Rileggendo “Agli déi della mattinata”

di Ennio Abate

 Agli dei della mattinata

Il vento scuote allori e pini.
Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti,
poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia.
O dèi inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego.
E che altro potete,
o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie?
Come maestosi quei vostri luminosi cumuli!
Quante ansiose formiche nell’ombra!

Nella lettura tratta da You Tube di "Ai dèi della mattinata" l'attore  al verso 3 legge 'fiumi' invece che 'fumi' e al verso 11 legge 'd'autunno' invece che 'dell'autunno'. [E. A.]

A

Il primo passo inizia con una mia elementare ma indispensabile parafrasi e con la raccolta di prime veloci impressioni ed osservazioni:

1.

“Il vento scuote allori e pini”.

Viene evocata una tempesta. A me, lettore da tempo di Fortini, viene subito in mente un’altra sua poesia, Traducendo Brecht che inizia così: “Un grande temporale/per tutto il pomeriggio si è attorcigliato / sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.”. E, per contrasto, “ La bufera” di Montale (qui). E ricordo subito gli scritti critici che Fortini ha dedicato a Montale in Saggi italiani e il rapporto di “odio-amore” tra i due. Per ora , però, non approfondisco questi aspetti, comunque non secondari per capire un autore. Faccio notare al momento una sola cosa: per cogliere la polisemia (la pluralità di significati) di questa poesia, è bene sapere che per Fortini l’evento di natura (la tempesta, in questo caso) è sempre allegoria degli sconvolgimenti e dei conflitti della storia con le sue distruzioni di cose uomini e animali, che immediatamente suscitano allarmi e paure. Mentre Montale guardava, sì, almeno in La bufera ed altro del 1956 alla storia recente (Seconda guerra mondiale, nazismo, ecc.) ma la sua meditazione mirava soprattutto alla “guerra cosmica, di sempre e di tutti “. Una differenza – di visione del mondo e di poetica – non trascurabile tra i due poeti e che si sedimenta in profondità nella lingua dei loro testi e va, ad un certo livello dell’analisi, considerata con grande attenzione.

2.


“Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla”.

‘Fumi’ sta per nebbie e nuvole. ‘Luci’ può stare anche per lampi. La ‘costa’: so che si parla di una costa precisa, quella di Ameglia; ma qui ‘costa’ può essere ‘terraferma’, zona in cui si è più al sicuro rispetto al mare in tempesta. (Viene in mente Dante: “ uscito fuori dal pelago a la riva”, Canto I , Inferno). Il poeta dice che la costas si vede solo a tratti e poi scompare. Quindi viene meno un’immagine certa e stabile. Aumenta l’insicurezza.


3.

“La mattinata si affina nella stanza tranquilla”.

Fuori c’è la tempesta, invece dentro si ha (si gode ancora di…) la quiete: la stanza è ‘tranquilla’. Non vi arrivano rumori allarmanti. Non ci sono pericoli. E neppure incomodi o molestie o turbolenze. Quel ‘si affina’ – un termine insolito e ricercato – sta per ‘rende fine’ o ‘sgrossa’. Rimanda, comunque, a un modo di vivere più positivo e desiderabile. Si può pensare anche ad un trapasso della ‘mattinata’ da un inizio confuso, pigro o ozioso (come quando ci si sveglia imbambolati o ancora assonnati e si fa fatica a riprendere la coscienza di sé, dell’ambiente in cui ci si trova, delle attività da continuare o intraprendere).

4.
“Un filo di musica rock, le matite, le carte.”

Telegraficamente, senza ricorrere a verbi, vengono richiamati i gusti, gli interessi, le passioni di chi sta in quella stanza: ascolta probabilmente la radio che trasmette musica rock e tiene l’audio su un tono basso (‘Un filo’); dà un’occhiata alle (sue) matite, che gli servono per prendere appunti, sottolineare righe di un libro che sta leggendo, disegnare (si sa che Fortini disegnava specie in vacanze…); pensa alle sue carte (libri, fogli scritti a mano o dattiloscritti) poggiate sul tavolo dove si chinerà per studiarsele. (Non c’è ancora il PC).

5.

“Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti,”

È una affermazione che sorprende. Scatta la curiosità. Perché il poeta si dichiara ‘felice della pioggia’? Eppure, fuori c’è una tempesta che può fare danni. Invece, c’è questa dichiarazione di piacere, che viene ammesso senza remore. Non so quanto si debba pensare ai significati simbolici della pioggia: spirituali (purificazione, lavacro) o materiali (pulizia delle strade, benefici che derivano a chi coltiva la terra).

Il verso contiene anche un’altra sorpresa. Perché il poeta parla di ‘dèi’? E perché questi ‘dèi’ (nominati addirittura nel titolo e ora in questo verso) sono definiti ‘inesistenti’? Un attimo di perplessità. Poi mi chiedo: è davvero una preghiera, una dedica? E proprio agli ‘dèi’ dell’antichità, di cui leggiamo nei libri di mitologia? Forse Fortini credeva ancora nella loro esistenza e potenza, mentre a gran parte di noi non dicono più nulla, perché siamo sottoposti ad altri domìni o ad altre invisibili “divinità” (il Denaro, la Finanza)? No, Fortini non era un ingenuo, un nostalgico. Comincio a pensare che la sua sia un’invocazione ironica e che mira a ben altro. Che voglia sfottere questi ‘dèi’.

6.

“proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete,”

Questo verso conferma la mia ipotesi. Perché agli ‘dèi’ che invoca (non con molta convinzione, in verità) il poeta riconosce ormai poteri davvero minimi. Pare che presiedano (nel senso di governano, di influenzano) al massimo la ‘mattinata’ di un poeta. Egli sa troppo bene che sono sorpassati, obsoleti, capaci di donare minime soddisfazioni ad un pubblico di nicchia, composto di attardati umanisti. Dovrebbero proteggere ‘l’idillio’. Cioè – spiega il dizionario – “l’ideale di una vita luminosamente equilibrata e tranquilla’” Il termine è letterario ed abusato (dai letterati). Trascina con sé – ma per la gioia di pochi eruditi e la noia di troppi lettori o studenti affascinati da ben altri miti, dai “miti d’oggi” (Barthes) – una marea di significati e di immagini: pastorali, georgiche, finte, squisite, soporifere. E Fortini sa bene che esse sono quasi inaccessibili a chi è alle prese con i miraggi della società di massa (oggi poi iperconnessa e ultravelocizzata). Soltanto in qualche superstite ‘stanza tranquilla’ (dunque in una vita privata ben circoscritta) è possibile ancora illudersi di poter assaporare questo benedetto e sempre più improbabile ‘idillio’.

7.

“o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,”

Questo verso conferma l’ipotesi di dèi avviati – diciamolo così – alla pensione o da tempo pensionati. E, infatti, sono ‘dèi dell’autunno’. Della stagione che – si sa – evoca foglie che cadono, vite o epoche avviate alla decadenza o alla fine. (Ricordo “Autunno del Medioevo” di Huizinga!). ‘Sti poveracci di dèi sono fantasmi di se stessi. Ammaccati dalla storia sono divenuti ‘indulgenti’, cioè comprensivi, tolleranti. Non hanno più le pretese degli dèi onnipotenti di una volta: di comandare, di soddisfare i loro capricci, di beffarsi degli umani. Non sono in grado di imporre un bel nulla. Anche perché ‘dormenti’. (Dormono dove? Forse nella fantasia di qualche attardato umanista).

8.
“meste di frasche le tempie?”

E – a renderli quasi grotteschi – sulle tempie ‘meste’ di questi dèi premono generiche frasche (forse persino finte, azzarderei). Manco più quelle di alloro, che “nel linguaggio dei fiori e delle piante […] è considerato il simbolo della potenza, della vittoria e della gloria ed essendo una pianta sempreverde è anche simbolo di immortalità”. Ed è proprio arduo pensare che esse abbiano a che fare con quella pianta “sacra ad Apollo poiché Dafne, la ninfa di cui il dio si invaghì, chiese che fosse eliminata la causa dell’invaghimento di Apollo nei suoi confronti, e dunque le fu tolto l’aspetto umano venendo trasformata in Alloro. Apollo a quel punto mise la pianta di Alloro nel suo giardino e giurò di portarne sul suo capo in forma di corone per sempre” (qui ). Il sublime dei miti è del tutto abbassato. E di nuovo mi ricordo di un’altra poesia di Fortini, nella raccolta “Paesaggio con serpente”, intitolata proprio “L’alloro”, che comincia così: “Sono molti anni ormai/ che un insetto notturno/ sale in cima alle foglie dei miei allori/ le rosica e le sfrangia.”.

