Il gatto di Fortini

di Donato Salzarulo

Ripubblico nella rubrica ANTOLOGIA DEI VECCHI SITI DI POLISCRITTURE questo saggio di Donato Salzarulo, comparso nel 2012 e non accessibile al momento sul vecchio sito (2010 -2013). Ricordo che il saggio si trova però anche sul sito LA POESIA E LO SPIRITO (qui )e sul vecchio sito di MOLTINPOESIA (qui). [E. A.]

Del tuo timido gatto…

Del tuo timido gatto
che scendeva la scala
dell’orto la mattina
con la sua ombra fina
lungo le terrecotte

cosa è rimasto? Nulla
fuor che l’impronta impressa
dalle sue zampe nella
gettata di cemento
dove annusava incerto

fra le tue grida: “Via,
via di lì, stupidino!”
Era luglio, era aperto
il cielo. Pensai: “Certo
rimarrà sempre un segno”.

Ora il cemento è pietra
alle piogge d’ottobre.
Ostinate lo coprono
le foglie senza forma.
Toglile e potrai leggere

l’orma di quegli unghioli.

Il testo presentato è tratto da Paesaggio con serpente (Einaudi, 1984).
Siamo di fronte a una poesia semplice, piana; ad un componimento che può esser proposto senza incontrare difficoltà anche a ragazzi di scuola media.
La prima impressione è di trovarsi innanzi a qualcosa di familiare, di già ascoltato; ad una trama di parole, frasi, pensieri non nuova, un modo di tradurre in forma le proprie visioni-emozioni che si direbbe “classico“: ventuno versi regolari, tutti settenari, distribuiti in quattro strofe di cinque versi ciascuna, eccetto l’ultimo, solitario, in chiusura. Insomma, un bel gusto dell’ordine, almeno grafico; un’esigenza di costruire e far “colare” il pensiero poetico entro precise formelle.

Scrutandole, però, più da vicino, si può notare che, uguali per numero di versi e metro, le strofe sono poi tra loro molto dissimili per presenza o meno di rime all’interno, sagomatura dei periodi, corrispondenza fra pausa strofica e unità di significato, ecc.
Così, ad esempio, la prima e la terza strofa hanno i versi 3-4 in rima baciata: mattina-fina, aperto-certo; la seconda, delle quasi rime e un’allitterazione: nulla-nella, cemento-incertoimpronta-impressa; la quarta è compattata musicalmente dalle allitterazioni FOglie-FOrma, pioGGE-leGGEre, fOGLIe-tOGLIle, queGLI e dalle diverse assonanze in O oppure in O-E: piOggE-fOgliE, OttObrE-cOprOnO. Forma rima con l’orma dell’ultimo verso. Cemento è parola ripetuta come il Via-via dei versi 11-12, dando per altro luogo a sineresi nel secondo via.

Suoni prevalentemente dentali e allitterazioni, già presenti in modo significativo nei versi della prima strofa, si prolungano per tutto il componimento: gaTTo, maTTina, TerrecoTTe, rimasTo, impronTa, geTTaTa, cemenTo, incerTo, sTupidino, aperTo, cerTo, pieTra, oTTobre, osTinaTe, Toglile, poTrai.

Settenari per lo più anapestici e giambici costruiscono un movimento ritmico che non ha nulla di monotono. Anzi, si accompagna la gettata sintattica del pensiero e, come succede nella prima strofa, è reso quasi visibile l’incedere dell’animale:

del tuo tìmido gàtto
che scendèva la scàla
dell’òrto là mattìna
con là sua òmbra fìna
lùngo lè terrecòtte

L’impressione d’insieme è quella di un tessuto musicale sapiente, di un’orchestrazione tonale tutt’altro che monocorde: su una invariabilità della lunghezza dei versi si organizza un’armonica e studiata variazione del ritmo e della figuralità sonora.

Se da questa sommaria ricognizione dell’organizzazione dei significanti si passa alla conformazione sintattica, si può agevolmente rilevare il periodare abbastanza complesso delle due strofe iniziali (oltre alla interrogativa principale, si registrano delle proposizioni subordinate: una relativa, una limitativa ed una locativa) a fronte di una costruzione più semplice della terza e quarta strofa. Dall’ipotassi alla paratassi. Pure a questo livello, dunque, variazione.

