Fratelli nello sguardo fermo

Lidia Gavinelli e Luigi Lanza

di Ennio Abate

 

                                                 a Gigi Lanza
  

 
 Rileggo oggi il tuo biglietto spinoziano 
 - humanas actiones non ridere non lugere
 neque detestari, sed intelligere (b.d’esp) -
 che in ottima grafia d’architetto mi lasciasti 
 in un libro del millenovecentonovantanove.
 

 Questo alla fine so: fummo fratelli amari. 
 Da medesime quiete tenebre 
 dalle adolescenze dolenti del dopoguerra
 giungemmo in affanno ad altri amori 
 che ci dilaniarono e ci svelarono.  

 Sempre
 tenemmo fermo lo sguardo sul nero mantello 
 di spaventevoli parole 
 che coprono le piaghe del mondo.
 
 E sempre, pur feriti, lo scuotemmo.

 
 
 (2011 - 2020)
Un disegno di Gigi Lanza
 

 Rinvio a giudizio
 

                                                    a Gigi Lanza
 

 Quei loro sessantotteschi discorsi, così in disuso
 e grotteschi, clandestini nella loro stessa mente,
 affioravano col vigore sospetto di chi da incubi si desta
 e urla, lacera, dice sensatissime cose,
 che un po’ stupiscono,
 qualche difensivo ripensamento innescano, 
 ma, quando n'apparve una montagna bruna
 per la distanza, sgomentano.
 

 Tanto sgomentarono
 che dell'incubo non narrarono più granché.
 Restò, appena si azzittirono tremanti,
 una loro caparbia, ostile presenza. 
 

 Che li condannava tutti, 
 gente  di cui si smarrivano nomi e volti,
 gente che allora ti sospettava, Samizdat, 
 o vanamente ossequiava, 
 destinata a galleggiare nei mesi, negli anni venturi,
 in routines dettagliatissime, 
 fra registri, scuse, osservazioni 
 di secolare e ridicola empiria.
 

 Quel giorno, con loro, attorno al tavolo 
 ricontrollasti le tue mani scomposte,
 che narravano del tuo corpo, dei loro,
 esposti sotto una lampada
 che mostrava il fiume palpitante dei desideri,
 delle intelligenze d'amore,
 solo in lattea retorica, 
 nelle righe ipocrite dei verbali,
 in posticce parole, 
 nelle conversazioni di contorno.
 

 Restarono nella memoria gli urti 
 immediati e indecidibili, 
 la misura dall'alto lacerante, 
 che volle strozzato il grido  
 non più accompagnato 
 a  gesti nuovi, a parole comuni.
 

 Restarono le proibizione 
 di quella breve scienza
 degradata a supposizione
 dalla comunità dei nuovi burattinai 
 che ci assillò; 
 e cancellò condizioni sociali, 
 inferni familiari
 costernanti silenzi, 
 furori motori, 
 stacchi d'affetto, 
 emergenze erotiche e non;
 e con  ebete logica 
 rinviò appena di qualche secolo
 analisi e mutamenti.

(da PROF SAMIZDAT, fine anni '80, versione inedita)
 

NOTA 31 GENNAIO 2020

Le due persone che compaiono nella foto in alto sono Lidia Gavinelli e Luigi (Gigi) Lanza. Lei è  mancata nel 2002. Gigi nel 2011. Lui l’ho conosciuto quando fummo insegnanti insieme all’ITIS di Sesto San Giovanni agli inizi degli anni Settanta. (Ne ho parlato qui a proposito di Eugenio Grandinetti). Lei subito dopo; e sono stato in rapporto con entrambi  da allora fino al momento della loro morte. 

Nel mio immaginario, Gigi Lanza, insieme ad altri che ho conosciuto molto da vicino (e qui non nomino), sta  nella categoria dei “fratelli del ’68”. Con lui e con loro ho avuto un rapporto di cui ancora fatico a  dire. E per varie ragioni. Soprattutto perché siamo stati sconfitti. E, dunque, l’ immagine pubblica in cui potremmo essere collocati (di “militanti”, di “intellettuali”, di “uomini”, di “maschi”,  come si diceva fino a pochi anni fa), a causa dei velocissimi mutamenti impostisi successivamente , è oggi inutilizzabile, del tutto marginale o sprezzata. Se negli anni Settanta il linguaggio di massa fu grossolano, brutalmente squadrato e tagliava con l’accetta il lato più “esistenziale”, comunque vivo ed operante già allora nelle nostre esperienze, oggi esso lo è ancora più drasticamente. E ostacola ancor più una riflessione.

Cosa, dunque,  dell’esperienza di Gigi Lanza ( e della mia, e dei “fratelli del ’68”) è possibile ancora dire oggi? Intendo : di noi   come singoli con aspirazioni artistiche o politiche o di ricerca? di noi come intellettuali (insegnanti o professionisti o “cittadini”)? O come uomini sposati, separati o abbandonati?  O come padri alle prese con  figli, dapprima ragazzi,  poi adolescenti e poi adulti? E come le intuizioni o le conoscenze conquistate nel rapporto con lui si sono integrate o annullate  o deformate con quelle afferrate nel rapporto con altri o con altre? E che fine faranno le numerose tracce che ho raccolto di lui e degli altri (e delle altre) negli appunti del mio diario o nei versi o in alcuni sogni?

Sono le domande a cui tento di dare risposte scritte dagli anni in cui lo conobbi lavorando alle mie “poeterie” e al “narratorio”. Dal giorno della sua morte mi ero ripromesso di ricordarlo pubblicamente. Lo faccio oggi con questi due frammenti in versi. E precisando che, se è con  Gigi  che ho intrattenuto il rapporto più lungo, frequente e confidente, Lidia, che qui appare nella foto con lui, è stata anche per me una presenza altrettanto decisiva e inseparabile da lui. E, in momenti difficili – per loro e per me – ci siamo aiutati. Altrettanto lo sono stati i nostri figli, la folla più indeterminata delle persone incontrate assieme a loro due e poi perse di vista e anche i vari antenati evocati nei nostri dialoghi. Anche se qui non compaiono.

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