9.

“ Come maestosi quei vostri/ luminosi cumuli!”

A questo punto della lettura i ‘luminosi cumuli’(nubi spesse di color grigio bianche), che a me fanno ricordare i cieli di certi affreschi del Tiepolo, possono essere seriamente ‘maestosi’? Anche questa esclamazione è carica di amara ironia. Come se, magari a malincuore, visto che su quella cultura classica ha passato anni della sua vita, Fortini dicesse: Eh, sì, cari dèi “indulgenti dormenti” con quelle vostre tempie “meste di frasche”, altro che “maestosi quei vostri/ luminosi cumuli” su cui una volta vi riposavate!

10.

“Quante ansiose formiche nell’ombra!”

In contrapposizione a quella luminosità dei cumuli nell’alto dei cieli c’è l’ombra ( terrestre) in cui si svolge la vita degli umani, paragonati a minuscole ed ‘ansiose formiche”. Che è una immagine che ha un legame (sia pur metaforico) con la realtà della nostra epoca che ha sostituito un tanto sgarrupato Olimpo.

B

Il secondo passo lo faccio in compagnia del saggio di Roberto Bugliani, comparso sul n. 9 cartaceo di Poliscritture (che ho già segnalato ed è scaricabile da qui). Di buono ci ho trovato:

1.

Delle informazioni per collocare nel tempo e nello spazio questa poesia:

La poesia è stata scritta durante una mattinata temporalesca di fine estate, presumibilmente nel 1970, in una casa situata nella località collinare di Bavognano di Ameglia, all’incirca a mezza strada tra i paesi di Ameglia e di Montemarcello posti a presidio di quell’estremo lembo orientale di terra ligure che è la vallata del fiume Magra”.

2.

Notizie anche su un habitat culturale ormai svanito e tipicamente da dopoguerra:

“Attorno al decennio 1945-55 si era andato costituendo un “sodalizio” di intellettuali e scrittori soliti trascorrere le vacanze estive in quei luoghi, i quali vantavano peraltro, come lo stesso Fortini rammenta, “una storia, nelle vacanze letterarie di almeno un settantennio, da D’Annunzio in poi”1. Assieme a Cesare Pavese e a Giulio Einaudi, consueti frequentatori di Bocca di Magra erano Elio Vittorini e Vittorio Sereni; qui venivano inoltre, come nell’estate del ’46, i francesi Dyonis Mascolo e Marguerite Duras con il marito Robert Antelme; e pare che, trascinato da amici, vi si soffermasse, ma sempre con l’impellenza di ripartire, Carlo Emilio Gadda. Ma quando alla rarefazione di villeggianti dell’immediato dopoguerra subentrò la folla di bagnanti degli anni successivi e il borgo, assediato da motorette e utilitarie, divenne meta del turismo di massa, alcuni preferirono orientare altrove la propria scelta, chiudendo resoluti il conto con ciò che nel frattempo si era trasformato in una “bagnarola””2

3.

Una analisi metrica rigorosa e specialistica (e – diciamolo – faticosa da seguire per chi non si occupa di questi aspetti apparentemente solo“tecnici” di un testo). Essa è, però, preziosa perché dà la possibilità di collegare alcuni versi di “Agli dèi della mattinata” ad altri di Virgilio, mostrando la solidità (non ideologica) del rapporto coi classici di Fortini. E in un passo Bugliani chiarisce al meglio il significato un po’ “opaco” della seconda parte dell’ultimo verso: “Quante ansiose formiche nell’ombra!”. Scrive, infatti:

“si prendano i vv. 379-81 del libro I delle virgiliane Georgiche che interpretano come segno premonitore della forte pioggia il seguente comportamento delle formiche: “saepius et tectis penetralibus extulit ova / angustum formica terens iteri [ et bibit ingens / arcus ]”, e si confrontino col secondo emistichio del v. 9. Non solo è riscontrabile un’analogia tematica tra i due contesti (lo scatenarsi della pioggia esemplificato con l’agire della formica), ma anche un’affinità di immagini: l’angustum iter percorso dalla formica, con contrapposizione angustum vs ingens [arcus]. Così, la notazione didascalico-naturalistica propria del testo virgiliano viene ripresa da Agli dèi non senza esplicitare nella sua pienezza quel senso secondo (o metaforico) da Virgilio lasciato intuire rispetto al modello varroniano dell’Ephemeris (“nec tenuis formica cavis non evehit ova”), in quanto le “ansiose formiche” raffigurano gli uomini che sotto un cielo nuvoloso percorrono “nell’ombra” uno stretto cammino, ossia la strada per Marina di Massa, “angusta” perché vista dall’alto della collina di Bavognano. [sottolineatura mia]

4.

Una parafrasi, che può essere confrontata con quella che ho fatto io sopra e che aiuta a capire meglio i significati del testo:

“Consideriamo ora il movimento dello sguardo fortiniano, emblematico nel suo duplice orientamento. Impedito dai “fumi” e dalla foschia temporalesca a riconoscere ciò che l’osservazione quotidiana ha reso al poeta familiare3, lo sguardo, inizialmente tentando verso oriente, si ritrae rifluendo dalla costa tirrenica vista “a tratti” alla “stanza tranquilla”, allo spazio rassicurante dell’intérieur, ravvolto da suoni discreti, concilianti (il “filo di musica rock” della radio), e presidiato da oggetti fidati, “le matite, le carte”, ossia dagli strumenti basilari del lavoro intellettuale. E’ l’intérieur a propiziare dunque quell’idillio reso peraltro possibile dall’azione della natura (v. 5: “Sono felice della pioggia”); il tutto figurando, via Hegel, l’identità (o la non-contraddizione) di soggetto e oggetto, di natura e cultura.”

5.

La sottolineatura – per me molto importante – della dialettica interno/esterno:

” E’ l’intérieur a propiziare dunque quell’idillio reso peraltro possibile dall’azione della natura (v. 5: “Sono felice della pioggia”); il tutto figurando, via Hegel, l’identità (o la non-contraddizione) di soggetto e oggetto, di natura e cultura. Ciò viene avvalorato, sul piano della successione frastica, dalla convergenza strategica, per dir così, dell’epiteto “tranquilla” relativo alla stanza e del predicato “felice” pertinente allo stato d’animo del soggetto in situazione, con il sostantivo di sintesi “idillio”, delegato a significare l’armonia soggetto-natura.”

6.

Una spiegazione interessante di uno dei punti più paradossali della poesia (perché il poeta si rivolge agli dèi se per lui sono inesistenti?):

“A compimento del dettato classicheggiante, il poeta invoca gli dèi, pregandoli manieristicamente di proteggere l’idillio. Ma è una preghiera alquanto strana quella che viene formulata, che anziché porsi a sostegno, contraddice le ragioni stesse per le quali è nata. Se difatti la mattinata temporalesca ha influito profondamente nell’animo del poeta fino al punto di far nascere un sentimento idilliaco, a tale verità lirica della rappresentazione, a tale mimesis, non corrisponde la verità dell’eloquio poetico. Perché mai dunque l’idillio, nel preciso momento in cui il poeta lo evoca col desiderio di proteggerlo, viene in realtà completamente annichilito dall’invocazione a dèi inesistenti, ai quali lo stesso poeta non concede credito alcuno? Cominciamo allora col rispondere che, se la negazione dellla divinità fosse fatta da un discorso in prosa essa suonerebbe nient’affatto originale, anzi apparirebbe al pensiero laico come uno “scontato”; rivolgersi invece con una poesia a “dèi inesistenti” provoca un forte sentimento di straniamento in chi legge, uno spaesamento generato da due termini inconciliabili, dove uno nega radicalmente l’altro.

7.