L’impostazione dei periodi è, inoltre, tale da dar luogo a frequenti spezzature fra pause metriche e pause sintattiche. Si segnalano per la loro particolare intensità gli enjambement dei versi 8-9 e 13-14 (nella/gettata… era aperto/il cielo).

Anche le pause strofiche non coincidono con le unità di significato. La sola volta in cui accade, al termine della terza strofa, il fatto assume un significato rilevante. Subito dopo si produce, infatti, una vera e propria frattura nell’intero componimento: da un lato la vicenda passata e il pensiero del futuro, dall’altro il presente. Il cambio di scena e di stagione (da un’estate all’autunno) è indicato in diversi modi: avverbio (ora), variazione dei tempi verbali (imperfetto-passato remoto/presente), sostantivi (luglio/ottobre).

Queste veloci annotazioni consentono una prima conclusione: Fortini ordina il suo pensiero poetico in strofe; tuttavia, rispetto a quello forte della tradizione, il suo è un isostrofismo debole (P.V. Mengaldo, 1991); un modo, cioè, di raggruppare versi senza dare compattezza alle strofe.

Per rendersene conto, basterebbe un confronto con le prime due strofe pentastiche dei seguenti settenari tratti da Myricae:

Sogno d’un dì d’estate.

Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.

Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose;
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose:
due bianche spennellate

in tutto il ciel turchino.

Dei tre fattori caratteristici della metrica classica (isostrofismo “forte“, simmetria dei versi e regolarità delle rime), evidenti nel testo pascoliano, nella poesia di Fortini residuano solamente, come indicatori di un rapporto con la tradizione, la regolarità dei settenari e la forma strofica debole. E’ un fatto che succede spesso.

Poeta «essenzialmente metrico» (G. Raboni, 1986), costruttivista, egli non si lascia andare alle illusioni “moderne” e, in special modo, avanguardistiche del nuovo. Non rinnega la tradizione, ma neppure l’accetta nella sua interezza. Piuttosto la rifà, la riusa, la traduce, ingaggiando un rapporto di variazione, sottrazione, modificazione con le forme ereditate dalla classicità.

Le impronte, i segni lasciati nel cemento fattosi pietra della storia vanno letti, interpretati, poetati. La forma è il contenuto. Questa poesia nelle sue modalità, nel suo essere come, è di per sé uno scontro in atto con le foglie ostinate che ricoprono gli unghioli dei classici trapassati. Fortini non dice solo, fa quello che dice. Ma cosa dice?
Non è difficile capirlo. La poesia del gatto non oppone resistenza alla parafrasi. Il suo linguaggio non è “oscuro“, non presenta tassi “insostenibili” di metaforicità, come capita in certa poesia ermetica e/o simbolista.

La scena è semplice. E’ quella di un colloquio fra un Io ed un Tu. L’Io vuole sapere dal Tu, con una di quelle classiche domande retoriche che, di solito, i maestri rivolgono agli allievi, che cosa è rimasto del tuo gatto? La risposta, già nota all’interrogante, è una sola parola, breve e tremenda: nulla.

Nessuna illusione. Dopo la morte, per il gatto, come per ogni altro animale vivente (uomini e donne compresi), c’è solo l’abisso del Nulla. Ma, per fortuna, il nucleo principale della domanda e la drammatica risposta, fondamentali per la vita di ognuno, vengono dopo cinque versi e prima di altri quindici.

Si fa in tempo a diventare personaggio (sia pure timido, fino e incerto), a compiere azioni, più o meno abituali, in un luogo familiare (scendere la scala dell’orto, lungo le terrecotte). Si riesce ad avere una storia rivelatrice di una puerile, forse ineliminabile, nostra stupidità piuttosto che di una matura e sicura intelligenza: finire con le zampe in una colata fresca di cemento e star lì dubbioso ad annusare, tra le grida protettive di quel Tu al quale si appartiene; grida tradotte in un’esclamazione, tanto affettuosa quanto materna, con la quale si vorrebbe tenere lontano l’animale dalla situazione in cui scioccamente si è messo.

