Non ci servono più le vecchie categorie di giudizio: cristiano o laico o altro: ci servono idee diverse, perché queste categorie non sanno più interpretare la direzione della storia che, se vogliamo aprire gli occhi, corre con velocità vertiginosa verso un abisso di caos». Certo, ma cosa proponeva contro l’acuirsi del processo distruttivo delle nostre società? Non certo la rivoluzione, che, secondo lui, «azzera sempre tutto ma non l’ingiustizia e le cause degli squilibri». E se negava, coerentemente dal suo punto di vista, ogni valore a Marx e al marxismo («Non ha più senso pensare in termini di lotta di classe, perché le classi sono solo distinzioni di status, non di mentalità. Il problema vero è che, anche il povero (lo straccione) ha acquisito la mentalità rapace del padrone ed ora è quella a dominare, trasversalmente»), lo faceva perché in fondo era convinto di una cosa: «i valori del cristianesimo ai quali qui mi appello (compassione, compartecipazione, giustizia, sostegno per le ragioni degli ultimi e dei più deboli, ecc.) NON sono soltanto valori cristiani, ma patrimonio dell’umanità, sono un’antropologia».

Quello che mi colpì allora e ritengo ancor oggi criticabile era il fatto che non esitasse a presentare come universale e interamente valido il discorso originario della Chiesa povera, anzi di un’umanità povera. E, perciò, affermava: «Forse è fuorviante il fatto che [nel mio discorso, nella mia poesia] ci sono dei riferimenti al Trascendente, alla Religione, al Papa, ecc.: io certo sono credente ma, in questa e in tutta la mia poesia, NON è la religione a muovere l’ispirazione, ma una cultura laica che mette la sopravvivenza della specie al primo posto». Questa difesa dell’umanità minacciata – mi pare di capire meglio oggi – era forse diventata la sua religione al posto di quella, che doveva sentire “di parte” della Chiesa cattolica. (Si tenga presente che il pontificato di papa Francesco inizia nel marzo 2013). Per cui sbagliavo io a ritenerlo legato un po’ troppo alla tradizione cattolica, ma non sbagliavo – credo – a cogliere i caratteri astorici ed ecumenici della sua religiosità, che gli faceva dire: «non mi interessa il potere come classe e non voglio intraprendere nessun dialogo col potere: non è vocativa, la mia poesia. il potere è ottuso e ignorante: non ci puoi ragionare. a me interessa la baracca, tutta la baracca, con dentro potenti, poveri, ribelli, conniventi, mafiosi».

Non so quanto ascoltò allora le mie critiche, che insistevano molto sulla storia e sulla necessità di una attenta valutazione delle continuità e delle discontinuità dei processi di modernizzazione e volevano sottolineare la relativa insufficienza sia del mio punto di riferimento (Marx) sia del suo (il cristianesimo della Chiesa povera o dell’umanità povera).ii So che molte sue affermazioni («La tecnica ci promette salvezza e ci chiede (lei sì) una “fede” di tipo religioso, nel senso che promette salvezza in un futuro non identificabile, anche se non trascendente, ma, al di là del quadro trascendenza/immanenza, il meccanismo è quello religioso») avevano un sapore eccessivamente heideggeriano (o anche agambiano), che questa raccolta, «Hybris», riconferma in pieno.iii