Un paragrafo abbastanza complesso ma importante, perché sottolinea l’importanza del tono ironico che prevale in “Agli dèi della mattinata”. Lo riporto, sacrificando alcuni passaggi, per mettere subito a fuoco i punti che a me interessano di più in questa rilettura che sto facendo della poesia di Fortini:

è proprio l’invocazione agli “dèi inesistenti” a proiettarci nel cuore della verità politica, il cui contenuto referenziale, secondo un’osservazione del filologo Paul Zumthor, “sfugge totalmente alle categorie del vero e del falso”. Del resto, di un vero molto particolare si tratta quando in gioco è il discorso poetico

[…]

Possiamo pertanto dire, e negli stessi termini fortiniani, che questi dèi appartengono al senso del vero, sono, per dir così, il vero per noi, non già il vero in sé. Ci pare questo il motivo per cui è il sintagma / dèi inesistenti / a occupare il centro della scena poetica. Di una centralità lirica si tratta, ma alla verità lirica del testo non manca di contrapporsi, altrettanto centralmente, la verità politica (in senso espressamente brechtiano) della forma, e il loro fronteggiarsi nel corpo del testo ha la contraddizione a quoziente di verità.

[…]

[Importante è] sul piano della poetica dell’autore, un enunciato ironico-negativo (ribadito dalla domanda successiva, a constatazione dell’impotenza delle divinità: “E che altro potete”?) screditante il tono stilisticamente alto del componimento e, con esso, l’autorevolezza del poeta-vate. Sono dèi mancati, questi, che hanno le tempie “meste di frasche” e che altro non possono se non proteggere un idillio precario; sono dèi “da poesia”, verrebbe da dire, ricordando, nell’apostrofarli così

8.
La sottolineatura (anch’essa importantissima) della “duplicità” di questo testo ( e della poesia di Fortini o della poesia in generale):

A questo punto diviene chiaro come la duplicità di senso di Agli dèi, individuata nella contrapposizione dialettica tra i suoi due enunciati-chiave (ricordiamoli: l’uno lirico, affermativo, l’altro ironico-politico, negativo), veicoli un doppio messaggio cui corrisponde un destinatore e un destinatario sdoppiati (nel nostro caso: all’io lirico del poeta che invoca gli dèi, si contrappone l’io politico dell’autore che li liquida come “inesistenti”).

9.

L’individuazione dei modi in cui la politica (o le scelte politiche di Fortini), attraverso un uso sapiente del linguaggio, penetrano – niente affatto retoricamente o propagandisticamente o meccanicamente – nella sua poesia:

“Agli dèi ripropone in tutta la sua moderna problematicità il nodo proprio di arte e letteratura, riassumibile nella dialettica di vero e falso, di realtà e finzione, di dire e non dire. Ma ciò che ha reso possibile il percorso testuale dall’idillio della vita campestre tranquilla e felice, in cui l’io lirico trova protezione e riparo in quanto immerso in una sorta di simbiosi con la natura, alla sua negazione radicale che rimette in gioco il soggetto poetico attraverso l’improvviso straniamento dovuto a una percezione “seconda” (e le “ansiose formiche” in chiusura fanno parte di tale percezione), è appunto il ricorso alla verità metatestuale, nel contempo interna ed esterna al discorso poetico, la quale trasforma lo sguardo naturalistico sul paesaggio in sguardo politico, vale a dire in sguardo di parte che svuota di ragione la verità stessa dell’idillio. E di questa parte (anche testuale) è aspetto determinante il giudizio, la valutazione conseguente la messa in relazione del dato poetico naturale-espressivo con quello a valenza storica della rielaborazione intellettuale e conoscitiva che perviene alla denuncia dell’artificio lirico: gli “dèi inesistenti”. La messa in guardia da un lato verso facili (perché manieristiche) letture del mondo e del libro, e dall’altro la rivendicazione formale, non meno che contenutistica, del rapporto critico, vale a dire contraddittorio e tensionale, tra poesia e realtà, tra parola e cosa (o mondo), è quanto Agli dèi enuncia nella complessa interezza del suo messaggio lirico che, affermandosi in quanto tale, nega se stesso, e da questo innesco ha luogo ha origine il processo dialettico tra pathos ed ethos, tra natura e storia, tra alto (l’impianto testuale classicheggiante; i “luminosi cumuli” delle deità celesti) e basso (il luogo terreno, il sociale chiamato a concludere la parabola dello sguardo e l’excursus lirico).

P.s.

