Spleen dei periferici

Passante 1976

di Ennio Abate

                                          Passeggia sul marciapiedi.
                                          Albero stanco
                                          che protende sguardi
                                          per farsi sfiorare
                                          da qualche passante. 

I

La città e il prof [1978-79]

Era il suo giorno di riposo. Quella mattina era uscito per sbrigare le solite due faccende. Stavolta si trattava di comprare Dove vai alla figlia – c’era un servizio fotografico su Marilyn Monroe, lei ci teneva – e rifornirsi di preservativi. In venti minuti se la sarebbe cavata. Ma – tutto bene in farmacia – incappò nelle edicole chiuse per sciopero. E allora Colognom cominciò a sedurlo.

Beh, ti sei fatto i soldi! – chiese ironica la città – Non ti fai più vedere in giro come una volta. Mi scivoli addosso la mattina sulla Diane, passeggi col tuo amico maestro, fili furtivo qualche sera per la solita strada. E basta?

Il prof non aveva voglia di farle la lista dei guai recenti. Malattie, disfatta politica, ambasce familiari. Tacque e abbassò la testa. – Ma guardami almeno! – disse la città – Guardami e basta! Malvolentieri, pensando fra sé: Ma che vuoi che ti guardi! Sei una città di merda.., la osservò.

Era giorno di mercato. Si diresse verso Via Cavallotti. Non c’era ancora folla. I banchetti erano appena allestiti e gli ambulanti sistemavano scatoloni e cassette.

– Vuoi che ti guardi – bofonchiò – i commercianti infagottati per il freddo che aspettano i loro polli, che parlano come macchinette, che fanno andare le radioline a tutto volume per stordirsi e stordirli?

– Eh già – sbottò la città – la spesa tu la mandi a fare a tua moglie! Al mercato vieni solo per controllare se passa qualche bella figa e immaginare le foto che vorresti fare, se non fossi un pidocchioso a 400mila lire al mese! Della merce non capisci nulla, lo sai no? Quando compri paghi quello che ti chiedono e porti a casa. Non sai contrattare, non controlli la qualità di quel che ti vendono, non fai nessun confronto fra i prodotti di una bancarella e quelli di un’altra. Il più fesso di questi ambulanti ti frega che è un piacere. E pensare che gente come te insegna. Ma cosa metti in testa ai tuoi ragazzi?

II

Il pensionato

Si chiuse nel cesso e si tagliò con la lametta le vene al polso sinistro, dopo aver scritto su un biglietto: “Non sopporto più il dolore alle gambe. Perdonatemi.”.Il taglio al polso – aveva usato una Gilette era molto profondo. Era già sgorgato molto sangue. Il vecchio era accasciato sul water, pallido e ansante. La porta dell’appartamento era aperta e sul pianerottolo c’era gente del condominio. Osservavano attraverso il corridoio senza entrare la moglie e la figlia che cercavano di trasportare l’uomo fuori dal gabinetto per adagiarlo su una poltrona. Era stata chiamata l’autoambulanza. Poi lo sollevarono. Si trascinava come un paralitico. Ad un tratto si afflosciò. Ordini brevi e allarmati. Quando riuscirono a sistemarlo su una sedia tenendogli sollevato il braccio con la ferita, si accorsero che non tratteneva più urina e escrementi. Arrivarono due giovani barellieri volontari. Il loro capo, più anziano, disse che era un brutto taglio. Avvolsero delle coperte attorno al corpo del pensionato e poi, non riuscendo a sollevarlo, lo trascinarono sulla sedia fino all’ascensore. Altra gente arrivava e commentava spaventata. Qualcuno riferiva gli ultimi incontri che aveva avuto col vecchio – una settimana, un mese fa, chissà.

(Da Riordinadiario)

III

Pronto soccorso

Dalle finestre del corridoio si potevano vedere le strade innevate. La luce fuori era giallognola e fioca. Era domenica e gli sportelli degli uffici erano chiusi. Nell’atrio dell’ospedale non c’era nessuno. Sedie e barelle a ruote erano ammucchiate in un angolo. Davanti alla sala del pronto soccorso, da cui ogni tanto entrava o usciva qualche infermiere frettoloso dallo sguardo vuoto e impenetrabile, c’era una famiglia che assisteva un vecchio disteso su una barella. Erano meridionali timidi e silenziosi.

Le persone che avevano accompagnato il pensionato – inseguendo in auto l’autoambulanza che correva a sirena spiegata davanti a loro – quel fischio metteva inquietudine e avevano visto i passanti e una coppia in attesa davanti a un cancello voltarsi un attimo – cominciarono a parlare con quelli attorno ad un altro vecchio disteso immobile su una barella. Si scambiavano informazioni sui momenti che avevano preceduto il tentativo di suicidio e tentavano di capire com’era potuto succedere.

Nel frattempo erano arrivate altre persone. Una donna piccola, vestita di nero e trasportata sulla sedia a rotelle, si lamentava tenendosi la testa fra le mani. Il marito, un giovane coi baffetti e un impermeabile marrone, spiegava che era stata investita davanti casa da un automobilista che era scappato senza fermarsi. Poi s’era messo a litigare con l’infermiere. Era spaventato, voleva una visita urgente per la moglie ma l’infermiera aveva alzato la voce, dicendogli che dentro c’erano altri infortunati altrettanto gravi.

Poi, sostenuta da un uomo, era giunta piangente una ragazza in pelliccia. Anche lei cominciò subito a piangere e a gridare: Aituatemi! Aveva subito un raschiamento una ventina di giorni prima e ora, all’improvviso, aveva sentito un fortissimo dolore alla schiena…..