Non lo sanno, ma lo fanno. Perché le persone dovrebbero essere migliori di un gatto? Il fatto storico, l’episodio che consentirà al grazioso felino di imprimere la sua incancellabile orma sul cemento si realizza in una condizione di annaspamento e incertezza, con la sensibilità ridotta al fiuto. Gli uomini e le donne non posseggono il filo della propria storia. L’esplorazione, l’avventura, la voglia di tradursi in forma ha forse a che vedere con un bisogno fondamentale degli esseri umani.

L’Io che, insieme al Tu, ha assistito alla vicenda del gatto; l’Io poetico che mette in versi questo episodio, nell’occasione, giudicò con certezza che dell’animale, una volta morto, non sarebbe rimasto nulla se non il segno lasciato in luglio, col cielo sgombro di nuvole.
Ora che la storia, come il cemento, si è pietrificata in un passato, ora che il tempo è divenuto altro, che la stagione è mutata nell’autunno presente, nell’ottobre piovoso con le innumerevoli foglie informi, cadute ostinatamente proprio nel luogo dove il gatto aveva compiuto la sua inconsapevole impresa, ora è possibile verificare la fondatezza del pensiero-profezia dell’Io.

La verifica s’impone come dovere morale del Tu, come frutto di un imperativo. Essa richiede il compimento preliminare di alcuni gesti: togliere le foglie nel frattempo accumulatesi e rendere nuovamente visibile la gettata di cemento, mettendosi nella condizione di poter leggere.

E’ necessario non lasciarsi sfuggire l’importanza di questo verbo: esso presuppone una pratica cognitiva, un riconoscimento di segni, un’azione di comprensione, un lavoro d’interpretazione da compiere nel presente.

Quale il messaggio di quest’orma fortiniana? Il sentiero è spianato. In ordine, questa poesia dice:

a) Qualcosa sul suo modo di essere poesia; sul modo di lasciare tracce, segni sulla carta da parte di Fortini; in breve: comunica un’idea e una pratica poetica. Alcune cose, riguardanti la lingua, sono state già dette, altre le diremo, più avanti.

b) Qualcosa sul destino ultraterreno di un individuo vivente e morente, sul tempo ciclico della natura, sul trascorrere delle stagioni, dei cieli, delle nascite e morti. Una volta, questi pensieri si sarebbero chiamati concezioni del mondo. Oggi si ha paura di averne una.

La poesia dice qualcosa anche sul tempo storico di un individuo. E’ un lampo. Si scompare da una stagione all’altra. Però, la storia di ognuno, per quanto breve, si può raccontare. Può farlo il protagonista o, come capita a questo gatto, un poeta generoso. L’importante è non lasciarsi sfuggire la possibilità. Sulle differenze fra tempo ciclico e tempo storico e su questo bisogno essenziale di formalizzazione, cui si è già accennato, ritorneremo.

c) La poesia suggerisce, inoltre, qualcosa sulle modalità di realizzazione dei cosiddetti fatti storici, di quegli episodi, cioé, che lasciano tracce. Essi capitano come capitano: per caso, per inavvertenza, per stupidità; non certo, comunque, nelle condizioni migliori d’intelligenza e consapevolezza del protagonista. Uomini e donne sono ancora gattini ciechi. Più che alla storia siamo alla preistoria, come sosteneva un vecchio (da qualche decennio diventato innominabile).

La breve storia capitata ad un individuo non si svolge in un laboratorio protetto, al di fuori di un legame necessario ed inevitabile, sociale e culturale, con tutto ciò che accade ad altri individui sopravvissuti o nuovi venuti. Si vive tutti, qualunque sia la propria condizione e capacità di rappresentazione, all’interno di questo tessuto figurale, simbolico: morti, vivi e venturi; trapassati, presenti e futuri. Anzi, la Storia, quella con la maiuscola, è questa totalità di compresenze.

d) Il presente, il qui ed ora, è sempre un tempo carico di storie svolte e da svolgersi. E’un autunno che chiede ai sopravvissuti e ai nuovi nati di compiere il loro dovere morale, di rispondere all’imperativo della lettura, del disseppellimento e del riconoscimento dei segni lasciati dai morti e resi invisibili dal tempo ciclico della natura. Il presente è il tempo della verifica, dell’adempimento ai pensieri profetici del passato.