Questa poesia di Fortini è stata riportata alla attenzione mia e di quanti seguono Poliscritture in malo modo: per una spinta esterna disturbante e imprevista (Cfr. qui). Ora che il chiasso s’è sedato, ci si può tornare su pacatamente e criticamente. Malgrado la mia “fissa” su Fortini, di cui amichevolmente mi ha rimproverato Aguzzi, la sua figura e le sue opere non sono state mai per i frequentatori di Poliscritture dei feticci da adorare o agitare.

Note

1F. Fortini, Saggi italiani, De Donato, Bari 1974, p. 176 (poi nel primo volume della ristampa garzantiana dei Saggi, Milano 1987, p. 192).

2Per una storia di questo luogo e dei suoi “immediati dintorni”, si veda il poemetto di Sereni Un posto di vacanza (1971), in particolare il dialogo tra Vittorini e Sereni della sezione V, da cui s’è tratto il dispregiativo “bagnarola”.

3“Guardo da questa collina uno spazio di cielo, di montagne e di mare. Queste linee mi sono più familiari delle vie della città dove sono nato e di quelle dove vivo”. Così inizia l’ultima riflessione del “diario” fortiniano I cani del Sinai, De Donato, Bari 1967, p. 64.

i Ho trovato due traduzioni:

1.

Sovente ancor dai sotterranei tetti
Per calle angusto la formica estrae,
E a più sicuro asil l’ova trasporta.

Col doppio corno colorato beve

2.

Molto spesso la formica porta fuori le uova dai covi sotto terra battendo uno stretto sentiero, l’arcobaleno immenso assorbe acqua (https://professoressaorru.files.wordpress.com/2010/02/georgiche.pdf )

5 pensieri su “Rileggendo “Agli déi della mattinata”