(da Riordinadiario)

Passante 1998

IV

Notturnisti

 Sul rettilineo della Palmanova,
 dove casca la triste luce della periferia,  
 filo dritto sul motorino  
 assieme ad altri notturnisti.  
 
 
 S’inseguono, s’afferrano,  
 si distanziano di nuovo,  
 scompaiono nella conchiglia cupa  
 della strada mancina.  
 
 
 Galleggio in nebbie leggere,  
 nelle infanzie di notti lontane.  
 Abbaiano cani.
 Ed ecco, querce si schiantano.  
 Qui accoppano qualcuno!  
 Il gelo dei torrenti scopre fangose creature  
 dagli occhietti ammattiti di paura e furbizia.  
 Quanto temo i dirupi della notte,  
 che s’espandono a lato al mio passaggio!

(da Immigratorio)
 
 
Emigrante 1970-’71

Ciclista di spalle 1974

V

APPUNTI SUL RAPPORTO CON GLI OGGETTI

Scritto per un’iniziativa della Biblioteca Civica di Colognom del luglio 2007

Non ricordo quasi nulla degli oggetti (migliaia) che nel corso di tanti anni (più di sessanta nel mio caso) ho visto e usato. Un esercizio di memoria sugli oggetti mi turba. M’attira e mi risulta agevole invece quello sulle persone che ho incontrato.

Qualche volta, però, ho disegnato e fotografato oggetti: dei cappotti appesi all’attaccapanni; un ombrello accanto a un battipanni; un paio di pantaloni; un barattolo di vetro con sottaceti; delle stoviglie; la scarpa del mio primo figlio Fabio adolescente e due gancetti; una scarpiera; dei calamai d’inchiostro di china con penna e tre uova; una caraffa d’acqua e un panno; le ombre di un sasso, di un calamaio e di uno stick di colla; sassi e conchiglie in due scatole di cartone.

Solo da immagini “fermate” potrebbe ripartire una mia riflessione sugli oggetti “con cui sono stato”.

Perché le ho bloccate, astraendole dallo spazio, dal tempo, dagli usi pratici quotidiani, dai rumori, dalle parole, dalle voci, dagli odori, dai corpi umani cicostanti, dai progetti, dai desideri di allora?

Ho seguito una convenzione: pittori, disegnatori e fotografi hanno sempre accolto nei loro quadri degli oggetti. Ho fatto quel comune esercizio contemplativo, più profondo del guardare pratico o distratto, che tutti, credo, facciamo ogni tanto “distraendoci” dal mondo. Ma anche per misurarmi con l’«oggettività» che, inquietante di per sé, oggi, sotto forma di merci, è asfissiante.

E l’inquietudine è, per me, più forte quanto più è impedita la possibilità di antropomorfizzare le cose che mi circondano o m’invadono. Faccio un esempio: la foto [qui sotto] con i calamai di china e le uova[1] a me risulta meno distante, quando c’intravvedo (v’immagino, costruisco) un volto (qui sotto [2] approssimativamente delineato…). L’operazione non è neutra: indica una resistenza “umanistica” nel rapporto con le cose (ma anche con le tecnologie, ecc.).

1
2

Ma un esempio più famoso è quello che riguarda un filosofo del Novecento, Heidegger [Nota 2020: sul quale si sono però rafforzate le mie diffidenze e riserve]. In un suo importante saggio parlò di un oggetto comune: un paio di scarponi da contadino. Ma l’esca per la sua riflessione di filosofo non è un paio di scarpe “vere” (non c’erano contadini vicini alla sua abitazione?), bensì un celebre dipinto di Van Gogh. Slittò, cioè, subito dalla riflessione sulla “realtà” alla riflessione sulla “realtà” mediata dall’arte. E stufo dell’ “ovvio” – Ciascuno sa di cosa si compone uno scarpone, dice. Vi si trovano una suola di cuoio e una tomaia, assemblate l’una all’altra per mezzo dei chiodi e della cucitura. Un tale prodotto serve da calzatura al piede) – usa il dipinto di Van Gogh come un pretesto per inventare una storia, quella di una contadina che attraversa i campi battuti dalla tramontana. Per arrivare a quello che a lui come filosofo premeva:

Attraverso queste calzature traspare l’appello silenzioso della terra, il suo dono tacito del grano che matura, il suo segreto rifiuto di sé stessa nell’arido maggese del campo invernale. Attraverso questo prodotto trapela ancora la muta inquietudine per la sicurezza del pane, la gioia silenziosa di sopravvivere di nuovo al bisogno, l’angoscia della nascita imminente, il fremito sotto la minaccia della morte. Questo prodotto appartiene alla terra, ed è al riparo nel mondo della contadina. In seno a questa appartenenza protetta, il prodotto riposa in sé stesso.

Anche lui, mi pare, cede al bisogno d’antropomorfizzare, di sfuggire alla cruda oggettività delle cose. E l’immagine – il dipinto di Van Gogh – gli facilita l’operazione. Anche se, come ha obiettato il critico d’arte Shapiro, le scarpe dipinte da Van Gogh non erano di contadini ma le sue, dell’artista, resta il fatto che la scelta dell’immagine – artistica poi e famosa – ha permesso ad Heidegger di proiettare più agevolmente quello che aveva in mente. Avrebbe fatto le stesse considerazioni se fosse partito da un paio di scarpe di contadini “vere”? Non so. Tanto più che, come lo accusa ancora Shapiro, Heidegger saltò ogni considerazione sullo stile del dipinto, usando il dipinto come documento e trascurando del tutto che esso fosse un monumento. Lui cercava l’essenza degli oggetti. E se non l’avessero?

Barattolo di vetro 1978

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