Più questo non avviene, più si abbandona il tempo della storia, più la comunità dei viventi, l’alleanza di passati-presenti-futuri regredisce all’eterno ritorno del trascorrere delle stagioni e del variare dei cieli.

2. Riprendiamo i punti, nell’ordine in cui sono stati enucleati. Fortini, quale idea pratica della poesia? Si è già detto qualcosa del suo classicismo. Proviamo ora a fare un passo avanti.

L’episodio di un gatto che finisce in una gettata di cemento, lasciandovi un’impronta è avvenimento che può capitare a tutti. Fortini decide di trarne dei versi. Non è il primo a farlo. Anche Baudelaire, ad esempio, poetò, a più riprese, su questo animale.

In un componimento vide nel felino la sua donna, il suo sguardo profondo e freddo; in un altro lo sentì passeggiare nel cervello. Avvertì il suo tono tenero e discreto, la sua voce ricca, lenta ed armoniosa. Era quella di un angelo. Misterioso, serafico, bizzarro, il gatto di Baudelaire è un genio familiare, una fata, un dio. E’ la sua stessa poesia.

Non si evocano i testi del grande poeta francese per instaurare confronti puntuali ed approfonditi con il nostro poeta. E’ solo una suggestione, un ricordo di altre letture, il suggerimento di una pista che si potrebbe seguire.

Il gatto di Fortini è timido, incerto, stupidino. Con lui il poeta non instaura corrispondenze, analogie. Nei suoi occhi non vede misteri. Il suo incedere è grazioso, fine; ma non è quello di un angelo, di una fata o di un dio. Non c’è poesia o voce segreta che si sprigiona dal suo miagolìo. Anzi, decide proprio di non seguirlo e rappresentarlo in questo suo atto. Probabilmente ritiene che nella sua immediatezza, in sé e per sé, il verso di un gatto non significhi molto. L’immediato chiede di essere mediato, l’emozione, la traccia, l’impronta degli unghiòli presuppongono il riconoscimento, la comprensione, l’atto di lettura. Un gesto più o meno piacevole; sempre, però, carico di storia.

Linguaggio, metrica, figuralità, gli strumenti e le modalità attraverso cui uomini e donne si esprimono, anch’essi sono, inevitabilmente, storici. Esterno ed interno, esteriorità ed interiorità sono poli di un rapporto, elementi stretti di una relazione da pensare insieme, come fenomeno e parte d’una totalità storico-sociale.

Questo Fortini lo sa. Perciò il suo gatto non ha in sé la verità, che si ridurrebbe al nulla della sua morte. Ne ha solamente una parte, quella rappresentata dall’episodio dell’impronta, dal racconto di una traccia che lo consegna alla storia passata-presente-futura, ad una verità che è fuori dal suo sé.

A differenza del gatto orfico e simbolico di Baudelaire, quello fortiniano è allegorico. Nella sua timidezza ed incertezza è parabola, esempio morale di una verità che gli esseri viventi posseggono in parte, ancora come sogno ed ombra: il loro riconoscimento reciproco, la sopravvivenza della vita del singolo nel ricordo della comunità sociale, l’unità del genere umano, ecc. Il gatto baudelairiano, invece, col suo mistero e la sua bizzarria, è rivelazione in atto di un dio imperscrutabile.

Non è solo in questa occasione che Fortini si vuole e si dimostra poeta allegorico, discorsivo, contrario ad una pratica ermetica, simbolista e post-simbolista della poesia. E’ da sempre una caratteristica delle sue scritture.

«Il mistero dell’economia politica, di cui già Marx aveva discorso, è oggi… il mistero stesso della nostra vita, l”’essenza” che giace sotto al “fenomeno». Questo è quanto sostiene Fortini in «Astuti come colombe», un saggio del 1962, pubblicato in Verifica dei poteri.