  1. In una sola “sessione” di lettura di Poliscritture trovo «Il gatto di Fortini» di Donato Salzarulo e questo articolo di Ennio Abate su «Agli dèi della mattinata». Entrambi largamente condivisibili e utili per una esegesi della poesia di Fortini. Non mi è qui possibile scendere in dettagli, per ragioni di tempo e anche perché ho letto Fortini, come uno dei tanti, importanti scrittori e poeti del secondo Novecento, ma non l’ho mai studiato in modo approfondito. Mi limito, oltre a ringraziare gli autori dei due saggi, a due osservazioni.
    1) Poeta «essenzialmente metrico» (Raboni, 1986), ripete giustamente Salzarulo. Ma che significa esattamente? Fortini pubblica nel 1946 il suo primo libro di poesia, a 29 anni. Quindi la sua formazione poetica avviene in un periodo in cui la metrica classica era ancora “forte” e conviveva con le nuove tendenze e le ricerche sul verso libero (libero, non sciolto). Metrica classica significa soprattutto una forma poetica che si cala entro schemi precostituiti e solo al loro interno si libera l’innovazione e l’originalità. Gli schemi metrici precostituiti, ereditati dalla tradizione, non impediscono al poeta la propria libertà, ma la costringono, la plasmano entro forme che, col tempo, possono diventare troppo strette. L’innovazione e la sperimentazione sono però sempre state presenti nella storia della poesia italiana, che del resto nasce come cosa nuova rispetto alla poesia greca e latina precedente e ogni forma metrica, prima di diventare uno schema precostituito, si è presentata come innovazione e sperimentazione. La terzina dantesca, l’ottava dei poemi del Boccaccio, il sonetto che nasce nel Duecento, il verso sciolto che prende piede dal Cinquecento, la canzone leopardiana, i ritmi barbari del Carducci, e così via. Si innova e insieme si resta all’interno della tradizione. La sperimentazione del verso libero nei primi decenni del Novecento costituisce una più forte rottura e innovazione, ma quando Fortini fa il suo apprendistato questa sperimentazione è tuttora in corso e le forme della metrica classica sono ancora largamente in uso.
    Nella poesia di Fortini si riflette questa ricerca di nuove forme metriche, fra riuso del classico, che è già una innovazione, e allontanamento del classico. In questo senso giustamente Salzarulo scrive che Fortini è un «costruttivista, egli non si lascia andare alle illusioni “moderne” e, in special modo, avanguardistiche del nuovo. Non rinnega la tradizione, ma neppure l’accetta nella sua interezza. Piuttosto la rifà, la riusa, la traduce, ingaggiando un rapporto di variazione, sottrazione, modificazione con le forme ereditate dalla classicità».
    Fortini non è un «poeta del cuore», intendendo con questa espressione la spontaneità del sentimento, ma un «poeta della ragione», intendendo con ciò la costruzione formale dell’espressione poetica. Il «cuore», che, ovviamente, non manca, è controllato, sottoposto, piegato alla «ragione». Il sentimento non trova la sua forma espressiva “spontaneamente”, dentro gli schemi classici, né dentro il fluire del verso libero plasmato sul ritmo stesso del sentimento, ma è sottoposto a un filtro che riguarda sia i contenuti e quindi i significati sia la forma. Questo controllo prevalente della ragione è presente in tutta la poesia di Fortini ed è coerente con il Fortini saggista e traduttore. Quindi, l’efficacia emotiva, la capacità della sua poesia di coinvolgere anche sentimentalmente il lettore, è sempre costruita su una tensione compositiva e costruttiva in cui la ricerca metrica è uno degli elementi di forza. Ciò può portare a risultati diversi, come del resto si riscontra nell’opera di qualsiasi poeta, a risultati di maggiore o minore sintonia ed efficacia nel rapporto fra forma e contenuto. E, per il lettore, all’impressione di maggiore o di minore spontaneità e riuscita della poesia. E di minore o maggiore facilità di lettura. Ma anche nelle sue poesie più riuscite e che più sembrano “spontanee”, quasi dettate all’improvviso, la ricerca metrica rimane una caratteristica di Fortini. Ciò, di per sé, non è un limite, ma, appunto, una caratteristica della sua impostazione poetica, del suo modo di lavorare, del suo travasare se stesso e la propria cultura nella pratica poetica.
    2) L’interpretazione di Ennio sul senso del richiamo agli «dèi inesistenti» è condivisibile, pur nella sua accentuazione di un riposto senso ironico. A me però sembra di cogliere anche un altro significato, non in contrasto ma complementare. La tradizione religiosa (antica, primitiva, moderna… insomma, di qualunque forma religiosa) riporta gli avvenimenti della natura (le forze naturali ecc.) e gli avvenimenti umani alla presenza o manifestazione o volontà degli dei. Quindi, a qualcosa che è fuori dal potere degli uomini, fuori dalla volontà umana. E questo carattere di forze e di avvenimenti, naturali e umani, che sono fuori dalla nostra volontà e che a noi si impongono come prodotto di altre volontà a noi esterne, permane anche nelle più atee e materialistiche ideologie. Gli «dèi inesistenti» richiamano queste forze e manifestazioni che a noi si impongono, non perché siano davvero opera degli dèi, per Fortini inesistenti, ma perché sono a noi esterne e imposte come se fossero davvero opera degli dèi. Il temporale, l’apparire e scomparire della costa, i luminosi cumoli, si sottraggono alla volontà umana. Non così, invece, è per il rapporto che l’uomo ha con ciò che lui stesso costruisce: come l’ascoltare musica, le piccole cose della propria vita quotidiana, l’affinare la mattinata «nella stanza tranquilla». Vi è una contrapposizione, o almeno confronto, fra ciò che è esterno a noi e sul quale poco possiamo influire e su ciò che è invece nostro. Fra lo spazio naturale e lo spazio artificiale della nostra giornata. Il temporale e la pioggia acuiscono il contrasto, fanno risaltare la differenza e in questo senso la pioggia può essere un elemento di felicità, perché sottolinea l’identità umana, la volontà libera del poeta e il suo proprio spazio. Questo costituisce un idillio da proteggere, perché è una condizione sempre precaria, sottoposta alle forze distruttive e laceranti ma anche alla negativa riduzione degli uomini ad «ansiose formiche nell’ombra».

  2. @ Aguzzi

    A me pare che prevalga l’ironia amara verso la poesia. Diventera’ poi amarissima verso la fine della sua vita. Vedi in particolare le Canzonette del Golfo. .