Il dialogo con Gianmario si è interrotto, dunque. Ci tengo, però, a ricordare un episodio, che dovrebbe chiarire quale era la mia “strategia” amicale e politica nei suoi confronti. Convintomi che la sua meditazione poetica si muoveva ben più della mia ancora nel campo del cristianesimo cattolico più inquieto ed era abbastanza sorda ai problemi posti da Marx (e da Fortini), gli consigliai di leggere e gli prestai «Non c’è più religione» di Michele Ranchetti, che avevo intervistato nel 2005. La mia speranza (o presunzione) era che le parole di Ranchetti potessero raggiungerlo ben più dei miei discorsi e potessero giovare a fargli intendere più a fondo e in modi più rigorosi la crisi del pensiero cristiano che Gianmario stava vivendo. Del resto, qualcosa mi pareva accomunarli: anche Ranchetti, come ammise nella intervista, era stato toccato dal ‘68 ma mai veramente da Marx o dal marxismo, come invece era accaduto nel dopoguerra a Fortini o a me verso la fine degli anni ‘60. E se, malgrado il suo a-marxismo, Ranchetti mi aveva aiutato con i rigorosi ragionamentiiv dei suoi «Scritti diversi» a ripensare aspetti della tradizione cristiana e cattolica meglio di quel marxismo che avevo assorbito nella militanza degli anni Settanta, ritenevo che ancor più potesse aiutare Gianmario a far chiarezza sulla sua crisi di cristiano.v È come se mi fossi detto: Caro Gianmario, per Marx non ci vuoi passare, ma arriva almeno a Ranchetti! Inseguivo, cioè, – lo dico lealmente – la prospettiva che ho riassunto in una sorta di slogan provvisorio: non c’è più religione, non c’è più comunismo. E speravo che prima o poi sia la ricerca di Gianmario che la mia – di singoli provenienti dall’una e dall’altra tradizione: cristiana e marxiana, dell’antico e del moderno – potessero confluire nel compito che tutti abbiamo di riprogettare insieme un mondo nuovo che utilizzi anche le buone rovine, verificate e ripulite, di entrambe.

Per finire. «Hybris» ha la prefazione di Stefano Guglielmin, amico di Gianmario e sicuramente vicino al suo modo di sentire. Ma devo dire che da alcune sua affermazioni dissento. Non credo, per quanto ho finora detto, che «Hybris» possa essere una «cura alla malattia del moderno». Perché non penso che il moderno sia malattia (o peccato) ma uno sviluppo problematico e ambiguo della storia e che non può essere negato o demonizzato da una nostalgia troppo forte dell’antico.vi Gianmario voleva ritrovare o credeva di poter ritrovare quella «Natura madre dolcissima». Ma bisogna ripetersi che si tratta di una illusione, a cui il pur da lui citato Leopardi non cedette; e a cui non dovremmo cedere neppure noi. Fosse pure definitivamente bloccata la strada che Marx aveva indicato di passaggio dal moderno a un suo “inveramento” nel comunismo. Per me Gianmario contava, illudendosi, sulla «possibilità del contatto messa in opera dalla parola». Trascurava o sottovalutava i mille stratagemmi manipolatori che essa ha subito con l’industria culturale e ora con la sua integrazione nella spettacolarizzazione della realtà attraverso i mass media. Aveva semplificato fin troppo e senza andar per il sottile la giusta polemica contro l’intellettualismo, non capendo che la poesia non può (e neppure dovrebbe) diventare «il banchetto comunitario, l’ostia consacrata dal dolore, l’agape»; e cioè sostituire la religione. Bisogna dar retta all’avvertimento di Fortini contro i rischi di sacerdotalizzare la poesia, di farne un surrogato, un idolo: «la sporca religione dei poeti». Insomma, non basta Dante pedagogo a frenare o mortificare quella hybris, che proprio Marx che Gianmario – come ricorda Giugliemin – ha voluto tenere «a bada nelle sue spinte rivoluzionarie», svelò nelle sue inequivocabili radici materiali e storiche. Ignorandole o riportandole a uno scontro metafisico di Bene e Male, la denuncia della hybris nella poesia di Gianmario si fa sterile e disperata, come ho cercato di dimostrare. Non arriva a trasformarsi «di pianto in ragione» (Fortini). E poi non è che Marx non cogliesse la fragilità del proletariato (più che degli uomini) o non avesse capito la insidiosa e ipnotica fuga negli idoli (o nell’ideologia). Mai slegando però i problemi dell’alienazione o della paura della morte da quel particolare tipo di rapporti sociali diseguali e oppressivi che la storia del capitalismo ci ha imposto. Sì, in «Hybris» c’è di sicuro «amore francescano per il Creato e il suo Creatore», c’è Pascoli, ma il «viaggio dantesco tra le macerie del contemporaneo» andrebbe fatto anche o ancora in compagnia di Marx. (O almeno di Ranchetti!). Quanto al plurilinguismo, su cui Guglielmin ha insistito, ho già detto che la «finzione ironica e/o spaesante» mi pare debole e non incisiva. Gianmario resta nella crisi del cristianesimo in cerca di una impossibile «innocenza dell’inizio».