Il rifiuto della “vita apparente” delle società capitalistiche lo porta ad escludere, come ha scritto Guido Mazzoni,

«in modo rigoroso alcune delle principali linee della poesia contemporanea:
– la lirica (e in generale la letteratura) che tenta una mimesi diretta dell’alienazione capitalistica, descrivendola così come essa appare nella vita quotidiana, o imitandone il caos attraverso il plurilinguismo e il pluristilismo […].
– la lirica come voce immediata dell’interiorità e dell’Erlebnis singolare, nelle forme neoromantica, espressionista o surrealista. Le critiche che Fortini rivolge a Pasolini e al movimento di Breton hanno questa origine.
– l’idea della poesia come lingua segreta delle cose, “explication orphique de la Terre“. Il rifiuto del simbolismo è una costante della poetica fortiniana, dagli anni Trenta fino agli anni Ottanta, dalla polemica contro l’ermetismo a quella contro le nuove teosofie.» (pp. 26-27, 1996).

Numerose citazioni dall’opera poetica e saggistica potrebbero dimostrare le tesi qui sostenute. Limitiamoci a riportarne due. La prima è tratta da L’ospite ingrato (Marietti, 1985). Sono versi notissimi, indirizzati proprio a Pasolini. Si possono ritenere una specie di «epigrafe araldica o stemma» (R. Pagnanelli, p. 6, 1988) della poetica fortiniana:

Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
la sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso
ma tutti in me stesso. La mia prigione
vede più della tua libertà.

La seconda, più recente, s’intitola «Da un’arte poetica». Di squisito sapore oraziano, la si può leggere nella raccolta di Poesie inedite (Einaudi, 1995 e 1997), pubblicate, dopo la morte del poeta, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo:

I.

… farai bene a evitare che troppo sia breve
la tua poesia; non fidarti che un giorno
i piccoli scatti di umore, i veloci epigrammi
se letti in fila un universo aprano.
Chiunque fa trenta versi; ma cento o duecento
non li farai con accorte giunture. Ci vuole
sprezzo e coraggio; e molta debolezza.
Bisogna saper cominciare, durare e finire.
Non puoi confidare nell’istinto. Ci vuole chiarezza,
un piano, un disegno. Così Pasolini, se riesce.
E invece un Bertolucci divaga e il suo zirlo
è quello gentile del grillo, lo ascolti ma poi ti distrai.
Dagli atonali poi, guardati! Un tritacarne
è utile, bello perfino; per pochi minuti però.
Non sanno che sempre fu rotto, che sempre
fu inafferrabile il mondo; che il primo dolore
è dall’inestinguibile incoerenza
degli oggetti, dei volti e delle parole; ma sempre
chi poetò vinse quel primo disordine, salvo
un altro, più fondo, scrutare e anche quello
vincere e ancora un altro, precipitando
verso più inflessibile ordine, organizzando
sempre più indicibile caos, che è al primo com’è
Milano dal Duomo alla terra che ha scorto Gagàrin…

E’ un testo che richiederebbe un lungo commento. La poetica “classicista” di Fortini è ribadita con sufficiente chiarezza. Non si tratta, naturalmente, di negare l’umore o l’istinto. Il nostro poeta è noto per aver scritto, proprio ne L’ospite ingrato, epigrammi memorabili, confezionati con accorte giunture. E’ che non bastano da soli a dischiudere un universo. Necessitano altre “virtù“: quelle di chi non teme il pericolo, di chi non ha paura di mostrare il proprio disdegno e disgusto; se necessario, il proprio odio e la propria ira. Ci vuole ardimento, forza d’animo, voglia d’osare ma anche capacità di sopportare.

La poesia necessita pure di molta debolezza, qualità e condizione esattamente opposte a quelle indicate prima. Gli esseri umani sono attraversati dalla contraddizione, sono scissi in opposti, rotti, lacerati dalle antinomie. Con un po’ di sagacia, articolando e congiungendo attentamente parole ed umori, chiunque può scrivere trenta versi, ma bisogna saper portare dentro e mostrare il primo dolore di questa contrapposizione e universale frattura degli esseri, dell’interminabile incoerenza/degli oggetti, dei volti e delle parole per scriverne cento o duecento. Hegel è indubbiamente uno degli autori di Fortini.

Sempre/chi poetò vinse quel primo disordine. Ossia, mise in atto un movimento di riconciliazione, mostrò un intento di superamento delle scissioni, aiutato in questo dalla volontà di chiarezza, dalla progettazione e realizzazione di un piano, dalla elaborazione di un disegno.