    1. Ironia amara, sì, ma tuttavia [la poesia è] amata e controllata, come cosa di cui in qualche modo si diffida e alla quale non ci si abbandona mai completamente. Leggere poesie di Fortini mi dà sempre l’impressione che egli sia il primo a non fidarsi completamente del mezzo scelto per esprimersi e questo vigile controllo lascia dei residui, quasi una traccia di “artificiosità” che il lettore avverte. Ovviamente, tutti i buoni e colti poeti tengono la forma sotto controllo, ma poi in genere gli strumenti del controllo non riemergono nella lettura e la poesie dà la sensazione di una spontaneità “naturale”: così in Leopardi, così nel migliore Montale ecc. Il fatto che più raramente Fortini dia la stessa sensazione di “spontaneità naturale” non è, secondo me, un segno di rapporto non risolto fra forma e contenuto, come in tanti poeti di minor livello, ma il segno di un particolare e consapevole modo di costruire i suoi componimenti. Sono così perché “li vuole” così, non perché “gli escono” così. Questa diffidenza è anche, naturalmente, ironia e autoironia e consapevolezza dell’impossibilità di un compiuto agire per mezzo della scrittura poetica (e non solo). L’amarezza è una inevitabile conseguenza. Per superarla dovrebbe avere meno dubbi, più entusiasmo e convinzione nelle proprie ragioni e scelte, più spirito epico. Ma allora sarebbe un altro Fortini vissuto in altri tempi e circostanze.

  3. Di questa poesia parlai con Fortini nel luogo stesso che la ispirò. Il paesaggio che si vedeva dalla sua casa di Bavognano era stupendo, e quel paesaggio è presente più volte e in più situazioni nei testi poetici fortiniani. Fu lo stesso Fortini, a un certo punto della conversazione, a indicarmi la strada percorsa dalle “ansiose formiche nell’ombra”, che di lassù era una strisciolina d’asfalto, e chi la percoreva era ridotto alle dimensioni d’una formica. E sempre Fortini mi accennò al brano virgiliano delle Georgiche riguardante le formiche. Se dovessi definire con una parola il “succo” di questa poesia, direi che è il forte contrasto, nel senso di contraddizione, a caratterizzarla. Contraddizione che ha il proprio culmine nell’immagine degli “dèi” cui è demandato di proteggere l’idillio, i quali, a dispetto del loro ruolo istituzionale, per così dire, vengono raffigurati in maniera dimessa e definiti “inesistenti” (in quanto il loro è un potere fasullo, inesistente). Insomma, gli dèi dell’idillio ne escono conciati proprio male, mentre con gli dèi della guerra, ancora potenti, Fortini farà i conti vari anni dopo con le “Sette canzonette del Golfo” (già citate nel commento sopra da Ennio Abate). Ma anche su questi versi aleggia un senso diffuso d’impotenza, che la seconda canzonetta, “Lontano lontano…”, esplicita, non senza esser “condita”, forse come risarcimento, da una buona dose d’ironia (non a caso definita ” mesta”): “Mettiamo una maglia, che il sole va via”. Insomma, l’anziano poeta (il personaggio Fortini), con consapevolezza alla volta esistenziale e politica, sa che la prassi ancora consentitagli è quella totalmente prosastica di proteggere il proprio corpo dal freddo, quindi d’indossare una maglia al tramontare del sole. Ci si può immaginare a questo punto con quanta mesta ironia, per l’appunto, siano stati scrittti i versi delle “Canzonette”.
    Una osservazione finale. Sbagliatissima, a mio avviso, è la dizione dell’attore che legge “Agli dèi”. Scandisce le parole in modo accentuatamente retorico, con pause fuori posto, alla Ungaretti, per dir così (per chi ricorda le sue letture poetiche televisive), come se la poesia fosse ipso facto Verità, e non, anche, errore.

  4. @ Aguzzi

    Concordo. Non mi pare però diffidenza verso la poesia ma consapevolezza dei problemi che la poesia ha avuto di fronte nel ‘900. Dopo Auschwitz, per intendere l’area dei problemi che lui ed altri su versanti diversi e con formazione diversa si sono posti.
    Ma come fai ad avere meno dubbi e più entusiasmo se ti metti di fronte a certe tragedie della storia?
    Questo sì sarebbe una scelta artificiosa.

    P.s.
    I miei commenti sono brevi perché ho il PC in riparazione. Magari è un vantaggio….

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