Note

i
Echi sicuramente simili a questi espressi da Gianmario ho ritrovato, mentre preparavo questa mia riflessione, in un articolo uscito su Doppio Zero (qui). Eccone uno stralcio: «Per Adin Steinsaltz l’essere umano è una realtà biologica, psichica e spirituale insieme, ognuna delle quali prova gioie e dolori propri. Anche l’anima soffre, e quando il suo dolore, la cui natura è spirituale, non è compreso e curato, può estendersi anche alla psiche o al corpo, più facilmente a entrambi. Perciò, allo stesso modo in cui curiamo il corpo e la mente, dobbiamo aver cura della nostra anima. La si può tormentare, trascurare e mortificare fino quasi ad annullare la vita spirituale, ma non la si può distruggere del tutto. Essa è una forza vitale che può rendere immenso anche un uomo umiliato e in catene».

ii
Gli avevo detto:«Ho ricevuto un’educazione cattolica da ragazzo, ho conosciuto meglio poi la differenza tra cristianesimo e cattolicesimo, ho imparato infine a criticare entrambi da un punto di vista marxiano; ma, come ho detto, dato per scontato che per me il cattolicesimo è ideologia del potere dominante (e non dei poveri), vedo oggi grossi limiti sia nel cristianesimo (e citavo non a caso Ranchetti) sia nel marxismo. Però nella tua esigenza di «idee diverse» o di mettere «la sopravvivenza della specie al primo posto» sento di muovere l’obiezione già fatta sopra: si tratta di un’esigenza astratta (ricordi gli «eroici furori» di Vittorini?): non si misura con la realtà, anzi rischia di distogliersi del tutto dalla realtà, di non studiarla, di non tentare neppure più di conoscerla».

iii
Va ricordato che in un intervento sul blog Moltinpoesia nel 2012 (qui), forse quando «Hybris » era in incubazione, Gianmario scrisse: «Quando parlo di “salvezza” è dal disastro, che intendo, provocato, in termini mitologici, dalla nostra “hybris”. Marx teneva sul comodino la tragedia di Eschilo su Tantalo, perché Marx la sapeva lunga (i marxisti un po’ meno, mi vien da dire…)».

iv

Propongo alcuni passaggi di quella intervista del 2005 (qui) :

Come virtù per un eventuale recupero del senso religioso della vita indichi paradossalmente la disobbedienza «cieca e assoluta» perinde ac cadaver, criticando così le figure degli «ultimi preti», che – dici – «non erano dei dissidenti, tanto meno degli eretici», ma appunto «obbedienti ». Mi chiedo: tale disobbedienza non rischia di essere “irrazionale”, “luciferina”, valore in sé e non strumento per raggiungere “qualcos’altro” che la ragione, il cui uso rivendichi con passione, abbia davvero afferrato (e questo sia che ci si ponga su un piano religioso sia che ci si attesti su quello civile e storico)?

Nella prospettiva di una corruzione da parte dell’istituzione religiosa del messaggio cristiano, la disobbedienza ha un senso, perché corrisponde a un progetto religioso o a un’appartenenza religiosa non rappresentata. Di fronte alla presenza di un magistero così aberrante e di fronte a manifestazioni di idolatria nei confronti di un pontefice idolatrato che ha contribuito largamente alla struttura di potere della chiesa, la cosa che si poteva fare o si poteva auspicare è che i credenti, coloro che si ritenevano ancora all’interno dell’espressione di fede cristiana, si ribellassero. Se però io mi domando se l’istituzione che si sostituisce alla predicazione, che si è dispersa nel mondo sia la unica forma possibile, allora la disobbedienza ha meno rilievo. Ripropongo perciò la stessa domanda di prima: per contrapporsi occorre pensare che dalla professione di fede cristiana e in particolare dalla lettura o rilettura del Vangelo emerga una possibilità di comportamento anche civile? Questa interrogazione per me rimane in sospeso. Allora, si può sempre disobbedire, perché il comportamento dell’istituzione è certamente aberrante anche rispetto alla pace, alla guerra e alla giustizia. Questo però non so se debba essere o se possa iscriversi in una professione di fede.