La poesia è passione per la forma, sforzo d’ordine, desiderio di armonia, voglia di superare il dolore del disordine. Proposito tanto inevitabile, quanto illusorio, perché l’ordine momentaneamente raggiunto cela un disordine più profondo. Quando lo si scopre e lo si osserva attentamente, s’origina una nuova battaglia per l’ordine, e poi ancora disordine, finché, quasi arrendendosi a questo moto dialettico, verso l’ordine più inflessibile si precipita e il caos più indicibile si organizza. In questo caso, il doppio ossimoro, tipica figura retorica della poesia fortiniana, segnala con le sue antitesi la direzione finale di tutti i nostri conflitti: purtroppo, più inflessibile della morte non c’è nessun ordine e più indicibile del suo caos neppure.

Siamo tornati alla domanda sul Gatto. La sua poesia è quella di una creatura attraversata da contraddizioni.

Come si è detto all’inizio, ad un passo metrico sempre uguale si oppone un ritmo vario; l’ordine pentastico delle strofe è contraddetto dalla frequenza delle spezzature sintattiche; l’ipotassi delle prime due trova un contraltare nella paratassi delle altre due strofe; una fenditura profonda, un’antitesi si manifesta tra la situazione estiva, di movimento e di apertura del passato rispetto a quella bloccata del presente attuale di pietra, al cielo chiuso dell’autunno di piogge e all’ininterrotta caduta delle foglie informi.

La poesia del Gatto è dunque totalità, ordine in sé concluso; non privo, però, di “disordine“, di scissioni ed opposizioni.

Nessuna pacificata armonia, ma neppure il belligerante caos. Piuttosto una forma che difende ed illustra una possibile vita-forma; qualcosa piuttosto di analogo, di somigliante alla vita di ciascuno di noi: totalità uniche ed irripetibili, individui unitari eppure incoerenti, contraddittori, rotti, lacerati.

La poesia indica l’orizzonte tragico, l’abisso di nulla sperimentato e da sperimentare, e mostra contemporaneamente la ‘redenzione’ possibile: non la felicità del genere umano, ma la sua unità, la possibilità del reciproco riconoscimento. Una scommessa da realizzare nel tempo della storia, un imperativo di superiore civiltà e cultura, l’esigenza di un salto di qualità.

«La magica e vitale delusione della forma, il disinganno dei significati contraddittori, il mobile rinviarsi dei piani e dei segni-significati all’interno dei confini formali, tutto questo che la poesia è, quando sia inteso sospende la vita ad una forma effimera. Ulisse deve farsi legare all’albero, i rematori devono farsi impedire l’udito o mai raggiungeranno la meta. Ma per coloro che non hanno meta da raggiungere perché credono di averla già, quei medesimi canti vengono uditi come un brivido delizioso, un annuncio di morte che accresce il piacere di essere. Pagano le sirene perché cantino ai loro banchetti. C’è all’incontro un alto insegnamento che la poesia può dare alla classe della negazione e a coloro che la guidano: essa può introdurre il benefico sospetto che la lotta di classe combattuta per estinguere le classi conduca ad una più alta ed inestinguibile contraddizione: quella che si è già detta, fra l’illimitata capacità di gestire la vita e la sua illimitata infermità. Ed è qualcosa di eccezionalmente importante, di essenziale anzi, che può aiutare a liberare il movimento rivoluzionario dal suo ottimismo infantile, dal suo progressismo primario sempre risorgente. Forse la maggiore cosa che la poesia può insegnargli oggi è l’attitudine a valutare l’ampiezza del nulla che accompagna l’azione positiva». (Verifica dei poteri, pp. 186-87).

Scrivere poesie, tradursi in forma, è volontà e desiderio di sfuggire alla routine quotidiana, alla noia dei giorni sempre uguali, all’alienazione di un tempo di lavoro imprigionato in una fabbrica o in un ufficio o di un tempo di vita caratterizzato da un uso esclusivamente pratico di sé e degli altri: curare figli o obbedire a genitori, studiare per strappare un diploma, “sbattersi” per trovare un lavoro, ecc. L’utile, insomma.

Scrivere poesie è formalizzare l’intento di scoprirsi una “seconda natura“, restituirsi a se stessi, disalienarsi per autodeterminarsi, per “salvarsi la vita“.

Ogni religione dell’arte, ogni estetismo trova in questo nocciolo il fondamento. Un’illusione, naturalmente. Come tutte le religioni. La poesia, ricorda Fortini, «sospende la vita ad una forma effimera». La “formalizzazione” che si raggiunge sulla carta non coincide con quella della vita.

Un generoso poeta “salva” l’orma di un gatto. Ma quale società è disposta a leggerla? Quale comunità a comprenderla e a riconoscerla? Come l’Ulisse d’ogni tempo, chi ritiene di avere una meta da raggiungere s’impedisce – deve impedirsi – l’ascolto e la visione del “sogno di una cosa“; chi, invece, pensa d’averla già raggiunta invita le Sirene poetiche al banchetto e le paga perché il loro «annuncio di morte… accresce il piacere d’essere». Per il conservatore la poesia è ornamento e diletto, per l’inquieto esploratore (“rivoluzionario” è parola impronunciabile in questo paese da quando a incarnarla sono figure di magistrati o volti leghisti) è pericolosa seduzione, pratica che distoglie dal vero compito.

«La luce metaforica d’una formalità integrale» che si sprigiona dall’opera d’arte e di poesia, il suo contenuto profetico, la sua organizzazione di «ambigua menzogna per dire una verità ambigua» non possono, dunque, ricevere accoglienza in questa società se non nei modi conservatori dell’industria culturale, restando bigiotteria della vita, assolvendo a una funzione di ‘supplenza religiosa’, surrogando con «magia e superstizione, forti come droghe, la sete di irrealtà e di vuoto senza la quale non c’è per i proprietari gusto di potere e di dominio». (Verifica dei poteri, p. 188).

Fortini era consapevole di tutto ciò. Per questo fra timidezze, incertezze, finezze represse accentuava il tratto graffiante, quello aggressivo degli unghioli.

Il riconoscimento, la comprensione, la “lettura” di ciò che siamo come coaguli di forme, corpi svaniti o in via di svanire, possono risultare solo da una volontà politica determinata, sono frutto di un ordine storico e morale forte, disposto a non abbandonarsi al ‘tempo ciclico’ della natura, a non cedere all’ostinazione delle “foglie senza forma“.

«La poesia – scrisse Fortini – come i frammenti di ferro meteoritico che pur sempre ferro sono, e stanno sulla terra ma “significano” una diversa origine, si manifesta come frazioni di “tempo orientato» (Verifica dei poteri, p. 184)

Chi organizza quotidianamente la distruzione della storia-memoria per consegnarci un presente “insensato” o un passato lobotomizzato, chi elegge a luogo di culto il supermercato (delle merci, delle idee, delle immagini, delle vite e delle morti) e propaganda come naturale ciò che, invece, è storico e sociale è in contraddizione stridente con l’ordine di valori cui la poesia necessariamente appartiene.

In quanto frazione di tempo orientato, facoltà che dà forma (e senso) alla vita o agli “intervalli” sfuggiti al mare di quotidiana alienazione, la poesia “significa” per un uomo e una donna “ferro meteoritico“, desiderio e sogno di un’altra origine, proposito e scelta di un destino diverso da quello di una pietra.

Anche quando si sostiene di voler essere «lasciati come una cosa posata / in un angolo e dimenticata», si scrivono poesie per non ridursi a cose tra cose. Tempo orientato, ossia, tempo ordinato a partire da una meta, tempo di qualità altro da quello vegetale di un albero che, proprio per questo, ha foglie “prive di forma“, o da quello sereno o pluviale di un cielo, registrato nei bollettini meteorologici.

Bisogna «restituire alla poesia la sua delimitata e perciò tragica dignità: quella che – per chi, ovviamente, presupponga un fine alla storia – ne fa il punto d’intersezione del tempo degli orologi e di quello storico (il religioso direbbe: dell’ordine profano e di quello sacro)». («Verifica dei poteri», pag. 184).

L’ordine profano è quello capitalistico, quello di una società che conosce e apprezza in modo esclusivo il “tempo degli orologi” (il capitalismo è notoriamente “economia di tempo“); l’ordine sacro è quello dell”’avvento“, della “redenzione“, del passaggio dalla preistoria alla storia.

Per Fortini è il comunismo, «un luogo di contraddizione più alto e visibile», una zona di frontiera mentale e sociale in cui si possa esprimere «l’illimitata capacità di gestire la vita», ma anche di gestirne «l’illimitata infermità».