Ma anche se nel momento in cui si disobbedisce manca una proposta positiva? Insisto: la disobbedienza non dovrebbe accompagnarsi alla proposta di qualcosa di diverso, altrimenti…

Altrimenti, no! Io non so cosa succede. Però, se in nome di una professione di fede religiosa uno agisce da criminale questo si può e si deve fare, auspicare che questa persona venga incriminata. Si può incriminare come pervertimento del messaggio cristiano nella sua elementarità, che è l’amore, il volersi bene, la giustizia, la verità. Si può incriminare per una diversa intelligenza del Vangelo, che io non ho.

Pensi che l’abbiano altri? Insisto nel porti il problema della disobbedienza in termini che considero politici e non solo etici: quasi sempre a rifiutare la dottrina della chiesa cattolica sono individui arrivati alla consapevolezza della inconsistenza religiosa dell’istituzione e/o della sua connivenza con poteri oppressivi, ma tale consapevolezza manca agli altri. Si può costruire un movimento – io dico di lotta – soltanto sulla disobbedienza individuale o di pochi? Mi ripeto: la disobbedienza non dovrebbe essere “costruttiva”, accompagnarsi ad altro, al ”sogno” almeno di qualcos’altro?

Certo. Forse diciamo la stessa cosa. L’istituzione cattolica che si riferisce al Vangelo è evidentemente una perversione del Vangelo. Si può, quindi, e si deve disobbedire ad essa, perché ti dice di votare per Berlusconi in quanto uomo di fede, e non è vero. Fin qui è tutto legittimo, è tutto giusto; e non hai da fare un riferimento a qualcosa d’altro. Se ad un certo punto l’istituzione viene riconosciuta per quello che è, e cioè una struttura di potere, hai già fatto un passo avanti.

Sì, ma quanti la riconoscono per quella che è?

Lo so, molto pochi.

E, se quei pochi, che pur hanno afferrato questa verità, non la riescono a trasmettere agli altri, ai tanti, e finiscono isolati? Certo, è preferibile questa condizione all’appartenenza a una comunità falsa.

Sì, finiamo così. Ma non ho nulla da eccepire al finire diseredati dalla tradizione, respinti da un vivere civile o da un vivere cosiddetto comunitariamente religioso, però abbiamo fatto un passo avanti verso la distruzione di una falsa verità. Cominciamo a fare questo. Ci sono quelli che all’interno della chiesa, anche con responsabilità molto maggiori di quelle che abbia io (io ce l’ho, perché sono un uomo vivo e basta; non ho nessuna struttura di riferimento che mi autorizzi a parlare in modo diverso dagli altri), più obbedienti di me in un primo tempo o più disobbedienti di me in un secondo tempo, che hanno riconosciuto questo pervertimento e si sono posti in una direzione diversa? Non li conosco! Quei preti a cui faccio riferimento – gli ultimi preti: Turoldo, Balducci ed altri – hanno fatto un passo in avanti? No, non mi sembra. Sono rimasti nella delusione di una struttura che non corrisponde al loro ideale. Hanno cercato di migliorarla dov’era possibile. Hanno cercato di avere delle forme di convivenza religiosa con i loro confratelli, di predicare in modo diverso, di non fare riferimento a falsi valori o a false verità. L’hanno fatto e sono benemeriti. Si sono posti al di fuori? No! Si sono posti contro? No! Sono rimasti, come ho detto tante volte, gli ultimi preti. C’è bisogno di ultimi preti? Sì, più che di preti consenzienti, certo. Bastano? No!

v

In particolare sapevo che padre Turoldo, p]unto di riferimento etico e poetico di Gianmario, era stato anche amico di Ranchetti che ne parla in « Scritti diversi II», a pag. 109, in questi termini: «voce forte e tonante […] generosamente presente a proposito e a sproposito nella vita culturale, sempre nel giusto di fronte ai “peccati” della politica, della società, degli uomini […] non è mai riuscito ad essere, come voleva, un uomo di cultura, ma sempre […] uomo di fede». E forse, in un punto, a me era parso descrivere tratti riscontrabili nello stesso Gianmario: «per tutte le sue invettive e dichiarazioni di crisi, i lamenti salmistici, i precipizi dell’ira e del furore dei vuoti, la speranza religiosa sembrava non venirgli mai meno » (pag. 109).

vi

Mi sento molto più vicino a posizioni come questa (qui): «Siccome tutti gli aspetti positivi della modernità si sono sviluppati insieme agli aspetti negativi, allo stesso tempo contraddittoriamente in seno e grazie al modo di produzione capitalistico stesso, l’anticapitalismo può, essenzialmente, svilupparsi in due direzioni completamente differenti: la rivolta anti-moderna che vuole tornare indietro, quindi respingere in blocco tutto ciò che si è sviluppato grazie al capitalismo perdendo tutte le acquisizioni storiche ottenute grazie a esso, inclusi i diritti sociali e civili, con la nostalgia di un mondo passato o il sogno astratto di un mondo completamente altro; oppure andare in avanti, vale a dire criticare la forma sociale del capitalismo ormai autodistruttiva e salvarne le acquisizioni epocali che sarebbe solo regressivo e conservatore voler perdere. Se non si comprende la natura contraddittoria del modo di produzione capitalistico che allo stesso tempo produce libertà e sfruttamento, ricchezza e povertà, l’uomo universale e la sua alienazione e via dicendo e si cerca di superarne in maniera progressiva la forma oramai inadeguata di riproduzione sociale, si ricade in un “prima” o “altro” che, per gli standard civili e sociali su cui si basa la nostra vita comune, significa semplicemente barbarie. Confondere la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce, alla fine della catena delle mediazioni, il fascismo. Il populismo è una degli anelli di questa catena degenerativa».

4 pensieri su “Su «Hybris» di Gianmario Lucini

  1. …vorrei esporre qualche considerazione su “Hybris” di Gianmario Lucini, pur non avendolo letto, così come arriva dagli stralci selezionati e poi interpretati da Ennio Abate. Ritrovo lo stile “rabbioso” e “amoroso”, ispirato ai testi biblici più antichi, presente anche in altre opere del poeta e la forza della parola messa in campo per svelare le aberrazioni della modernità, i falsi idoli, le ingiustizie delle istituzioni di potere, incominciando da quello secolare della chiesa cattolica, ricorrendo ad “un altro” linguaggio…Mi sembra che Ennio muova due critiche a G. Lucini: l’uso di un linguaggio poetico a volte sin troppo caricato e dal sapore apocalittico, senza peraltro affrontare le cause storiche reali del disastro della società presente, così da apparire un discorso incompiuto: si pone la speranza cristiana in una possibilità di ritorno alla povertà delle origini, ma non si prospettano soluzioni…D’altra parte, secondo me, a volte testimoniare uno stato di cose e denunciarne l’orrore è già il frutto di un percorso lungo e conflittuale …come scrive G. Lucini in riferimento “agli ultimi preti”. D’altra parte Ennio Abate riferisce che entrambi, se stesso e Gianmario , siano arrivati ad una fase di crisi profonda del pensiero e perdurante nel tempo: il primo dalla sponda di Marx, il secondo da quella della fede cristiana. Entrambi, credo, ripongono molta importanza nella “parola”, ovviamente collegata alla ragione e ai valori, come strumento di chiarificazione nel dialogo, nel confronto…persino capace di promuovere cambiamenti conversioni o addirittura una rivoluzione. G. Lucini crede nella possibilità “del contatto messa in opera dalla parola” ma aggiunge che “A me interessa la baracca, tutta la baracca, con dentro potenti, poveri, ribelli, conniventi, mafiosi”, mentre per Ennio il percorso della parola è più accidentato e, in qualche modo selettivo, alla maniera di Fortini: “non mi rivolgo a tutti..” perchè, credo, il potere non si lascia scalfire, va soprattutto combattuto. Eppure trovo che entrambi confidino molto sulla possibilità, anche remota, di “raggiungere” anche i “nemici” o almeno i loro figli ( Lucia del Manzoni sa trovare le parole giuste da rivolgere all’Innominato)…Aggiungo una mia riflessione: di questi tempi, sperare di riequilibrare un sistema economico che cresce nell’ingiustizia tra gli esseri umani e genera la distruzione del pianeta, come da dettato capitalistico, attraverso la lotta armata mi sembra poco realistico, per via del rapporto impari dei deboli con i poteri forti, ben difesi da arsenali atomiche e nucleari, con questo non penso che la violenza sia sempre possibile escluderla..Perciò punterei di più sulla “vecchia parola”, sfrondata da suggestioni mass mediatiche, che promuove consapevolezza, e su nuove strategie di contestazione e di resistenza, tutte da inventare. Infine ringrazio Ennio Abate per averci voluto parlare del suo rapporto di amicizia dialogante e di stima con G Lucini, nella sua complessità e oltre i limiti del tempo..