Una società liberata dall’ottimismo infantile del Prodotto Interno Lordo (il famoso PIL) che non contempla e non calcola quanto dolore e sofferenza, quanta mancanza di dignità e sfruttamento d’umanità, quanto servilismo siano necessari alla sua produzione. Una società liberata dal «progressismo primario sempre risorgente», dal mito delle «magnifiche sorti e progressive» contro cui ci aveva messi in guardia già Leopardi.

Coloro che scrivendo poesie hanno imparato a coltivare la propria voce di libertà, a dare parole al proprio desiderio d’identità, di senso, d’uso non alienato del brevissimo tempo di vita concessoci, togliendo le foglie informi cadute e fatte cadere ostinatamente sulle pagine fortiniane, potranno leggervi il riconoscimento dei loro ineliminabili bisogni, comprenderanno che le loro espressioni sono prese sul serio ed apprezzate in ciò che hanno di più profondo. Dovranno, però, imparare da Fortini che la soddisfazione poetica dei bisogni equivale al “sogno di una cosa“. Dopo Freud, ma anche prima di lui, nessuno riterrà irreale o nullo un sogno. D’altra parte come negare il pugno di mosche tra le mani evidente ad ogni risveglio? I bisogni di formalizzazione possono essere soddisfatti effettivamente solo nella realtà. Da qui la necessità di partecipare alla negazione dell’ordine profano.

Coloro che, invece, non scrivono poesie, fanno “politica” e ritengono di appartenere alla “classe della negazione” dello “stato di cose presenti“, classe resa e resasi dalle nostre parti pressocché invisibile, continuino pure ad «echeggiare le più coerenti formule della borghesia combattente del secolo XVIII (“meglio un paio di stivali che Shakespeare“)» (Verifica dei poteri, pag. 180), facciano, però, tesoro del suggerimento di Fortini: leggendo opere d’arte e poesie, imparino a coltivare «l’attitudine a valutare l’ampiezza del nulla che accompagna l’azione positiva».

Il gatto di Fortini non ha, ovviamente, molto da dire a coloro che, ritenendo inesistente lo spazio fra parere ed essere, pensano che sotto le visibili foglie d’autunno non si conservi nessun’orma temporaneamente invisibile. Per costoro l’essere è assente, scomparso, inabissato in chissà quali stellari profondità. Per costoro è rimasto solo il parere o l’apparire. Società dello spettacolo e delle immagini, dei sondaggi di volatili opinioni e dell’Auditel. Anche se scrivono poesie, costoro sono consegnati alla droga della superficie, alla quotidiana sonnolenza d’un sociale disponibile ad inventarsi identità inesistenti, ad alleggerirsi come trucioli o piume, a vendersi per quattro soldi, a limitare la ricognizione d’un opera o di un luogo al turismo di massa o ai fazzoletti usa e getta degli articoli d’un giornale.

Che senso dare alla propria vita? Nessuno. E alla propria morte? Meno che meno. Insensibilità, indifferenza o al massimo “allarme” per le altrui vite e altrui morti; rimozione, ansia ed angoscia per l’assurdità e l’insignificanza del proprio dileguante orizzonte.

Possano costoro incontrare un giorno l’orma del Gatto di Fortini.

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BIBLIOGRAFIA

FRANCO FORTINI, Paesaggio con serpente, Einaudi, Torino 1984
FRANCO FORTINI, Verifica dei poteri, Garzanti, Milano 1974
FRANCO FORTINI, L’ospite ingrato, Marietti, 1986
FRANCO FORTINI, a cura di P.V. Mengaldo, Poesie inedite, Einaudi, Torino 1995 e 1997
PIER VINCENZO MENGALDO, La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991
PIER VINCENZO MENGALDO, Un aspetto della metrica di Fortini, in «Allegoria» n° 21-22, anno VIII, nuova serie, 1996
GUIDO MAZZONI, La legittimazione della poesia in «Allegoria» n° 21-22
REMO PAGNANELLI, Fortini, Transeuropa, 1988
GIOVANNI RABONI, in Aa.Vv., Seminario in onore del prof. Franco Fortini, in Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, vol. VII, Olschki, Firenze 1986

 

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