  2. Pubblico con l’autorizzazione di Marcella la e mail che mi ha inviato. [E. A.]

    Caro Ennio,
    […] con il natale che incombe e rischiando la superficialità, scelgo di dirti quello che “a pezzi e bocconi” ho appuntato.
    Hybris non è una delle raccolte di Gianmario che mi abbia colpito in particolare. Confesso anzi di non averla mai letta con attenzione e non la ricordo affatto. Anche le considerazioni che seguono si limitano a quanto derivato dalla lettura del tuo commento e dei testi cui fai riferimento.
    La prima considerazione è di carattere generale: nel momento in cui si propone un commento critico ad una raccolta di versi è necessario, a mio avviso, che all’insieme delle critiche venga premessa una scelta piuttosto consistente dei testi che costituiscono quella raccolta (non solo qualche verso sparso a supporto del commento, ma qualcosa che dia conto del complesso del volume). Se dovessi farla io, sarebbe ampia ed includerebbe I, III, IX e X di Hybris, I e II di Et verbum caro, e di Vadam ad portas inferi le pagg. 83-8 4, 86-87 e 89. Ma io sono io e tu sei tu, e faresti probabilmente una scelta diversa, coerente con il commento. La farai, spero, per dar modo al lettore di ‘entrare’ nella raccolta anche se non possiede il volume e di concordare o meno con i tuoi rilievi critici.
    Un’altra considerazione è ugualmente generale ma relativa a questo commento critico. Mi sembra che affronti Hybris quasi solo dal punto di vista “filosofico”, della poetica dell’autore. Ma è un’opera di poesia ed è necessario commentarla anche sul piano formale, più di quanto qui non sia stato fatto. E se, come credo, voleva essere un ricordo del lavoro di Gianmario (e in fondo anche un omaggio), perché una critica tutta in negativo? Che cosa ti ha positivamente colpito in Hybris per farti scegliere di commentarlo e proporlo alla lettura? E’ giusto, mi sembra, mettere in rilievo anche qualcosa del valore poetico dei versi.
    Qualcosa, nonostante fretta e temo superficialità, anche rispetto ad alcuni punti del tuo commento:
    • al punto 1 devo annotare che l’ultimo libro di Gianmario è Istruzioni per la notte. La pubblicazione è del 2015, ma Gianmario l’aveva dato all’editore diversi mesi prima di morire, come dimostrano l’introduzione di Giovanna Iorio, datata luglio 2014, e anche le due postfazioni
    • al punto 2 non riesco a non notare che il “forse per straziarti” è accompagnato da “ed emendarti dallo strazio”, così come il “forse perché t’ama” è un “t’ama in balìa di questa morte”: il contrasto mi sembra dunque anche interno ad ognuna delle azioni espresse nelle due coppie di versi
    • al punto 3 credo che Gianmario presenti proprio il poeta come esempio negativo perché questo è quello che accade (che proprio il poeta venga additato come….) e lo addolora, e perché lui è un poeta. Più che fare dell’autoironia, mi sembra che esprima in modo molto articolato – e, sì, un po’ ripetitivo – quel che pensa e dice chi considera la poesia qualcosa di obsoleto e in sostanza inutile. Poi, certo, molto di quello che gli si rimprovera può costituire un rischio per il poeta
    • al punto 6 e nell’8 l’uso del lessico “medievale” e latineggiante mi sembra esprima, oltre all’ironia e al sarcasmo che tu noti, anche una forma di partecipazione emotiva forte… per questo mi piace, è coerente con i contenuti che esprime
    • al punto 9 nella Preghiera dubitosa leggo, più che una meditazione sulla morte, una riflessione sul cammino esistenziale – che per il poeta non può che essere ad portas inferi – e una pervicace volontà di rimanere, nonostante tutto, in questa vita. La leggo in tutto il componimento, e anche nell’exergo in fondo (Dissi … a metà della vita andrò alle porte dello Sheòl. Lì cercai il resto dei miei anni). Soprattutto i primi versi e gli ultimi mi sembrano chiari in questo senso: Per quattro monconi, ancora, di giorni/ lasciami, Signore, su questa breccia,/ [..]; e alla fine: Non so se il viaggio mi porti all’eterno/ o al niente o al miraggio dell’incanto;/ per qualche giorno ancora in questo inferno/ lascia allora, Signore, che io stanzi.
    […]
    Ti abbraccio
    Marcella

  3. A Marcella [Corsi]

    1.
    Sì, Hybris non è l’ultima raccolta pubblicata. Me l’ha fatto notare anche Marina Marchiori, la vedova di Gianmario, e ho già corretto in questa versione definitiva (“È anche uno dei suoi ultimi libri”);

    2.
    A supporto del mio commento ho scelto  i versi di Gianmario che mi sembravano  confermare la mia interpretazione. Ho poi indicato con precisione le pagine da cui  li ho tratti. Il buon lettore, se ci tiene a conoscere o capire questo libro di Gianmario o se è incuriosito (o insospettito) dalla mia interpretazione dovrà leggersi   Hybris.
    Non ho più alcuna voglia di inseguire lettori distratti o coltivare la loro pigrizia;

    3.
    “Mi sembra che affronti Hybris quasi solo dal punto di vista “filosofico”, della poetica dell’autore. Ma è un’opera di poesia ed è necessario commentarla anche sul piano formale, più di quanto qui non sia stato fatto. E se, come credo, voleva essere un ricordo del lavoro di Gianmario (e in fondo anche un omaggio), perché una critica tutta in negativo? Che cosa ti ha positivamente colpito in Hybris per farti scegliere di commentarlo e proporlo alla lettura?”

    Dopo la morte di Gianmario, mi sono proposto di riflettere sui libri da lui pubblicati. Questa riflessione, dopo quella dedicata a “Il disgusto” (https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/02/ennio-abate-la-polis-che-non-ce-2-su-il.html) e a  “Pensiero poetico e critica integrale dell’arte” ( https://www.poliscritture.it/2016/10/11/la-poesia-secondo-gianmario-lucini/)è la terza che gli dedico. Ed è e vuole essere personalissima. Non ho nessuna intenzione di indossare l’abito del critico di professione o di essere critico “completo”. Nel dialogo/confronto con Gianmario (da vivo e da morto) sono stato e voglio restare libero di sollevare le questioni che a me stanno a cuore e che mi sembrano decisive.   Altri, se ritengono di dover commentare “sul piano formale” più o meglio di quanto io abbia fatto, lo facciano.  Questo è solo uno dei contributi alla discussione sulla figura e l’opera di Gianmario. E, poiché sono cresciuto alla scuola di poeti e critici, che andavano a fondo sulle loro *vicinanze* e sulle loro *distanze*, non vedo alcuna contraddizione tra ricordare,  omaggiare e «critica “tutta in negativo”» (ammesso che tale sia la mia).  Ho poi inviato l’articolo a un bel numero di persone  che hanno conosciuto o collaborato con Gianmario proprio per sollecitare altri contributi. Anche in contrasto con il mio. 
     

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